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Guarda Bilanci di un curatore tra filologia e pratica editoriale

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Academic year: 2021

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Stefano Giovannuzzi

1.

Visto il tema che mi ha suggerito Virna Brigatti – molto opportunamente, aggiungo –, imbastisco l’intervento a partire dal mio lavoro: il bilancio insomma è innanzitutto autoriflessivo, ma cerco di tener conto anche di spunti e di elementi di confronto emersi nella giornata.

Non sono propriamente un filologo né un editore di testi, anche se a più riprese e a vario titolo mi sono occupato di testi novecenteschi, di Campana, con una certa insistenza, Tozzi, Quasimodo, la Rosselli.1 Se devo tirare le somme, ha prevalso soprattutto l’empiria, accompagnata da un certo fastidio – me ne scuso, perché riconosco che è un limite cultu-rale – per la monumentalità a cui talora si associa la parola edizione. Una monumentalità che sovente equivale a scarsa o nulla leggibilità – e non se ne comprende il perché: gli esempi potrebbero essere numerosi.

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L’impresa oggettivamente più faticosa, e destinata a rimanere un’ipotesi aperta – dal momento che si tratta di un bilancio, lo premetto subito –, in parte se non nel suo complesso, è stata provvedere una sistemazione sensa-ta per L’opera poetica di Amelia Rosselli.

Nessuna edizione si presenta del tutto banale, anche con un quadro di partenza, testuale e editoriale, tutto sommato definito e stabilizzato; e non è questione di maggiore o minore difficoltà nel pubblicare un poeta. Esiste però uno ‘specifico’, a me pare, rosselliano.

Con un romanzo di Bufalino o Consolo, o Meneghello, o ancora Si-lone, individuata l’edizione di riferimento – il che può sollevare parecchie difficoltà nella fase preliminare – la configurazione del testo edito si ‘tra-duce’ con un buon margine di approssimazione e senza eccessivi sforzi nel formato della collana editoriale in cui lo si riversa. Il testo è già un testo tipografico, pensato per la stampa: sulla base dei documenti, o della volon-tà accertabile dell’autore, se ne potranno emendare le sviste e gli eventuali tradimenti intervenuti nel passaggio da un’edizione all’altra, indicare le varianti, i processi genetici, ecc., a seconda del livello di monumentalità che di quel testo si vuol proporre e del tipo di utente finale a cui si guarda.

Lo stesso vale per una raccolta poetica di Rebora, o per il complesso delle sue poesie. Si potrà e si dovrà discutere quali testi accogliere, e ne risulteranno ricognizioni profondamente divergenti, ma la forma tipogra-fica che la singola poesia assume non ne determina o altera il signitipogra-ficato. È prevista. Non è l’aspetto tipografico a risultare determinante: sono altri i fattori decisivi per l’interpretazione. Il testo, in qualunque forma si presen-ti, si muove già in partenza all’interno dell’orizzonte della tipografia. Con un autore molto difficile da pubblicare, Fortini, dovremmo valutare che cosa fare di Foglio di via 1946 (l’edizione del 1967 non è lo stesso libro)2 o di Poesia ed errore 1959, sostituita da Poesia e errore 1969, che però non è la stessa raccolta aggiornata.3 Malgrado la somiglianza del titolo, non sono Stefano Giovannuzzi, con la collaborazione per gli apparati critici di Francesco Carbo-gnin, Chiara Carpita, Silvia De March, Gabriella Palli Baroni, Emmanuela Tandello, introduzione di Emmanuela Tandello, Milano, Mondadori, 2012), di cui mi occupo in questa sede, voglio ricordare le due edizioni di Dino Campana, Il più lungo giorno, a cura di Stefano Giovannuzzi, Firenze, Le Cariti, 2004 e 2011.

2 Anche se non così distante, l’indice del 1967 non riproduce quello del 1947.

3 Ma cfr. Francesco Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini, Macerata,

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lo stesso libro: se accogliamo ‘solo’ la raccolta del 1969, quella del 1959 scompare.4 La scelta, grossomodo, cadrebbe fra seguire l’ultima decisione dell’autore o prenderlo in contropiede, ripubblicando anche la forma poi scartata di Poesia ed errore 1959. O comunque si dovrebbe trovare un pun-to di equilibrio, che documenti la redazione fissata ne varietur dall’aupun-tore e insieme le fasi anteriori di un processo che non è affatto secondario nell’in-treccio fra la storia di Fortini e le successive conformazioni assunte dalla sua opera. Per niente neutrali. In questi termini, storici e biografici, restitu-ire un profilo comprensibile all’opera in versi di Alfonso Gatto è ancor più inestricabile e intrigante, vista la fisionomia ad assetto variabile delle sue raccolte, a partire dalle Nuove poesie del 1950 (volendo già dalle Poesie del 1938). In nessuno dei casi però natura e forma dei testi pongono difficoltà tipografiche a cui sia impellente trovare una soluzione: lo spazio dei testi è quello della stampa. Persino Campana allestisce puntigliosamente il ma-noscritto ‘incompleto’ del Più lungo giorno in vista di una sua destinazione tipografica. Ma cosa succede se non è così? Procediamo per gradi.

Difficoltà di selezione e ordine delle raccolte si sono presentate anche nella storia editoriale postuma della Rosselli, determinando conclusio-ni diametralmente opposte: interventiste o conservative, per intendersi. Nell’edizione Garzanti del 1997 Tandello, la curatrice, sceglie di smontare i volumi ‘compositi’ – Serie Ospedaliera e Primi Scritti – per ristabilire una successione cronologica delle singole opere: opere che non coincidono ne-cessariamente con i libri editi dall’autrice in vita.5 Ne è derivata nelle Poesie 1997 una successione ‘ideale’ impostata presupponendo qualcosa che però non è dato, ovvero che Serie Ospedaliera (1969) e Primi Scritti (1980) siano degli agglomerati più o meno forzosi (?) di testi che in condizioni normali Una volta per sempre - 4. Questo muro –, risulta subito evidente il rischio di fraintendi-mento. Poesia e errore (Torino, Einaudi, 1969) indica la raccolta che segue Una volta per sempre (Torino, Einaudi, 1963), non quella che la precede: Poesia ed errore (1937-1957), Milano, Feltrinelli, 1959.

4 Cosa che non fa l’edizione ultima – e unica disponibile – della produzione in versi di

Fortini: Franco Fortini, Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Milano, Mondadori, 2014. In assenza di apparati o di una nota ai testi, la prospettiva di lettura dell’intera storia po-etica di Fortini risulta schiacciata sul suo assetto definitivo, dal momento che le edizioni precedenti sono difficili da reperire.

