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Forme di vita, linguaggio e scrittura. Per una genealogia del biopotere

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Data di pubblicazione: 09.01.2015 Enrico Redaelli

Forme di vita, linguaggio e scrittura.

Per una genealogia del biopotere

La soglia del biopotere

Attraverso la nozione di «biopotere» Foucault ha avuto il merito di accendere un faro su un campo problematico inedito, che potremmo sintetizzare in questa formula: c’è, nella società moderna, un tentativo di regolazione della kinesis vivente, un tentativo di gestire e controllare il movimento della vita.

Se questo è il suo merito, va però detto che egli non sembra aver adottato un vero e proprio sguardo genealogico su questo orizzonte di problemi. Si potrebbe infatti chiedere: come e perché sorgono a un certo punto una serie di tecniche e strategie volte a gestire e regolare la kinesis vivente? Perché ora sì e prima no? Che cosa è accaduto? Quali condizioni hanno reso possibile una serie di fenomeni, tipicamente moderni, che per comodità poniamo sotto l’etichetta di «biopotere»? Sul come e sul perché il metodo genealogico foucaultiano è parco di indicazioni. Stranamente. Infatti, in Nietzsche, la genealogia, la storia l’autore delinea i compiti di una ricerca genealogica: rinvenire l’origine non come Ursprung (fondamento originario di un determinato fenomeno) ma come provenienza (Herkunft) ed emergenza (Entstehung). Si tratta insomma di comprendere come il fenomeno è divenuto ciò che è. Applicando tale approccio al campo problematico che Foucault ha aperto innanzi a noi, dovremmo allora chiederci: da dove emerge il biopotere? Come è diventato ciò che è?

Andrebbero dunque indicate, insieme, l’identità e la differenza. L’identità: ciò che permane del passato, relativamente all’esercizio del potere, ossia quella continuità storica su cui successivamente vengono a iscriversi le nuove e specifiche tecniche biopolitiche. La differenza: ciò che si distacca da quella continuità, che rende possibile uno spartiacque nelle pratiche di potere. Bisognerebbe cioè indicare quelli che altrove Foucault chiama a priori storici a partire da cui qualcosa di nuovo emerge.

Ora, nei corsi al Collège de France il filosofo mostra una grande abilità nel mappare questo campo tematico, nel raccogliere dati storici ed eventi, anche distanti gli uni dagli altri, e nel porli sotto i nostri occhi come un problema unitario. Ad esempio, gli interventi da parte dell’amministrazione statale nell’ambito dell’igiene pubblica, delle inabilità, della pianificazione e della gestione dell’ambiente naturale. Egli però sembra poco propenso a ricercare gli a

priori storico-materiali che hanno reso possibili questi fatti, cioè: come questi

fatti si sono venuti facendo.

Non si tratta di una carenza casuale, ma di un problema metodologico, relativo al modo di esercitare la genealogia (più che al modo di concepirla).

Dunque, se volessimo scavare nel sottosuolo e indagare il biopotere nelle sue condizioni di possibilità, cosa dice Foucault relativamente non ai fatti, agli eventi e ai dati, ma alla soglia che li circoscrive e li rende possibili? In merito, si possono sottolineare due punti, a mio avviso entrambi problematici.

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Data di pubblicazione: 09.01.2015

Modernità?

In primo luogo, Foucault individua cronologicamente la soglia del biopotere nella modernità. L’intento di regolazione della kinesis vivente sarebbe specificatamente moderno, un fenomeno tipico della società occidentale a partire dal XVII-XVIII secolo.

Si potrebbero sollevare molti dubbi su questo punto ed effettivamente sono stati sollevati (tra gli altri, da Giorgio Agamben, Roberto Esposito e Jacques Derrida). Si potrebbe osservare che le società antiche hanno sempre gestito la vita, plasmato l’esistenza umana, impresso modelli e «forme di vita». Cosa sono il mito e il rito se non dispositivi atti a formare, educare, modellare la vita umana? Lo stesso può dirsi del potere sovrano nell’antichità, che al mito e al rito è strettamente intrecciato.

Scrive ad esempio Agamben in Homo sacer: «Si può dire che la produzione di un corpo biopolitico sia la prestazione originaria del potere sovrano»1. Tutta l’opera agambeniana svolge questa operazione: una sorta di retro-datazione del biopotere, che ne sposta la soglia di emergenza assai più indietro nel tempo rispetto al varco della modernità. In questo senso la modernità e le sue specifiche forme di potere si iscrivono in una continuità col passato, anzi, con la più sterminata antichità, arrivando a toccare la «prestazione originaria del potere sovrano» e perciò le origini della civiltà umana. Tralasciando l’articolato percorso agambeniano, qui proviamo a dar conto di questa continuità seguendo una via parallela, procedendo per rapidi cenni e fugaci pennellate, in funzione dei nostri più ristretti e modesti scopi.

Il potere sovrano e la vita

Iniziamo da una semplice osservazione antropologica: il potere sovrano, da sempre, si presenta come garante della vita. Motivo per cui, nel mito, il sovrano è eminentemente prolifico.

