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Il (difficile) percorso italiano verso il sistema duale

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Academic year: 2021

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sensi dell’art. 8 non è sindacabile dal giudice, ponendosi così fine alla annosa e controversa questione di come valutare le poste attive e passive di un contratto collettivo alla luce del principio di inderogabilità. Il limite di tale intervento normativo, tuttavia, è che non si inserisce in un quadro complessivo di regole – né legali né contrattuali – sulla rappresentatività e sulla legittimazione a contrarre. A tale riguardo il c.d. Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 sembra potersi porre come nuovo pilastro fondativo degli assetti associativi e contrattuali delle relazioni industriali italiane. Ma, a quasi due anni dalla sua sottoscrizione, sconta ancora evidenti ritardi applicativi, tali forse da non potersi escludere un intervento regolatorio legislativo.

4. Seconda annotazione tecnica: il (difficile) percorso italiano verso il sistema duale*

1) Una semplificazione articolata

Le riforme della scuola e del lavoro pensate dal Governo sono giunte – dopo un iter di approvazione tutt’altro che snello, seppure piuttosto breve – al punto finale di approdo. A cavallo dei mesi estivi, infatti, hanno visto la luce sia la l. n. 107/2015 che contiene La Buona Scuola, sia gli ultimi quattro decreti attuativi del c.d. Jobs Act8.

Un primo sguardo a livello generale mostra come la volontà di semplificazione e rapidità nel processo di ammodernamento del sistema scolastico e del mercato del lavoro italiano abbia trovato non poche resistenze e sia risultata più complessa di quanto previsto. Basti pensare che il provvedimento sulla scuola, approvato tramite un discusso voto di fiducia ha portato all’emanazione di un testo legislativo composto da un unico articolo e oltre 200 commi che solo in parte ricalcano il disegno originario presentato dal

* Di Michele Tiraboschi.

8 Il progetto originario della Buona Scuola è stato presentato nel settembre 2014 e aperto a una

consultazione on-line nell’ottica di un coinvolgimento attivo di tutti i potenziali stakeholder. Per quanto riguarda il Jobs Act la visione originaria, poi ampiamente rivista, venne addirittura presentata nel mese di gennaio 2014 in una e-news lanciata dallo stesso Premier Matteo Renzi. Sul primo punto si veda la piattaforma on-line https://labuonascuola.gov.it/ che mette a disposizione tutti i passaggi più salienti dell’iter di implementazione del progetto. Per quanto riguarda, invece, il Jobs Act si rimanda alla raccolta completa e sistematica della documentazione curata da ADAPT e disponibile al seguente link

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Governo nell’autunno 20149. Per quanto riguarda, invece, il mercato del lavoro, il risultato finale è un mosaico di otto decreti legislativi molto densi e solo parzialmente coerenti con quell’idea di testo semplificato, snello e facilmente traducibile in lingua inglese in modo tale da attrarre capitale e investimenti stranieri10, che pure era l’intenzione originaria.

Al di là dei problemi di forma e di stile ai quali nemmeno La Buona Scuola e il Jobs Act sono riusciti a sfuggire, il vero nodo da analizzare rimane la coerenza interna dei provvedimenti e la capacità degli stessi di porre in dialogo il mondo della formazione e quello del lavoro così come richiesto ripetutamente dall’Unione europea.

Sul primo aspetto non si può non rilevare come La Buona Scuola si sia mediaticamente arenata sul tema della stabilizzazione degli insegnati precari, concentrandosi primariamente attorno a dispute in materia di organici e potere dei dirigenti, piuttosto che sulla rivoluzione di ordinamenti e didattica per superare l’obsolescenza che molti osservatori, anche internazionali, rimproverano alla formazione obbligatoria italiana11. Dall’altro lato, parte dei numerosi provvedimenti che costituiscono il Jobs Act sembrano costruiti avendo in mente una visione del mercato del lavoro ben lontana da quella grande trasformazione dei processi produttivi e gestionali oggi in atto. Le due riforme, prese singolarmente, accanto a meriti indubbi presentano il limite di non aver voluto – almeno per ora – interpretare e governare i cambiamenti in corso, che richiedono un coordinamento continuo tra scuola e lavoro. Tra La Buona Scuola e Jobs Act, infatti, pochi e piuttosto marginali sono i punti di congiunzione. Questi si riducono alle rapide previsioni contenute nella l. n. 107/2015 in materia di alternanza scuola-lavoro e agli interventi in materia di apprendistato contenuti nel d.lgs. n. 81/2015.

