NUOVO ISTITUTORE
d’ Istruzione e di educazione.
Anno Dodicesimo.
SALERNO
STAB. T IP . N AZIO NA LE1880
.An n o
X II.
Sa l e r n o,30 G ennaio 1 8 8 0 .
N .1 1, 2 , 3 e 4 .
IL NUOVO ISTITUTORE
GIORNALE30’ ISTRUZIONE E » ’ EDUCAZIONE
P R E M IA T O CON MEDAGLIA D I ARGENTO
AL VII CONGRESSO PEDAGOGI CO.
Il g i o r n a l e si p u b b l i c a t r e v o l t e a l m e s e . Le a s s o c i a z i o n i si f a n n o a p r e z z i a n t i c i p a l i m e d i a n t e v a g l i a p o s t a l e s p e d i t o a l D i r e t t o r e . L e l e t t e r e ed i p i e g h i n o n f r a n c a t i si r e s p i n g o n o : n è si r e s t i t u i s c o n o m a n o s c r i t t i — P r e z z o : a n n o L. 5 ; sei m e s i L. 3 ; un n u m e r o s e p a r a t o di o t t o p a g i n e , C e n t . 3 0 ; d o p p i o C e n t . 30. Gi or na l i , l i b r i e d o p u s c o l i i n d o n o , s ’ i u d i r i z z i u o — A l l a D i r e z i o n e d e l N u o v o I s t i t u t o r e , S a l e r n o .
SOMMARIO — Il proem io del nuovo anno — L ’Elena d i Omero e la M addalena del
Vangelo, carm e del prof. A. Linguiti — Un dono del R icci — Le visite d i Capo danno — 1 m oderni poeti rea listi e i poeti Greci e L a tin i — Annunzi di buoni li
b ri— Biografia del R ezzi, scritta dal C agnoni— l versi della Fusinato— Un voca
bolario P avese-italiano — Un buon libro d i lettu ra — Cronaca d ell’ istruzione — In m em oria d i una brava educatrice — Carteggio.
LE SOLITE CHIACCHIERE DEL CAPODANNO.
---- - '*
----Che proprio ogni anno abbia a grattarm i la gnucca?
Parrebbe ormai tempo di smettere, poiché se a saper vita
e miracoli d’un uomo e sceglierselo per amico basta averci
mangiato il sale sette anni, noi corre già il dodicesimo anno
che mangiamo sale e minestra insieme ; sicché ci conosciamo
intus et in cute, come dicevano i babbi Latini, e ognun di
noi sa che panni si veste e qual via si tiene. Ma sì, queste
son belle e buone ragioni : entrano perfino nel mio povero
e piccolo comprendonio ! e quando una pulce m’ entrava in
un orecchio, susurrandomi, Che dirai tu a Capodanno, io la
mandavo alla malora, pronto e risoluto : O che, s’ ha da star
sempre al cerimoniale? Così me la sbrigavo, e cacciavo via
i molesti pensieri. Ma poi, rieccola lì la bestiolina insolente
a pizzicarmi nell’ altro orecchio— E se qualcuno, ghignando
e fregandosi le m an i, dicesse a mezza voce : O lo sapevo
ben i o , che la musa quest’ anno gli avrebbe fatto cilecca !
attingi oggi, attingi domani, non era mica il pozzo di San
Patrizio : finalmente la vena delle corbellerie s’ è inaridita,
e non ci rompe più i chitarrini con le solite filastrocche
del Capodanno — Minchione, se tei pensi, saltavo allor su io
stizzito ; chè zolfino sono stato sempre la mia p a rte , tutto
che già negli anni della discrezione, e mi sentivo un diavolo
per capello e in vena di schiccherar non so quanti proemii
e discorsoni, compagni a quelli, che al tempo dei tempi le
varono il rumor grande in una terra di Toscana — La sai
tu la storia, mio bel musino? se non la sai, e io te la conto:
sta a udire.
A Siena (lascio nella penna gli aggettivi per non tirarla
in lungo e farti cascar morto dal fastidio); a Siena, dunque,
c’ era una volta un brusio di g en te, con cert’ aria dipinta
nei volti come di grande aspettazione per cosa insolita e
solenne. Correvan tutti a una grande sala, parata a festa,
e il sommo Padre Alighieri avrebbe detto:
E d’ accalcar nessun si mostra schivo.
Dispostisi alla meglio, scambiavano occhiate e sorrisi e pa
rolette e scommesse, e forse altro a n co ra , intanto che le
campane dindonavano, e non iscoccasse l’ora giusta. S’era
in fin d’anno, o al primo dell’ anno nuovo, proprio com’ oggi,
se così torna meglio ; e per antica costumanza ( se lodevole
o no , non è affar nostro ) , i m agistrati che lasciavano il
mestolo, e i nuovi che lo pigliavano, doveano fare un discorso,
appropriato, s’ intende, alla circostanza. Quelli, traendo un
sospirone a pieni polmoni, davano a bere ai gonzi d’ esser
lietissimi di scaricarsi le spalle della grave soma del potere,
e poi, per contentino, belavano il panegirico delle loro glo
riose gesta: gli altri, cioè i nuovi, con un viso da madonnine,
dicevano di sobbarcarsi al grave incarco di contraggenio, e
umilmente sfilavano la corona delle ardite e ambiziose ri
forme: (storia vecchia, eh’è sempre nuova.) Non tutti aveano
da recitar la commedia, ma i protagonisti solamente, eh’ è
dire i capoccia delle due compagnie; e questi capoccia o
capitani del popolo, come si chiamavano, erano allora due
cotali messeri, che, dice il Gigli, avevano le lettere dove
1’ hanno i cavalli regnicoli. Sarà così, e mi rimetto ; ma io
scommetterei che fosser due begliumori e capi ameni nu
mero uno, i quali si dilettassero di canzonare il prossimo.
Ma sia pure che le lettere le avessero nei piedi di dietro o
in quelli d’ avanti, il fatto è che il capitano, cui toccava per
primo a concionare, dato del naso nell’ a ltro , che doveva
rispondergli, chiappando il potere, disse, senza preamboli:
Sai coni’ è, amicone? di chiacchiere ormai n’ abbiamo tutti
piene le tasche. Io vo’ fare un discorsino, che non se n’ è
visto nè udito mai il più breve e conciso. E 1’ altro : Ma sì,
quando mai le chiacchiere lian fruttato pane alla gente?
sono una noia per chi le dice, e un fastidio per chi le ascolta.
Quanto al discorso poi, vedrai che se breve il tuo, il mio
sarà brevissimo, e rim arrai a bocca aperta — Io a bocca
. aperta ? ma scherzi, ve’ : fa conto che i Laconi non potrebbe
ro portarmi le ciabatte dietro ; sì udrai sermone rapidissimo,
vibrato — Baie, baie, caro mio : se dalle officine di Sparta
uscito sei tu, non creder mica eli’ io sbucassi da quelle d’Asia,
dove si fanno i brodi lunghi e le pappe frullate. Vedrai se
son tomo io da pigliarti sotto gamba.
E le parole furon molte e vivaci, che parevano gli ora -
tori più chiacchieroni, che contendesser di brevità con tanto
scarrucolìo e lusso di frasi. Entrò gente per lo mezzo ; chè,
come uomini di mano più che di penna, sarebber venuti
forse ai capelli ; e fu detto :
A l l a p r o v a s i s c o r t i c a l ’a s i n o .La cosa naturalmente era andata per mille bocche e per
mille orecchie, e , com’ è solito, chi teneva per 1’ uno , chi
per 1’ a ltro , e tutti si morivan dalla voglia di veder come
andasse a finire questa nuova specie di lite. Quando fu ora,
comparvero sul trono gli aspettati oratori: quegli che la
sciava il potere, vestito in ghingheri, che pareva una sposa,
e impettito e grave come un pavone, recatosi in mano lo
scettro d’ argento, con sembiante altero e maestoso, disse
all’altro, secco secco,
t o ’ ;cui con altrettanta sicumera e
ariona da Giove Olimpico, allungando la mano, non meno
prontamente 1’ altro rispose,
m o ’— La gente rimase lì come
berlicche, stupida, assonnata; ma, riavutasi poi da quel su
bito stupore, ruppe in una sonora e grassa risata, lasciando
ai posteri V ardua sentenza.
