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di Federica De Felice

1. “Passione” è uno dei termini più complessi del linguaggio umano e ciò a causa dall’ambivalenza del suo etimo, pathos, che in greco significa ‘dolore’

e ‘piacere’, ‘tormento’ e ‘gioia’, ‘patimento’ e ‘godimento’. Il significato di sofferenza e di passività a cui la parola rinvia è presente in molti riferimenti culturali (pensiamo alla passione di Cristo), e spesso si trova associato a qualcosa di irrazionale e incontrollato, quasi esclusivamente fisico e vena-to di un senso negativo (come nei delitti passionali). Correlativo a questa accezione è il significato “positivo” del termine, quando, per esempio, vo-gliamo descrivere uno stato perturbante, turbolento ed estatico, che scon-volge un equilibrio preesistente (è il caso della passione amorosa), o quando indichiamo un sentimento dominante a cui si soggiace, ma che dona forza (pensiamo alla passione per un’idea, per la politica, per l’arte). Ma parliamo di passione anche quando vogliamo intendere un ambito a cui ci si dedica volentieri (la passione per la musica, per i viaggi, per il cinema ecc.).

In tutte le sue sfumature la passione è espressione di una tensione che spinge il soggetto a perseguire un obiettivo che desidera intensamente. Colui che vive la passione è preda di una forza altamente trainante (da ciò la sensa-zione dell’essere passivi), e, credendo fortemente, a volte “ciecamente”, in ciò che lo appassiona, investe tutto sé stesso, energia e tempo. Essendo pervasiva, la passione totalizza la vita affettiva, e per questo il soggetto appassionato si sente dominato da tendenze emotive e inclinazioni che incidono in maniera determinante sulle azioni. Su questa peculiarità della passione è concorde la maggior parte dei filosofi, i quali, nel corso della storia, hanno provato a darne una definizione, a capirne l’origine e il rapporto con la ragione. 2. Nella letteratura omerica e nella filosofia antica la passione si identifica in un sentimento smisurato (esaltante/paralizzante), spesso improvviso, ma non necessariamente negativo. Essa infatti è ciò che può guidare al gesto eroico, soprattutto per mezzo del “furore” o dell’“ira”.

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quel-le e questa un contrasto radicaquel-le che egli esprime collocando quel-le passioni nell’anima concupiscibile, sede degli impulsi e degli istinti (situata nel ven-tre), che è distinta dall’anima razionale, situata nella testa (Repubblica, iv,

39a-a; Timeo, 69e-1d). Una terza anima, situata nel fegato e sede

del-le passioni irascibili, media tra del-le prime due e, facendo del-leva prevadel-lentemente sulla ragione, grazie al coraggio (thymòs) che le è propria, porta il soggetto

ad affrontare gli ostacoli che si frappongono all’azione.

Nel pensiero di Aristotele la passione è considerata come un’alterazio-ne (anche un’alterazio-nel senso di malattia) subìta dall’anima, ma tale da coinvolgere anche il corpo (Sull’anima, i, 3a).

Al significato sostanzialmente negativo del termine (come ciò che impedisce, depotenzia la ragione) si affianca una concezione positiva, che vede la passione come fonte di felicità ed esaltazione dei sensi a cui è diffi-cile rinunciare. A questa connotazione si rifà una lunga tradizione che va dalla vicenda di Abelardo ed Eloisa (Epistolario, xii secolo), ai testi

liber-tini del Settecento, dall’esaltazione dei vizi e delle passioni di Bernard de Mandeville in La favola delle api (15) alla «magica attrazione» di cui

parla Goethe nelle Affinità elettive (19), fino a Nietzsche, il quale vede

nella formula «il faut tuer les passions» (‘bisogna uccidere le passioni’), compiuta dalla Chiesa e da tutti i moralisti, il vizio capitale della morale e di tutti i sistemi filosofici che, come la morale, sono contro natura e, dunque, contro la vita (Nietzsche, 212, p. ).