Le due riforme ripetono, quindi, uno schema molto consolidato. Da una parte la scuola con le sue (primarie) esigenze di strutture didattiche e gestionali, dall’altra il lavoro. I pochi punti di contatto rimangono casi isolati oppure ristretti entro il confine della sperimentazione senza, invece, avere la possibilità di divenire una prassi consolidata.

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Si veda sul punto: BALSAMO, “La Buona scuola” è legge: troppi compromessi, ma con

qualche buona novità, in Bollettino ADAPT, n. 27/2015.

10 Per una riflessione di sistema e di politica del lavoro si rimanda a: N

ESPOLI, SEGHEZZI, TIRABOSCHI (a cura di), Il Jobs Act dal progetto alla attuazione, ADAPT Labour Studies e-Book series, n. 47.

11 Si veda: B

ALSAMO, “Deportazione” degli insegnanti. Dietro una classica polemica

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2) Una alternanza “potenziata”

I dati presentati dall’INDIRE lo scorso novembre relativi al grado di diffusione dell’alternanza scuola lavoro in Italia hanno convito il Governo ad optare per un robusto cambio di rotta in direzione del potenziamento di tale metodologia didattica. Le rilevazioni condotte per conto del MIUR, infatti, mostrano come nel periodo 2013-2014 le ore complessive dedicate ai percorsi che alternano la formazione tradizionale in aula a quella sui luoghi di lavoro non superino la media di 97,9 ore annuali12. I ragazzi coinvolti in tali attività sono poco più del 10% della platea totale degli studenti delle scuole secondarie superiori con oltre 15 anni di età. Si tratta di numeri che testimoniano come l’alternanza, dopo oltre un decennio dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, sia ancora una sperimentazione limitata a pochi casi, concentrati in maniera consistente presso gli istituti secondari superiori professionali13.

Alla luce di questi elementi è possibile comprendere maggiormente quanto contenuto ai commi 33-43 della l. n. 107/2015. In prima battuta si statuisce che «i percorsi di alternanza scuola-lavoro […] sono attuati, negli istituti tecnici e professionali, per una durata complessiva, nel secondo biennio e nell’ultimo anno del percorso di studi, di almeno 400 ore e, nei licei, per una durata complessiva di almeno 200 ore nel triennio». Il rafforzamento dell’alternanza passa, quindi, da una previsione minima fissata ex lege della quota di ore da dedicare alla formazione degli studenti tramite questa metodologia didattica. È sufficiente riprendere i dati dell’INDIRE sopra brevemente richiamati per comprendere come l’obiettivo sia (giustamente) ambizioso.

A norma di legge, il nuovo monte orario sarà in vigore già con la ripresa delle attività dell’anno 2015/2016. Il comma 33, infatti, si chiude precisando che le nuove disposizioni «si applicano a partire dalle classi terze attivate nell’anno scolastico successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge». Essendo stato il provvedimento pubblicato in Gazzetta Ufficiale a luglio 2015, l’anno scolastico successivo è quello che decorre dal 1 settembre 2015 e si conclude il 31 agosto 2016. Ha ragione il Governo ha

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Si veda: BURATTI,MASSAGLI, Con dodici giorni in azienda i ragazzi non possono formarsi, in Bollettino ADAPT, n. 42/2014.

13 Un’analisi e una progettazione di dettaglio su come implementare i percorsi di alternanza

scuola-lavoro è contenuta in: BURATTI, CAROLI, MASSAGLI (a cura di), Gli spazi per la valorizzazione dell’alternanza scuola-lavoro, in collaborazione con IRPET, ADAPT Labour Studies e-Book series, n. 42.

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spingere sull’acceleratore di una possibilità realmente mai offerta ai nostri studenti, sebbene, nella pratica, sarà molto difficile che le scuole riescano a ricalibrare la propria offerta formativa in così poco tempo e questo potrebbe involontariamente incoraggiare forme di alternanza meno incisive (pure permesse dalla Buona Scuola), come il laboratorio o l’impresa simulata. Il comma 34 amplia la platea di soggetti che possono essere coinvolti in percorsi di alternanza scuola-lavoro comprendendo anche gli ordini professionali, i soggetti pubblici e privati dedicati alla promozione del patrimonio culturale, artistico, musicale, i musei e gli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI.