Quest’ è storia scussa scussa, a cui non aggiungo un’ ette :
la riferisce Girolamo Gigli a carte 156 del suo vocabolario
Cateriniano (Firenze, Tip. Giuliani, 1866), e il Gradi vi tesse
su un raccontino dei più leggiadri e saporiti, che si possano
immaginare : il quale raccontino io vo’, lettore m io, che tu
gusti, acciocché ti rifaccia la bocca amarognola pel modo
sciatto e scipito com’ io te l’ho cucinato 1 —. Ora, tornando
al chiodo, non ti pare c h e , mutate le m utande, aneli’ io
possa cavarmela con un monosillabo ? Un anno che tram onta
e un altro che spunta, non ti ricordano i famosi capitani
di Siena? Esce uno, entra l’altro: depone quegli lo scettro,
1 C o stu m a v a negli antichi tempi d ella repubblica n ostra, ( il G igli è Senese) che quando alla fin dell’ anno il M ag istrato e tu tto il corpo di Signoria uscivano di Governo, i vecchi e i nuovi Signori si raccogliessero in u n a delle più g ra n d i sa le del palazzo pubblico, e quivi a lla p re se n z a di tutto ’l popolo i primi c o n se g n a v a n o p ubblicam ente ai secondi le in s e gne del potere e i distintivi dei gradi. O ra un tal anno av v en n e che colui, che d oveva far le consegne e re c ita r p e r tutti l’ a r r in g a d’ u s o , fosse un tal uomo, e e ra C apitan del p o p o lo , piu ttosto m a t e r i a l o n e , e c h e , al dir del Gigli, a v e a le le ttere dove 1’ han n o i cavalli regnicoli; e l’ altro, che e r a p e r succedergli nella c a ric a e c h e con un’ a ltra a r r i n g a dovea rispondergli, dice che le a v e sse p u re nelle s te s s e parti, o giù di li. E discorrendo fra loro qualche giorno innanzi di q u e s ta funzione, vennero a dire dell’ a rrin g a , c o sa che a tu tt’ e due d a v a g r a n p e n s ie ro ; e dopo a v e r discorso a b b a s ta n z a e a n c h e troppo, quello vecchio concluse che avrebbe fatto il possibile per dire meno parole che s a p e s s e , chè le troppe avreb b ero noiato gli altri e più sè stesso. A llora il nuovo che a v e v a appunto p e r la m ente u n a c e r ta s u a b rev issim a orazione sog giunse :
« M essere, p er quanto breve vo’ sia te p e r e s se re , non s a r e te mai brevissim o quanto m e ».
Di che punto ’l com pagno, nè volendo esse re s o v erch iato , disse e disse con molto c a lo re ; e siccome a v v i e n e , u n a p a ro la tir a l’ a ltr a , andò a finire che fecero sc o m m e s s a a chi sa re b b e più breve. Questo sp a rso si p re s ta m e n te e con g r a n d e m eraviglia p e r tu tta la c it t à ; si s t a v a con m olta a sp ettazio n e di quel giorno e di quelle orazioni, tanto più che ognun s a p e v a dove quei signori a v e s s e r le lettere.
toc-lo raccatta questi : a
t o ’risponde
m o ’ ; che vuoi dunque dipiù ? Ma c’ è dell’ altro ancora. A Capodanno corrono le
strenne, le mance, i regali, e non c’ è mensa che non abbia
la sua pietanzina di gala e il boccon ghiotto. È vero che la
mia dispensa è povera e nulla offre di bello e di gustoso
al palato ; ma la carità fiorita degli amici m’è stata sempre
larga e cortese, e, non fo per dire, al mio desco fumano a
volte delle vivande, che potrebbero ornare la tavola del
Gran Sultano. O ra , se io porgendoti questi lacchezzi che
qui, ti dicessi —
t o ’ ;tu non allungheresti il braccio con
un prontissimo — m o ’ ? E di roba ghiotta n’ ha da venire,
sai ! Dunque è fatto il becco all’ o c a , e Laus Deo, disse
suor Chiara.
Salerno, il primo del 188C.
Il Nuovo Istitutore.
L’ ELENA 01 OMERO
E L A M A D D A L E N A D E L V A N G E L O---
---Pa r m e d i ^Al f o n s o J -i n g u i t i.
D i questa poesia del L in g u à i riportiam o qui soltanto la p a rte che si riferisse alla M addalena.
Era Maria
Il più bel fior delle fanciulle ebree:
Era un molle languor negli occhi suoi,
Era un riflesso de’ suoi cieli. Vaghe
c heggiava, la Signoria si racco g liev a nella sala, e i cittadini correvan per sentire 1’ a t t i n g a : la festa p a re a più solenne che negli altri anni. E d ecco, che compite quello cerimonie che la g ra v ità della funzione e P uso dom andavano, il Capitano uscente si volge dal trono, collo scettro d’ a rg en to in m a n o , al suo s u c c e s s o r e , e porgendoglielo con g ra n d e prosopopeia e muso duro gli dice:
« T o ’ ! »
A cui l’ altro, afferrandolo con altre tta n to di tutto, risp o n d e ; « Mo’ ! »
Sopra 1’ eburnee spalle in pioggia d’oro
Scendean le chiome. Dalle sue sembianze,
Dalla sua fronte un’ alma trasparia
Ancor del bacio dell’ Eterno impressa,
E in ogni accento, in ogni sua parola
E ra un suon di quel bacio, ed una pura
Arcana voluttà piovea ne’ petti.
Vaga di solitudine, pensosa,
Quando alle cure della vita intenta
Era la sua sorella ; essa tra ’ fiori,
F ra le m irre odorate e gli odorati
Cinnamomi solinga errava, assorta
In quelle pure immagini che desta
Il mattin della vita. E desiosa
Dalle labbra pendea della sua madre
Che ricordava i dì beati, quando
E ra la terra più vicina al cielo,
Quando pei clivi e per le ombrose selve
Il remeggio si udia d’ angelich’ ale
Messaggere di pace. E spesso a’ casi
D’ Agàr, di Ruth intenerita molli
Sentia gli occhi di pianto. E quando ogni anno
Su’ colli d’ Istraello irradiati
Dal purpureo tramonto, unite a schiera
Le giovinette ebree gemean sul fato
Della figlia di Jefte; oh come allora
S’ udia fra tante risonar distinta
La voce di Maria che diffondea
Una dolce tristezza!
Oh perchè mai
Nata ad essere in terra inno e profumo
E contemprarsi all’ armonia perenne
Che da tutto il creato a Dio s’ innalza,
Ella da’ cieli vagheggiati al suolo
La sua fronte converse, e affascinata
Dalle umane lusinghe, in un momento
D’abbandono e d’ obblio nelle terrene
Mentite voluttà s’ immerse ? E pure
Era ancor grande nella sua ruina;
In quel cor l’ Infinito avea dischiuso
Un vuoto immenso, e solo l ' Infinito
Potea colmarlo. Il suo sublime istinto
Era qual fiamma che compressa al suolo,
Al ciel sempre si aderge; era fuggito
Da quell’ anima Iddio, ma di sè stesso
Vi avea lasciato un’ orma. E ne’ banchetti
Infra le danze su’ tappeti assiri,
In mezzo all’ orgie il tedio 1’ assalia
E dicea ne’ sospiri: oh chi mi rende
11 candor dell’ infanzia ? E qual chi sogna
E sorridere vede una lontana
Oasi in un deserto, e a quel sorriso
Anela invan, chè al suo desio contrasta
L’ indocil piede; alma inquieta ardente
Alle serene conosciute altezze
Dagli abissi in cui cadde, ella sospira;
Ma sempre indarno. E crebbe la penosa
Ansia dal dì che udia la prima volta
Del Nazzaren la voce. Era la sera
D’ un bellissimo giorno; e dove 1’ ombre
Un palmeto spandea, fra le seguaci
Turbe devote, mesto s’assidea
Il Redentor, chè tutte al suo pensiero
Dell’ umana famiglia eran presenti
Le colpe e le sventure. Ecco ad un tratto
Si rasserena la sua fronte: ei vede
Uno stuol di bambini, e grida ai suoi :
Oh lasciate che a me vengano: in quei
Cuori innocenti Iddio si specchia. E a lui
Venia la schiera de’ fanciulli ; ed uno
Gli si assidea sulle ginocchia: un altro
Più confidente ed amoroso al collo
Gli si avventava: un altro gli diceva:
Perchè non vieni nelle nostre case
Ad allegrar del tuo cospetto i nostri
Giochi innocenti; un altro i pinti fiori
Gli offria che in sul mattin raccolti avea
Per adornarne della madre il seno
-E averne in premio un bacio; e un altro ancora
Con più soave affetto: oh mi sorridi!