Il mito greco vuole che Priamo, Tespio, Pallante, Egitto, Licaone fossero sovrani eponimi ciascuno con cinquanta figli a testa (o cento, secondo alcune versioni). Ma si considerino anche il signore dei Dragoni acquatici del Paese dei Lac, nella mitologia vietnamita, Ramses II in Egitto, Vishnàmitra in India e Attila, re degli Unni: figure all’origine di una dinastia, di una stirpe o di un intero popolo, tutte con una prole spropositata (sempre cinquanta o cento figli). Perché cifre così esorbitanti? Perché la prolificità del sovrano dimostra che egli conosce il

segreto della vita e della sua riproducibilità. E garantisce così prosperità alla

propria comunità.

Il termine «sovrano» deriva infatti da superanus, colui che supera tutti: in che cosa? Nella «potenza sessuale come potenza generatrice e demografica», per usare le parole di Derrida2, potenza esibita nella stessa rappresentazione della sovranità (lo scettro quale simbolo di una «erezione assoluta»3).

Significativa, in merito, la figura del Re Ferito (o Re Pescatore), presente in alcune opere del ciclo arturiano, a partire da Le Roman de Perceval ou le conte du

Graal di Chrétien de Troyes, come nel Parsifal di Wagner e in The waste land di

T. S. Eliot, ma ricorrente anche in altre tradizioni, come racconta Il ramo d’oro di Frazer4. Il Re Ferito rappresenta il rovescio del re prolifico: si tratta di un sovrano malato – ferito all’inguine o alla coscia – che regna su una terra desolata, devastata da morte e corruzione. La ferita all’inguine, simbolo di sterilità, è una

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Data di pubblicazione: 09.01.2015 piaga che dal sovrano si propaga come per contagio a tutto l’ambiente circostante e all’intera popolazione. Tant’è che nei testi del ciclo bretone, il Re Ferito vorrebbe morire ed essere sostituito da un nuovo sovrano, sano ed integro, in grado di restituire alla terra desolata l’originaria fecondità e di garantire la vita alla comunità.

La prolificità del monarca, il suo surplus di generatività, è dunque, per tutti, garanzia di vita (della prolificità dei sudditi e della fertilità della terra). A condizione, però, che la popolazione iscriva la propria vita entro l’ordinamento della comunità, plasmando la propria esistenza entro i suoi dettami, in un tessuto di cui il rito, il mito e il potere sovrano costituiscono la trama. Questo potere non si limita, cioè, a garantire ai membri della comunità la vita in generale, un generico “lasciar vivere” (espressione su cui torneremo in seguito). Esso è semmai un dispositivo, atto a riprodurre la vita entro una determinata “forma”.

Nome, marchio, soggettivazione

Leggiamo nel Genesi: «A centotrenta anni Adamo generò come sua somiglianza secondo la sua Immagine» (Gn 5,3). L’atto generativo umano perpetua l’immagine (l’eidos, la “forma”) del padre, in questo caso Adamo, a sua volta creato a immagine e somiglianza di Dio. Non si riproduce mai la semplice e generica vita, ma sempre una vita iscritta nella forma, nell’eidos, ossia una “forma di vita”: vita siglata nel Nome, scolpita nella Legge, plasmata nel mito ed educata nel rito.

Il Nome è insomma il primo dispositivo biopolitico: il primo “marchio” che iscrive la vita ancora anonima all’interno della comunità e delle sue leggi. La nominazione («Tu sei Pietro») produce infatti soggettivazione: nei termini di Lacan, il Nome è il «tratto unario» che soggettivizza5, sicché l’essere vivente, nel momento stesso in cui viene alla luce come soggetto, «non può che essere erede dell’Altro, indebitato nella sua provenienza dall’Altro»6

. In questo senso, il Nome è sempre anche Nome del Padre, segno del debito che si ha verso la propria provenienza: verso il dio, la comunità, la famiglia. Nel momento stesso in cui si riceve il Nome, cioè un’identità, si è quindi iscritti in una relazione di debito o, per dirla con L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, in una catena di «alleanze» e «filiazioni»7, che implica un ruolo specifico all’interno della comunità e precisi obblighi nei confronti dei suoi membri.

Ma se il Nome è il primo dispositivo biopolitico è perché, in quanto “forma”, è la vera garanzia contro la morte. Infatti, la vita individuale è inevitabilmente destinata al trapasso; non così il Nome, da intendersi come stampo che riproduce la vita entro la stessa forma, come “marchio” che si perpetua nel tempo. Si radica qui il sogno di vita eterna del mondo antico: «io morirò, ma il mio nome (il buon nome, la fama, la gloria) saranno eterni». S’intende: se i figli sapranno portare questo Nome, se cioè ricalcheranno le orme del padre, se la loro vita si plasmerà nel calco di questa forma. Leggiamo nel Libro del Siracide: «suo padre è defunto, ma è come se non fosse morto, perché ha lasciato dopo di sé uno simile a sé» (Sir 30,4). Grazie ai figli è come se non si morisse del tutto, la discendenza assicura la sopravvivenza del Nome: eternità della “forma di vita” – al di là della morte del singolo individuo – riprodotta nel Nome del Padre.