5 Amelia Rosselli, Le poesie, a cura di Emmanuella Tandello, prefazione di Giovanni

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sarebbero stati indipendenti:6 i due volumi rifletterebbero insomma l’in-treccio perverso fra necessità di pubblicare e difficoltà pratica (o incapa-cità) di trovare uno sbocco editoriale. Procedendo in questo modo Serie Ospedaliera e Primi Scritti sarebbero rilevanti per individuare i testi che devono entrare a far parte del canone, ma irrilevanti nella loro veste di ope-re autonome di cui debba esseope-re pope-reservata l’organizzazione: la struttura d’insieme non gioca alcun ruolo nel significato da attribuire alle parti.7 Le Poesie del 1997 nascono a partire da una documentazione filologica ancora pressoché inesistente alla fine degli anni Novanta (il che testimonia la mar-ginalità dell’autrice) e non tenendo nella debita considerazione alcuni fatti: – le date che accompagnano i singoli pezzi sono spesso date che fer-mano il punto in cui ha preso corpo per la prima volta il progetto: non c’è però nessuna garanzia che possano essere assunte come un documento cronologico obiettivo. E non basta: della stesura iniziale della Libellula sappiamo che deve essere collocata fra le due sezioni di Variazioni Belliche, non prima (e dunque Poesie non può essere del 1959, ma del 1958): le date, è la Rosselli stessa a dircelo, non sono veritiere8 e malgrado questo non le cambia, anzi. Nella copia che Amelia possiede dell’antologia di Luciano Cherchi, La situazio-ne poetica, del 1969, le date a stampa per Variazioni Belliche, «1958-1962» vengono corrette a mano in «1959-1964»:9 è un ennesimo 6 Ead., Serie ospedaliera, Milano, Il Saggiatore, 1969; Ead., Primi scritti: 1952-1963,

Milano, Guanda, 1980.

7 Una soluzione di questo tipo è adottata adesso nel meridiano di Penna: Sandro Penna,

Poesie, Prose e diari, a cura e con un saggio introduttivo di Roberto Deidier, cronologia di Elio Pecora, Milano, Mondadori, 2017. Deidier - motivando la scelta - mette a testo come volontà ultima d’autore, e unica raccolta di cui Penna sia interamente responsabile, le Poesie pubblicate da Garzanti nel 1973 (Poesie scelte e raccolte dall’Autore nel 1973), disciogliendo tutte le altre in una ampia sezione cronologica (Poesie 1922-1976). Una decisione radicale, che di fatto azzera l’intera storia della ricezione di Penna.

8 Cfr. l’apparato a Variazioni Belliche di Francesco Carbognin, in Rosselli, L’opera poetica,

cit., pp. 1280-1281, e a Serie Ospedaliera, a cura di Stefano Giovannuzzi, ivi, pp. 1319-1320.

9 Cfr. La situazione poetica (1958-1968): saggio e antologia, a cura di Luciano Cherchi,

con diciotto disegni di artisti contemporanei, Milano, Edizioni del Naviglio, 1969, pp. 192 e 193: il volume della Rosselli, con la segnatura FAR.243, si trova nel Fondo Amelia Rosselli, Polo Bibliotecario Umanistico-Sociale, Università della Tuscia, Viterbo.

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ripensamento? E allora La Libellula sarebbe del 1959? Stabilire una cronologia sulla scorta di elementi così fluttuanti è sconsigliabile; anche per le ragioni esposte al terzo punto).

– Una successione cronologica dei ‘primi scritti’, ovvero degli scritti che precedono e fiancheggiano Variazioni Belliche, come quella ri-composta in Poesie 1997 non è mai esistita, nonché editorialmente nelle intenzioni dell’autrice. Non è rintracciabile nemmeno attra-verso la tarda Antologia poetica 1987, che anzi scombina tutte le carte.10 È anzi molto rischioso scomporre il volume del 1980 sulla base delle date dei singoli pezzi (quando pure fossero veritiere, come è più che lecito dubitare). L’insieme dei Primi Scritti si stabilizza come libro nella seconda metà degli anni Sessanta ed è altamente probabile che la Rosselli sia intervenuta rielaborando i testi: lo si ricava dall’epistolario e da altri documenti.11

– Un ragionamento analogo, ma ancora più probante, va applicato alla raccolta (non: all’insieme di) Serie Ospedaliera, che è organica-mente costituita dall’intreccio delle due parti: il poemetto La Libel-lula ‘più’ le poesie dalla sezione Serie Ospedaliera.12 La stesura del poemetto apparsa nel volume del 1969 è quella messa a punto alla metà degli anni Sessanta – esce in rivista nel 196613 – e perciò coeva alle poesie di Serie Ospedaliera, non quella ‘originale’ del 1958: 20 pagine nel 1969 contro le 100 di partenza non fanno una differenza trascurabile.14

– Amelia Rosselli, ma nella seconda metà degli anni Sessanta, imma-gina una rappresentazione ideale di sé attraverso l’opera organiz-zando la sequenza ‘definitiva’ Variazioni Belliche - Serie Ospedaliera

10 Amelia Rosselli, Antologia poetica, a cura di Giacinto Spagnoletti, con un saggio di

Giovanni Giudici, Milano, Garzanti, 1987: nella sesta sezione, Primi scritti – quindi non ad inizio libro –, compare solo Prime Prose Italiane (1954).

11 Cfr. l’apparato a Primi Scritti a cura di Chiara Carpita, in Rosselli, L’opera poetica, cit.,

p. 1390 e ss.

12 Sull’intreccio strettissimo tra la revisione del poemetto e la stesura di alcune poesie

confluite poi in Serie Ospedaliera – ad esempio le 5 poesie per una poetica – cfr. l’apparato a Serie Ospedaliera a cura di Stefano Giovannuzzi, ivi, p. 1337-1340.

13 Cfr. La Libellula, «Nuovi argomenti», n.s., 1, 1966, 1, pp. 147-165.

14 Cfr. l’apparato a Serie Ospedaliera a cura di Stefano Giovannuzzi, in Rosselli, L’opera

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- Primi Scritti - Sleep - Documento.15 La sequenza, per quanto ripe-tutamente attestata, è funzionale alla progettazione di Documento come epilogo dell’intero percorso poetico, a cui nella mitobiografia dell’autrice avrebbe dovuto seguire il silenzio: venendo a cadere il progetto (e il silenzio), la sequenza scompare di scena subito dopo la pubblicazione di Documento e non si ripropone più. Nemmeno nell’Antologia poetica del 1987.

L’interventismo che contraddistingue l’indice di Poesie 1997 è dunque un azzardo, perché pone in discussione gli unici elementi certi per la costi-tuzione del corpus – ovvero che le raccolte maggiori rappresentino una deliberata volontà d’autore – e, a catena, favorisce piste di lettura piuttosto dubbie, tutt’altro che rare nella ricezione della Rosselli.16 In un simile fran-gente l’unica strada praticabile nell’Opera poetica 2012 è stata rispettare la successione dei libri editi: quella che un intreccio di decisioni d’autore e di circostanze storiche, più o meno favorevoli, ha in concreto prodotto. L’indice del 2012 pone rimedio a una sistemazione priva di basi storiche e filologiche: la discrepanza che ne risulta – fondamentale nella genesi di Documento – fra progetto e realizzazione del progetto ha un forte valore aggiunto ermeneutico, consentendo di portare allo scoperto la frizione co-stante fra il piano biografico in cui sedimentano i testi di Documento e la effettiva realizzazione editoriale dell’opera.

2.

La situazione della Rosselli si rivela però ben più intricata di quanto lasce-rebbe supporre il riordino delle opere rispettando la successione dei volumi editi. Per questo si è così insistito, per Consolo, come per Rebora o Fortini, sull’orizzonte tipografico all’interno del quale i loro testi e i loro libri sono concepiti: quelli della Rosselli non lo sono.