Oh mi sorridi ! è dolce il tuo sorriso,
Com’ era quello della madre mia,
Che mi lasciò deserto. E il Redentore
Tutti al suo seno ad uno ad un stringea,
Con infinito amor benedicendo
A que’ semplici cuori. Era Maria
Tra la folla confusa a quella scena
D’ amor presente, e un turbamento arcano
Sentia nel cor: parean quelle parole,
Quelle carezze agl’ innocenti bimbi
Un rimprovero amaro a lei caduta
Di sua bella innocenza. Ahi! da quel giorno
Velato è di mestizia il suo sorriso,
Dolce desio di tanti cuori; e spesso
Le apparia quell’ immagine divina,
Quei fanciulli innocenti, e si fea mesta,
Si fea pensosa in volto, e le pupille
Sentia di pianto inumidirsi. Amari
Crudeli disinganni in breve tempo
Attoscar la sua vita. E nel dolore
Si ricordò del giovine Profeta
Che avea veduto un giorno. E, andrò da Lui,
Dicea nel pianto: una virtù d’ amore
Che purifica 1’ alme e le sublima,
Spira dagli occhi suoi, la sua parola,
Il suo sorriso è balsamo celeste
Sulle piaghe de’ cuori e le richiude.
A lui ne andrò: lui solo amare io voglio;
Oh se poca mortai caduca argilla
Con tanto ardore vaneggiando amai,
Che non farò di Lui? Cosi dicendo,
Move, ma senza il serto e senza i vezzi
Onde pria si adornava; e per la via
Non sorrise a color che salutando
La dicevano bella, e non raccolse
I fior che le gittavano sul capo.
Giunse in riva d’ un lago. Il Redentore
Dall’ alto d’ una barca a le raccolte
Turbe parlava; e di natura il riso,
II cielo azzurro, le tranquille e pure
Onde del lago, quei soavi incensi
Che intorno vaporavano, le note
De’ vaganti augelletti erano un’ eco
Alle dive parole. Ella s’ inoltra,
E atteggiata di lagrime e dolore
Si fa d’ appresso, e le parole ascolta
Consolatrici d’ ogni duol: Beati
Quei che piangono in terra ! A questi accenti
Ella si prostra, e grida: 0 Redentore,
Una son io che piango: alma di foco
E d’ amore assetata io Te cercava
Nelle cose terrene; e non trovai
Che poca polve, e tutta la mia vita
Altro non fu che pianto. Or ti ritrovo,
Infinita Bellezza, e 1’ amor tuo
Piangendo imploro. 0 Tu, eh’ odi la voce
Fino dell’ erba inaridita, e mandi
Ad avvivarla le rugiade e il sole,
D’ un core infermo il flebil grido ascolta;
A quest’ anima mia che inaridissi
Fra le terrene voluttà, sia sole
Un tuo sguardo pietoso, e sia rugiada
La tua diva parola. Intenerito
Gesù la guarda; e il verginal candore
A quell’ anima torna. 0 Cherubini,
Esultate nel ciel, la rara perla
Che caduta nel fango era, sfavilla
Di più splendida luce, e fatta è degna
D’ ornar la vostra fronte; il vago fiore
Su cui strisciò lubrico verme, or manda
Un’ eterea fragranza. E da quel giorno
Non vagheggia la mesta altro, non brama
Che inebbriarsi in quel divino aspetto
E tutta immerger 1’ anima in quegli occhi,
E imprimere nel cor quelle parole
Di pace e di perdono. E i suoi vestigi
Ella segue per tutto. In sulla via
Che da Betania a Solima conduce,
Sorgea modesta casa; e bellamente
Delle rose di Gerico, de’ gigli
Che molli di rugiada in sulla riva
Del Cedron colse una virginea mano,
Eran le soglie adorne. In sulla mensa
In vasi inghirlandati è il mel di Mambre,
Le melograne, i fichi del Carmelo,
L’ azzimo pane, i grappoli dorati
E P agnello pasciuto sopra i monti
Di Galaàd, il vino delle belle
Vigne d’ Engaddi che amorosamente
Bacia il sol meriggiano. A quel fraterno
Desco Gesù si asside. Egli presago
Della prossima fine un tenue velo
Di mestizia ha negli occhi, e dalla fronte
Da’ suoi lunghi capelli incoronata
Spira un’ aura d’ amor. Gli sta d’ appresso
La madre, e sul divin petto reclina
Il biondo capo il giovinetto amico,
Casto e soave apostolo. Un’ immensa
Moltitudine accolta in sulla via
Grida oli’ ospite osanna, ed un, con grato
Tenero affetto, esclama: erano inerti
Queste mani che a te supplici innalzo,
E tu moto lor desti; e un altro: cieche
Erano queste ciglia, e tu la luce
Del sepolcro giacea, ma di tua voce
Al suono io mi riscossi, e vidi il giorno
Ed abbracciai la madre.
Ecco si vede
Maria fender la folla. Essa è ancor vaga,
Ma di solchi profondi il duolo impresse
Il volto suo, le lagrime offuscato
Le hanno il lampo degli occhi: ha nelle mani
Un’ urna piena d’ odorosi aromi
Soave essenza di leggiadri fiori
Su’ margini d’ un’ oasi cresciuti
In lontani deserti; e grida: i vili
Han statuita la sua morte : io voglio
Questi occhi inebriar 1’ ultima volta
Nel suo divino aspetto: io voglio offrirgli
Quanto di più soave ha la natura
E di più puro ha 1’ anima immortale,
Il profumo dei fiori, ed i sospiri.
Ed entra nel triclinio, e nella polve
Lagrimando si prostra, adora, e i piedi
Del Redentor coll’ odoroso unguento
Unge e bagna di pianto, e colle lunghe
Chiome li asterge; e su quei piè le labbra
Contaminate da profani amanti
Purifica co’ baci. E poi si leva
Accesa in volto di celeste ardore,
E 1’ urna infrange e 1’ odorato nardo
Sopra il capo divin versa e profonde.
E pel triclinio come per un bosco
D’ aromatiche piante a’ primi raggi
Del sol si sparge la fragranza intorno.
Ma del diffuso aroma è più soave
L’ olezzo di quell’ alma ! i commensali
Sono rapiti a quel sublime e novo
Spettacolo d’ amor: sembra la sala
In un tempio conversa, ove 1’ Uom-Dio
Tutta al suo seno in quella donna accoglie
L’ Umanità che dopo i lunghi errori
Purificata dai sofferti affanni
A Lui ritorna. 0 tu che ascondi in petto
Il tradimento, 1 oh taci, oh non si turbi
Quest’ estasi d’ amor colle parole
Che 1’ odio al cor t’ ispira. Oh taci ! questa
Donna che irridi, or nell’ amore attinge
Un sovrumano ardire. Eccola, a’ piedi
Della montagna dolorosa, immota
Intrepida agli scherni, a’ vili oltraggi
D’ una plebe efferata, 0 Redentore,
Quello che deprecando allontanavi,
Calice di dolor, non era il bacio
D’ un traditore, il Golgota non era,
Non la croce ed il fiele: era de’ tuoi
Il codardo abbandono. Anche ad un Dio
Che vittima d’amor sè stesso immola,
Trista è la solitudine del cuore
Ne’ supremi momenti. Ahi ! troppo dura
È la via del Calvario a chi non vede
A sè d’ intorno una pietosa mano
Che gli asterga le lagrime, uno sguardo
Che gli sorrida, un’ amorosa bocca
Che fra gli scherni e fra gli amari oltraggi
Gli rivolga un addio. Ma, o Redentore,
Tu non sei sol : v’ è un’ anima soave
Che non conosce oblio, v’ è un cuor di donna
Che palpita per te d’ immenso amore.
Ella segue i tuoi passi; e dove Torme
Imprimi, ella si curva e pon le labbra, e bacia,
E col suo velo dalle rupi asterge
Le stille del tuo sangue, e le vermiglie
Zolle raccoglie ad una ad una, e sale
Chiusa nel suo dolore; e a piè si pone
Della tua croce, e mai da te distoglie
Giuda.L’ umide sue pupille. E quando 1’ ombra
Della morte ti avvolge, in lei lo sguardo
Contristato affisando, in lei contempli
Dell’ amore il trionfo, e la sublime
Voluttà del morir senti, ed in pace
Lo spirto ultimo esali. 0 Maddalena
Che cor fu il tuo? che lagrime, che voci,
Quando degli occhi che ti avean sorriso,
Spenta vedesti la serena luce,
Quando la fredda esanime sua spoglia
Deposer nella tomba ? Ahi tu col cuore
Dal dolor straziato il sacro capo
Tremolante reggevi, e la sua fronte
Lagrimando baciasti anche una volta,
Pria che la pietra del sepolcro a’ tuoi
Occhi per sempre 1’ ascondesse. 0 Dio !
Che orrenda solitudine deserta
La terra ti sembrò, quando la sera
Dal calvario scendesti ! E 1’ alba nova
Non era apparsa in ciel, quando seduta
Presso al sepolcro scoperchiato e vuoto
Nel pianto ti struggevi: oh chi mi ha tolto
Il mio tesor, nè pur le fredde spoglie
Riveder mi fia dato ! Ecco t ’ investe
Eterea luce, e a nome odi chiamarti;
— 0 Maestro ! oh sei desso!— Ebbra d’amore
Ebbra di gioia alla città trasvoli,
È risorto ! gridando. Avventurosa !