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Data di pubblicazione: 09.01.2015

Il potere patriarcale

Riprodurre la vita nel Nome del Padre significa dunque “marcare” e iscrivere il vivente all’interno della comunità e delle sue leggi quale unica via per sconfiggere la morte. Ora, da dove si origina questo sogno di “vita eterna” attraverso il Nome, sogno che ha guidato l’umanità per millenni?

Direbbe Lacan: dal linguaggio. Cioè, dal sapere della morte. L’uomo è l’animale che ha la parola. E dunque il sapere. Egli sa che deve morire. Gli animali non lo sanno (non se lo possono dire). Ed è proprio la parola che nomina – il Nome – a introdurre il sapere mortale8. Solo a partire dal Nome si rende visibile il cadavere come resto inanimato abbandonato dalla vita. Perché la vita del defunto può continuamente essere rievocata attraverso il Nome, anche quando del defunto non vi è più traccia: magia del linguaggio, in grado di evocare in presenza anche ciò che è assente. E in grado di evocare l’assenza per antonomasia: la morte, appunto. Se il Nome (la parola che nomina) introduce la morte (il sapere della morte), è sempre attraverso il Nome che l’umanità ha cercato di far fronte a questo sapere. Tutte le civiltà umane sulla terra, almeno per quanto ne sappiamo, hanno cercato nel Nome – nel tentativo di eternizzare il proprio Nome, il buon nome di famiglia, la propria “forma di vita” – una garanzia contro la mortalità.

Conosciamo come funziona questo dispositivo nelle culture a sistema patriarcale sviluppatesi a partire dalla rivoluzione antropologica del Neolitico9: affinché il Nome sia la forma eterna entro cui la vita si riproduce, per discendenza, sono necessarie due condizioni.

La prima è che la discendenza sia di sangue. E poiché mater semper certa, pater

numquam, il possesso esclusivo della donna è l’unica garanzia della

consanguineità della prole. Analizzando il matrimonio israelitico, il biblista Angelo Tosato conclude che «il matrimonio, nel garantire ad un uomo la esclusiva e stabile acquisizione di una donna (fine giuridico primo ed immediato), mira in definitiva a garantirgli preminentemente una discendenza legittima (fine giuridico secondo e mediato)»10. Ma, nell’antropologia biblica, essere padre è più importante che essere marito. Come nella metafisica aristotelica, il fine ultimo in ordine cronologico, è primo sul piano logico: si diventa mariti per diventare padri. Ossia, per garantire la continuità del Nome.

La seconda condizione è che gli eredi vivano, appunto, nel Nome del Padre, proseguano cioè la sua opera, la sua vita, le sue regole. Riferendosi a Yoyakin, re di Giuda deportato a Babilonia, dice Geremia: «Registrate quest’uomo come sterile, uno che non è riuscito nella sua vita, perché della sua discendenza neppure uno riuscirà a sedere sul trono di Davide e a governare su Giuda» (Ger 22,30). Una prolificità indeterminata, un generico “generare” e “lasciar vivere”, equivale insomma alla sterilità, se la prole non riproduce l’eidos paterno, se cioè non è iscrivibile nell’ordine simbolico della Legge.

In breve, le due condizioni per sconfiggere la morte attraverso la reiterazione del Nome, sono la disposizione esclusiva della moglie e la disposizione asservita dei figli, ossia la patria potestas. Una delle più antiche forme di potere conosciute dall’uomo nelle società patriarcali. Potere sulla vita per rendere eterna la propria

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Data di pubblicazione: 09.01.2015

Evoluzioni del biopotere

Nel Nome, e nei legami sociali che esso comporta, sono in questione l’ordine e la gestione della vita dell’intera comunità. Se infatti nel Nome risuona l’eidos del padre, questo è iscritto nell’eidos divino, di cui il sovrano è rappresentante in terra. Un’unica trama – un’unica oikonomia – tiene insieme cosmologia, politica e relazioni familiari11. Come il dio è Padre creatore, così il sovrano è una sorta di “padre” esteso all’intera comunità (se nel mito spesso è sovrano eponimo, nella storia è “padre della patria”; anche nel mondo romano lo ius patrium e il potere sovrano, pur appartenendo a registri diversi, sono strettamente intrecciati12). In quanto prolifico, il monarca garantisce vita a tutto il popolo e, in quanto rappresentante della Legge, garantisce che questa vita si riproduca nel Nome del Padre, cioè – in ultima analisi – nel Nome del dio in cui la comunità si riconosce. In breve, dell’ordine simbolico della Legge, in cui la vita viene iscritta, il padre è garante a livello familiare, il sovrano a livello comunitario, il dio a livello cosmologico. In questo senso – secondo un leitmotiv tipicamente indoeuropeo – il Nome imprime alla vita ancora indistinta (matrice “femminile” della generazione) la forma della Legge (lo stampo “maschile” che mette ordine al caos): «tu sei figlio di x, quindi appartieni a questa comunità e alle leggi dei suoi dèi».

Il tentativo di regolazione della kinesis vivente, almeno per quanto riguarda la vita umana, cioè la sua riproduzione in un eidos, è dunque in cammino dalla più sterminata antichità: tentativo «umano troppo umano» di sconfiggere la morte perpetrando la vita nella «forma».

