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Il Gallaratese di Aymonino e Rossi: Milano, case, tipologie

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(34) a cura di Luca Monica Festival Architettura Edizioni Casa editrice del Festival dell’Architettura di Parma Borgo degli Studj, 11 - 43100 - Parma tel. 0521-905929 - fax. 0521-905953 email. faedizioni@festivalarchitettura.it web site. www.festivalarchitettura.it Direttore editoriale Carlo Quintelli. Collaborazione alla redazione Stefano Cusatelli Luca Monica Ricercatore al Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano. Prima edizione, ottobre 2008 Copyright FAEdizioni© 2008 ISBN 88-89739-09-6 I diritti di riproduzione, di memorizzazione e di adattamento totale e parziale con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche) sono riservati Finito di stampare nel mese di settembre 2008 da Grafiche STEP, Parma. Gallaratese Corviale Zen I confini della città moderna: grandi architetture residenziali. Disegni di progetto degli studi Aymonino, Fiorentino, Gregotti. ar c h ite tt u ra / r ic e r c h e. Coordinatore editoriale Enrico Prandi.

(35) I confini della città moderna: grandi architetture residenziali. Disegni di progetto degli studi Aymonino, Fiorentino, Gregotti. 4. GCZ pag 00 4-9 incipit FAE.indd 4-5. A cura di Luca Monica. 5. 24-09-2008 9:29:11.

(36) Sommario Presentazione, Carlo Quintelli, 8 Nota dei curatori della mostra, 9 Nota del curatore e ringraziamenti, 9 Il Gallaratese di Aymonino e Rossi: Milano, case, tipologie, disegni, Luca Monica, 10 e 30 Love Corviale, Marco Negroni, 17 e 58 Il «cuore» dello Zen, Federico Bucci, 21 e 84. Festival dell’Architettura 2005. Parma Architettura. Ricchezza e povertà. Curatori Federico Bucci, Luca Monica, Marco Negroni. Gallaratese Corviale ZEN I confini della città moderna: grandi architetture residenziali. Disegni di progetto degli studi Aymonino, Fiorentino, Gregotti.. Collaboratori Stefano Cusatelli, Michele Deregibus, Annette Tosto, Filippo Turchi. Mostra 19 settembre – 9 ottobre 2005 Voltoni del Guazzatoio, Palazzo della Pilotta, Parma Tavola rotonda Venerdì 23 settembre 2005, ore 10,30 Voltoni del Guazzatoio, Palazzo della Pilotta Con Giuseppe Cappelli, Claudia Conforti, Vittorio Gregotti, Franco Purini. Modera Francesco Moschini Proiezione del film Domenica 25 settembre 2005, ore 15,30 Voltoni del Guazzatoio, Palazzo della Pilotta “Trent’anni dopo”, sull’architettura dei quartieri Gallaratese, ZEN e Villaggio Matteotti, RaiSat 2003 Incontro con gli autori Odino Artioli e Massimo Casavola. 6. GCZ pag 00 4-9 incipit FAE.indd 6-7. Contributi Dipartimento di Progettazione dell’Architettura, Politecnico di Milano Compagnia Generale Ripreseaeree SpA, Parma Mediateca di Valle Giulia, Facoltà di Architettura di Roma Valle Giulia, Università degli Studi di Roma “La Sapienza” – Massimo Casavola Fondazione Adriano Olivetti, Roma Prestatori Odino Artioli, Roma Carlo Aymonino, Roma Centro Studi Archivio della Comunicazione, Università degli Studi di Parma Stefano Fiorentino, Roma Massimo Fortis, Milano Galleria AAM, Roma – Francesco Moschini Gregotti Associati, Milano Giuseppina Marcialis, Venezia Fabrizio Sferra Carini, Roma Stefano Topuntoli, Milano. Gallaratese Corviale ZEN I confini della città moderna: grandi architetture residenziali. Disegni di progetto degli studi Aymonino, Fiorentino, Gregotti A cura di Luca Monica. Disegni di progetto, 26 Gallaratese, 30 Corviale, 58 ZEN, 84 Antologia critica, a cura di Luca Monica, 105 Piero Bottoni (1958), Carlo Aymonino (1970), Aldo Rossi (1970), Massimo Scolari (1971), Aldo Rossi (1974), Manfredo Tafuri (1974), Carlo Aymonino (1974), Costantino Dardi (1974), Mario Fiorentino (1975), Franco Amoroso, Salvatore Bisogni, Vittorio Gregotti, Hiromichi Matsui, Franco Purini (1975), Francesco Dal Co, Mario Manieri Elia (1975), Vittorio Savi (1976), Giorgio Ciucci (1980), Claudia Conforti (1980), Manfredo Tafuri (1981) (1982), Pasquale Lovero (1982), Mario Fiorentino (1982), Francesco Moschini (1985), Vittorio Gregotti (1985), Mario Fiorentino (1985), Giuseppe Cappelli (1993), Vittorio Gregotti (1999), Franco Purini (2002), Massimo Fortis (2003), Andrea Sciascia, Benedetto Gravagnuolo, Vittorio Gregotti (2003) Interventi, 191 Francesco Moschini, Vittorio Gregotti, Franco Purini, Claudia Conforti, Giuseppe Cappelli Indice dell’antologia, 204 Bibliografia, 205 Indice dei nomi, 208 7. 24-09-2008 9:29:12.