A proposito dell’attenzione che caratterizza Ritorno a Planaval, 2001, per «una poesia che fosse poesia e prosa insieme, e dove quindi l’a capo

15 Cfr. Stefano Giovannuzzi, Amelia Rosselli a Pasolini. Frammenti di una biografia

lettera-ria, in Amelia Rosselli, Lettere a Pasolini. 1962-1969, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2008, pp. 142-143 e l’apparato a Documento a cura di Stefano Giovannuzzi, in Rosselli, L’opera poetica, cit., p. 1356 e ss.

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riacquistasse la propria terribile carica di significato», in un’intervista all’autore Stefano Dal Bianco, si legge:

I punti di massima libertà sono quelli dove c’è la commistione libera di prosa e versi, che poi nella redazione di Mondadori ha creato qualche pro-blema, perché spesso i versi sono troppo lunghi per impaginarli senza un a

capo, mentre la prosa procede spesso per capoversi. Tutto questo mirava a

sottolineare l’indifferenza dell’andare a capo.17

Le ragioni degli scrittori non sono sempre perspicue: «terribile carica di significato» e «indifferenza dell’andare a capo» non significano esattamente la stessa cosa. Anche se in modo non proprio limpido, Dal Bianco testi-monia un nodo che si ripresenta spesso nel secondo e tardo Novecento, con inevitabili ricadute per la costruzione del libro a stampa: l’instabilità del confine tra prosa e poesia, e più in generale la forma del testo, riguarda anche la Rosselli. Nel caso di Ritorno a Planaval l’impaginazione dei pezzi più difficili è il risultato di un compromesso ragionevole – la leggibilità è comunque assicurata – fra la sorveglianza sul progetto da parte dell’autore e le convenzioni tipografiche della collana: l’autocommento non è il segno di una rivendicazione astratta della propria testualità, ma della consape-volezza che accompagna il prendere forma del libro – da cui deve risultar chiara l’insoddisfazione per uno scarto troppo marcato fra prosa e poesia – con un editore dalla fisionomia definita, Mondadori, e all’interno di una collana, «Lo specchio», che ha una struttura della pagina con esigenze non meno cogenti di quelle dell’autore. Altrimenti non sarebbe una collana.

Fin dalle prime uscite in rivista un processo di conversione del gene-re (e la consapevolezza che dovgene-rebbe accompagnarlo) non si annunciano nemmeno nella Rosselli. La configurazione dei testi e la loro disposizione topografica sulla pagina dattiloscritta non sono per lei aspetti su cui si possa intervenire per adeguarli alle normali necessità di un libro a stampa. Ma, appunto, sono significativi (e pertanto non mediabili) solo nella for-ma stabilita dal dattiloscritto. Il carattere e la geografia del testo – questo

17 Pier Giovanni Adamo, Marco Malvestio, Franco Tomasi, L’autore, il genere, il pubblico.

Intervista a Stefano Dal Bianco, web, ultimo accesso 21 maggio 2017, http://www.lalet- teraturaenoi.it/index.php/la-scrittura-e-noi/554-l’autore,-il-genere,-il-pubblico-intervi-sta-a-stefano-dal-bianco.html

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va tenuto sempre di conto – sono veicolo primario del senso: rappresen-tano i capisaldi di ciò che la Rosselli chiama la «formula» sottesa a tutti i suoi testi. In primo luogo il carattere, che deve essere a spaziatura fissa: per intendersi quello della macchina da scrivere. L’indicazione è del tutto estranea alla tradizione della tipografia, che è per statuto a spaziatura va-riabile. Funziona nella pagina dattiloscritta, che è un’invenzione moderna e scompare di nuovo con l’avvento del computer: produce dei risultati abnormi trasferito nello spazio tipografico. Basti pensare all’unico libro, Serie Ospedaliera, che vede realizzarsi l’impaginazione dattilografica, deci-samente ‘fuori formato’.18

Oltre che dall’impianto dattilografico – ma forse con un grado di im-portanza minore –, la riconoscibilità del sistema è condizionata dalla posi-zione del testo al centro geometrico della pagina: la richiesta è avanzata più volte, ma le ragioni non sono davvero mai esposte in modo comprensibile. Si tratta di un ennesimo assunto, che va accettato com’è: ovvero, preso alla lettera, di un’ulteriore difficoltà che non sappiamo come risolvere nella conversione a stampa, dal momento che il significato da veicolare non è per nulla intuitivo. A dire il vero, non sappiamo proprio quale sia. Nel caso della Libellula – che in quanto poemetto non sta nella misura stan-dard della pagina singola – le istruzioni si complicano; il testo deve essere allineato in basso e non in alto, in sostanza cominciando dall’ultimo rigo della pagina e non dal primo, come di regola si fa, perché questo consen-tirebbe di cogliere (o forse percepire) meglio visivamente la continuità del poemetto (sic!): «[…] vorrei che al poema lungo venisse restituita la forma originariamente ‘circolare’ e scorrevole, cioè che il testo venga preferibil-mente posto sulla parte inferiore della pagina».19 Il che vorrebbe dire che il poemetto dovrebbe essere riprodotto per blocchi, esattamente come nella stampa del 1969? Per quanto la lettera sia trasparente (parzialmente), non si offrono appigli di sorta per trasferire le giustificazioni entro una corni-ce cognitiva che parli al senso comune, anche facorni-cendo appello alla speri-mentazione musicale: o la si prende così com’è, o si lascia perdere. Non è

18 Cfr. Amelia Rosselli, Serie Ospedaliera, Milano, Il Saggiatore, 1969: il formato della

pagina è cm 20,8x29,5.

19 Lettera a Guido Davico Bonino, 10 gennaio 1966, Archivio Einaudi, Archivio di

Stato di Torino. In effetti nell’edizione del 1969 il primo verso di ogni pagina si colloca a una diversa altezza, indipendentemente dal fatto che corrisponda o meno a un inizio di

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peraltro trasferibile nello spazio tipografico (o lo è con molte difficoltà), a maggior ragione in quello digitalizzato; e infatti non transita nel testo a stampa di nessuna edizione successiva alla prima: o perché l’editore non se ne è nemmeno accorto o se se ne è accorto (ma è dubbio che abbia capito), l’ha trovata così stravagante e rigida da non essere praticabile.

Specie nella stagione che prepara la stampa di Serie Ospedaliera, le indi-cazioni redazionali si moltiplicano, e sono particolarmente scrupolose. Gli enunciati letterali sono chiari, il loro contenuto no. Basta leggere la lettera a Guido Davico Bonino del 15 giugno 1967:

Si tratta di utilizzare caratteri in tutto e per tutto simili a quelli della mac-china da scrivere: cioè una stampa ove ad ogni carattere e spazio entro le parole corrisponda l’identico spazio; nella stampa usuale degli editori invece i caratteri sono piuttosto simili a quelli della scrittura a mano […]. Non chiedo questo tipo di stampa per qualche mio sfizio o altro: l’intero schema metrico mio (in ogni libro) si basa su di una formula (descritta nel saggio Spazi Metrici in fondo a Variazioni Belliche) che tradirei non insi-stendo sull’usare questi caratteri, anche se ciò (cioè l’insistere) mi è tornato a poco conto con Garzanti! Usando invece la stampa ‘irregolare’ i versi subiscono, dal punto di vista metrico e visivo, una distorzione (alcuni versi più lunghi dell’originale, altri più corti: e l’intero schema metrico, con le

sue unità linguistiche e spaziali, non rintracciabile e non riprodotto).20

Quello che non va nell’edizione Garzanti di Variazioni Belliche è che essa non rispetta affatto la spaziatura fissa del carattere, la «stampa ‘regolare’». Ma il rimando interno, che dovrebbe spiegarne la cogenza, apre interro-gativi, non offre risposte: Spazi Metrici espone al massimo una teoria della versificazione, che non si traduce affatto e in modo evidente in un pron-tuario operativo del verso e della poesia. Gli stessi principi sono ribattuti anni dopo, nel 1981, a ridosso di Primi Scritti, ma in un ragionamento condotto al rovescio – questa volta non rigettando il libro tipografico –, che rende accettabile anche il carattere a spaziatura variabile:

Comunque credo che anche con il carattere differenziato, come nel terzo libro, Documento, il lettore intuisca ugualmente un certo ordine grafico.

strofe, mentre l’allineamento in basso è sempre lo stesso.