Di particolare interesse è quanto sancito dal comma 35 che prevede la possibilità sia di strutturare i percorsi di alternanza «durante la sospensione delle attività didattiche» sia di sviluppare tale esperienza all’estero.

I rimanenti commi (37-43) dell’articolo si preoccupano di fornire alcune indicazioni pratiche per l’avvio dei percorsi. In primo luogo si prevede la definizione della Carta dei diritti e dei doveri degli studenti in alternanza scuola-lavoro. Il documento sarà oggetto di uno specifico decreto che coinvolge i titolari del Ministero dell’istruzione, del lavoro e della pubblica amministrazione. Secondariamente, il comma 38 chiarisce che la formazione degli studenti in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro è di competenza della scuola. Si tratta di una precisazione importante che aiuterà le azienda, quantomeno quello con “rischio basso”, a guardare con meno diffidenza l’alternanza scuola-lavoro. Non essendo, infatti, questa una forma di lavoro, in senso contrattuale, nel recente passato c’erano stati numerosi dubbi circa chi tra l’ente formativo o l’impresa dovesse farsi carico della formazione su un tema così delicato, tanto più che i giovani coinvolti sono di norma minorenni.

A sostegno dell’attivazione dei progetti di alternanza, La Buona Scuola porta una dote pari a 100 milioni di euro da destinare alle scuole. Queste, per il tramite del dirigente scolastico, dovranno concretamente sviluppare tali percorsi e valutarne la qualità.

Da ultimo, la l. n. 107/2015 al comma 41 prevede l’istituzione presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura di un apposito registro per l’alternanza scuola-lavoro strutturato in due parti. La prima, aperta e consultabile liberamente, conterrà l’elenco dei partner pubblici e privati che si sono resi disponibili ad accogliere studenti. La seconda, composta da una sezione speciale, sarà dedicata a una anagrafica delle imprese disponibili ad ospitare studenti in alternanza.

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In sintesi, La Buona Scuola in materia di alternanza scuola lavoro prova a rendere effettivo l’impianto teorico e legislativo che si radica nella c.d. riforma Moratti e che si è poi evoluto con le correzioni marginali apportate dalla c.d. riforma Gelmini. La prima preoccupazione del Legislatore non è stata correggere quel disegno, bensì aumentare per via legislativa il numero di ore da dedicare obbligatoriamente a questa modalità didattica. Quale sarà l’impatto concreto della misura è difficile a dirsi. Non esiste alcuna norma incentivante o, al contrario, sanzionatoria nel caso in cui le scuole decidano o meno di applicare quanto stabilito dalla l. n. 107/2015. Segnale eloquente del fatto che lo stesso Legislatore si aspetti una graduale diffusione dell’alternanza, che si radicherà nel sistema scolastico laddove le parti sociali, in particolare datoriali, saranno più recettive e dove le Regioni riusciranno ad approvare sistemi premianti per imprese e scuole che avvieranno le sperimentazioni.

3) Apprendistato: fine del Testo Unico

Se l’intervento della Buona Scuola non intacca, di fatto, l’impianto normativo in materia di alternanza scuola-lavoro, quello riguardante apprendistato, invece, determina uno stravolgimento della normativa precedente. Il Testo Unico del 2011, frutto di un lungo percorso concertativo tra Governo e Parti Sociali, già era stato ritoccato dalla riforma Fornero e dal pacchetto Letta-Giovannini. Ora viene abrogato e riportato, con ampie modificazioni, nel testo organico dei contratti non standard, ovvero nel d.lgs. n. 81/2015 perdendo, però, in tal modo, la omogeneità originaria14. Riconducendo l’apprendistato all’interno del provvedimento che contiene «la disciplina organica dei contratti di lavoro», il Legislatore, infatti, svilisce questa tipologia contrattuale considerandola uno dei tanti strumenti possibili di assunzione dei giovani, dimenticandone la funzione di placement ovvero di raccordo tra scuola e lavoro propria del Testo Unico del 201115.

Da un punto di vista generale, dunque, il cambio di prospettiva con il Jobs Act è netto: l’apprendistato non viene più concepito come lo strumento primario di

14 Si rimanda, per una panoramica generale in merito all’intervento del Jobs Act in materia di

apprendistato a: MASSAGLI, TIRABOSCHI (a cura di), Un apprendistato che (ancora) non decolla. A proposito del monitoraggio ISFOL e della ennesima riforma senza progetto, Bollettino speciale ADAPT, 2015, n. 17.