(37) Quando il Festival dell’Architettura, a partire dal proprio tema Architettura: ricchezza e povertà, ha proposto a Bucci, Monica e Negroni di curare una mostra dedicata a tre grandi interventi di edilizia popolare quali lo Zen, il Corviale e il Gallaratese, l’obiettivo era quello di aprire una più approfondita valutazione critica su interventi, in particolare i primi due, assunti spesso dal dibattito delle cronache quali esempi di una scarsa qualità abitativa, sino al degrado abitativo, addebitabile alle scelte e ai criteri dell’architettura. Oggi, alla luce di una riscoperta emergenza abitativa, derivata in buona parte dalla mancata continuità di una politica per la casa a partire dagli anni Settanta da parte delle componenti di governo e non solo, ci pare necessaria una propositività strategica che non si fermi agli aspetti costruttivi, economici e tecnologici dell’abitazione, ma ne voglia cogliere il portato sociale nell’accezione urbana e comunitaria, quale esigenza discriminante tra la risposta edilizia e l’interpretazione architettonica. Tra la quantità e la qualità. E la qualità dell’architettura sta nella relazione complessa e significativa delle forme e degli spazi dell’abitare intesi come fatti urbani, come contributo a quel farsi della città che certamente possiamo ritrovare nei tre casi esaminati, pur attraverso differenti approcci e condizioni contestuali. Tra l’altro, quale indizio di un’equivocata relazione tra architettura e contraddizioni sociali, nonostante i problemi derivati dalla concentrazione di abitanti spesso sotto la soglia di povertà, le architetture, ma potremmo anche dire le città, dello Zen, del Corviale e del Gallaratese restituiscono attività collettive, forme di reciprocità sussidiaria, iniziative culturali. Sino a quel-. l’identificazione, oggi così sintomatica sotto il profilo di una poleogenetica del sociale, tradottasi nell’attivazione di un proprio canale televisivo come nel caso del Corviale, oppure nel senso di appartenenza al luogo dove si vive, come nel più fortunato Gallaratese, poiché lì l’architettura è riuscita a restituire, per l’appunto, un luogo. Nella città di un’edilizia popolare prevalentemente senza carattere, parcellizzata nella periferia vasta e sub-urbana al fine di ridurne il ruolo, ormai estranea anche all’idea di quartiere, declinata su modelli mediati dal repertorio immobiliare, dove alla positività dell’accorgimento eco-sostenibile non sempre corrisponde qualità e significato tipologico, di aggregazione, di identità urbana, di figuratività rappresentativa, tornare a studiare questi casi della storia italiana recente significa incentivare una rinnovata ricerca sulla qualità dell’interpretazione degli spazi vissuti che solo l’architettura può mettere a disposizione dei sempre più difficili processi dell’abitare sociale. Carlo Quintelli Direttore del Festival dell’Architettura. Confrontare questi progetti, a trent’anni di distanza, mettendo da parte tutte le polemiche relative alle lunghe e incomplete realizzazioni, alla complessità delle dinamiche sociali e al difficile rapporto con la committenza e le amministrazioni locali, significa in un certo senso confermare il giudizio di Manfredo Tafuri che, nella Storia dell’architettura italiana 1944-1985, segnalava i loro esiti (insieme al quartiere Matteotti a Terni di Giancarlo De Carlo) come “esempi di intervento residenziale di respiro internazionale”, meritevoli di uno specifico approfondimento. Attraverso gli schizzi preliminari, i disegni esecutivi e i modelli, raccolti negli studi degli architetti, questo confronto intende sottolineare alcuni aspetti caratteristici che accomunano le tre opere: 1) gli autori sono tra i più noti protagonisti di una stagione di grande fermento, anche teorico, della cultura architettonica italiana; 2) i progetti sono il risultato di una continua ricerca sul tema della tipologia residenziale e sul rapporto dell’architettura con la città e il territorio; 3) le figure architettoniche e urbane proposte, nell’attualizzare il riferimento all’avanguardia moderna, costituiscono un modello alternativo di sviluppo alla diffusione incontrollata della periferia metropolitana. È in questa direzione che la mostra, prima, e il catalogo, ora, invitano il pubblico a riflettere, per considerare con maggior attenzione quegli episodi che hanno contribuito a formare l’identità dell’architettura italiana. Federico Bucci, Luca Monica, Marco Negroni Curatori della mostra. Nota del curatore e ringraziamenti. Criterio originario della mostra è stato quello di mettere per la prima volta a confronto i tre progetti attraverso i materiali originali del lavoro degli architetti. Condividendo questa impostazione, la ricerca dei materiali per i tre edifici è stata svolta distintamente dai tre curatori della mostra (Bucci per lo Zen, Negroni per il Corviale e il sottoscritto per il Gallaratese), raccogliendo i disegni e i modelli in gran parte provenienti dagli archivi degli architetti stessi: Aymonino, Fiorentino e Gregotti, più altri prestatori, di seguito citati. La pubblicazione, sostanzialmente, riporta i materiali della mostra organizzati con lo stesso criterio, facendo corrispondere ai tre saggi iniziali le tre sezioni illustrate. Compito del sottoscritto è stato il riordino dei materiali della mostra per la pubblicazione e la curatela della raccolta degli scritti per l’antologia critica e gli interventi del convegno. Essendo questi progetti stati pubblicati e discussi in numerose occasioni, fino all’attualità, ho sempre ritenuto utile raccogliere e riordinare i testi in una selezione cronologica che ne riporti gli autori e gli intrecci in un discorso diretto. Una “letteratura artistica”, di teoria, di critica e di storia dell’architettura svolta da architetti e da storici che raramente ha avuto un legame così intrecciato con le opere stesse. Per quanto riguarda il Gallaratese, i disegni di studio di Carlo Aymonino e il modello sono stati prestati dall’autore (ad esclusione di alcuni disegni), mentre la totalità dei lucidi del progetto esecutivo (parte di Aymonino e parte di Rossi) sono conservati presso lo Csac, Centro Studi Archivio della Comunicazione dell’Università degli Studi di Parma. Molti disegni di Aldo Rossi del Gallaratese sono invece suddivisi in diversi archivi italiani e stranieri. Preme ringraziare Gloria Bianchino e Lucia Miodini dello Csac, Maria Luisa Tugnoli dello studio Aymonino e Massimo Fortis. Un particolare, caro, ringraziamento per aver prestato alcuni preziosi disegni va, oltre a Carlo Aymonino, anche a Giuseppina Marcialis e Francesco Moschini. Per quanto riguarda il Corviale, i disegni del progetto esecutivo (tutti inediti) sono stati prestati da Stefano Fiorentino, purtroppo di recente scomparso, che ha conservato l’intero archivio del progetto esecutivo e una consistente documentazione fotografica. Il modello è stato prestato da Fabrizio Sferra Carini. Per quanto riguarda lo Zen, i noti disegni del progetto di concorso, il modello e i disegni di studio qui pubblicati per la prima volta, appartengono all’archivio dello studio Gregotti Associati, così come i disegni esecutivi dell’insula da loro realizzata. Un particolare ringraziamento va a Vittorio Gregotti. Alla revisione dei testi dell’antologia ha collaborato Stefano Cusatelli. Si ringrazia, infine, il Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico di Milano. Luca Monica. 8. GCZ pag 00 4-9 incipit FAE.indd 8-9. 9. 24-09-2008 9:29:14.