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Forse ho esagerato nel richiedere un’aderenza così totale all’aspetto grafico, ma non mi interessano le strutture metriche non graficizzate, che sono molto di moda per la loro forza disintegratrice e per il loro appartenere al

verso libero.21

Persino nella veste tipografica Documento lascia intuire «un certo ordine grafico» e la scarsa simpatia per «le strutture metriche non graficizzate». Si tratta evidentemente di un ripiego che giustifica il mancato rispetto della «formula». Dichiarazioni del genere, ‘auto-assolutorie’, nascondono oscillazioni vistose e una pratica molto aleatoria dietro l’apparente costanza dei paradigmi teorici. Questi stessi paradigmi sono del resto così gracili che non riescono a tenere in piedi un quadro di riferimenti concettuali costante nel corso degli anni, come è facile constatare nella pletora degli interventi e delle dichiarazioni che la Rosselli non lesina mai. In un’inter-vista a Gabriella Sica di pochi anni prima, del 1977, l’aspetto grafico della poesia non ha affatto una connotazione positiva:

Non scrivo poesia grafica, ma il mio sistema metrico riposa su una formula che mette in secondo piano l’aspetto tradizionalmente grafico della poesia e calcola il valore parlato-sillabico della parola in funzione delle lettere dell’alfabeto da calcolarsi immaterialmente: perciò dando uguale spazio sonoro e grafico alla lettera. [...] Poi ho fatto marcia indietro perché metto in secondo piano l’aspetto grafico, non dare troppa importanza al fatto che il sistema metrico non fosse trascrivibile geometricamente e visivamente

con i mezzi classici della stampatura. Conta il sistema e non il visivo.22

Prendendo le singole affermazioni come isole autosufficienti, la progettua-lità può sembrare fortissima, ma l’apparente sistematicità traveste enuncia-ti ambigui se non di segno contrapposto, instabili, che di fatto azzerano ogni ipotesi di senso nella girandola delle auto-interpretazioni. Se però ci

21 Marina Camboni, Incontro con Amelia Rosselli, «DonnaWomanFemme», 29, 1996, poi

col titolo È molto difficile essere semplici, in Amelia Rosselli, È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste 1963-1995, a cura di Monica Venturini e Silvia De March, prefazione di Laura Barile, Firenze, Le Lettere, 2010, p. 34 (l’incontro a cui si accenna nel titolo originale risale al 1981).

22 Gabriella Sica, La poesia oggi non ha ruolo, è un piacere strettamente privato, «Avanti!»,

19 giugno 1977, poi col titolo La poesia è un piacere privato, in Rosselli, È vostra la vita che ho perso, cit., p. 17.

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sottraiamo alla trappola di una teoria che non ammette compromessi, nel concreto la distanza che intercorre fra il disegno della Rosselli e la confi-gurazione effettiva dei suoi testi trasferiti a stampa è davvero così incom-mensurabile? Lo ammette anche lei, del resto. Pensiamo a Documento, di cui abbiamo il dattiloscritto in pulito e quindi alla resa della stessa poesia a spaziatura variabile, come in ultimo nel Meridiano:23

Le due impaginazioni non suggeriscono una resa grafica così divergente e depistante; e va da sé che quella a spaziatura variabile è persino meglio leg-gibile e più adattevole allo specchio di pagina ridotto del Meridiano di cui era necessario tener conto. Le proporzioni e l’evidenza della ricerca di un margine allineato anche a destra, per quanto possibile, non cambiano mol-to. L’idea di una spazialità definita da un verso di lunghezza ‘relativamente’ uguale viene comunque conservata: alla prova del libro a stampa, le poesie della Rosselli sono in realtà molto più flessibili di quanto i

ragionamen-23 Cfr. DOC.2, f. 8, Fondo Rosselli, Fondo Manoscritti, Università di Pavia, e Rosselli,

Documento, in Ead., L’opera poetica, cit., p. 315.

Documento 315

Vorrei donarti il mio sangue tutto. Ma esso corre in piccoli inestricabili rivoletti, e non graffia la tua porta d’entrata con abbastanza tenerezza per tenerci a galla.

O forse sei qua ad accompagnarmi? Ne ho perso le vie anch’io di questa tua triste casa. Non vedo altro che luci e tramonti che a me sembrano diabolici. Hai rime intense per me, non posso provvedere al caso che tramite questo tuo essere re delle mie giornate.

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ti autoriali lascerebbero supporre. E lo stesso vale per Variazioni Belliche, malgrado i versi più lunghi, e Serie Ospedaliera: la soluzione redazionale di adottare in Variazioni Belliche un carattere leggermente più piccolo – 9,5 invece di 10 – assicura un’impaginazione delle poesie senza spezzare i versi, che restituisce a colpo d’occhio la compattezza degli organismi testuali rosselliani. Spezzare i versi effettivamente tradirebbe la lettura della poesia: la convergenza tra indicazioni autoriali e necessità tipografiche è in questo caso funzionale; non è l’unico e chiarisce molto bene come sia stata impo-stata l’edizione.

Altre richieste, come la centratura del testo nella pagina, restano ine-vase, senza per questo distorcere la percezione d’insieme. Il ragionamento sarebbe tuttavia da rovesciare: quale vantaggio offrirebbe all’intelligenza delle poesie poterne constatare anche visivamente la collocazione a centro pagina? Probabilmente nessuno. Se l’operazione di adeguamento tipogra-fico e di collana fosse un tradimento, sarebbe da respingere, ma nella realtà i testi conservano un aspetto non troppo distante da quello dattilografico, che si dimostra non così essenziale. L’autentico valore aggiunto è la sot-trazione dei testi alla biografia – cosa che la Rosselli ha tentato sempre di eludere – e all’aura sacrale e numinosa a cui la biografia li consegna. Una sacralità tautologica – enuncia sé stessa –, che nella sostanza non accresce un di più di senso. Il carattere a spaziatura fissa non fa che mascherare le aporie della «formula»: un verso costruito sul combinato disposto di un numero costante di «idee» – parole, non sillabe, beninteso – e su un’esten-sione grafica anch’essa costante è, ovviamente, un controsenso che non richiede una particolare esegesi. Così come non può esistere equivalenza fra numero di idee (e lunghezza grafica del verso?) e tempo di lettura. For-se pensando ad una lingua monosillabica, come l’ingleFor-se: ma in italiano? Tutto ciò conferma l’artificialità e l’astrattezza mentale, e insieme la preca-rietà della costruzione, che non imposta il verso chiuso su un paradigma metrico nuovo, ma piuttosto sul fatto che l’andare a capo del primo verso determina – più o meno – quello di tutti i successivi: è un criterio che non rivoluziona nulla, perché con la metrica non ha nulla a che spartire. Non ha nemmeno prodotto un nuovo modello di riferimento nella poesia con-temporanea: non poteva.