E che cos’è il biopotere, messo in luce da Foucault, se non un tentativo di gestire la vita per garantirne la riproducibilità secondo una determinata forma?

Non è questo, in fondo, il sogno e il progetto implicito della biologia contemporanea? Impossessarsi del segreto della vita, scoprirne il codice, per poterlo riprodurre a proprio piacimento e assicurarsi così l’eternità (trapianto delle anime nei corpi). Sostituirsi a Dio, nel senso proprio di diventare quella vita eterna tradizionalmente attribuita al divino.

Ma allora, a fare la differenza sulla soglia della modernità, non è il tentativo di regolazione della kinesis vivente, in quanto tale, semmai le diverse modalità in cui questo tentativo si declina. In età moderna assistiamo a un salto di qualità nel tentativo di gestire la vita (di protrarla e riprodurla in una determinata forma). Un salto – possiamo già anticipare – dovuto ai diversi mezzi materiali resisi disponibili in età moderna. Mezzi che però – Hegel e Heidegger insegnano – non sono mai «semplici mezzi», ma finiscono per retroagire sulle finalità che li animano riplasmando tali fini e riconfigurandone l’orizzonte di senso. Non «meri mezzi», dunque, ma a priori storico-materiali in cui le antiche pratiche di vita si sono venute iscrivendo e intrecciando tra loro, ridisegnando quell’originario dispositivo antropogenetico che le muoveva al fine di garantire la vita eterna.

Lasciar vivere?

Prima di affrontare questo punto, apriamo una parentesi. Non è allora vero, come afferma Foucault nella Volontà di sapere, che il potere sovrano, anticamente, sia il potere di «far morire o di lasciar vivere»13. Questo «lasciar vivere» sembra doversi intendere in questi termini: permettere una vita «nuda» senza imprimerle una forma. Ma, stando a quanto sin qui detto, si potrebbe osservare: non c’è mai stata una «nuda vita», tra gli uomini, vi è semmai sempre stata una vita «vestita»

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Data di pubblicazione: 09.01.2015 (investita) dal Nome. La «nuda vita» è piuttosto un effetto retroflesso della forma, l’ombra che questa proietta dietro di sé, il suo residuo. A livello familiare, ad esempio, il figlio illegittimo o il figlio che non segue le orme del padre; a livello della comunità, l’homo sacer, l’individuo messo al bando o colui che ha tradito la Legge. Come osserva anche Agamben, la nuda vita è lo scarto prodotto dal potere sovrano, dalla macchina politica, e resta perciò vincolato a questa nella forma di una «esclusione inclusiva»14.

In breve, potremmo dir così: non c’è un generico «lasciar vivere», perché l’uomo

ha la parola. Il linguaggio, nella sua primitiva funzione nominante, è un

dispositivo biopolitico di soggettivazione – o, più precisamente, di antropogenesi: è la soglia a partire da cui la vita naturale (zoé) è già da sempre vita culturale (bios). La vita umana è sempre una «forma» siglata dal Nome (l’ordine simbolico della Legge) e questo è ciò che la differenzia dalla vita animale («fatti non foste a viver come bruti»). Sin dalla più remota antichità, per l’uomo si è sempre trattato di vivere secondo una determinata forma: altro che «lasciar vivere»!

«Codice» e «forme di vita»

Il biopotere s’iscrive dunque in questo antico cammino dell’umanità: gestione «economica» della vita (oikonomia) per assicurarsi dalla morte (per garantire, cioè, l’eternità sovra-individuale della «forma» evocata nel Nome). Sin qui la continuità. Si tratta ora di far emergere la differenza (sempre procedendo per rapidi cenni che meriterebbero ben altra trattazione e un più proficuo approfondimento).

Dicevamo, in età moderna vi è un salto di qualità: è quello che, a suo modo, Foucault avverte quando afferma che la modernità ha sviluppato «poteri di universalizzazione giganteschi»15. Il moderno biopotere, nota il filosofo, ha effetti di totalizzazione e di individualizzazione mai visti prima, esercitandosi su tutti in modo omogeneo e su ciascuno in modo mirato (contra omnes et singulatim16). Ciò che preoccupa Foucault, e in cui consiste questo salto di qualità del potere moderno, potremmo allora definirlo con questo termine: codificazione. Nella modernità è in atto una codificazione della vita, che è altro dalla sua semplice regolazione attraverso la forma.

Vi è infatti differenza tra codice e forma di vita.

La forma di vita, come qui la intendiamo, è, nei termini di Wittgenstein, un «paradigma»: una forma singolare che, esibendosi come exemplum, si ripete per via metamorfica generando una catena analogica in cui ogni anello è modello dei successivi (come le foglie nella goethiana Metamorphose der Pflanzen)17. Si tratta, perciò, di un modello che muta ad ogni sua applicazione, producendo variazioni paradigmatiche: così funzionano il dispositivo del Nome (il figlio porta il Nome del Padre, ma declinerà tale “forma di vita” a partire da una differenza, a sua volta paradigma di variazioni successive) e il dispositivo, a esso correlato, del

mythos, il racconto dell’origine della stirpe che accompagna il Nome (in quanto

tramandato oralmente, il mito non ha una versione standard predefinita, ogni sua rievocazione è perciò un exemplum per le sue occorrenze successive, soggette a continue modifiche).