Egli pria che alla madre e agli altri eletti
A te, ( dell’ amor tuo degna mercede ).
Vincitor della morte apparve, e prima
Dalle tue labbra uscì quella parola
In cui riposa ogni mortai speranza.
PHANTASMA
JU X T A A N IL E S F A B E L L A S V E R N A C U L A VOCE
La Befana.
Questo carissimo dono ce l’ invia da Firenze l’ illustre
p. Mauro Ricci, e gliene rendiamo le meritate grazie con
tanto di cuore.
V e s p e r ad est, pueri, ja m p ro m p ta e s t coena, silete; J a m coctae fu m a n t oh bene! lance fabae.
N a m c o e n a re fab as aviae docuere vetustae, Queis colus et fusus p e n s a d iu rn a dabant. N u n c fusus la tu it; c alam o s librosque lacerto
Suspensae, m a tre s m a g n a L y c e a petunt.
Stultorum que senum juvenum que a d s ta n te c o ro n a, G arritu et nugis itala fa ta novant.
T alibus o nugis q uantum jucundior olim F a b u la , q u am pueros c u r v a d o c e b a t an u s! Scilicet unde foci se em ittit fum us in a u r a s
B r a c a m su sp en d i c u rv a do ceb at a n u s ; H a n c inventuros primo nos m a n e re fe rta m
C rustis et pomis casta n e isq u e novis.
C ru s ta et p o m a bonis, cin eres et s a x a protervis, Qui m a tris fra n g u n t vel p a tris imperium. V el qui, lu dendo, fra tre s a e ta te m inores
L a e d e r e su n t ausi seu p ede sive manu.
Vel qui dum s a c r a s cum m a tre p re c a n tu r a d a r a s , H uc illue oculos v e rte re s a e p e solent.
Vel quos ingluvies turpis d o m in atu r, et a u su Infando e m e n s a dulcia subripiunt.
H a e c plectit P h a n t a s m a v a g u m quum lab itu r ingens E tecto, a c pueros, nocte silente, premit.
E r g o a l a c r e s lectum nullo r u m o r e p eten tes H a e c tacite secum quisque loquatur ien s:
1 « Neu, P h a n ta s m a , precor, neu me, P h a n t a s m a , ferito; « N a m q u e edi panem ja m satis atq u e fabas. « E t mihi ventriculus re s o n a t durissim us ilio,
« Quem p u ls a ta m an u ty m p a n a d a n t sonitum.
M. Ri c c i u s.
1 Ita versa est illa vernaoula n aen ia, quam puelli in praeludio Theophaniae re citare solebant :
Befana, Befana, non mi b u care, Ho il corpo duro duro,
LE V IS IT E DI CAPODANNO
CANZONE d’ IN C ER T O AUTORE
Nel Borghini, giornale di filologia, fondato dal Fanfani
ed egregiamente continuato dai signori Arila ed Alfani, tro
viamo questa graziosa poesia che ci piace di riportare:
Chi diavolo inventò q u e sta se c c a g g in e , E v e ra babbuagine,
D’ a n d a re in questo giorno P e r la cittade intorno,
A far s a lam elecch i e complimenti Agli amici, ai parenti,
Ai gran d i, ai b a rb a sso ri, Ai ricchi, ai protettori ?
M a si può d a re al mondo, in verità. U n a più m a d o rn a l bestialità,
Di s ta r e in c a s a li
Confitto come un palo tutto il di, Ad a s p e t t a r che v en g a questo e quello, A levarsi il cappello,
A fa r la cerimonia?... u n a più in san a C o stu m an za di questa,
Di g a lo p p a r per una s e ttim a n a A far visite e rom persi la te s ta ? Ma, di g ra z ia , da tutto
Q uesto, che ben, che frutto Se ne ric a v a ? In breve
P e r dirla, p e r chi va, per chi riceve N on è un disturbo q u e s t o ,
Un fastidio molesto ?
M a pu r se u n a siffatta pestilenza F in isse qui, pazienza!
N on è m ica cosi! S ap ete voi Quel che succede poi ? Mille ciarle si fanno Dell’ un dell’ a ltro a danno P e r c h è 1’ un dice : — il tale Son ito a v i s ita r e ; oh com e m ale
P a r e a , sulla m ia vita,
P roprio un sacco di paglia... E la su a figlia? Che o rrore! E lla somiglia
A u n a m a r m o t t a ; nulla
Non s a parlar... che s tu p id a fanciulla! V ’ e r a poi quell’ amico
Siffatto, e non vi dico
C he occh iate gli s g r a n a v a di soppiatto, Così di tratto in tratto ,
Quella m a t t a civetta
Di s u a madre... L e v e n g a una s a e t t a ! — E la moglie al m a rito :
— Ci è s ta to quell’ allocco scim unito Del tale... È pu r venuto quel signore, E tern o s e c c a to r e ,
Che con quelle su e lezie cosi fatte F a c e a venir alle ginocchia il latte. Io non v e d e v a l ’ o ra
C he a n d a s s e alla m alora.
E r a insiem e con lui 1’ altro pimmèo Del tale... Che b a g g è o !
Vuol fare il g ra n d e , il bello, il dam erino,
N è h a mai in sa c c o c c ia il becco d’un quattrino... — H ai tu veduto (d ice
Un altro poi) M a d o n n a B erenice C om e tu tta a ttilla ta
EU’ era, e con la faccia im bellettata? Che stom achevol donna!
È d a g r a n tempo nonna,
E vuol far la vezzosa e la g a la n te Con quel suo sciocco am ante.
N o n h a un tantino di v e rg o g n a in faccia! — Questi qui, in so m m a, ed altri som iglianti
Discorsetti si fan d a tutti quanti, E ognun a più non posso Ti trincia i panni addosso. 10 che non voglio niente
S a p e r de’ fatti altrui, nè che la g en te I miei pu r s ap p ia nè punto nè poco, N on vado in n e s s u n loco
E non voglio n ep p u r che alcun si dia 11 pensier di venire in c a s a mia. Io queste feste a s p e tto ,
E ve lo dico schietto,
N on m ica per a v e r siffatta noia Di c o rre r p e r le c a s e in su e ’n giù M a per p a s s a rle in s a n t a pace e gioia, E in divertirmi quanto posso più.
E d è inutil c h e brontoli più d ’ uno, C h ’ io g ià p er me non ci fo caso alcuno. Chè d’ amicizia il nodo
C onsistere non faccio in nessu n modo In cose che non valgono uno z e ro ,
M a in un cuore sincero.
I M O D E R N I P O E T I R E A L IST I
E I P O E T I G R E C I E L A T IN I.
Ci h a ai nostri giorni p arecchi critici, i quali credono che, a d a r vita alla poesia m o d e rn a e a r e n d e rla sana, sia n ecessario spopparla da u n a v ecch ia fede tr a m o n t a t a p e r s e m p r e , e rico n d u rla alle fonti della c lassica a n tic h ità , m ortificata dalla interm ittenza medievale. 1 E in questo ritorno al vecchio p ag an esim o fanno alcuni poeti contem po ranei consistere la perfezione delle loro poesie. M a è possibile rip ro d u rre l’ a n tich ità p a g a n a ? ( n o n parlo di ciò che v’ h a in e s s a di uni versale , m a di ciò che dipende dalle particolari condizioni della s o cietà di que’tem pi). Io non credo. Y ’ è nella le tte ra tu ra u n a evoluzione di forme che co rrisp o n d e ai nuovi s tati dello spirito umano. Uno stato psicologico diverso g e n e r a di p er sè u n a form a le tte ra ria diversa. E chi si ostina a rip ro d u rre un mondo defunto , p o trà forse r itr a r r e le sem bianze d ’ u n a vita p o s tu m a ; m a non p o trà mai d a re all’ o p e r a su a il s a n g u e e 1’ an im a d’ un o rganism o novello.