15 La logica di placement era quella sottesa al riordino della disciplina in materia di

apprendistato contenuta nel d.lgs. n.167/2011. Essa era stata accettata da tutte le parti sociali e si era originata da una condivisione comune della funzione e della mission dello sviluppo delle politiche formative negli anni di recessione economica. Sul punto si rimanda a: TIRABOSCHI (a cura di), Il Testo Unico dell’apprendistato e le nuove regole sui tirocini, Giuffrè, 2011.

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ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, bensì come una delle forme flessibili di contrattualizzazione dei giovani. Tutto ciò a discapito delle indicazioni comunitarie e internazionali che spronano i Paesi ad attuare misure di sostegno e sviluppo dell’apprendistato perché strumento principe per evitare il fenomeno di mismatch tra domanda e offerta di lavoro.

Entrando nel dettaglio della nuova normativa, il capo V del d.lgs. n. 81/2015 contiene la disciplina complessiva dell’apprendistato16. È confermata la natura a tempo indeterminato del contratto e la sua funzione di promozione della formazione e dell’occupazione dei giovani. L’art. 41 riprende al comma 2 l’articolazione su tre diversi livelli. A cambiare rispetto al Testo Unico del 2011 sono le finalità dell’apprendistato del I e del III tipo. Il primo (la cui denominazione è diventata piuttosto complessa: apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato di specializzazione tecnica superiore) ha come obiettivo il raggiungimento di una qualifica o di un diploma del sistema di istruzione e formazione professionale a cui si aggiungono i titoli di diploma di scuola secondaria superiore e dei percorsi di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore. Il terzo livello di apprendistato, invece, si concentra sulla formazione terziaria – lauree, master, dottorati di ricerca, percorsi ITS – e su attività di ricerca, perdendo così il riferimento ai titoli dell’istruzione secondaria superiore di secondo grado che, come si è visto, sono ora oggetto dell’apprendistato del primo tipo. Nell’intenzione del Legislatore proprio queste due tipologie di apprendistato hanno come obiettivo quello di integrare organicamente, in un sistema duale, istruzione e lavoro. Rimane, invece, confermata la finalità dell’apprendistato di secondo livello ora semplicemente denominato “apprendistato professionalizzante” il cui scopo è l’ottenimento di una qualifica valida ai fini contrattuali.

L’art. 42 presenta la disciplina generale valida per tutte e tre le tipologie di apprendistato. Di particolare importanza appaiono i primi quattro commi aventi per oggetti: la forma del contratto e del piano formativo; la durata minima; la disciplina applicabile in caso di licenziamento illegittimo; il recesso al termine del periodo di apprendistato. A differenza del Testo Unico del 2011 queste tematiche vengono sottratte alla disciplina17 da parte della contrattazione collettiva nazionale.

16 Per una analisi di dettaglio del d.lgs. n. 81/2015 si rimanda a: T

IRABOSCHI, Prima lettura del d.lgs. n.81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, ADAPT Labour Studies e-Book series, n.5.

17 In materia di licenziamenti si rimanda a: C

ARINCI, CESTER (a cura di), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n.23/2015, ADAPT Labour Studies e-Book series, 2015, n. 46.

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4) Il nuovo apprendistato di primo livello

L’apprendistato di primo livello risulta essere quello maggiormente rivisitato perché possa sempre di più diventare “tedesco”, ovvero evolversi nella via italiana alla formazione professionale come conosciuta nei Paesi germanici. L’art. 43 del d.lgs. n. 81/2015 si compone di 9 commi che non solo ampliano le finalità dell’istituto, ma ne descrivono una articolazione interna più complessa.

Il comma 1 prescrive che l’apprendistato per la qualifica, il diploma professionale e la certificazione tecnica superiore, la quale si ottiene al termine del percorso IFTS, «è strutturato in modo da coniugare la formazione effettuata in azienda con l’istruzione e la formazione professionale svolta dalle istituzioni formative che operano nell’ambito dei sistemi regionali». Il comma 2 conferma che l’età degli apprendisti è compresa tra i 15 e i 25 anni e che la durata del contratta dipende dalla durata del percorso formativo: massimo tre anni per la qualifica professionale; quattro per il diploma professionale. Sarà compito delle Regioni disciplinare nel concreto la materia e in caso di assenza di una regolamentazione regionale potrà intervenire il Ministero del lavoro e delle politiche sociali tramite propri decreti.