Un complesso di ragioni poco perspicue e opinabili, che si sostiene sull’autorità di chi le enuncia, la Rosselli, punta a rendere difficile

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com-prendere l’opera in assenza dell’autore, che è l’unica garanzia di accessus al significato. Ed è un significato che si configura sempre come ulteriore, differito rispetto alla spiegazione che il lettore ne può dare autonomamen-te. Dal punto di vista dell’autrice un impianto così strategico non è mini-mamente mediabile; ed è ovvio che non lo sia, pena la perdita dell’auto-rialità più che di una enigmatica e imparafrasabile «formula». Come ci si addentra nel linguaggio critico che la Rosselli adopera, ma che le è sostan-zialmente estraneo, non c’è modo di venire a capo di un senso univoco: quello che è concretamente capitato agli editori che si sono misurati con la stampa delle opere della Rosselli. La conclusione a cui si approda, per quanto ancora provvisoria, è che inseguirla su questo terreno conduce a scarsi risultati apprezzabili.

3.

Certo, le indicazioni d’autore – pletoriche – sarebbero impegnative, se la situazione testuale delle opere a stampa fosse stabile e uniforme. Ma dei libri pubblicati in vita – Variazioni Belliche - Serie Ospedaliera - Documento - Impromptu - Primi Scritti - Appunti sparsi e persi - Diario Ottuso - Sleep – solo uno rispecchia ciò che Amelia Rosselli definisce come il suo sistema, Serie Ospedaliera 1969; che però nella successiva ristampa antologica,24 e sempre in seguito, torna ad assumere una normale veste tipografica. In tutti gli altri casi il testo è normalizzato – per così dire – nello spazio ti-pografico: una situazione subita malvolentieri per Variazioni Belliche, ac-cettata come un pedaggio inevitabile per Documento – altrimenti Garzanti non pubblica – e nemmeno più discussa per Sleep. Sulla forma del libro Garzanti non concede sconti: un’autorialità così eterodossa e insieme in-decifrabile si infrange sui criteri di collana della «Collezione di poesia». La collana assicura prestigio a chi vi pubblica (e viceversa, certo): l’opera viene accolta in una sorta di micro-canone nel quale la stabilità della forma edi-toriale gioca un ruolo rilevante.

Anche il libro più difficile da realizzare – Primi Scritti – non si sottrae alle forche caudine di una conversione tipografica; e lo fa malamente per-ché il tipografo in numerosi luoghi non ha capito nulla nel dattiloscritto (frainteso non sarebbe l’espressione adeguata). Non si può certo dire che la collana di Guanda, i prestigiosi e senz’altro più sperimentali «Quaderni

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della Fenice», non accolga libri complicati come L’aspetto occidentale del vestito di Neri (1976), misto di prosa e poesia, o il Bestiario di Apollinaire (1977), con immagini.25 Si dirà di più: l’editore ha compiuto un sforzo no-tevole rispetto ai criteri di collana, riducendo il corpo del carattere per non spezzare il verso lungo della Rosselli. Ma questo resta il nodo dolente: la configurazione della pagina dattilografica non si presta a una decifrazione univoca, a partire dalla banale distinzione di ciò che va reso come prosa o come poesia, e mancano (anche nel 1980, evidentemente) istruzioni chiare da parte dell’autrice per rimodulare il testo nello specchio della pagina a stampa, molto diverso dal formato quadrotta della carta da lei impiegata.

Alle procedure di messa in forma dell’editoria (di necessità normaliz-zatrici) si somma, lo si è capito bene, l’indeterminatezza della «formula» che l’impaginazione dei testi dovrebbe consentire di individuare a colpo d’occhio. Incerta nella poesia, nella prosa diventa addirittura imperscru-tabile, dal momento non è possibile estrapolare qualche indicazione da Spazi Metrici che possa essere applicata per analogia alla prosa. A rendere più ardua la ricerca di una soluzione, si aggiunge un dubbio che precede la questione della «formula» e riguarda la natura stessa della testualità della Rosselli. A maggior ragione se, in Primi Scritti, non si tratta di poesie o di prose, ma di qualcosa che non è prosa e non è poesia (Le Chinois à Rome) o, è il caso di Diario in Tre lingue, di un insieme eterogeno e notevolmen-te «graficizzato». È facile immaginare gli esiti fallimentari a stampa, per nulla imprevedibili. In tempi recenti degli appunti in prosa dei primi anni Cinquanta – molto evocativi, trattandosi di ‘fantasie’ – sono stati interpre-tati come i primi esperimenti poetici,26 per il solo fatto che i dattiloscritti vanno a capo come una poesia in versi ‘lunghi’, senza spezzare le parole: quando l’andare a capo nei dattiloscritti di per sé non significa quasi nulla, specie per la Rosselli. Riconoscere come poesia oggetti di statuto incerto, ma con buona probabilità prose, in una stagione aurorale come i primi

25 Giampiero Neri, L’aspetto occidentale del vestito, Milano, Guanda, 1976; Guillaume

Apollinaire, Bestiario, o il corteggio d’Orfeo, incisioni di Raoul Dufy, traduzione di Gio-vanni Raboni, Milano, Guanda, 1977.

26 Cfr. Amelia Rosselli, Tre scritti e un acquarello per Ernst Bernhard, a cura di Chiara

Carpita, in La furia dei venti contrari: variazioni Amelia Rosselli, a cura di Andrea Cortel-lessa, con testi inediti e dispersi dell’autrice, con il dvd Amelia Rosselli... e l’assillo è rima di Rosaria Lo Russo e Stella Savino e un cd con la lettura integrale della Libellula di Rosaria Lo Russo, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. 132-133.

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anni Cinquanta vuol dire spostare o ridefinire gli esordi poetici della Ros-selli sulla base di poesie che però non esistono: in quella veste le Phantasies sono state per entrare anche nel Meridiano.27

Nel sistema macchinoso messo in piedi dalla Rosselli un testo non ha autonomia e non si lascia decifrare senza l’ipoteca di un autore onnipresen-te e pervasivo che ne codifica nel suo gergo ibrido, pubblico ma in realtà privato, le ragioni. Non c’è dubbio che la Rosselli abbia ottime ragioni se insiste sulla necessità di assicurare la piena evidenza del sistema: assicura, e in un colpo solo, autorialità, oggettività e universalità dell’opera (non solo della poesia in quanto poesia). Autorialità da un lato e oggettività e uni-versalità dall’altro non sono però obiettivi che vanno facilmente insieme. E soprattutto il sistema è autoreferenziale, non si lascia parafrasare al di fuori dell’orizzonte entro cui sembra generarsi, strettamente determinato dal vissuto della Rosselli.