Se la coscienza m o d e rn a è tanto div ersa dall’ antica, com e è p o s sibile ric h ia m a re in vita u n a poesia c h e a quella non più corrisponde ? Q uante cose sono n ella coscienza m o d ern a, che non erano nell’ a n tic a ? Le n ostre i d e e , i nostri sentim enti, i nostri affetti sono diversi : il piacere stesso noi lo sentiam o altrim enti dagli an tic h i; nel piacere noi proviamo am ari aliquid, come diceva Lucrezio. Gli a n tic h i, se non eran o gai e spensierati, come dicono alcuni; ce rta m e n te sentivano il dolore meno p ro fondam ente che noi. N elle n o stre aspirazioni s te sse vi è un so che d’ in
1 V. Il D ritto, an. 1877, e propriam ente l’ articolo del T rezza sulle Odi B arbare del Carducci.
finito. Il concetto della vita u m a n a è più g r a v e , le intuizioni più la r g h e ; il sentim ento della n a t u r a a noi non b a s ta , com e agli antichi. L ’Infinito h a s c a v a to n e ’ n ostri animi, come dice il L a c o rd a ire , un abisso, che l’ In finito solam ente può adem piere. L a n a t u r a vi g e tta la s u a im m en sità ; m a che g io v a ? Tutto al più ella non riesce a d altro che a ca g io n a rv i la illusione di u n i p ie tra che cade in un ab isso : l’ abisso la riceve, ne rintrona, e rim an e quello che era. Agli antichi la n a tu r a e r a più g ra n d e e più profonda che non è agli occhi de’ m o d e rn i: in e s s a noi abbiam o disc o v e rte relazioni nuove che p rim a non si s o s p e tta v a n o neppure. R a c c o n ta v a il L a m e n n a is che, p a s s e g g ia n d o un giorno s u ’ bastioni di Saint Malo, all’ asp e tto del m a re sollevato d a u n a violenta te m p e s ta , c re d e tte di ved ere l’ infinito e se n tire Iddio, e stu pito di ciò che av v e n iv a n e lla s u a anim a, m irando la folla, disse fra sè: E ssi guardano ciò che io guardo, m a non veggono ciò che io veggo. 1 Lo s te s s o noi possiam o dire degli antichi : E ssi guardavano nella natura ciò che n o i guardiam o , m a non vi vedevano ciò che noi vi vediam o. L ’ epicureismo antico che tu tto c o m p e n diava nel m om ento p re s e n te , oggi e divenuto impossibile. Orazio c e r c a v a di rim uovere d alla vita il d i là , com e u n a tentazione inquieta e perico lo sa. Ciò e ra forse conceduto agli a n tic h i, m a a noi non è possibile. Quel di là è e n trato nel nostro m on d o in te r io r e , ed è vano s p e r a r e c h e p o s s a e sse rn e bandito. A nche quelli che s e m b r a sieno intesi u n icam en te alle cose di q u a g g iù , « c e rc a n o s u lla t e r r a u n c e rto che di p i ù , un certo che sm isu ra to , che p rim a non si soleva... Gira tu tta v ia 1’ u m a n ità intorno a sè s t e s s a , e si m uove p e r l’ in te re sse più vicino , com e in antico ; m a d a Cristo in poi ella è t r a s p o r t a t a a n c h e d a un moto di ascen sio n e verso il cielo, n ella m e d e sim a g u is a che il p ia n e ta dov’ ella si m uove, e simile gli altri pianeti, oltre che si r u o ta n o in sè e girano atto rn o al sole, sono tirati con esso il sole verso un più lo ntano c e n tro. » 2 Donde nasce, se non d a questo , quella b a tta g lia c h e se m p re ferve in noi, e che gli antichi non s e n tiv a n o , o non sentivano come no i; b a tta g lia fra l’ ideale e il reale, fra i sogni dell’ a n im a e le leggi d ella n a t u r a , t r a l’ infinito del sentim ento e la limitazione del pro g resso .
Or, se n ella coscienza m o d e rn a è 1’ aspirazione a ll’ ideale e all’ in finito , è il dolore più pro fo n d o , è il dissidio e il c o n tra sto com e t r a due mondi contrarii ed opposti; come è possibile quello che si p ro p o n gono alcuni poeti m o d e r n i , cioè to g liere l’ infinito dalle a sp ira z io n i e d alla n a tu ra , bandire il dolore, s fro n d a re la c orona che il C ristianesim o h a messo sulla fronte della donna ? Come è possibile r ito r n a r e alla se n s u a lità p a g a n a , o sim u lare u n a s p e n s ie r a ta g a ie z z a c h e non e r a n e p p u re negli a n tich i? Come si può far rivivere nell’ a r t e il p a g a n e s i m o , se l’ idea c ris tia n a sfolgora d a tutte le p a r t i , d a tutti i m arm i
1 Ca r o, No u v e l l e s Et u d e s m o r a l e s, P a ris, H achette, 1869.
scolpiti, d a tutte le tele dipinte, da tutti i libri scritti d a diciotto secoli in q u a ? se, insom m a, è in tutto, ed è in tutto, perch è s ’è im m e d e sim a ta con la n o s tr a coscienza? Ho qui innanzi alcune poesie di un gio v an e p o e ta , che ap p artien e a lla scuola nuova. Apro il libro a c a s o , e mi imbatto ne’ versi che seguono :
E m ergon trepide d a ’ flutti vitrei 1’ ude Nereidi ne ’l vel di po rp o ra , e canti arm oniosi
giù pe’ declivi mescono :
— Cintio p re c ip ita , gli alcioni gemono ; noi siam l’ equoree figlie di D o rid e;
cantiam , dolci sorelle, i trionfi di V enere!... I cieli ridono, 1’ onde fiam m eggiano ;
noi siam le fulgide perle oceanidi; cantiam , dolci sorelle,
gli strani am or di Tetide. 1
In questi versi ce rta m e n te è da lodare la eletta f o rm a ; m a l’ animo del le ttore rim ane interam ente e s tran eo a quanto vi si dice delle ude N ereidi, di Cintio che p re c ip ita , di A lc io n i che g e m o n o , delle equoree Jìglie d i D o rid e, de’ trionfi di Venere, degli strani am ori d i Tetide. — Ma ci è il sentim ento della n a t u r a ; s ì , m a n ella manifestazione di esso ci è più di rem iniscenze c l a s s i c h e , che d ’ intuizioni nuove e s i n c e r e , ci è più P o p e ra dell’ im itatore che la s p o n ta n e ità della ispirazione : la n a t u r a vi è r a p p r e s e n t a t a , non come la sentiam o noi ; m a come la sentivano gli antichi. M a p er gli antichi la c o sa p rocedeva ben a ltri menti ; in essi il sentim ento si co m p e n e tra v a con la m itologia : p e r essi i miti non erano astrazioni sim b o lic h e , m a form e viventi: non erano m orte m etafore prive del sentim ento da cui ebbero origine , m a vive re altà. E pure spesse volte gli antichi s t e s s i , posti da b a n d a i miti , e sprim evano, con la s t e s s a sincerità delle impressioni ric e v u te , le bel lezze naturali. Q uanta sch iettezza di sensazioni in Orazio! Vedete come d escriv e, se n z a rico rrere alla mitologia, la quiete d’ u n a d im o ra c a m p e s tre :
Quo pinus ingens albaque populus um bram hospitalem consociare am an t ram is, et obliquo laborat
lvm pha fugax trepidare rivo.
(Od. II, 3.)
Cosi pure descrive il fresco antro di A lbunea, le c ascatelle dell’Aniene e i boschetti di Tivoli:
. . . . domus Albuneae resonantis et praeceps Anio ac T iburni lucus et uda mobilibus pom aria rivis.
( Od. I, 7. )
N è altrim enti r itr a e il vepre c h e crolla al ven to le su e fo g lie, e il r a m a r r o c h e sguizza dal ro v o :
. . . . seu mobilibus vepris inhorruit ad ventum foliis, seu virides rubum . dim overe lacertae.
( Od , I, 23)
— Ma io (p otrebbe dire a lc u n o ) r a p p re s e n to m e stesso , indipendente m e n te d alla so cietà e d a ’ tempi. M a questo, come n ella vita fisiologica, cosi nella vita dello spirito s a re b b e uno s tr a n o fenomeno. L ’ ingegno quando o p e ra s p o n t a n e a m e n t e , p roduce se m p re secondo l’ am biente storico che lo c irc o n d a , n ella s te s s a g u is a c h e ogni p ia n ta risen te del c lim a , e si svolge div ersam en te secondo la efficacia di esso. E se ope r a a ritr o s o , perde ogni s p o n ta n e a e n e rg ia e si ra sso m ig lia a quella p ia n ta che è fo rz a ta a p ro d u rre fuori della sta g io n e e contro 1’ azione del clima.