Le durate massime sopra indicate potranno essere prorogate di un ulteriore anno nel caso in cui gli apprendisti qualificati e diplomati vogliano maturare «ulteriori competenze tecnico-professionali e specialistiche, utili anche ai fini dell’acquisizione del certificato di specializzazione tecnica superiore o del diploma di maturità professionale all’esito dell’anno integrativo». Il comma 4 prevede anche la possibilità di estendere il contratto di un ulteriore anno nell’eventualità in cui l’apprendista non abbia conseguito il titolo di studio collegato al proprio percorso di alternanza scuola lavoro. Tale previsione appare contraddittoria con la disciplina in materia di licenziamento riformulata dall’art. 42, comma 3 la quale prevede che per gli apprendisti di I e III livello «costituisce giustificato motivo di licenziamento il mancato raggiungimento degli obiettivi formativi». Come anticipato in precedenza, la riforma contenuta nel Jobs Act sposta sul primo livello di apprendistato la possibilità di ottenere anche i titoli di scuola secondaria superiore. Il comma 5 dell’art. 43 prevede, sul punto, che possano essere assunti gli studenti del secondo ciclo superiore a partire dal quindicesimo anno di età e per un massimo di quattro anni per conseguire in tal modo il titolo finale. Si tratta di una novità relativamente importante. In precedenza, infatti, l’art. 5 del d.lgs. n. 167/2011 consentiva di conseguire il diploma di scuola secondaria superiore o a ragazzi maggiorenni o

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a giovani in possesso di un titolo dell’istruzione e formazione professionale con almeno 17 anni di età.

L’avvio pratico dei contratti di apprendistato di primo livello passa dalla stipula di un protocollo tra datore di lavoro e l’istituzione formativa che ha in carico il ragazzo. Il documento serve a chiarire compiti e responsabilità tanto della scuola quanto dell’impresa. Un apposito decreto – ancora da emanare – definirà il modello della convenzione. Ciò che invece già chiarisce il comma 6 dell’art. 43 è il tetto alla formazione esterna all’azienda che non potrà essere superiore al 60% dell’orario ordinamentale per gli apprendisti al secondo anno e al 50% dello stesso per gli apprendisti degli anni successivi. Di particolare importanza appare il comma 7 che ridisegna la composizione della retribuzione. Sul punto occorre ricordare come già nel 2014 grazie al d.l. n. 34 il Legislatore aveva introdotto per legge una alleggerimento della retribuzione degli apprendisti in modo tale da favorire la diffusione dello strumento18. Ora si prevede che, per tutto il tempo in cui il giovane è impegnato nella formazione scolastica, non sussiste l’obbligo retributivo da parte del datore di lavoro. Mentre una retribuzione pari al 10% del valore complessivo è riconosciuta per le ore di formazione on the job. In sintesi, per il calcolo complessivo della retribuzione occorrerà scorporare le ore di attività a “scuola” (non pagate), conteggiare le ore di formazione in azienda (pagate il 10% della retribuzione piena), pagare l’importo pieno per le ore di solo lavoro. Si tratta di una misura molto rilevante in quanto permette di allineare lo stipendio degli apprendisti italiani a quello dei propri colleghi nei principali Paesi europei, in modo particolare quelli di tradizione germanofona19. L’art. 43 si chiude sia confermando la possibilità per le Regioni e le Province autonome che si sono dotate di un sistema di alternanza scuola lavoro di attivare anche apprendistati di primo livello a tempo determinato per attività di tipo stagionale, sia lasciando aperta la possibilità di trasformazione dell’apprendistato di primo livello in apprendistato di secondo livello per gli studenti che hanno completato il ciclo formativo. Unica condizione è che la durata massima dei due periodi di apprendistato non sia superiore a quella indicata dalla contrattazione collettiva nazionale.

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Si veda la sezione dedicata al tema apprendistato contenuta in: TIRABOSCHI (a cura di),

Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34. Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese, ADAPT Labour Studies e-Book series, 2014, n. 22.

19 Si veda l’analisi comparata contenuta in: B

URATTI,PIOVESAN, TIRABOSCHI (a cura di),

Apprendistato: quadro comparato e buone prassi, ADAPT Labour Studies e-Book series, n. 24.