Il codice, invece, non è una “forma di vita”, ma un modello astratto, cristallizzato una volta per tutte, che viene a “stamparsi” sulla vita sempre nello stesso modo. Ed è proprio perché astratto e non vivente (non soggetto alle modificazioni della

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Data di pubblicazione: 09.01.2015 vita, alla sua kinesis diveniente) che produce e riproduce sempre la stessa forma, generando omologazione (ciò che Foucault chiama normalisation).

Le discipline sono sempre esistite – come sa bene Foucault, dedito, negli anni ‘80, a indagare le «tecniche del sé» dell’antichità. A destare la sua preoccupazione è semmai la codificazione delle discipline. Se quelle antiche sono – come anche il Nome e il mythos – dispositivi di soggettivazione «paradigmatici» (basati su modelli «esemplari»), quelle moderne sono dispositivi «codificati» (basati su un

codice), atti a produrre meccanicamente soggettivazioni omologhe (le regole delle

carceri, come quelle degli ospedali, preventivamente codificate, si applicano automaticamente e indistintamente a tutti i soggetti coinvolti e a ciascuno in modo mirato: omnes et singulatim).

Ma allora si ripropone la domanda: che cosa ha determinato questo salto di qualità? Qual è il suo sottosuolo genealogico? Quali sono, cioè, le condizioni di possibilità della codificazione? Diamo prima uno sguardo alle possibili risposte di Foucault.

Il «muro» del teleologismo asoggettivo

Se dovessimo cercare una spiegazione attraverso le analisi del filosofo francese, dovremmo dire che, nella modernità, vi è stato un cambiamento nelle tecniche e nelle strategie del potere. Ed è questo il secondo aspetto problematico, da un punto di vista genealogico, dell’impostazione foucaultiana.

Nella concezione del potere che Foucault sviluppa negli anni Settanta vi è un evidente teleologismo: «intenzionalità», «calcolo», «strategie», «obiettivi» vengono attribuiti al potere in modo non metaforico. Nella Volontà di sapere, ad esempio, troviamo due espressioni con cui egli definisce le relazioni di potere: queste sono «non soggettive» e «intenzionali»18.

Perché «non soggettive», è chiaro: per Foucault il soggetto è, nietzschianamente, un risultato, l’esito di un gioco di forze. Nelle Parole e le cose Nietzsche, Marx e Freud sono citati proprio in questa funzione. Nell’Archeologia del sapere l’autore sottolinea come sia dalle pratiche e dai loro a priori storici che si configurano correlativamente un oggetto e un soggetto. E nella Microfisica del potere l’individuo è definito un «relais», un ingranaggio. Il soggetto è cioè un «ruolo» che ogni pratica istituisce in una «forma» specifica e sempre determinata19. Le relazioni di potere non sono dunque riconducibili né ai soggetti che le subiscono né a quelli che le agiscono (il medico come il paziente, la guardia come il carcerato, il pastore come le sue «pecore» sono egualmente soggettivizzati, sono il prodotto di pratiche e relazioni di potere, mai la loro fonte).

Perché – o in che senso – le relazioni di potere siano invece «intenzionali» è meno chiaro. O meno ovvio. Queste, leggiamo nella Volontà di sapere, sono «attraversate, da parte a parte, da un calcolo: non c’è potere che si eserciti senza una serie di intenti e di obiettivi»20. Questo telelogismo asoggettivo è adottato dall’autore per evitare – come indicato nella stessa pagina – che le relazioni di potere vengano ricondotte, ridotte o spiegate a partire da altre istanze.

Tecniche e strategie di potere costituiscono cioè un punto di partenza dell’analisi genealogica foucaultiana, anziché un punto di arrivo. Con l’assurdo risultato che il genealogista, che dovrebbe indicare la provenienza (Herkunft) del senso e delle sue configurazioni in un’eterogeneità costitutiva, è costretto a presupporre delle «intenzioni» – per altro mai formulate da alcuna mente umana – la cui emergenza

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Data di pubblicazione: 09.01.2015 (Entstehung) resta misteriosa e non è mai resa oggetto d’interrogazione. Proprio questa emergenza è invece ciò su cui ci stiamo qui interrogando.

Se l’«archeologia del sapere» assume una prospettiva a-teleologica, che vede ogni finalità emergere da una concatenazione di effetti, la «microfisica del potere» muove viceversa da strategie già fatte e finite, assunte come punto di partenza per un’analisi del potere. Se insomma dal piano del sapere Foucault muove genealogicamente indietro per rintracciarne gli a priori storici, dal piano del potere non retrocede di un passo.

Il che, per certi aspetti, è paradossale. Perché Foucault è proprio colui che ha smontato la concezione tradizionale del potere suggerendo di «tagliare la testa al re»21. Ha frammentato, moltiplicato, dilatato la nozione di potere, sino a farla sostanzialmente coincidere con quella di storicità. Il termine «dispositivo», che gioca un ruolo centrale nella sua analisi del potere, è infatti costruito sulla nozione di «positività» – assai ricorrente nell’Archeologia del sapere – che in Hegel indica l’elemento storico nel suo carattere coercitivo (in Illuminismo e critica Foucault parla infatti di «effetti coercitivi delle positività»22). Le positività sono cioè elementi storici che fungono da a priori coercitivi in quanto dispongono del soggetto, lo immettono entro pratiche di vita (usi, costumi, regole, credenze) e perciò stesso lo istituiscono come un «ruolo».