— M a non sono p a g a n i , ( s i p otrebbe d i r e ) i due più g ra n d i poeti del n ostro secolo , il Goethe e l’Heine? Il G o e th e , è vero, è stato c h ia m ato d a alcuni il g ra n p a g a n o , il p o eta più vicino ai Greci p e r 1’ ob biettività del suo poetare e p e r la c a lm a e s e re n ità della s u a a n im a ; m a l’ o p e r a , in cui egli h a fatto tutti gli sforzi p e r trasferirsi ai tem pi della G re c ia , V Ifigenia in T a u r id e , è più m o d e rn a e g e r m a n ic a c h e an tica e g r e c a ; è piuttosto un riflesso e u n ’ eco di u n a tr a g e d ia g r e ca, che u n a v e ra tra g e d ia g re c a . Il poeta, con forme tolte in p r e s ta n z a d all’ a n tic h ità esprim e sentim enti d’ u n a d elicatezza tu tta c r i s t i a n a , di u n a profondità tu tta m oderna. Egli n ella imitazione dei greci modelli non h a obliato sè stesso, non h a obliato i suoi tem p i; e più che dagli antichi greci, è stato ispirato d a due m u se viventi, d alla s u a a n im a e d alla età m oderna. 1
E d H eine? altro che p a g a n o ! N essu n o più di lui, fra i poeti co n tem poranei, è s tato preoccupato della idea religiosa c h e si m anifesta, chi ben consideri, an c h e in mezzo ai m otteggi e alle derisioni : onde a lui si potrebbero rivolgere le p a ro le che 1’ a u to re dell’ A n tilu c r e zio rivolse ad Epicuro :
Dei vestigia passim Effugis, a t delere nequis: te te illa sequuntur.
Il suo ateism o è liric o , non scientifico: è ispirato d a lla collera che suppone la c r e d e n z a : qua e là nelle sue poesie ci vien fatto di scoprire l’ istinto religioso della r a z z a a cui a p p a r te n e v a (era e b re o ), e le rem iniscenze della s u a f a n c iu lle z z a , quando nel m o n a ste ro dei fran cescan i dove p assò i suoi primi anni, un crocifisso di legno, com e n a r r a il T aillandier, p a r e v a che te n e s s e fissi s o p r a di lui i suoi g ra n d i
occhi bagnati di lagrime. Non fu adunque Heine un p a g a n o , b e n c h é , inebriato del culto dell’ ellenism o, ce le b ra sse gli dèi in G recia: Heine fu Heine, cogl’ istinti della s u a razza, colle rem iniscenze della s u a g io vinezza, coi dubbi attinti alla filosofia h eg elian a, colle derisioni di una e tà incredula e beffarda. f
II.
È impossibile adunque rip ro d u rre nella poesia m o d e rn a quell’ele- m ento del paganesim o, che è m orto p e r sem pre, e n e s s u n a forza v a r r à a ravvivare. Ben v’ h a nell’ a n tic h ità gen tilesca un elemento univer s a le ed u m a n o , e h ’è tu tto ra vivo e fecondo e che il C ristianesim o non h a distrutto, m a svolto, ampliato, compiuto, perfezionato. Molte di quelle idee che erano il patrimonio dell’antichità, sono an c o ra nella c irco la zione della vita m o d e r n a ; ognuno che p a rte c ip a in tellettualm ente al suo tem po, le aspira, p er dir così, in sè stesso, se ne alim enta e nudre. L a loro crisalide s ’è rotta, m a il loro spirito s’è im m edesim ato col nostro. Molte di quelle aspirazioni e di que’ sentim enti che co n co rsero a p la s m a re e nutrire il genio della civiltà g re c o -la tin a e a fo rm a re il tipo m eraviglioso dell’uomo antico, vivono tu tto ra e costituiscono la forza dei nobili caratteri. Il culto della p a t r i a , ogni esempio insigne di virtù p u b blica, di valor militare, di prodezza cittadina, l’am o re del sacrifizio, l’o r goglio p e r l’ imperio di R o m a che Virgilio colloca nell’ im porre il co stum e della pace (p a c is im ponere m orenti) ecco i sentim enti a cui s’in form avano gli antichi, ecco quello che v’h a di universale e di um ano nella le tte ra tu ra classica : ecco il ricco patrimonio che abbiam o e re ditato d alla c lassica antichità gentilesca. A tutto questo a g g iu n g e te quella serenità, quella calm a, quella m isu ra te z z a in ogni cosa, quella signoria dello spirito s o v ra sè s t e s s o , che si disse pro p ria dell’ a rte g re c a , m a che, più o meno, a p p a rtie n e all’a r te uuiversale.
A queste fonti attinsero que’ forti ingegni it a l i a n i , che ci dettero una le tte ra tu ra piena di pellegrinità e di spirito. C o n versando essi , s e n z a s tra n ia rsi d alla e tà loro, co’ g ra n d i dell’antichità e rin s a n g u a n d o de’ loro sensi e raccendendo, p er dir così, il proprio ingegno a lla viva fiam m a che a r d e v a in que’ nobili anim i, riuscirono antichi e m oderni ad un tempo, pensanti ed operatori, filosofi e cittadini. D ante, avendo a g u id a Virgilio, non solo p e rc o rre i regni della m orta gente, m a fonda la scuola del dolce stil nuovo. Il M achiavelli tutto si trasferiva negli antichi, come dice egli stesso nella le tte ra a F r a n c e s c o Vettori. L ’ Al fieri , al le g g e re le vite di Plu tarco , sentendo rivivere nella m ente le
1 V. Ca r o, N oueelles É tu d es M orales su r le tem ps présent, P aris, 1869, e Sa i n t
im m agini di quegli eroi e ribollire nell’animo i loro m a g n a n im i affetti, p ia n g e v a , b a tte v a d e ’ piedi a t e r r a e infuriava come un ragazzo. N on sono soltanto le parole ( d 'c e v a il T h ie rs d alla trib u n a f r a n c e s e 1) che i fanciulli a p p r e n d o n o , s tu d ia n d o il greco e il latino ; m a loro s ’ in spirano nobili e sublim i cose: ce sont de nobles et sublim es choses.2
III.
Or certi poeti realisti moderni, di cui p a re che due sieno le m use, il prostibolo e la ta v e rn a , che c o s a h a n n o da vedere coi classici s c r it tori di G recia e di R o m a ? Che c o sa essi riproducono d ella classica a n tic h ità se non quelle re e ten d en ze che sono di tutti i tempi, che noi portiam o dentro di noi m e d e s i m i , e che il C rist'an e sim o v enne a r e p r im e r e ? U n a poesia sce ttic a che rin n e g a ogni più nobile c o s a , o, se h a un C redo, è quello di M a r g u t t e ; 3 che può a v e r di com une con quei capolavori greci, in cui non m a n c a il sentim ento religioso, dove è p e n e tra to g ià il pensiero d ’oltre tom ba, e dom ina un sentim ento di g ra v e mestizia. Giulio G irard nell’ o p e r a : L e sentim ent religieux en G rece, d ’ H om ère à H e s c h ile , fa ved ere nel politeismo greco u n a m isticità se v e ra , u n a g r a n d e profondità d’ ispirazioni religiose, u n a p r e o c c u p a zione d olorosa dell’ um ano destin o , d a cui usci il mito di B acco e la tra g e d ia g re c a . N ella l e tte r a tu r a ellenica ce rta m e n te non vi e r a , nè vi p o te v a e sse re quella inquietitudine profonda e invincibile c h e si scorge n e lla le tte ra tu ra is p ira ta dal C ris tia n e s im o , e che n a s c e d a lla consi derazione de’ sub'im i destini riserb ati all’ u om o; m a vi è il sentim ento della m iseria e debolezza u m a n a , la quale vi si rim p :a n g e con la soave e p a c a t a m estizia della elegia. Q uante dolorose considerazioni sulla infelicità u m a n a ! N on vi h a cosa, dice Omero (Ilia d . XVII, 4 4 6 ) più s c i a g u r a ta dell’uomo fra tu tte quelle che re sp ira n o e cam m inano sulla
1 R apport f a i t p a r M. Thiers à la cham bre des députés en 1 8 4 4 , au nom de la
com m ission chargée de l'exa m en d u p r o ie t d e lo i r e la tif à V instrucùion secondaire. 2 Queste nobles et sublim es choses, non sono certam ente quelle che inspirano
ai giovani le poesie goliardiche tan to lodate da a lc u n i, o certe poesie di recenti poeti realisti.