Se si lasciano da parte gli stereotipi e le retoriche di genere, i saggi, le dichiarazioni, le interviste più che una poetica universale rappresentano lo sforzo per motivare l’esclusività di un verso lungo che, con tutte le possi-bili varianti, è largamente diffuso negli anni Sessanta, specie nel territorio dell’avanguardia: Balestrini, Niccolai, Spatola, per fare qualche nome. Nel-la Rosselli sono però del tutto assenti le ragioni ideologiche che puntano a dissolvere la forma tradizionale della poesia e del libro di poesia come messa in crisi dei processi di standardizzazione dell’editoria. Amelia si pre-senta al contrario come colei che reinventa la tradizione: teme l’omologa-zione con lo sperimentalismo dell’avanguardia. Le «strutture metriche non graficizzate», e sembrerebbe parlare di quelle dell’avanguardia, hanno solo una «forza disintegratrice». All’avanguardia manca la «formula». Ammet-tere che una poesia di Variazioni Belliche possa assomigliare a un testo di Balestrini o Sanguineti, significa per la Rosselli negare l’eccezionalità della sua poesia, che è l’unica a inscrivere la «formula». Il circuito vizioso non spiega, punta ad autogiustificarsi, e nel tempo si contraddice, a seconda delle circostanze: «non mi interessano le strutture metriche non graficizza-te» vs «Non scrivo poesia grafica».

Uno scenario così controverso rende molto difficile il lavoro di un edi-tore. L’elaborazione teorica non spiega nulla e non aiuta: anche senza

en-27 I due testi in prosa sono riprodotti adesso in apparato a Per Bernard, in Ead., L’opera

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trare nei dettagli, Spazi Metrici, del 1962 – che siamo invitati ad assumere come il cuore di tutta l’opera –, non espone un sistema coerente, bensì una serie di approssimazioni reciprocamente contradditorie. Non è chiaro se la Rosselli parli della forma della poesia (quadrata o cubica?) o della struttura energetica del verso (più probabile). L’idea di una forma quadrata del te-sto (o cubica: nessuno lo ha capito) è in larga parte una costruzione della critica che si è sostituita molto volenterosamente all’autore, riconducendo le sue affermazioni allo stereotipo della normalità.28 Alla prova dei fatti, e malgrado la Rosselli lo richiami con insistenza, l’impianto teorico è quanto di più aleatorio si possa immaginare, bisogna dirselo: per mantenere in piedi almeno la parvenza di una continuità nella forma del verso – che palesemente è saltata già in Serie Ospedaliera –, in Documento Amelia deve parlare di verso «sfracellato»,29 come allusione al verso chiuso descritto in Spazi Metrici, e mantenere così in piedi il sistema o la formula di ordine che giustifica, circolarmente, la sua poesia. Il continuo rinvio a Spazi Me-trici ne fa una sorta di totem, che detta la norma della poesia – con qualche possibile ragione – e, molto estensivamente, di tutta la scrittura di Amelia, che deve essere comunque ‘graficizzata’: e qui le ragioni non si vedono proprio.

D’altra parte, è bene ricordarlo ancora, l’immediata riconoscibilità del sistema nella forma grafica del verso non è indispensabile nemmeno per la Rosselli: il sistema sarebbe riconoscibile anche se non si rispetta la regola del carattere a spaziatura fissa, evitando il rischio di una lettura ‘grafica’ che metterebbe l’opera della Rosselli in rotta di collisione con la neoavan-guardia. Come cerca di seguire il filo di un ragionamento autoriale che lo aiuti a costruire il testo tipografico, l’editore resta impigliato nella rete delle aporie. E alla fine si può ragionevolmente concludere non solo che l’organizzazione tipografica non offre un’immagine del testo molto diversa da quella dattilografica, ma che la conversione a stampa, anche se a prima vista può sembrare un po’ brutale e irrispettosa, ha il merito, non piccolo, di restituire un testo alla lettura, sottraendolo alla trappola delle auto-inter-pretazioni; ovvero del proliferare inflattivo di teorie e ragioni

imperscruta-28 Su Spazi Metrici cfr. Stefano Giovannuzzi, Quali spazi metrici?, in Id., Amelia Rosselli:

biografia e poesie, Novara, interlinea, 2016, pp. 47-61.

29 Lettera a Franco Fortini, 17 aprile 1979, a cura di Gabriella Palli Baroni, in La furia dei

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bili, legate a un bisogno d’ordine che riguarda in prima istanza la biografia. Questa è stata la decisione che ha informato la costruzione del testo dei Primi Scritti: non propriamente filologica.

4.

Di fronte a testi di natura incerta e a ragioni che danno solo l’illusio-ne di avere qualche rapporto con la letteratura, Primi Scritti è l’oggetto che rivela tutta l’instabilità che l’editore deve fronteggiare. Anche a un occhio inesperto l’edizione del 1980 appare piena di refusi, incompren-sibile: nel 1987 la Rosselli ne progetta infatti con Guanda una seconda edizione, che però non va in porto per il fallimento dell’editore. Di questa vicenda è sopravvissuta l’intera documentazione delle correzioni che l’au-trice avrebbe voluto introdurre, con l’obiettivo – scontato – di ristabilire la verità autoriale, ovvero, in un circuito chiuso, quella dell’autografo.30 Le indicazioni sono preziosissime per gettare uno sguardo nella complessa macchina che la Rosselli ha in mente per i diversi testi della silloge, ma va da sé che sono di impiego pratico molto aleatorio. Malgrado la quantità di direttive, che parrebbero mettere al riparo dai dubbi e in condizione di fissare un testo fedele alle intenzioni, l’operazione è destinata al fallimento: se è confuso e ambiguo Calvino nella lunga vicenda delle Cosmicomiche, figurarsi la Rosselli nelle istruzioni per la nuova edizione di Primi Scritti. E specialmente quando per Diario in Tre Lingue chiede di rispettare in tutto l’autografo, senza alcuna disponibilità a contrattare – il nodo è sempre lo stesso – la forma del dattiloscritto nello specchio della pagina tipografi-ca.31 Le indicazioni sono tanto minuziose e cogenti quanto inutili, perché l’autografo per essere impaginato necessita di essere interpretato, e dunque necessita dell’autore: una macchina perfetta che si auto-protegge.

Diario in Tre Lingue è un rompicapo, a meno che non se ne ipotizzi la riproduzione fotografica, scaricando così sul lettore l’onere dell’inter-pretazione; anche quella minima: distinguere se è prosa o poesia. O se la distinzione è completamente saltata. Quest’ipotesi, di ripiego, lascia ine-vasa la domanda: come si impagina il testo ‘graficizzato’ di Diario in Tre

30 Buona parte – la più significativa – di questi materiali è adesso riunita nell’apparato

a Primi Scritti a cura di Chiara Carpita, in Rosselli, L’opera poetica, cit., pp. 1384-1387.

31 Sulla questione cfr. anche Stefano Giovannuzzi, La mente dattilografica, in Id., Amelia

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Lingue? Sembrerebbe una pedanteria dell’editore, ma non lo è: la forma del testo non è arbitraria, ma autoriale, e non vuole essere demandata ad un lettore-interprete, che di necessità relativizza: questa possibilità è esclusa in via di principio. Un punto apparentemente tenuto ben fermo, ma in realtà molto instabile nella sua radicalità. Con un coup de théâtre, corretto a modo suo il testo del 1980, la Rosselli conclude che in alternativa (sic!), si può ristampare il libro com’è, avendo l’accortezza di eliminare i refusi: l’estremismo del rispetto del dattiloscritto si rovescia nella posizione dia-metralmente opposta del lasciare tutto com’è; e non è la prima volta nella vicenda delle sue opere. Non sorprende affatto: ma l’editore come si deve comportare?