Foucault ha dunque aperto la strada per concepire le relazioni di potere in termini di pratiche storicamente determinate, asoggettive e acefale, che mutano col mutare dei loro a priori storico-materiali. Ma l’ha anche immediatamente chiusa, nella misura in cui la sua analisi presuppone delle tecniche e delle strategie di potere, cioè pratiche «intenzionali» guidate da un fine, che non sarebbero però ad altro riconducibili (come se non avessero una loro «provenienza» ed «emergenza», cioè dei loro specifici a priori).

Il timore di Foucault è chiaro e, per certi versi, comprensibile: egli teme che, riconducendo il potere ad altre istanze, si finirebbe per reintrodurre dalla finestra quel soggetto che è stato cacciato dalla porta. Ma la prospettiva che così viene a tracciarsi pone un problema metodologico relativo alla genealogia del biopotere: dovremmo infatti concluderne che nella modernità vi sia stato un «mutamento» nelle strategie di potere, senza poterne ulteriormente indagare il senso, cioè le condizioni storico-materiali che lo hanno reso possibile (se non introducendo misteriose «intenzioni»). Se si segue Foucault su questa strada non si riesce insomma ad andare oltre quel muro che egli stesso ha eretto nella sua concezione del potere.

La retroazione del «pratico-inerte»

Vorrei dunque avanzare una diversa prospettiva genealogica per approcciare il problema del biopotere. Si tratta di sciogliere interamente la nozione di potere entro quella di storicità (seguendo una via già tracciata da Foucault, sebbene da lui non percorsa sino in fondo23). E, dunque, sciogliere la nozione di «dispositivo» entro quella di «prassi» (ogni pratica produce soggettivazione).

Un aiuto può venire in questo senso dal secondo tomo della Critica della ragione

dialettica di Sartre. Secondo l’autore, le finalità che guidano pratiche, tecniche e

strategie sono sempre sottratte al soggetto da dinamiche anonime che sono il frutto imprevisto della sua stessa attività24. Come le macerie fumanti rimaste su un campo di battaglia: non un mero ammasso di resti, destinato all’oblio, senza più alcuna influenza sulle vicende che lo hanno prodotto, ma qualcosa che retroagisce

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Data di pubblicazione: 09.01.2015 sui progetti delle fazioni in lotta, fornendo informazioni sulle modalità dello scontro, inducendo gli eserciti a spostarsi e gli strateghi ad aggiornare i loro piani. Sono ciò che Sartre, già nel primo tomo della Critica, chiama «pratico-inerte», quale oggettivazione della prassi umana che devia dai progetti originari e costringe a continui riposizionamenti. Il soggetto è dunque ogni volta riplasmato dal prodotto della sua stessa azione: è soggettivizzato dalle sue stesse oggettivazioni.

Nel secondo tomo della Critica, soggetto e oggetto sono cioè pensati come effetti transitori di una prassi sempre in corso e in costante divenire. Originaria è perciò proprio la prassi, il farsi comune dei due poli25. Questo è poi ciò che pensava anche Foucault quando, nell’Archeologia del sapere, intendeva le pratiche come ciò a partire da cui soggetto e oggetto si co-istituiscono in reciproca relazione. In questo senso, ogni pratica è un dispositivo di soggettivazione.

Ma poi ogni pratica, nella sua strategia e nei suoi fini, è essa stessa un effetto del divenire. Il finalismo asoggettivo, assunto da Foucault per parlare del potere, ricorda quello più vetusto, stigmatizzato da Goethe, di chi pensava che la natura avesse dotato il toro delle corna perché potesse caricare (o, nell’ironia di Voltaire, avesse dotato l’uomo del naso perché vi potesse appoggiare gli occhiali). Anziché in termini finalistici, questo divenire sempre in corso, con i suoi effetti di soggettivazione, sarebbe più proficuo pensarlo come un anonimo processo di

exaptations26.

Questa diversa prospettiva ci permette di guardare alle strategie e alle tecniche del moderno biopotere non come finalità istituite dai soggetti, né come asoggettive «intenzioni» o punti di partenza misteriosi nel loro costituirsi, ma come pratiche storicamente determinate che, di volta in volta, emergono da altre pratiche sottostanti, le cui oggettivazioni, retroagendo sull’origine, ne riconfigurano continuamente il senso e la fisionomia.

Scrittura algebrica, statistica, demografia

In questa prospettiva, si può ora comprendere da dove emerga la codificazione quale elemento discriminante del biopotere «moderno» rispetto a quello «antico». Essa è strettamente legata alle pratiche di scrittura che si diffondono in età moderna. Ma, anzitutto, in che senso «scrittura»?

Scrittura non come «mero mezzo», strumento in mano a soggetti, ma come pratica anonima e acefala che soggettivizza i propri fruitori a partire dalle oggettivazioni che essa stessa produce. In secondo luogo, scrittura in un senso assai ampio, come

traccia o incisione di un supporto.