(38) Il Gallaratese di Aymonino e Rossi: Milano, case, tipologie, disegni Luca Monica Riprendere in mano i disegni dei progetti per i complessi residenziali del Gallaratese di Milano, del Corviale di Roma e dello Zen di Palermo provoca il desiderio di sgomberare il campo, per un momento, da una serie di problemi, concreti e visibili, che spesso emergono dalle pagine dei giornali, nutrendo un dibattito anche motivato dalla dimensione di questi quartieri e dalla loro endemica scarsezza di dotazioni di servizi e di riguardo da parte delle amministrazioni. Problemi che, oggettivamente, investono questioni diverse: sociologiche (fasce sociali eterogenee per una idea di comunità), ambientali (dimensioni delle architetture alla scala del territorio), demografiche (unità abitative confrontabili con la scala delle dinamiche urbane), economiche-strutturali (il ruolo delle aree urbane marginali), politiche (lo sviluppo di una edilizia sociale), ideologiche (la condizione attuale della progettazione architettonica). Queste tre opere, possono essere accomunate a pochissime altre, ad esse confrontabili in Italia per esiti linguistici e per l’idea di mettere in crisi il concetto di «quartiere» nell’edilizia popolare della stagione dei due settenni dei quartieri Ina-Casa (1949-63): il complesso Ina-Casa di Forte Quezzi a Genova di Daneri del 1956-57; il quartiere Matteotti a Terni di Giancarlo De Carlo del 1969-75; le case Iacp di Bollate a Milano di Guido Canella del 1974-81. A queste non sono seguite esperienze altrettanto decisive, e i tre esempi del Gallaratese, Corviale e Zen valgono come casi-studio esemplari, vere e proprie lezioni di progettazione, che vorremmo interpretare secondo una lettura coerente a una certa tradizione critico-tipologica, la più rivelatrice, crediamo, soprattutto per il complesso del Gallaratese di Aymonino e Rossi. Colpisce, infatti, la differenza tra il corrente discutere sui temi dei quartie10. GCZ pag 01 testi intro.indd 10-11. ri abitativi nell’attuale fase di sviluppo urbano della città di Milano e gli studi tipologici sulla residenza elaborati da Aymonino e Rossi allo Iuav di Venezia negli anni Sessanta e che hanno fatto da sfondo e da sostegno teorico al progetto del Gallaratese. Studi in grado di tenere insieme le molte scale del problema, da quelle dell’assetto urbano, alla configurazione del complesso edilizio, alle varianti di disegno e di geometria degli alloggi e degli spazi unitari e della loro descrizione attraverso la costruzione. Nella situazione attuale, invece, questa ricerca paziente, questo piacere nel rincorrere attraverso il disegno la vita quotidiana è purtroppo inesorabilmente reso anacronistico. Il grande sviluppo immobiliare residenziale privato di questi anni nella città di Milano ricerca parole d’ordine diverse, quelle dell’immagine, della comunicazione e del consumo, quelle di una città che cerca prima di tutto di rifarsi un volto (attraverso il verde, il paesaggio verticale, il cosiddetto «basso impatto») a mitigare grandi trasformazioni di valorizzazione e rendita, indistintamente destinata sul territorio. C’è molta teoria in queste architetture C’è molta teoria in queste architetture e questo risulta subito evidente, ed è stato a suo tempo fin da subito evidente, a partire proprio dai disegni di progetto nella loro ricchezza e bellezza, dalla letteratura che ruota intorno a queste opere, dal coinvolgimento intorno ad esse di una parte della migliore tradizione architettonica italiana. L’antologia critica raccolta in questo volume sui tre edifici del Gallaratese, Corviale e Zen, mette in serie temporale diversi scritti per molti versi eterogenei. Sono ordinati cronologicamente per sottolineare un incrocio tra gli autori e le diverse opere, quasi una storia comune che li raggruppa, significativamente. Tra loro corrono rapporti che negli scritti si fanno espliciti. Costantino Dardi e Giorgio Ciucci hanno in diverse occasioni collaborato con Aymonino, Massimo Scolari che aveva collaborato con Rossi scrive su Gregotti, Gregotti scrive su Fiorentino quasi immedesimandosi nel Corviale, Aymonino che con Fiorentino aveva partecipato ai quartieri Tiburtino e Spine Bianche scrive sui primi quartieri di questo, Moschini che aveva curato una delle prime monografie sui disegni di Rossi cura il più importante libro di Fiorentino, Purini coautore dello ZEN continua a scrivere nella sua passione ancora viva sul Corviale. E poi gli storici, Manfredo Tafuri, Francesco Dal Co, Claudia Conforti, Vittorio Savi, hanno fatto sì che queste opere concorressero insieme in una storia dell’architettura italiana. L’arco temporale rappresenta poi una evoluzione paradigmatica. Dapprima, col progetto, queste tre opere sono parte di un dibattito teorico, espresso direttamente dagli autori, poi i testi si fanno più storico-critici, riunendo un ciclo dell’architettura italiana, infine fanno parte di un dibattito più attuale, sul destino dell’architettura, che risulta oggi ancor più dirompente se confrontato con le tendenze dell’architettura di oggi.. Di fronte a questo, il nostro interesse credo si debba rivolgere all’indietro, se vogliamo riconoscere in queste opere vere lezioni di architettura, andando a ritroso verso la fase di maggiore teorizzazione (sul concetto di tipologia edilizia, di morfologia urbana, di profondità storica nella ricerca della composizione architettonica e delle trasformazioni della città, sull’idea di architettura moderna e di tradizione che permane nel linguaggio geometrico), riconoscendo, perciò, alla serie dei disegni e alla serie degli scritti un valore di insegnamento, nella scuola e nella ricerca progettuale. Diversi studi ricostruiscono le vicende della tradizione moderna, rigenerata e ripercorsa