La filologia rischia di imboccare un vicolo cieco, quanto più cerca di rispettare una volontà così assertiva, che però nei fatti si dissolve. Alla fine siamo obbligati a concludere che il passaggio dal manoscritto al libro è interamente (o quasi) da fare. Malgrado i documenti disponibili, con Pri-mi Scritti l’editore si trova a dover compiere in prima persona le scelte che l’autore non ha compiuto, contrattando caso per caso la soluzione meno arbitraria per dare forma al libro: per Le Chinois à Rome e, soprattutto, Diario in Tre Lingue. Le soluzioni possono essere molto diverse, ma gene-ralmente sono il punto di equilibrio fra istanze d’autore e criteri redaziona-li della collana. Ad esempio, la richiesta di un corpo minore e del corsivo avanzata per Diario in Tre lingue è stata accolta, molto praticamente, ché rispettava un criterio autoriale (corpo minore e corsivo), ma anche per-ché consentiva di ricomporre sulla pagina l’aspetto dell’autografo (corpo minore): la stessa scelta adottata da Guanda nel 1980, per creare più spazio e ospitare meglio le pagine ‘graficizzate’ del dattiloscritto. Il risultato, da un punto di vista filologico, è comunque un patchwork. Non sempre inoltre, rileggendo a distanza, le decisioni prese si rivelano del tutto soddisfacenti.

Non trascrivere Diario in Tre Lingue come un testo a bandiera – alline-ato a sinistra, di fatto, come nella pagina dattilografica –, ma giustificarlo invece anche a destra, quando non fosse evidente una disposizione grafica del testo o non si trattasse palesemente di versi, è una soluzione empiri-ca e oggettivamente empiri-cariempiri-ca di rischi. Da editore, più che da filologo, con la conseguenza immediata di non difendere in toto le ragioni dell’autore (specie se così ineffabili), sostituendosi all’assente, e di procedere, di fatto, a dar forma a un dattiloscritto confuso, o meglio: che ha una logica

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inter-na ermetica, per conservarne i tratti fondamentali evitando, se possibile, fraintendimenti e equivoci. Un’impaginazione a bandiera avrebbe suggeri-to la reinterpretazione estensiva del tessuggeri-to come poesia. Non lo fa l’edizione Guanda 1980 e non lo fa la revisione della Rosselli: per quanto possano valere, sono indicazioni da tenere in considerazione. A rispettare gli a capo del dattiloscritto o a non farlo (per non aggravare lo scivolamento del testo verso la poesia), il risultato – un testo a bandiera – sarebbe stato comunque distorcente. D’altra parte il titolo ‘diario’ lascia supporre, ragionevolmente, la forma dell’appunto – anche se nelle pagine costruite più graficamente di appunti è difficile parlare – e dunque della scrittura in prosa, da giustificare anche a destra. In astratto parrebbe funzionare.

L’operazione conserva un rilevante margine di incertezza e produce una sistemazione che è comunque destinata a rimanere congetturale, aperta. Si prova ad offrirne qualche esempio:

Si tratta del capitolo V di Diario in Tre Lingue,32 che si è creduto di inter-pretare, senza troppe difficoltà, come un appunto in prosa, né più né meno di come era accaduto in Primi Scritti 1980.33 Di seguito l’immagine della stessa porzione di testo nel formato del Meridiano:34

Non sempre però l’opzione preferita nel 1980 orienta in una direzione uti-le. Anzi a volte proprio lo stato di Guanda testimonia la difficoltà di dare

32 PS.1h, f. 20, Fondo Rosselli, Fondo Manoscritti, Università di Pavia. 33 Cfr. Rosselli, Primi Scritti, cit., p. 96.

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una forma al dattiloscritto. Per la sua problematicità è esemplare il passo che segue, presentato come compare nel dattiloscritto:35

Il trasferimento nello specchio del Meridiano, rispettando tutti gli a capo, produce un testo in versi. Lo si presenta qui ritrascritto per emendare un refuso – «m’approche» invece di «m’ap- | proche», inflitratosi da Guanda 1980 anche nel Meridiano36 –, ma non gli errori di ortografia, che perten-gono al francese della Rosselli:

vision:

cercles verts et rouges très minces, qui bougent en toutes les directions, en se substituant en arrière et en avant. Puis cercles de fil de fer des mêmes couleurs (non point pleins) lesquels aussi bougent. Puis fleurs, fines, varié-es, le bleu est ajouté, pas de jaune tout est très fin. Puis il y a le Saut Hébraique, c’est a dire un grand oeuf rempli d’autres oeufs jusqu’à son centre ou il y a toujours et de nouveau un oeuf. Il est peut-être grand, mince et presque noir, probablement de chocolat. Il s’ouvre (sa porte courbe et carrée), je n’ose l’ouvrir moi-même, je m’approche; dans le dedans de ce grand oeuf est le vide, 35 PS.1h, f. 31.

36 Cfr. Rosselli, Primi Scritti, cit., p. 96. Per il testo nella versione del Meridiano cfr. Ead.,

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un trou lancé sur les rails des trains, comme dans leur toilette. Je pense alors c’est où porte le surréalisme. Encore fleurs, puis je vois et entends «noir-papier Indo-Chinois», et me propose d’en acheter.

L’idea che informa questa trascrizione è che possa trattarsi di versi: l’indi-cazione di vision sembrerebbe sollecitare verso la poesia. Ma, tornando a rifletterci, è davvero così? Non è la stessa situazione che si è prodotta con le Phantasies? Ovvero, nella valutazione dell’editore prendono la consisten-za di interferenze marginali fatti che invece potrebbero indirizconsisten-zare a una diversa restituzione tipografica del testo. Che cosa impedirebbe, nell’au-tografo, di trascrivere il passo come una prosa? Non c’è quasi alcun tratto stilistico impegnativo, tantomeno metrico, che evochi una poesia in prosa, e l’a capo con spezzatura di parola «varié- | es» potrebbe far suonare il cam-panello d’allarme: corrisponde all’a capo inevitabile quando il carrello della macchina da scrivere raggiunge il limite destro? L’allineamento di molte ‘righe’ potrebbe generare il sospetto che il margine destro sia effettivamen-te la fine della pagina e non l’a capo del verso. Rispettando tutti gli a capo il pezzo diventa effettivamente una poesia nello specchio del Meridiano (con la difformità, per un verso, della spezzatura di parola). Ma non ci sono ostacoli che impediscono una impaginazione continua, che chiameremo prosa; una prosa che non è più prosa di quanto in versi sarebbe poesia:

vision:

cercles verts et rouges très minces, qui bougent en toutes les directions, en se substituant en arrière et en avant. Puis cercles de fil de fer des mêmes couleurs (non point pleins) lesquels aussi bougent. Puis fleurs, fines, va-riées, le bleu est ajouté, pas de jaune tout est très fin. Puis il y a le Saut Hébraique, c’est a dire un grand oeuf rempli d’autres oeufs jusqu’à son centre ou il y a toujours et de nouveau un oeuf. Il est peut-être grand, mince et presque noir, probablement de chocolat. Il s’ouvre (sa porte courbe et carrée), je n’ose l’ouvrir moi-même, je m’approche; dans le de-dans de ce grand oeuf est le vide, un trou lancé sur les rails des trains, comme dans leur toilette. Je pense alors c’est où porte le surréalisme. Encore fleurs, puis je vois et entends «noir-papier Indo-Chinois», et me propose d’en acheter.