Come evidente, senza scrittura non vi sono né diritto, né scienza, né burocrazia, né amministrazione. E neppure vi può essere «oggettività», come già notava Husserl nell’Origine della geometria27

. In breve: senza scrittura non vi è

codificazione, con tutto ciò che questa rende possibile. È la scrittura a produrre un codice, cioè una «forma» definita, un eidos astratto (sganciato) dalla vita vivente,

fissato una volta per tutte e valido per tutti in modo mirato (omnes et singulatim), con inedite possibilità di gestione e di controllo (possibilità che il linguaggio orale non può garantire, ma neppure tentare o immaginare)28.

Sin dal suo primo sorgere, nella Mesopotamia del IV millennio a. C., la scrittura ha prodotto una codificazione delle pratiche di vita, con effetti su tutta la comunità e sul suo «ecosistema» materiale e culturale (terra, uomini, animali, dèi), divenuti oggetto di un’amministrazione e di una gestione complessiva del vivente29

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Data di pubblicazione: 09.01.2015 Ma il vero salto di qualità avviene con la scrittura matematica, segreto motore della modernità. La rivoluzione operata dalla scienza moderna, come illustrato da Husserl nella Crisi delle scienze europee, è stata resa possibile dalla galileiana «matematizzazione della natura» e dalla cartesiana «algebrizzazione della geometria», ampliando le possibilità di previsione, gestione e controllo dei fenomeni naturali e della vita nel suo complesso.

In «Bisogna difendere la società», Foucault afferma che la biopolitica si occupa di grandi numeri, di fenomeni globali, di eventi aleatori, imprevedibili nei dettagli ma caratterizzati da costanti30. In Sicurezza, territorio, popolazione parla dell’oggetto «popolazione» come di un reticolo di variabili e di costanti31

. Ora, che cosa sono variabili e costanti se non il risultato di un certo modo di scrivere? Esse sono il prodotto di quella particolare scrittura matematica che è l’analisi, sorta nella seconda metà del XVII secolo grazie agli studi di Newton e Leibniz sul calcolo infinitesimale. È entro la pratica di tale calcolo che emergono nozioni come serie, variabile, costante, tutte ruotanti attorno a quella di funzione. Ma, prima ancora di essere «nozioni», queste «cose» sono segni grafici sulla carta, rappresentazioni geometriche tracciate sul piano cartesiano. Si tratta di oggettivazioni che finiranno per retroagire sul senso e sulle finalità della pratica che le ha generate. E dunque sui soggetti che, esercitando quella pratica, ne sono soggettivizzati.

È infatti a partire dalla disponibilità di questi oggetti e della loro scrittura che nel XVII secolo iniziano a svilupparsi la demografia e la statistica moderne, quando i registri della mortalità – elenchi fatti di carta, segni alfabetici e qualche numero indicante date di nascita e di morte – vengono trascritti da John Graunt entro la pratica scritturale del calcolo delle funzioni. Nascono così nuovi oggetti come la «funzione di sopravvivenza» o la «probabilità di morte», specifiche formule algebriche che, in quanto oggettivate sulla carta, restano a disposizione per altre pratiche: questo «pratico-inerte» retroagisce dunque sulla prassi amministrativa cambiandone le finalità. L’amministrazione dello Stato, ora, non opererà più solo con registri della mortalità, ma con un complesso calcolo di funzioni algebriche: sorgono così nuove istanze, nuovi problemi, nuove soluzioni.

Conclusione

Il dispositivo della scrittura riconfigura quello del linguaggio, riarticolandone finalità e funzioni. In particolare, esso genera l’illusione che la vita (già catturata dal Nome, cioè prodotta e poi assunta come oggetto retroflesso dalla pratica linguistica) possa essere fissata e «tenuta ferma» nel codice. Sogno di un mondo in cui l’eternità è garantita non più socialmente (il Nome come “forma di vita” che si tramanda attraverso generazioni) ma individualmente (anima cibernetica che si trapianta nei corpi). Un sogno che rende più comprensibile l’altrimenti inspiegabile fenomeno del calo delle nascite: per interi millenni la prolificità è stata un valore, nonché un vanto, in tutte le civiltà umane conosciute, mentre nella moderna società occidentale non si fanno più figli.

L’antica funzione sovrana di garantire la vita assume nella modernità compiti inediti, delineati dalle nuove pratiche di scrittura, che incalzano il potere sovrano con istanze differenti, finendo per configurare nuovi interventi di gestione del vivente e della sua oikonomia. Se dunque nella modernità lo Stato assume nuove tecniche «biopolitiche», ciò avviene non perché il «potere» ha intenzionalmente «cambiato» strategia (un modo di dire che, di per sé, non spiega niente): la

(11)

Data di pubblicazione: 09.01.2015 strategia emerge da un intreccio di pratiche storicamente determinate, dalle loro oggettivazioni e dal modo in cui queste retroagiscono sull’intreccio di partenza. Per comprendere come mai sorga in epoca moderna qualcosa come una «strategia biopolitica» andrebbe dunque riportata in luce, nei suoi cammini tortuosi e nei suoi intrecci imprevisti, questa serie di pratiche e di operazioni materiali – che si snodano dai calcoli di Cartesio, Newton e Leibniz sino alla loro applicazione in ambito scientifico, tecnico e amministrativo – considerando che ognuna di queste pratiche produce non soltanto nuovi oggetti, trascrivendo oggetti precedenti entro una nuova forma, ma anche nuovi soggetti. Vale a dire: nuovi «ruoli», nuovi

habitus, nuove finalità. Considerando, inoltre, che gli effetti risultanti dalla

scrittura del demos e dalla scrittura del bios cambiano col cambiare della grafia. La genesi e lo sviluppo della biopolitica sono inscindibilmente intrecciati al succedersi storico delle demo-grafie e delle bio-grafie.