in termini originali dall’architettura italiana del Dopoguerra (attraverso l’immissione della conoscenza della storia), nelle ricerche teoriche e critico-operative delle scuole tipologiche degli anni Sessanta e Settanta a Milano, Venezia e Roma. Valga per tutti la testimonianza di una circolazione in ambito europeo della cosiddetta «generation de l’incertitude», per rifarsi al titolo di un bel saggio sull’architettura italiana pubblicato da Francesco Dal Co e Mario Manieri Elia su «L’architecture d’haujourd’hui» nel 1975 (in parte riportato in antologia), nel quale si riconosce una ricchezza figurativa e una costellazione di posizioni relativamente alle quali questi tre esempi (Gallaratese, Corviale e Zen) sono esemplari. Va detto che il termine «incertezza» appare oggi provocatorio per una generazione tutt’alto che incerta, ma che in quegli anni rifletteva, in senso morale, sui ruoli dell’impegno teorico, di ricerca e insegnamento, confrontati a quello della professione realizzativa. Questo saggio del 1975 raccontava dunque per immagini gli esiti di una ricerca architettonica (scritta, insegnata, disegnata e costruita) già prefigurata nel noto saggio di Manfredo Tafuri del 1968 sulla «critica operativa»1, individuando un circolo di architetti impegnati nella ricerca critica-tipologica dei quali corre l’obbligo di citare i nomi e la prossimità generazionale: Carlo Aymonino (1926), Vittorio Gregotti (1927), Gianugo Polesello (1930), Guido Canella (1931), Aldo Rossi (1931), Francesco Tentori (1931), Luciano Semerani (1933), Giorgio Grassi (1935), Costantino Dardi (1936). Attraverso la loro ricerca si è potuto costituire un insieme di conoscenze generate dallo studio in serie storica di «tipologie» (viste come variazioni morfologiche di impianti volta a volta declinati in contesti urbani e storici determinati e in temi grandi quanto l’intera città). In parallelo (e coerentemente) essi hanno sviluppato progetti e realizzazioni che, anche nel solo tema della residenza collettiva, compongono una molteplicità di posizioni linguistiche decisive per la storia dell’architettura italiana. Risulta utile sottolineare che l’interesse per queste tre opere nasce anche e soprattutto per la volontà di riconoscere in quella scuola, in quelle esperienze di ricerca e di progetto un punto di inizio (morale e figurativo) fondamentale alla luce della situazione contemporanea. Anche nell’insegnamento che si confronta quotidianamente con la realtà, non deve apparire come anacronistica la difesa di una vecchia «avanguardia». Al contrario,. questi progetti, questi disegni, il lavoro testimoniato anche dalla bellezza delle tavole, appaiono come una buona base di partenza sulla quale discutere dell’architettura contemporanea. Colpisce infatti che il quartiere Gallaratese di Aymonino e Rossi nasca ben dentro una tradizione «razionalista», come non si stancano di articolare teoricamente gli stessi autori negli interessanti scritti del 1970 sul quaderno Iuav, poi ripresi nel significativo numero di «Lotus 7», al quale occorre rimandare per intero anche per una documentazione teorica e progettuale di alcuni esponenti più significativi delle scuole di Milano e di Venezia (oltre ad Aymonino e Rossi, Canella, Semerani, Dardi, Polesello). Tradizione razionalista che si fonda esplicitamente sulle ricerche sul concetto di tipologia edilizia applicata alla residenza che proprio Aymonino (e Rossi e Dardi nel gruppo) conducevano in un triennio di insegnamento di Caratteri distributivi allo Iuav di Venezia, dal 1963 al 1966 (già tenuto da Muratori), ragionando su una serie di esempi tratti dall’esperienza storica dei progetti per le tipologie dell’abitazione nelle città europee, soprattutto tra le due guerre. Da quel momento in poi, il tema della residenza, dell’«abitazione razionale», della trasformazione della città storica e della formazione della città moderna attraverso quartieri residenziali avrebbe segnato una linea di ricerca ricca di episodi significativi2. Ben dentro queste esperienze, dunque, nasce il progetto del quartiere Gallaratese, nella possibilità di disporre di un patrimonio conosciuto di tipologie residenziali tanto articolato al punto da poterle tutte riunire in un unico edificio, tanto più efficace quanto capace di compenetrare i diversi tipi riorganizzati in serie, slittando piani e corridoi di accesso fino a produrre una ricchezza figurativa tanto esasperata quanto emozionante, tanto nei disegni quanto nella dinamica e nella continuità spaziale. Così sintetizza Aymonino nelle didascalie di presentazione del progetto su «Lotus 7»: «Come la continuità dei percorsi anche le varietà degli appartamenti nello stesso edificio (dalla monostanza attrezzata agli appartamenti duplex) nasce dalla “supposizione” di modi d’uso dell’architettura diversi dagli usi reali dovuti alla proprietà privata (del suolo, degli appartamenti, dei negozi ecc.): non corrispondono quindi alla tradizionale coincidenza tra tipo di appartamento e tipo volumetrico dell’edificio. La massima accessibilità degli elementi componenti l’insieme e la relativa differenziazione di questi a seconda della loro collocazione rispetto all’insieme non è dovuta tuttavia a preoccupazioni sociologiche (compresenza di nuclei familiari diversi) né a meccaniche identificazioni politiche (proprietà collettiva). Essa nasce invece all’interno di interessi e ricerche architettoniche (uso appropriato delle “conquiste” dell’architettura contemporanea) la cui corretta applicazione presuppone, come si è accennato, un “campo” sperimentale più esteso e complesso che solo una diversa struttura politica può assicurare in modo globale (uso del suolo, uso delle attrezzature, uso del lavoro ecc.)»3. 11. 24-09-2008 9:41:39.