Lungo un’altra linea interpretativa si muovono invece alcuni autori del-la modernità da Descartes a Kant. Se nel Rinascimento le passioni, come ogni aspetto della naturalità dell’uomo, vengono rivalutate come un’esalta-zione e una spinta della volontà (pensiamo agli «eroici furori» di Bruno), Descartes, pur celebrando il potere del lume naturale della ragione, in Le passioni dell’anima (169) afferma l’insopprimibilità delle passioni, che, in

quanto atti della volontà, appartengono all’anima come res cogitans,

rien-trando quindi nell’esercizio della razionalità. Tuttavia, a differenza degli atti volitivi, le passioni sono subite dal soggetto; al contrario delle idee, inoltre, non rappresentano oggetti esterni, e diversamente da altri modi di sentire, come la fame o la sete, non ineriscono al corpo ma alla ragione; esse sono dunque affezioni, modificazioni dell’anima, ma non sono causa-te dall’anima scausa-tessa, bensì dagli “spiriti animali”, che dal cuore salgono al cervello e da qui si diffondono nei nervi. L’anima non è quindi padrona delle proprie passioni; tuttavia, esse, pur non essendo frutto della volontà, possono assicurarsi un dominio indiretto su di essa mediante la costruzione di un habitus comportamentale ispirato alla razionalità.

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Spinoza è una voce unica all’interno del dibattito filosofico sulla passio-ne. Egli rifiuta una considerazione moralistica delle passioni umane, essen-do queste viste come res naturales. Nella sua concezione ogni vita cosciente

è sempre cupiditas, ‘desiderio’. L’affectus (‘affetto’ o ‘passione’ in generale),

intesa come tendenza di ogni essere a perseverare nel proprio stato, ha valore universale e costituisce la radice comune di qualsiasi espressione dell’uomo. Essendo la mente sempre un’«idea del corpo», a tutto ciò che modifica il corpo corrisponde simultaneamente una rappresentazione mentale. Così, la mente prova laetitia o tristitia, a seconda che essa avverta la propria

espe-rienza come favorevole o sfavorevole per il suo vivere e agire. La tristezza è l’affetto che segnala alla mente il passaggio a una minore «potenza di esi-stere e di agire», e questo ci rende passivi, mentre, provando gioia, la mente “sente” un aumento della propria «potenza di esistere e di agire», il che ci rende attivi. Per Spinoza esiste un’unità strutturale, indissolubile, tra corpo e mente e per questo c’è corrispondenza tra piano affettivo-passionale e piano conoscitivo.

Così, siamo attivi quando agiamo in base a idee «adeguate» (Ethica,

16, iii), ossia comprendiamo l’unità e la necessità del tutto (sostanza, dio); viceversa, quanto più la nostra conoscenza è frammentaria, inadegua-ta, tanto più saremo preda delle passioni negative. E se è vero che l’uomo è tanto più virtuoso quanto più si conduce secondo ragione, condursi secon-do ragione significa conoscere la natura umana ed esaltare ciò che aumenta la felicità e la potenza, compresi gli affetti. L’originalità della proposta spi-noziana sta pertanto proprio nella convinzione che una sana vita etica non può (e non deve) comportare l’annullamento della vita emotiva, bensì la predominanza degli affetti attivi sulle passioni (negative), su quelle cioè che depotenziano il soggetto, trascinandolo verso il basso. Il binomio passione-desiderio è sancito anche da Leibniz (Nuovi saggi, ii, xx), che distingue tra

inquietudine, o desiderio ancora incosciente, e passione o desiderio consa-pevole, e da Condillac (Trattato delle sensazioni, i, 3), il quale definisce la

passione come un desiderio così intenso che si impadronisce della mente dell’uomo impedendole di volgersi ad altro oggetto.

A Kant si deve uno dei primi, chiari tentativi di operare una distin-zione tra emodistin-zione e passione. Nell’Antropologia pragmatica Kant (29,

par. 3) definisce la passione «l’inclinazione poco governabile per mezzo della ragione», e, in quanto tale, è da ascrivere alla facoltà di desiderare; l’emozione, invece, è «un sentimento di un piacere o di un dolore attuale che non lascia sorgere la riflessione». L’idea che la passione non sia un’e-mozione, ma il dominio assoluto di uno stato affettivo sulla personalità

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nella sua totalità viene ripreso dalla filosofia romantica, che però capovolge il giudizio negativo espresso da Kant. Rifacendosi in qualche modo a Spino-za, e contrapponendosi alla condanna kantiana, Hegel giunge ad affermare: «Niente di grande è stato compiuto né può essere compiuto senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della passione in quanto tale» (Hegel, 21, parr. 3-). 3. Ma che ruolo hanno le passioni nell’ambito morale, ossia in che misura l’agire morale è motivato dalle passioni e/o dalla ragione?