Pensare genealogicamente, vale a dire esplorare il sottosuolo della modernità in termini di pratiche e di a priori storico-materiali – anziché in termini di «intenzioni» e «strategie» di potere – può forse delinearsi come una migliore via per porre il pensiero all’altezza dei problemi che incalzano il presente e prefigurano il futuro.

1 G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, p. 9. 2

J. Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), Jaca book, Milano 2009, p. 270. 3

Ibidem. Osserva ancora Derrida: «Il re, il monarca, l’imperatore è maggiorato, eretto […] a

un’altezza maestosa, maggiorata, aumentata, esagerata» (ivi, p. 269); questa maggiorazione (majestas deriva da magnus, major) è l’attributo essenziale della potenza sovrana, il suo tratto distintivo: «è il più, l’economia del più, l’economia del surplus» (ivi, p. 327).

4 Cfr. J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Bringhieri, 1973, p. 412 e sgg. 5

Lacan ne parla nel Séminaire, Livre IX, L’identification (1961-1962), inedito, su cui cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 343 ss.

6 Ivi, p. 345.

7 Cfr. G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, Torino 1972.

8 Cfr. C. Sini, Il simbolo e l’uomo, Egea, Milano 1991, p. 252 ss. e id., La virtù politica.

Filosofia e antropologia, Jaca book, Milano 2004, p. 205 ss.

9

Sulla genesi del patriarcato (o processo di «virilizzazione neolitica») cfr. J. Cauvin, Nascita

delle divinità, nascita dell’agricoltura. La rivoluzione dei simboli nel Neolitico, Jaca book,

Milano1994.

10 A. Tosato, Il matrimonio israelitico, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1982, p. 120.

11 Sulla nozione di oikonomia cfr. G. Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia

teologica dell’economia e del governo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

12

Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995, pp. 97-101. 13 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 19785, p. 120.

(12)

Data di pubblicazione: 09.01.2015

14 Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 112.

15 M. Foucault, «Io sono un artificiere» in Conversazioni. Interviste di Roger-Pol Droit, Mimesis, Milano 2007, p. 55.

16

Cfr. id., «Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica», in Biopolitica e

liberalismo, Medusa, Milano 2001.

17 Sulla nozione di «paradigma», cfr. R. Fabbrichesi, Cosa significa dirsi pragmatisti. Peirce e

Wittgenstein a confronto, Cuem, Milano 2002 e G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo,

Bollati Boringhieri, Torino 2008.

18 M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 84. 19

Cfr. M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault III, Feltrinelli, Milano 1998, p. 283.

20 Id., La volontà di sapere, cit., p. 84. 21 Cfr. ivi, p. 79.

22 Id., Illuminismo e Critica, Donzelli Ed., Roma 1997, p. 61.

23 Cfr. E. Redaelli, L’incanto del dispositivo. Foucault dalla microfisica alla semiotica del

potere, ETS, Pisa 2011.

24 Cfr J.-P. Sartre, L’intelligibilità della Storia. Critica della ragione dialettica Tomo II, Marinotti, Milano 2006, p. 91 e sgg.

25 Cfr. F. Cambria, La materia della storia. Prassi e conoscenza in Jean-Paul Sartre, Ets, Pisa 2009.

26 Il termine exaptation è stato coniato da S. J. Gould e E. Vrba all’interno degli studi sull’evoluzionismo (cfr. S. J. Gould e E. Vrba, Exaptation. Il bricolage dell’evoluzione, Bollati Boringhieri, Torino, 2008). Sull’uso filosofico di questo termine in relazione al metodo genealogico, cfr. A. Parravicini, Il pensiero in evoluzione. Tra darwinismoe pragmatismo, ETS, Pisa 2012 e R. Fabbrichesi, Plasmare il materiale ‘uomo’ per nuovi usi: un confronto tra

genealogia e evoluzionismo, in id., In comune. Dal corpo proprio al corpo comunitario,

Mimesis, Milano 2012, p. 195 e sgg.

27 Cfr. l’Appendice III di E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia

trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961.

28 Sulla nozione di codice in relazione alla pratica di scrittura cfr. E. Redaelli, L’incanto del

dispositivo, cit., p. 115 e sgg.

29 Il tema è approfondito in ivi, pp. 138-173. Cfr. anche C. Sini, Del viver bene. Filosofia ed

economia, Jaca book, Milano 2011.

30

Cfr. M. Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 2009, p. 212. 31

Cfr. id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005.

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