(39) Direttrice nordovest Milano e quartieri Dentro questa tradizione di ricerche tipologiche e di esperienze del Movimento Moderno, Milano insegna non poco, come città e come raccolta di esempi virtuosi attraverso i suoi progetti e le architetture razionaliste, lungo l’asse della direttrice nordovest che dal Castello Sforzesco si prolunga verso la Fiera, San Siro, il QT8, il Gallaratese, e più oltre verso il grande hinterland produttivo. Le sue architetture determinano un contesto di eccezionale vitalità, al quale il Gallaratese di Aymonino partecipa appieno. È d’obbligo citare un appassionante saggio di Guido Canella, Il «genius loci» della direttrice nord-ovest4, che per primo ha riportato le vicende delle sperimentazioni del razionalismo milanese dentro alle logiche e alle politiche di una crescita fisiologica della città, dove tipologie, impianti e linguaggi architettonici intervengono nel rapporto tra centro e periferia nell’orientare una delle direttrici più significative della città. Tuttavia, apparentemente, sulla questione dell’impianto urbano del complesso del Gallaratese, Aymonino sembra tenersi distante da molti argomenti che pure lo circondano e conosce. Dai suoi scritti appare esplicita la volontà di concentrarsi sul problema dell’abitazione riferendosi a esempi della storia dell’architettura europea, quasi a voler lasciare in sospeso alcuni legami col contesto milanese. Figurativamente, però, la massa muraria bruna, scura, turrita, che si chiude come un bastione sulla campagna non può non far pensare al rapporto che è sempre esistito tra il Castello Sforzesco, il territorio lombardo e il tessuto edilizio, quest’ultimo emblematicamente rappresentato dal corpo a ballatoio, più urbano, di Rossi. Tipologicamente, non si accenna mai alla pur ricca tradizione dei quartieri razionalisti milanesi pure legati a una tradizione del Movimento Moderno (dei Pagano, Marescotti, Albini, Gardella, BBPR, Figini e Pollini, De Carlo, perfino del vicino QT8 di Bottoni), vere e proprie «abitazioni razionali». Il complesso di Aymonino li incorpora tutti nel suo schema di piante e di sezioni, ma non ne traspare mai un segno, una memoria. Egli lascia invece il compito ad Aldo Rossi di ricostruire anche teoricamente il tipo in linea a ballatoio, divenuto quasi una preesistenza, con dietro uno sfondo in netto contrasto, ben più tumultuoso e possente. Dal punto di vista dell’assetto urbano, i sintetici disegni di inquadramento fatti da Aymonino a mano libera, sembrano volutamente trascurare quei riferimenti alla struttura della città di Milano che lui stesso aveva ripercorso, ad esempio, in Origini e sviluppo della città moderna (1971), in due figure dove appare l’espansione della città organicamente orientata dal centro nei piani di fine Ottocento e nel Piano Intercomunale del 1967 (con segnati centri di interscambio e poli scolastici lungo le principali direttrici), quasi a figurarvi il ruolo del quartiere Gallaratese. Tra gli scritti di Aymonino non compaiono, inoltre, riferimenti alle tormentate vicende dei piani di Piero Bottoni, per il QT8 prima, a partire dal 1946, e per il 12. GCZ pag 01 testi intro.indd 12-13. Gallaratese (primo e secondo), a partire dal 1956. Tuttavia, a ben leggerne l’impianto rispetto al disegno di Bottoni e alle sue intenzioni, se ne trova una chiara corrispondenza, più coerente alle idee fondative iniziali di quanto non siano stati gli sconfortanti esiti realizzativi nei diversi comparti dopo l’estromissione di Bottoni dal progetto del piano, fino a far riconoscere il complesso Monte Amiata come un caso esemplare isolato nel resto della compagine urbana5. Il piano di Piero Bottoni per il quartiere Gallaratese è ben documentato in una serie di disegni e scritti che illustrano una articolazione di zone residenziali allineate lungo un asse denominato «strada vitale»6, un sistema lineare di viabilità, servizi e attrezzature che prolungava la direttrice nordovest oltre la Fiera di Milano, con il quartiere sperimentale della Triennale QT8 e la collina monumentale del Monte Stella (eretta coi detriti delle distruzioni della Seconda Guerra). I disegni di studio sono suggestivi e da essi si intuisce bene l’idea di progressione dell’edificazione in uno schema lineare, dove alle parti residenziali si dovevano accompagnare le parti di servizio, in termini abbastanza diversi dall’antecedente QT8, più dimostrativo e simile ai quartieri espositivi modello (Weissenhof, Werkbund). Lo schema ad elementi in linea di Aymonino risulta perciò ideologicamente in contrasto rispetto alla configurazione tipica dei quartieri appartati delle esperienze precedenti. Perfino un primo disegno di Aymonino che riporta un assetto a torri sparse viene abbandonato (un assetto a torri che poi riappare vicino nel coevo intervento di Vico Magistretti). Il complesso risulta alla fine orientato proprio verso quella «strada vitale» mai eseguita completamente ma ancora intuibile, delimitando il confine esterno verso campagna. Sorprendentemente, la chiara coerenza tra lo schema originario di Bottoni e quello realizzato di Aymonino, riscattano un impianto che doveva essere promettente alla scala urbana ma alla fine ancora senza architettura, conferendogli esiti figurativi inediti anche per la tradizione dei quartieri razionalisti milanesi. Emblematica risulta perciò l’esperienza del QT8, eroica sotto molti aspetti, e non priva di un certo lirismo nella sequenza di evocazioni razionaliste, tuttavia sembra essere, oggi, la testimonianza di una idea non risolta, di una città che ricerca faticosamente una continuità del proprio rapporto tra centro e periferia. Su questo rapporto, al di là della terminologia adottata, per comprendere l’idea di un edificio come parte di città, valgono le considerazioni di Carlo Aymonino più generalizzanti sul tema dell’evoluzione della città (riferita a Milano negli anni Sessanta): «In questo senso ritengo valide tutte le proposte