Questo interrogativo ha plasmato l’intera storia dell’etica morale, da Platone ai nostri giorni, ma nell’età moderna, in particolare tra Seicento e Settecento, esso è stato tematizzato da Hobbes, Hume e Kant, i quali hanno elaborato tre modelli, da cui prende spunto la discussione filosofica contem-poranea, che si concentrano proprio sul rapporto, o potremmo dire sull’an-tagonismo tra ragione e passione, nella definizione delle azioni morali: l’i-dea di Hobbes, secondo cui a motivare l’agire morale è la ragione egoistica e strumentale; quella di Hume, il quale ritiene che la motivazione alla condot-ta morale non possa essere in nessun modo derivacondot-ta dalla ragione; e quella di Kant, che ritiene la ragione universale il motore stesso dell’agire morale.

Per Hobbes alla base della forza obbligante della morale vi è l’interes-se egoistico a realizzare i propri desideri. La ragione è uno strumento che calcola i mezzi migliori per soddisfare un interesse personale. Se, infatti, gli uomini si facessero guidare dalle loro passioni, sentimenti, non uscirebbero mai dallo stato di guerra di tutti contro tutti. Così, proprio per difendere il proprio interesse, la ragione consiglia agli uomini di limitare l’illimitata libertà d’azione a regole morali (leges naturales) che gli garantiscano la

so-pravvivenza. Tale vincolo al rispetto delle leggi (sancito dal Leviatano) è

funzionale al fine fondamentale di ciascun uomo, ossia alla propria soprav-vivenza. Se non ci fosse tale risultato vantaggioso, nessun individuo sarebbe motivato o obbligato a comportarsi secondo i dettami morali.

Contrariamente a Hobbes, Hume sostiene che la ragione, per sua natu-ra, non può essere il movente dell’agire morale. Essa infatti si occupa della verità e della falsità, ossia del rapporto delle nostre idee con la realtà ester-na. La passione invece non è un’idea: come scrive nel Trattato sulla natura umana (139-), essa «è una esistenza originaria», ossia qualcosa che è

vissuto dal soggetto: non rappresenta nulla e dunque non può essere con-fermata o smentita da altro, nel qual caso potrebbe dirsi vera o falsa, come accade per un’idea (Hume, 21, ii, 3, 3). Questo vuol dire che la ragione non è in grado di suscitare una volizione e dunque non può motivare la

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dotta degli uomini in un senso piuttosto che in un altro. Per Hume, vista l’eterogeneità tra la natura della ragione e la natura della passione, parlare di contrasto tra ragione e passione è filosoficamente scorretto: non avendo forza motivazionale, «la ragione è e deve essere schiava delle passioni»; può sì apportare informazioni vere e avere su di esse un influsso indiretto, ma di certo non può guidarle. Da ciò egli conclude che i dettami morali, per il fatto che suscitano passioni, non possono che essere espressioni del-le passioni, ossia dei sentimenti e deldel-le volizioni degli uomini. E poiché a modificare una passione è solo un’altra passione ad essa contraria, attraver-so la simpatia, cioè la capacità di immedesimazione, gli uomini riescono a riconoscere il bene e il male prodotto dal rispetto o meno delle regole della giustizia, anche quando non tocca direttamente il proprio interesse personale, “simpatizzando” con il torto subìto da altri e disapprovandolo a livello morale.

Kant, pur comprendendo l’importanza delle passioni per l’agire mora-le, ritiene che il movente della morale debba essere disinteressato, razionale e universalizzabile. Così, se le passioni sono «cancri per la ragion pura e generalmente inguaribili» (Kant, 29, par. 1), moralmente buona è l’a-zione compiuta per rispetto della legge morale fondata sulla ragione, ma non sulla ragione strumentale e soggettiva (Hobbes), bensì sulla ragione che tutti gli esseri umani possiedono, perché solo questa può dar vita a un’e-tica universalisun’e-tica, valida cioè per tutti. La legge morale è espressa da quelli che Kant chiama gli imperativi categorici, senza alcun concorso di passio-ni, comprese quelle generalmente considerate morali (amore del prossimo, generosità ecc.), perché queste, a differenza degli imperativi dettati dalla ragione, sono sempre rivolti a fini personali e particolari, non necessaria-mente condivisibili da tutti. L’unico sentimento morale riconosciuto da Kant è il sentimento di «rispetto», che non ha alcuna nota affettiva, ma deriva dalla ragione sotto forma di dovere. Dunque, agire moralmente si-gnifica agire per il senso di dovere che la ragione prescrive, contro qualsiasi inclinazione e passione personale.