3 Ecco il Cr e d o di M arg u tte :
R ispose allor M arg u tte: a dirtel tosto, lo non credo più al nero che all’ azzurro, M a nel cappone o lesso, o vuogli arro sto , E credo alcuna volta anche nel b urro, N ella cervogia, e , quando io n ’ ho, nel m osto E m olto più nell’ asp ro , che il m a n g u r ro , M a so p ra tu tto nel buon vino ho fede, E credo che sia sai »o chi gli crede.
terra. L ’ orro re stesso che i Greci aveano p er la m orte, cede al s e n timento della infelicità u m a n a , e si r e p u ta beato chi non n a s c e , o , nato, m uore presto. Quanto com m ovente è il racconto che fa Erodoto di Cleobi e B i t o n e , i quali p er la loro singolare pietà verso la m a d r e loro, non ebbero altro premio c h e il m orire nel fiore degli anni ! Chi m uore giovane, dice M enandro, è caro agli d è i . 1
Agli stessi sentim enti di g ra v ità e di mestizia sono inform ate le opere di alcuni scrittori rom ani, s e g n a ta m e n te di certi tempi. Quando incominciò un cupo e doloroso p resentim ento che la potenza di R o m a fosse vicina a perire; la le tte ra tu ra latina divenne più s e ria e più grav e. I Rom ani che a v ean o creduto eterno il loro impero, e d estinato a d e- sten d ersi a tutto il m o n d o ; quando videro ornai c e rta e s ic u ra la c a d u ta della r e p u b b l i c a , ebbero a p ro v a re il più a m a ro disinganno e rim piansero la c a d u ta delle cose te rre n e e l’ onnipotenza della fortuna. Alcuni ricorsero p e r conforto a quella filosofia che in s e g n a v a a dis p re g ia re i beni del mondo : altri c e rc a v an o la pace n ella s o litu d in e , nella v ita ca m p e stre , negli studi. « Noi, che vivevamo u n a volta, dice Cicerone, fra le dense folle e sotto gli occhi d e ’ cittadini; ora, f u g g e n do con orro re 1’ aspetto degli scellerati, ci ascondiam o il più che p e r noi si può, e spesso stiam o soli. ( D e Off. lib. 3 ) 2 Virgilio talvolta e s p ri me il fastidio della g l o r i a , della scien za e delle civili g r a n d e z z e , e il desiderio di vivere obliato nei più alti m o n t i , entro ai boschi più folti, e quivi col culto mistico di B acco purificare la s u a an im a e p e r dere ogni m em oria del secolo p e rv e rso :
R u ra m ihi, et rigui placeant in vallibus am n es; Flum ina am em silvasque inglorius. O , ubi cam pi Spercheosque et virginibus baechata lacaenis T aygeta ! o qui me gelidis in vallibus H aemi S is ta t, atque ingenti ram orum p ro te g a t um bra.
( Georg, lib. I I , v. 485-6-7-8-9 )
E spesso d alla considerazione delle particolari sv e n tu re c h e r a c conta, si eleva a d una più g e n e ra le p ietà e com passione p er le u m an e miserie. Di qui n a s c e quella pro fonda m estizia n e ’ versi di lui : di qui q ue’ versi che tutti sa n n o a m em oria , e che son divenuti la e s p r e s sione p ro p ria d ella u m a n a pietà:
— Non ig n ara m ali m iseris succu rrere disco — — S u n t lacrym ae rerum e t m entem m ortalia tangunt.
Che vi è di simile nelle opere di certi moderni che si dicono e- redi della cla ssic a a n tic h ità ? Chi non vi sco rg e invece la continua zione delle poesie goliardiche del medio evo ? Che co sa sono le poesie
1 V. la bellissim a m onografìa del Prof. R. Fo r n a c i a i o sul sentim ento d ell'u m a
n ità nella le ttera tu ra greca nella Nu o v a An t o l o g i a, An. 1868. 2 V. Fornaciaki, Ibid.
g o lia rd ic h e ? Sono im m a g in i di voluttà, sogni di ebbrezza, come dice lo s te s s o B artoli che n e ’ loro autori h a creduto di vedere i p recursori del rinascim ento: 1 sono poesie d i ehi vive d i voluttà, di chi dubita di tutto e tutto deride : in so m m a , sono la e sp ressio n e del vecchio edam us et bibamus.
M a q u a n ta d is ta n z a dalle poesie d e ’ Greci e dei Latini a queste ! Quelle m ira v a n o a lla r a p p re s e n ta z io n e della bellezza che non è il pia cere e l’a ttra ttiv o , b e n c h é p o ten te m e n te t r a g g a gli animi e piaccia; e queste m irano u n ic a m e n te a dilettare e lu s in g a re le passioni più a b biette. Quelle g e tta v a n o un velo sulla v ita o rd in a ria e volgare, e m e t tev an o in rilievo quanto v’ h a di g r a n d e e di divino nell’uomo; e queste, calunniando 1’ u m a n a n a t u r a , credono u n a c h im e ra la bellezza e la g r a n d e z z a , e non ra p p r e s e n ta n o che il laidum e e la b a sse z z a , come le uniche cose reali n ella vita. Quelle facevano sì che i lettori in sè stessi si esa lta sse ro ; e queste, ritraen d o quanto v’ h a di più laido e deform e ne’ bassi fo n d i della s o c i e t à , ci fanno v e r g o g n a re di a p p a r te n e re alla r a z z a um ana. Le une a ttin g ev an o spesso d alla religione la ele v a te zz a dei concetti e la nobiltà dei s e n t i m e n t i , si p reo ccu p av an o d ella vita avvenire e s ’ in spiravano nel sentim ento dell’ um ano dolore; e le altre, l e g g è r e , s p e n s i e r a t e , voluttuose rad o n o il s u o l o , e chiudono l’ an im a t r a il nulla da cui viene, e il nulla a cui ritorna, come esse insegnano. Le une eran o il più leggiadro fiore dello spirito um an o ; e le altre sono un’ orgia d e ’ sensi, u n a festa delle fibre. I poeti p ag a n i dove sono v e ra m e n te poeti, non g ià dove lu d u n t, ci r a p p re s e n ta n o donne, tipi di virtù e di bellezza, A ntigone, Alceste, A n d ro m aca, N a u s ic a a ed a l t r e ; e le stesse donne colpevoli ce le ritra g g o n o sem p re com e degne di pietà, p e rc h è furono sospinte al m ale d alla forza irresistibile del fato, agitate d a ’ rimorsi e quasi purificate dal d o lo re ; al contrario certi poeti realisti m oderni ci mettono innanzi Lidia, Glicera ed altre s p u d o ra te etère, che m irano a g o d e re e a solleticare i sensi e le passioni più laide.
P u r troppo gli antichi scrissero de’versi c h e c a n ta n o i piaceri, le voluttà, le orgie de’ s e n s i; m a essi c h e dell’ a r te loro aveano un sublime concetto, co n sid eran d o la com e inspiratrice di alti sensi civili, m orali e r e l i g i o s i , 2 non li d eg n av an o del nobilissimo nome di poesie, m a li c h ia m a v a n o lusus; 3 e alcuni di essi come A n a c re o n te ed Orazio a n c h e nei
1 V. Ba r t o l i, 1 P recu rso ri del R inascim ento, Firenze , S a n s o n i, 1878.
2 Orazio, p er tra la sc ia re infinite a ltra testim onianze di poeti pagani, colloca la perfezione della poesia in questo, che ab obscoenis serm onibus aures torquet, u ti-
libus praeceptis pectus fo r m a t, re c te fa c ta refert; e pone l’onore e la gloria di essa
nell’ inculcare le m assim e dell’ antica sapienza :
Sic honor et nomen divinis vatibus atque
Carm inibus venit. ( Ho r a t. A r. Poet.)
2 V. il Fo r c e l l i n i in ludere e lusus. Saepe (così dice il celebre lessicografo)
versi in cui cantano i non degni sollazzi, escono non di rado in g r a v i considerazioni so p ra la in stabilità della fortuna e la ferrea n e c e s s ità della morte. E qui fo p u n to ; se av essi te m p o , ingegno ed erudizione pari all’argom ento, mi a lla rg h e re i a ssai in questo parallelo tra gli an ti chi ed alcuni poeti moderni, e intitolerei il mio lavoro: L a classica a nti chità vendicata dalla ca lunnia d i essere stata riprodotta nelle poesie dei goliardi vecchi e nuovi.
Fr a n c e s c o Li n g u i t i.
Annunzi di buoni lil>r*i.
Vita di L u ig i M a ria R e z z i scritta dal suo discepolo Giuseppe C ugnoni — Imola, Tip. Galeati, 1879 — Pag. XX, 342.