tendenti a rompere l’attuale processo di sviluppo per “poli”, siano essi puramente direttivo-commerciali all’interno della città o puramente industriali nei territori; tutte le ipotesi che facilitano il più ampio uso sociale delle infrastrutture, da quelle del traffico a quelle della cultura e dell’istruzione; tutti quei provvedimenti che aumentino. le possibilità di relazione e di partecipazione, togliendo alla residenza ogni concetto restrittivo e periferico»7. Precisando maggiormente il caso milanese e il ruolo del tema residenziale in opposizione al «quartiere», Guido Canella afferma inoltre che: «Il merito principale del QT8 fu il tentativo di ridurre l’autosufficienza dell’impianto razionalista alla fluidità della tradizione insediativa milanese, confermandone il carattere di periferia intesa tra centro e concentrico. […] Mentre il limite tipologico della frammentarietà (se confrontata all’unità di Milano Verde) andava ascritto al particolare periodo di transizione, quando all’apporto di una cultura d’avanguardia internazionale, ancora sperimentalmente credibile, si sovrappose l’istanza di una espressione più autoctona e popolare, uscita dalla Resistenza in forma di Neorealismo, tesa a rivalutare analiticamente il paesaggio della periferia urbana»8. Canella, ancora a proposito del QT8, ribadisce come il razionalismo milanese, presente nello sviluppo della direttrice nordovest e nei quartieri residenziali, non implicasse l’avanzamento per blocchi autonomi e per città satelliti, consentendo una maggiore dinamica, fisiologica allo sviluppo per direttrici, come Giuseppe De Finetti avrebbe espresso nei suoi disegni per la Fiera e per tutta la direttrice9. Ma ritornando all’articolazione delle tipologie residenziali nei quartieri degli architetti razionalisti, a Milano e nella direttrice nordovest, alla scala dell’impianto dell’edificio, sono riconoscibili alcuni caratteri che si ritrovano nel complesso del Gallaratese di Aymonino e Rossi, come se questi architetti avessero sublimato, in un raffinato processo di identificazione, un patrimonio eccezionalmente ricco quanto contestuale, esso stesso erede diretto delle «conquiste dell’architettura contemporanea». Alcuni edifici avevano espresso disegni interessanti per via tutta interna alla distribuzione, soprattutto nell’articolazione di telai stereometrici individuati nello spazio che riguarda la distribuzione (verticale e orizzontale, dei corpi scala e delle balconate). Quasi a riconoscerne una cifra stilistica originale è stato Francesco Tentori in un saggio su Franco Albini10 che riporta fin dal frontespizio una raccolta di piante di progetti per case popolari nelle quali il nucleo della scala si scompone con un disegno geometrico e astratto, distaccandosi sempre dai blocchi degli alloggi. L’elenco degli esempi milanesi non è tuttavia lunghissimo. In primo luogo il prototipo per una casa con struttura in acciaio di Albini e Pagano per la V Triennale del 1933 (realizzata sospesa sul telaio, vuota sotto e con una torre di risalita autonoma) pare anticipare le gallerie di Aymonino e Rossi, concettualmente diverse dai pilotis di Le Corbusier. Poi i quartieri di Albini (Fabio Filzi del 1935-38; Ettore Ponti del 1938-41; Mangiagalli, con Gardella, del 1946-52), di Giancarlo De Carlo (Fratelli Di Dio del 1950-53, con un ballatoio di distribuzione staccato dal corpo edilizio, come una passerella), di Franco Marescotti (Grandi e Bertacchi del 1950-55, con montaggio di tipologie diverse e spazi comuni), di Figini e Pollini e Botto-. Disegni di Carlo Aymonino del piano di ampliamento per la città di Milano del 1889 e del Piano Intercomunale Milanese del 1967, pubblicati in Origini e sviluppo della città moderna, 1971. 13. 24-09-2008 9:41:40.

(40) ni (Harrar del 1951-55, con esili telai e blocchi sospesi in altezza), di Lingeri (al QT8 nell’edificio alto del 1950-51, con le torri scala in aggetto), fino a Bottoni (casa Incis in Corso Sempione del 1955-57, organizzata come l’unité lecorbusierana e dialetticamente a confronto col capolavoro di Terragni e Lingeri della Casa Rustici) a corpi in linea e telaio. Sul tema della residenza collettiva a Milano e della sua crescita nella formazione della città, serve, infine, un confronto nell’ambito della tradizione critico-tipologica prima citata, osservando, oltre al Gallaratese di Aymonino e Rossi, un caso che sembra chiudere il cerchio delle esperienze prima descritte: le case Iacp progettate da Guido Canella a Bollate alcuni anni dopo (1974-1981). Insieme, Aymonino, Rossi e Canella, rappresentano gli autori, teorici e progettisti, più legati tra loro, nei quali i diversi linguaggi figurativi esprimono maggiormente la ricchezza della loro ricerca. E se già il Gallaratese si scompone su un contrasto diretto tra lo stagliarsi dei profili delle parti di Aymonino da quella di Rossi, più in là, quasi aggiungendo un profilo ancora diverso, Bollate esprime un disegno più evocativo degli archetipi della costruzione civile (il tempio e la capanna primitiva) liberata dalle scale estroflesse. Accomuna tutti e tre gli edifici l’impianto generato da un fermo congegno distributivo di diverse tipologie residenziali, implicando una vita associata quanto più ricca e articolata, protratta alla dimensione della vita urbana e non da questa segregata.. Disegni di Carlo Aymonino dei complessi comunitari di Owen, Fourier e Godin e di residenze intensive operaie a Berlino e Glasgow, pubblicati in Origini e sviluppo della città moderna, 1971. 