Al di là delle profonde e radicali differenze, tutti e tre questi modelli interpretativi fanno leva su una concezione dualistica dell’uomo – in con-tinuità, per certi aspetti, con la posizione platonica – ossia di un essere ani-mato da varie parti, tra cui quella razionale e quella passionale. Nel corso del tempo la riflessione sul tema delle passioni ha coinvolto diversi ambiti e discipline e, in misura crescente, la psicologia. Un’originale rielaborazione della problematica filosofica relativa al conflitto tra ragione e passioni e al carattere radicalmente diviso della natura umana si trova nella teoria

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psico-analitica di Freud, che propone una concezione dualistica e antagonistica delle passioni fondamentali da cui è mosso l’uomo, reinterpretate in termi-ni di «pulsiotermi-ni» (Eros e Thanatos). Varie scuole filosofiche – in particolare

quella di Francoforte (pensiamo alle analisi di Marcuse), ma anche lo stesso Nietzsche e Deleuze – hanno affrontato il tema della repressione-liberazio-ne delle pulsioni in ambito sociopolitico. La classica dicotomia passiorepressione-liberazio-ne/ ragione oggi è messa in discussione in nome di una visione sistemico-rela-zionale più unitaria dell’agire morale dell’uomo, una visione che riconosce nell’aspetto passionale e in quello razionale forze e capacità inferenziali, necessarie alla fondazione e alla promozione di una morale condivisibile. Le ricerche neuroscientifiche, a partire dagli ultimi decenni, sottolineano la complessità del tessuto emotivo-razionale dell’uomo, e non è un caso che molti autori si siano ispirati a Spinoza. Tra questi il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, il quale mostra come la nostra coscienza sia un sistema complesso di equilibrio tra le diverse sedi, strutturalmente inter-connesse, delle nostre funzioni (razionale, emotiva).

E nella stessa scia il neurobiologo americano Joseph LeDoux mette in risalto l’aspetto emotivo che accompagna, anzi sostiene, l’attività cosiddet-ta razionale. Anche Remo Bodei, ma quescosiddet-ta volcosiddet-ta sul piano più stretcosiddet-tamen- strettamen-te filosofico, riprendendo la lezione spinoziana, ha mostrato la necessità di superare la contrapposizione tra ragione e passione: le passioni hanno sempre dentro di sé un nucleo di razionalità, così come gli atteggiamenti cosiddetti razionali hanno spesso motivazioni di carattere emotivo, essendo la ragione stessa di per sé appassionata, “desiderante”, abitata dai medesimi affetti che vorrebbe allontanare. Così, ragione e passione sono le due metà inseparabili di uno stesso intero, fornito di una logica bivalente, come del resto la stessa conformazione del nostro cervello. Da una prospettiva teolo-gica, Vito Mancuso ha eretto invece la passione a Principio stesso di Vita, in quanto solo la passione, nella sua ambiguità semantica, descrive al meglio la dinamica in cui si trova coinvolto il vivente, una dialettica di «logos e caos»,

nella quale ognuno di noi, riproducendo quella relazione armoniosa che è vincente nel cosmo e che permette il processo dell’“andare verso”, agisce nel bene comune, incidendo in maniera significativa nella vicenda evolutiva dell’umanità.

Una delle filosofe che ha più riflettuto su questo tema è Martha Nussbaum, che sottolinea l’importanza delle passioni per la definizione stessa di virtù e per il riconoscimento e la condivisione dei sentimenti altrui. Di qui la necessità anche di una «politica delle emozioni», perché nessu-na istituzione orientata alla giustizia può essere efficace senza un adeguato

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supporto emotivo. Appare perciò fondamentale promuovere modelli per produrre quelle emozioni – la compassione, la simpatia, l’amore – capaci di sostenere politiche di giustizia e di arginare al contempo gli effetti disgre-ganti, asociali di passioni quali la paura, la vergogna, l’invidia e il disgusto.

In conclusione, in qualsiasi ambito, la passione costituisce un tema di discussione imprescindibile ed è di fondamentale importanza per dar forza (è il caso di dirlo) a qualsiasi discorso che riguardi l’uomo in tutte le sue espressioni.

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