Il prof. Luigi M a ria Rezzi piacentino, morto in R o m a il 23 di g e n naio 1’ anno 1857, lasciò t u tta la su a e r e d i t à , perch è fosse e ro g a ta in perpetuo nella collazione di un premio a d un’ op era in verso o in prosa, che ne fosse s tim a ta degna. N el primo concorso aperto ad opere i t a liane inedite in p ro s a fu dall’A c cad em ia della C ru sc a conferito il premio all’ illustre prof. Giuseppe Cugnoni, discepolo del R ezzi, che presentò la vita del suo venerato m aestro. Con questo bel lavoro, a cui a g g iu n gono estrinseco pregio i tipi nitidissimi del Galeati, il chiarissimo a u tore h a saputo r itr a r r e l’ im agine dell’uomo insigne se n z a che l’affetto gli facesse velo al giudizio, poiché di quanto afferm a intorno alla v ita e alle opere di lui non v’ h a co sa che non sia p ro v a ta coi docum enti, sta m p a ti in fine del volume. Q uest’ o p e ra poi non è solam ente utile p e rc h è m ette in chiaro i meriti di un g r a n professore e letterato , m a p e rc h è porg e notizie di singolare im p o rtan za all’ istoria n o s tra di m ezzo secolo e p artic o la rm en te a quella della C hiesa ro m a n a , dopoché in e s s a ebbe com inciato a ria c q u ista r predominio la com pagnia di G esù, ricostituitasi sotto Pio VII. Il Rezzi entrò n ella com pagnia il 23 di agosto dell’anno 1803, e fu se m p re intimo al p a d re G aetano Angelini suo concittadino, c h e con g r a n zelo e rettitudine si e ra proposto, come e ra anche volontà del Pontefice, di ricostituire quel sodalizio secondo la p rim a e s t r e t t a r e g o la di S a n t’ Ignazio, a p p ro v a ta da P aolo III. Il to rn a re però a lla s e v e ra o s s e rv a n z a d ella r e g o la non piaceva a quei vecchi padri, che av ev an o a p p a rte n u to a lla Società p rim a che d a P a p a
fe r tu r ad sta d ia poetica ; sed de lecioribus d ic itu r , et quae a n im i causa jocique ineuntur. S i quid lu sit Anacreon, Ho r a t; Coloni Versibus incom ptis ludunt. Ve r o. Georg. 2 . Saepe refertu r ad turpia. Pe t r o n, S a ty r .; Pr o p e r t.; Ca t u i,. etc. etc.
G anganelli fosse a b o l i t a , e che si eran o assu efatti alla v ita lib e ra e a g ia ta del secolo. Questi m o ssero all’ Angelini uomo s c h ie tto e f e r v ente u n a g u e r r a la più sleale, e sep p ero m a n e g g ia re si bene contro di lui l’a r m a d ella calu n n ia , che g iu n sero a farlo d e p o rre d all’ ufficio di p r o v i n c i a l e , nè poi c e ssa ro n o mai di p e rseg u itarlo fino a lla morte. L e persecuzioni degli a v v e r s a r i dell’Angiolini si rovesciaro n o quindi s o p r a il Rezzi, che com e l’a v e v a am ato in vita p er le su e virtù, così ne difendeva e o n o ra v a fra n c a m e n te la m em oria; e l’odio farisaico g iu n se a tal segno che al Rezzi fu intimato finalmente lo sfratto d a lla Com p a g n ia dopo sedici anni da che vi e r a entrato. Il pontefice Pio VII a v e v a però molto c aro il Rezzi p er il suo ingegno nutrito di severi studii e p e r la nobilissim a te m p ra e b o n tà dell’animo, e a lai che da due m esi e r a s ta to cacciato d alla C o m p a g n ia co n c e sse la c a t t e d r a dì eloquenza nell’ un iv ersità ro m an a. Il Rozzi ebbe a n c o r a onorevolissim i uffici e c c l e s i a s t i c i , e fu bibliotecario prima della b a rb e r in ia n a e poi della corsiniana. Nel 1848, godendo egli la stim a pubblica p er l’a ltezza della m ente, p e r la le a ltà del c a r a tte re , e pel suo ben noto a m o re all’ I- ta l i a , fu eletto dal quarto collegio di R o m a deputato a! p a r l a m e n t o , dove l’o p e ra s u a e r a molto p re g ia ta e auto rev o le la parola. P r o c la m a ta s i la repu b b lica, egli, rim an en d o fedele al so vrano, p e r s o ttr a r s i ai t r a m busti, se ne p a rti per F ire n z e , donde tornò a R o m a dopo che il p o n tefice vi fa ricondotto dalle arm i fran cesi ; m a ivi p er se n te n z a del Consiglio di c e n s u r a gli fu tolto l’ufficio di professore dell’U niversità, non giovandogli a difenderlo dalle arti bieche d e ’ suoi antichi a v v e r sa rli T e s s e r s i m a n te n u to se m p re devoto al pontefice. T u t t a v i a p e r i suoi liberi e giusti reclam i gli fu a s s e g n a to lo stipendio di riposo come a professore em erito e conferm atogli 1’ ufficio di consultore dei Riti e dell’indice, dove s o s te n n e vittoriosam ente la c a u s a di Antonio Rosm ini, le cui opere si volevano colpire di c e n su ra . Ma, se tali provvedim enti, c om e dice il chiarissim o biografo, giovarono alquanto a risto ra rlo della p ubblica i n g i u r i a , non valsero però a r i p a r a r e il g r a v e d a n n o , che n ’ebbe la gioventù studiosa, a lla quale vennero so ttra tti sei anni, quanti il Rezzi ne so p rav v isse, di quel ricco e sodo insegnam ento, che a v e v a su sc ita to tan ti scrittori e m a e stri a s in g o ia r vanto e gio v am en to della nazione.
Lo stile di questo lavoro è s e m p r e nobile e dignitoso, e d im o stra com e l’ illustre a u to re s ia degno discepolo di tanto m aestro. Ecco per sag g io il ritra tto che con pochi tocchi e veri egli fa del Rezzi quasi a com pendio e conclusione della s u a vita: « Di p e rso n a a lta e sottile; « b ian ch issim o d ella pelle , suffusa infino all’ ultimo della vita di un « ru b o r fresco e giovanile; fronte spaziosa, occhi strabuzzati, m a vi- « vissimi; la b b ra sp o rte e ridenti, voce strid u la e acu ta, a cco n cia mi- « n is tr a di quella in g e n u a ironia, o n d ’e ra se m p re anim ato il sao
di-« scorso. Nel m orire non si disfigurò punto, e p a r e a che dormisse. » F u sepolto al cam po V a r a n o , dove i suoi amici e scolari g l’
inalza-$
rono un monum ento , che fu inau g u rato solennem ente nel gennaio del 1878.
Versi di E rm in ia F uà-F usinato — 2 .a edizione con aggiunta di poesie inedite — Milano, tip. di Paolo C a r r a r a , 1879 — L. 2,50.
Il C a r r a r a h a ripubblicato in un bel volume p er le scuole i versi della F usinato, ag giungendone alcuni, e h ’ erano inediti, e prem ettendo al libro le savie ed eleganti parole del T ab arrin i, scritte per 1’ edizione di Firenze. Ecco il giudizio dell’ illustre letterato T oscano sulle poesie della F u s in a to : « D io , la p a tr ia e la f a m ig lia , sono tre c o n c e tti, sui quali si fonda tu tta la p a rte m orale di queste poesie. Nei dolori suoi o d ’ altrui, la F u sin a to leva gli occhi al Cielo e vi tro v a consolazioni e sp eran ze immortali. Verso la p a tria più che affetto ella sente p a ssio n e ; la vuole l i b e r a , g l o r i o s a , c o n c o rd e , felice; n essun sacrifizio le p are g ra v e , p urché basti a re d im e rla ; ogni g lo ria d’ ingegno vuole c o n s a c r a ta a lei. Visitando la giovinetta il sepolcro del P e t r a r c a in A rquà, scrisse sull’ albo dei visitatori alcuni versi che cominciavano cosi:
N on al c a n to r dei bei carm i d’ am ore, M a a lui che Italia m ia c a n ta v a un giorno, R endo c o m m o ssa io pu r culto ed onore.
Ci sono molti che han n o nom e di patriotti, i q u a li, sebbene a parole mostrino affetto, pu re in fondo al cuore non h an n o a ltro che odio: odiano quelli che tengono il reggim ento dello S t a t o , gli a v v e rsa rli della loro parte, quelli che sono loro d ’ im paccio a sa lire in alto. N eppur 1* o m b ra di questi abietti ran co ri nella F u sin ato . T u tto in lei g o v e rn a l’ a ffetto ; al di s o p ra dei partiti, per lei c’ è l’ I ta lia ; peggiore d’ ogni c o sa sono p e r lei il dominio stran iero e le discordie fraterne. E s s a h a am a to la p a tria nel l u tto , l’ a m a nella gioia, con cuore d’ a m a n te insieme e di figlia.
L ’ an im a della p o etessa che si e sp an d e con tanto abbandono nei canti p a tr io ttic i, non è meno ricca di ispirazione quando si rinchiude nel san tu ario domestico. L ’ am ore casto , i santi affetti di m a d r e , di sorella, di s p o s a , le ispirano arm onie so a v issim e , che chiudono nella brevità efficace del ritmo concetti di a lta m oralità. Sono storie se m plici, sono fiori sbocciati al tepore del focolare domestico. Ed o ra c h e la famiglia è p e r tanti modi insidiata , s p e tta alle m adri di custodirà questo f u o c o , assai più sacro di quello che a rd e v a sull’ a r a di V e s ta nella R om a antica. L a famiglia, nel concetto della F u sin ato , non è di quelle che taluni v a g h eg g ian o , form ate nelle locande e tirate av a n ti su pei vagoni delle s tra d e f e r r a te ; m a vive nella c a s a dei suoi avi, ove