14. GCZ pag 01 testi intro.indd 14-15. Disegni e tipologia Come accennato, rileggendo gli scritti sul Gallaratese, non traspare la dimensione, la complessità e anche la ricchezza del contesto Milanese, anche se questa, come abbiamo cercato di dimostrare deve essere stata ben presente nel lavoro degli architetti. Dagli scritti appare invece il contesto degli studi tipologici prima riferito e riproposto in termini di autonomia dell’edificio, secondo la tradizione razionale e «rivoluzionaria» delle avanguardie, dove il disegno ne diviene lo strumento principale. La mostra e il catalogo cercano di illustrare i progetti come essi appaiono, compressi, nello studio di progettazione, nel laboratorio della composizione, nelle diverse fasi, secondo un mestiere che è ancora lo stesso. Tuttavia la differenza anche materiale dei disegni presentati (qui per la prima volta riuniti insieme e posti a confronto) testimonia di tre vicende progettuali diverse. Mentre nel Gallaratese la ricerca formale e tipologica coincide con la fase di studio, ricchissima fin dall’inizio nell’esprimere le potenzialità figurative messe in gioco dai due autori. Nel Corviale, invece, il congegno volumetrico e spaziale deriva da un lungo e meticoloso processo di disegno costruttivo, ordinato nella mole di lavoro del progetto esecutivo, unico grande percorso di sintesi che non lascia tracce di studi intermedi. Infine nello Zen, con modi ancora diversi, la fase del concorso riassume in sè già tutto, dall’impianto di città di fondazione alla stereometria delle insule (lasciando aperto tuttavia l’interessante meccanismo delle interconnessio-. ni e dei servizi). Così se è perfino ozioso cercare di ricostruire nei progetti le memorie dei singoli autori, più sublimate nel lavoro di studio del Corviale e dello Zen, nel Gallaratese, invece, il tema della «memoria» accomua le diverse individualità di Aymonio e Rossi. Nel primo, ossessivamente, nel non voler disperdere nulla del linguaggio del razionalismo e del protorazionalismo europeo, nel secondo, nella fede razionale in pochi casi risolutivi, dal neoclassicismo francese dei lunghi colonnati, alle tipologie in linea della residenza popolare lombarda. In modo particolare, la serie di disegni di Aymonino, esemplari dell’architetto come unico artefice, mostrano un percorso progettuale che minuziosamente è stato ricostruito fin da subito da Costantino Dardi11. Alcune questioni sono appassionanti, partendo dall’idea che la ricerca tipologica abbia un esito formale che Dardi definisce «configurazione», vale a dire la deformazione di un archetipo e la sua riorganizzazione combinata con altre tipologie. Nella rilettura di Dardi, colpisce il riferimento al disegno del «geometrale»12, che nella costruzione prospettica e assonometrica rappresenta il passaggio logico tra la ragione planimetrica (distributiva) e quella volumetrica (spaziale). Dardi lo riferisce allo schema generale, rappresentato in assonometria, e che ricorda il procedimento di composizione a volumi del progetto per il centro direzionale di Bologna del 1962, sul quale si innesta la fase di studio delle sezioni dei corpi in linea, con le cavità interne e i tagli trasversali sulla campionatura dei tagli degli alloggi. Così scorrendo la serie dei disegni, cronologicamente ordinata e volutamente ricomposta da Aymonino stesso riunendo in una serie di grandi fogli i diversi passaggi del progetto, si rilegge la storia del suo lavoro, come Claudia Conforti ha in più occasioni ricostruito. Si inizia dai primi studi per l’impianto generale, progressivamente condotto allo schema di elementi lineari convergenti nel teatro-piazza; si prosegue con la serie delle sezioni che mostrano il costituirsi degli slittamenti orizzontali, il formarsi delle grandi cavità del portico al piano terreno, della spina di distribuzione affacciata a diverse altezze; poi le piante, dove le torri scala intercettano in modo diverso, piano per piano le serie di alloggi; ancora i prospetti, che riportano i risultati delle combinazioni di slittamenti planimetrici e altimetrici, con un chiaroscuro variato da materiali diversi (vetrocemento, griglie, muratura massiccia) e da ombre decise di volumi aggettanti; le viste prospettiche e assonometriche e il modello degli snodi e delle testate più articolate; infine la serie dei disegni esecutivi e di cantiere, tutt’altro che burocraticamente intesi a prescrivere la costruzione e ancora capaci di rappresentare l’architettura del Gallaratese, con, da ultima, la grande sezione di dettaglio della facciata. Un ultimo accenno va al corpo progettato da Aldo Rossi, che sembra rifuggire da un tale tumultuoso e prepotente lavoro, assumendo la sola tipo-. logia a ballatoio per l’invito di Aymonino a progettare un corpo con una minore variazione nei tagli degli alloggi e più deciso nello sviluppo longitudinale. Rossi si attiene alla sua stessa imposizione con fermezza, variando solo il distacco dal suolo di una parte e sublimando il giunto di dilatazione in una fenditura che termina con le colonne giganti (sicuramente memori del fronte posteriore della Ca’ brutta di Muzio, del 1919-23). Poi l’edificio riprende il suo sviluppo appoggiato su una quota diversa. Inoltre le quote dell’attacco a terra dei due fronti non corrispondono, accentuando uno spaesamento prodotto da lievi differenze. È sostanziale in questo disegno il gioco dei dislivelli, e Rossi, nei disegni, ne complica la percezione. I pochi, bei disegni pubblicati, fin da subito saranno famosi, e la planimetria del piano terra, oramai un archetipo, falsificando le quote, rappresenta lo sviluppo tipologico del portico, in realtà spezzato su due livelli nelle tavole di progetto esecutivo. Unico «pentimento» rossiano saranno infine le finestre del lato esterno, ancora pubblicate su «Lotus 7» con un disegno a nastro, secondo una matrice razionalista, poi, inesorabilmente, quadrate. Note 1) M. Tafuri, Teorie e storie dell’architettura, Laterza, Bari 1968, in particolare il capitolo La critica operativa. Le posizioni sulla «critica operativa» sono state recentemente riprese anche nella raccolta di scritti a cura di L. Monica, La critica operativa e l’architettura, Unicopli, Milano 2002. 