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La porzione di testo funziona perfettamente anche senza gli a capo, in pro-sa: forse persino meglio, dal momento che scompare l’anomalia della di-visione di «variées». L’illusione di una differenza di valore tra le due forme del testo è legata al riflesso automatico della distinzione tra prosa e poesia, che però nella Rosselli non sembra di particolare pregnanza. Tantomeno risponde ad una qualche logica pensare che per forza in Diario in Tre Lin-gue la compresenza di prosa e poesia sia costitutiva, visto che gli oggetti di cui si parla sono in prevalenza la forma del verso e la poesia. Il confine fra le due pratiche di scrittura è fluttuante e su di esso prevale di gran lunga l’assetto grafico della pagina. In Diario in Tre Lingue c’è una seconda vision, alla fine del capitolo II, ma non aiuta troppo, perché potrebbe essere letta allo stesso modo:37

L’immagine restituisce la pagina del dattiloscritto, con un margine destro oggettivamente più ampio che nell’altra vision. E che in modo inequivo-cabile non dipende da quella che potremmo definire la volontà manifesta di non spezzare le parole: «purple», ad esempio, potrebbe tranquillamen-te trovare spazio nel rigo che precede. A meno che la Rosselli non abbia impostato, con un qualche suo criterio, un margine destro più ampio. La restituzione del passo come poesia solleva non poche perplessità: è stata la scelta giusta? E lo stesso interrogativo si pone anche per una eventuale trascrizione in prosa. Ecco le due versioni, in successione, a confronto:

(vision:

flowers and lines extremely complex preceded by Mondrian grey white black painting + & – other abstract fluid forms. The flowers or lines are green and red, then covered by transparent purple fluid design)

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(vision:

flowers and lines extremely complex preceded by Mondrian grey white black painting + & – other abstract fluid forms. The flowers or lines are green and red, then covered by transparent purple fluid design)

In effetti non è da escludere che le prime tre righe corrispondano al limite destro impostato sul carrello: se così fosse, il quarto rigo non potrebbe con-tenere anche «purple». Dovremmo dunque restituire questa vision giusti-ficata, ma con un margine destro maggiore? È chiaro che procedendo così l’intero testo di Diario in Tre Lingue si rimette in movimento, minacciando la frana. In modo meno apocalittico e più critico, se ne potrebbe trarre la conclusione che trascrivere Diario in Tre Lingue giustificando anche a de-stra in modo più estensivo potrebbe essere la soluzione tipografica pruden-te – non parliamo nemmeno più di prosa –, che distorce in misura minore il dattiloscritto e soprattutto favorisce molte meno false letture.

A partire da queste scelte, e dai dubbi che fanno loro da corollario, s’im-pone qualche considerazione conclusiva. Nel caso di Consolo o di Bufalino l’apparato autoriflessivo tocca l’interpretazione, ma non la costituzione del testo come libro. Un apparato autoriflessivo imponente – si è detto inflatti-vo – come quello della Rosselli è invece una minaccia per la stabilità stessa del testo, ne rende problematica la restituzione in forma tipografica, se non come soluzione ipotetica. Ma non ci potrebbe essere minaccia peggiore che assumersi un ruolo di supplenza colmando le lacune e ricostituendo il testo come la Rosselli lo avrebbe potuto volere, cercando una logica tra le sue indicazioni: un’operazione impossibile – a cui il Meridiano ha cercato di sottrarsi –, perché significherebbe entrare in un orizzonte sfocato di ragioni biografiche inestricabili. Ovvero mimetizzare la responsabilità dell’editore dietro una coerenza del progetto letterario che invece, come abbiamo visto, è continuamente rimesso in forse o addirittura annullato.

Immaginare di portare a termine il progetto che la Rosselli non è ri-uscita a realizzare significherebbe ignorare che la sola testualità possibile è il compromesso che di fatto storicamente si è compiuto sui testi, e con l’approvazione dell’autrice stessa. Un compromesso che in alcuni casi però – Diario in Tre Lingue – è rimasto senza un esito accettabile e che l’editore

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postumo è costretto a reinventare. La testualità tipografica che ne deriva resta però passibile di ulteriori aggiustamenti.

Il tentativo di riportare le opere della Rosselli a una sorta di Ur-testua-lità sarebbe mera follia. Vorrebbe dire monumentalizzare un testo: quello che lei stessa, senza riuscirci, avrebbe effettivamente voluto compiere in qualche passaggio della sua biografia. Il testo non è monumentalizzabile e certifica un’instabilità che, certo, si è installata sulla pagina, ma che non va mitizzata: il testo funziona quanto più è restituito come testo e liberato dal groviglio di ragioni personali che lo rendono instabile, ben più di quanto nella realtà non sia.

stefano.giovannuzzi@unipg.it Riferimenti bibliografici

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La furia dei venti contrari: variazioni Amelia Rosselli, a cura di Andrea Cor-tellessa, con testi inediti e dispersi dell’autrice, con il dvd Amelia Rossel-li... e l’assillo è rima di Rosaria Lo Russo e Stella Savino e un cd con la lettura integrale della Libellula di Rosaria Lo Russo, Firenze, Le Lettere, 2007.

Pier Giovanni Adamo, Marco Malvestio, Franco Tomasi, L’autore, il ge-nere, il pubblico. Intervista a Stefano Dal Bianco, web, ultimo accesso 21 maggio 2017, http://www.laletteraturaenoi.it/index.php/la-scrit- tura-e-noi/554-l’autore,-il-genere,-il-pubblico-intervista-a-stefa-no-dal-bianco.html

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La situazione poetica (1958-1968): saggio e antologia, a cura di Luciano Cherchi, con diciotto disegni di artisti contemporanei, Milano, Edizio-ni del Naviglio, 1969.

Giampiero Neri, L’aspetto occidentale del vestito, Milano, Guanda, 1976. Guillaume Apollinaire, Bestiario, o il corteggio d’Orfeo, incisioni di Raoul

Dufy, traduzione di Giovanni Raboni, Milano, Guanda, 1977. Franco Fortini, Foglio di via, Torino, Einaudi, 1947 e 1967. Poesia ed errore (1937-1957), Milano, Feltrinelli, 1959. Una volta per sempre, Torino, Einaudi, 1963.

Poesia e errore, Torino, Einaudi, 1969.

Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Milano, Mondadori, 2014. Stefano Giovannuzzi, Amelia Rosselli: Biografia e poesia, Novara, interlinea,

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Antologia poetica, a cura di Giacinto Spagnoletti, con un saggio di Gio-vanni Giudici, Milano, Garzanti, 1987.

Le poesie, a cura di Emmanuela Tandello, prefazione di Giovanni Giu-dici, Milano, Garzanti, 1997.

Lettere a Pasolini. 1962-1969, Genova, a cura di Stefano Giovannuzzi, San Marco dei Giustiniani, 2008.

È vostra la vita che ho perso. Conversazioni e interviste 1963-1995, a cura di Monica Venturini e Silvia De March, prefazione di Laura Barile. L’opera poetica, a cura di Stefano Giovannuzzi, con la collaborazione per gli apparati critici di Francesco Carbognin, Chiara Carpita, Silvia De March, Gabriella Palli Baroni, Emmanuela Tandello, introduzione di Emmanuela Tandello, Milano, Mondadori, 2012.

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