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5) L’alta formazione duale in apprendistato dopo il Jobs Act

Sorvolando sull’apprendistato di tipo professionalizzante la cui disciplina contenuta all’art. 44 del d.lgs. n. 81/2015 è rimasta sostanzialmente invariata, è necessario porre l’attenzione sull’altra tipologia di apprendistato che nelle intenzioni esplicite del Legislatore dovrebbe dare vita al sistema duale in versione italiana. Si tratta dell’apprendistato del terzo tipo ora descritto all’art. 45. Da un punto di vista generale poche sono le variazioni rispetto all’impianto dell’art. 5 del Testo Unico del 2011. Si conferma la possibilità di conseguire con questa tipologia contrattuale titoli di laurea – triennale e specialistica – master universitari, dottorati di ricerca, diploma ITS oppure sviluppare attività di ricerca o il percorso di praticantato per le professioni ordinistiche. A mutare è la gestione pratica dell’apprendistato di terzo livello. Anche in questo caso occorre la stipula di un protocollo di intesa tra azienda e istituto formativo o di ricerca che cura la parte di formazione tradizionale. Lo schema del protocollo sarà prossimamente definito da un apposito decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Una simile procedura è sicuramente un appesantimento burocratico, poco utile allo sviluppo e alla diffusione di questo tipo di apprendistato. Di particolare interesse è la formula del calcolo della retribuzione che riprende quella indicata dall’art. 43: le ore di formazione in aula non sono rendicontate; per le ore di formazione aziendale, invece, si calcola un valore pari al 10% di quello della retribuzione. I commi 4 e 5 dell’art. 45, da ultimo, chiariscono, riprendendo in modo pressoché identico il vecchio Testo Unico, che la regolamentazione e a durata del periodo di apprendistato di III livello è rimessa alle Regioni e alle Province autonome in accordo con le associazioni territoriali di rappresentanza. In caso di mancanza di appositi provvedimenti è sempre possibile stipulare una convenzione diretta tra azienda e istituzione formativa per attivare contratti sia di alta formazione che di ricerca.

6) Il periodo di transizione

In chiusura, non si può non rilevare come la fase transitoria tra la vecchia e la nuova normativa sarà sicuramente complessa e articolata. Il d.lgs. n. 81/2015, infatti, da un lato abroga il Testo Unico – così dispone l’art. 55, comma 1, lettera g – dall’altro prevede un periodo transitorio dai contorni incerti. È utile a tal proposito riprendere quanto contenuto all’art. 47, comma 5 ove si precisa che «per le regioni e le Province autonome e i settori ove la disciplina di cui al presente capo non sia immediatamente operativa, trovano applicazione le normative vigenti». E ancora, l’art. 55 comma 3 che prevede che «sino

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all’emanazione dei decreti richiamati dalle disposizioni del presente decreto legislativo, trovano applicazioni le regolamentazioni vigenti». La lettura combinata dei due commi mostra come, fino a quando non vi sarà stato un adeguamento normativo, tanto a livello nazionale quanto a livello regionale e di settore, le innovazioni previste dal Jobs Act resteranno lettera morta.

Due riforme: separate e distinte

L’analisi di dettaglio dei due provvedimenti di riforma voluti dal Governo Renzi mostra in maniera evidente che si è di fronte a due “treni” che procedono su binari paralleli, senza veri punti di contatto, per quanto la direzione sia quella da tempo indicata come la più lungimirante. È questo il limite più grosso dell’impostazione voluta e perseguita dall’Esecutivo, che pure si è cimentato nello sciogliere i nodi tradizionalmente più complessi del rapporto tra scuola e lavoro: il poco dialogo tra le due riforme. Le singole soluzioni tecniche, come hanno più volte ripetuto le istituzioni internazionali, non riescono ad essere incisive se non inserite in una cornice che crede nella valenza educativa e formativa del lavoro e ricomprende sia il diritto del lavoro che il mondo della formazione.

Sulla scena vi è una alternanza imposta per legge, ma ancora non adeguatamente presidiata sul campo, e un apprendistato di I e III livello la cui regole vengono modificate per la quarta volta in cinque anni20. Sarà ora responsabilità di imprese e parti sociali mettere a frutto quanto approvato dal Legislatore e, così facendo, frenare l’ansia della legge di normare una materia, quella appunto della integrazione tra formazione e lavoro, che mai si diffonderà se non vi sarà la reale volontà di imprenditori, scuole e giovani di scommettere sul metodo della alternanza formativa non tanto per avere meno disoccupati (anche), ma per educare giovani più preparati ad affrontare il futuro.

20 Per comprendere nel dettaglio la distanza tra le richieste europee e quanto di fatto è stato

portato avanti in Italia si rimanda all’infografica curata da ADAPT: L’apprendistato dopo il

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