2) Diversi e interessanti sono gli studi di Aymonino e Rossi ai quali riferirsi per uno studio sui caratteri tipologici e morfologici nell’edilizia e nella formazione della città moderna, sui temi delle espansioni residenziali, del quartiere e della periferia, a partire dagli scritti per il corso di caratteri distributivi: C. Aymonino e altri, Aspetti e problemi della tipologia edilizia. Documenti del corso di caratteri distributivi degli edifici. Anno accademico 1963-64, Cluva, Venezia 1964; C. Aymonino, A. Rossi, La formazione del concetto di tipologia edilizia. Atti del corso di caratteri distributivi degli edifici, Anno accademico 1964-65, Cluva, Venezia 1965; C. Aymonino, A. Rossi e altri, Rapporti tra la morfologia urbana e la tipologia edilizia. Documenti del corso di caratteri distributivi degli edifici, Anno accademico 1965-66, Cluva, Venezia 1966. I principali saggi di Rossi e Aymonino apparsi su questi tre volumi citati sono stati successivamente ripubblicati in: A. Rossi, Scritti scelti sull’architettura e la città 1956-1972, Clup, Milano 1975; C. Aymonino, Il significato delle città, Laterza, Bari-Roma 1975. Di C. Aymonino si veda anche, Origini e sviluppo della città moderna, Marsilio, Venezia 1965, 1971; L’abitazione razionale: atti dei congressi CIAM 1929-30, Marsilio, Padova 1971; Progetto architettonico e formazione della città, «Lotus 7», 1970. Di A. Rossi si veda anche, La città e la periferia, in «Casabella-continuità» n. 253, 1961, pp. 23-26; Contributo al problema dei rapporti tra tipologia edilizia e morfologia urbana. Esame di un’area studio di Milano, «ILSES», IV. 4, Milano 1964, pp. 1-115; L’architettura della città, Marsilio, Padova 1966 (i primi due ora in Scritti scelti, cit.) 3) C. Aymonino, Complesso edilizio per abitazioni, Milano. Quartiere Gallaratese, 1967-69, didascalia alle figure 21-24, in «Lotus 7», 1970. 4) G. Canella, Il «genius loci» della direttrice nord-ovest, in «Hinterland», n. 19-20, 1981, pp. 80-85. 5) Una ricostruzione storica delle vicende che hanno condotto allo stravolgimento e alla mancata conclusione del quartiere Gallaratese è in C. Conforti, Il Gallaratese di Aymonino e Rossi. 1967-72, Officina, Roma 1981 e in M. Grandi e A. Pracchi, Milano. Guida all’archi15. 24-09-2008 9:41:42.

(41) cini e per una composizione sociale della popolazione fatta da assegnatari e da occupanti abusivi scarsamente articolata e dunque anomala rispetto alla ricchezza del tessuto sociale ed economico proprio dell’idea di città, quasi magicamente a Corviale esiste un orgoglio di cittadinanza e un forte senso di radicamento. Si abita a Corviale. Si è di Corviale. Diversamente da quanto accade in altri interventi spesso accomunati da una cattiva stampa o da una pessima politica, sono proprio i residenti a opporsi alle più estemporanee istanze di demolizione o rimaneggiamento, perché a Corviale ora si vive piuttosto bene e perché mai si lascerebbe Corviale.. tettura moderna, Zanichelli, Bologna 1980, in particolare il cap. La «politica del quartiere». 6) Si confronti il catalogo della mostra, a cura di G. Consonni, L. Meneghetti, G. Tonon, Piero Bottoni. Opera completa, Fabbri, Milano 1990 e i bei materiali originali conservati all’Archivio Bottoni del Dipartimento di Progettazione del Politecnico di Milano. 7) C. Aymonino, Origini e sviluppo della città moderna, Marsilio, Venezia 1971, p.98. 8) G. Canella, Il «genius loci», cit., p.84. 9) G. Canella, Figura e funzione nell’architettura italiana dal Dopoguerra agli anni Sessanta, in «Hinterland», n. 13-14, 1980, in particolare il cap. Il quartiere residenziale calcifica la città fisiologica, pp. 50-51. 10) F. Tentori, Opere recenti dello studio Albini Helg, in «Zodiac», n. 14, 1965, pp. 94-127. 11) C. Dardi, Abitazioni nel quartiere Gallaratese a Milano, in «L’architettura – cronache e storia», n. 226, 1974, pp. 217-227, ora interamente ripubblicato nell’antologia del presente volume. 12) Ibid., p. 225. *) Seguono illustrazioni alle pag. 30-57.. Love Corviale Marco Negroni Rumori Corviale è un sistema urbano costituito da una maglia che ne scandisce i cinque tempi e da una sezione generatrice estrusa per quasi un chilometro di lunghezza e circa duecento metri di spessore. Sezione che in un solo punto registra con un imprevisto sussulto lo scoscendimento del crinale. In Corviale trovano posto un numero imprecisato di abitanti (6500, 8500, chissà?) e servizi che saranno con calma completati. Forse. Corviale è un’architettura straordinaria. E questo e non soltanto per le sue dimensioni. Le ragioni della sua straordinarietà sono diverse e sono piuttosto da ricercare nella capacità di catalizzare ancora adesso, nel bene e nel male, l’interesse pubblico, duplicandosi in una ulteriore immagine, riflessa e virtuale, fatta di una letteratura sterminata (chilometrica?), di qualsiasi qualità e natura, di interessi mediatici e immobiliari, di mitologie assortite, di malattie presunte e di cure possibili. Come un amore non corrisposto o un lutto non consumato, Corviale spinge sempre a tornare e, quasi miracolosamente, risolleva ancora oggi le domande sui reciproci rapporti tra architettura, questione della casa e città, riesumando così quel dibattito, a dire il vero, eclissatosi nella stanchezza prodotta dalle modalità sempre più privatistiche che condizionano l’attuale crescita urbana. Altrettanto, anche se in modo difficile e contraddittorio, Corviale ha permesso il costituirsi degli abitanti in comunità. E ciò pure dentro i limiti della politica della casa che, dopo la legge 167, ha condizionato il fare degli IACP. Nonostante quindi le difficoltà per la localizzazione in una delle fasce più esterne e invisibili, quindi più facilmente dimenticabili di Roma, per le difficili relazioni con il centro della città e con i quartieri vi16. GCZ pag 01 testi intro.indd 16-17. Contesti Il progetto di Fiorentino è probabilmente classificabile fra le visioni utopiche e tardo moderne della città e, per certi versi, proprio per questo contiene il lascito tragico della fine di un’epoca. Alla crisi della idea di modernità che si apre nel secondo dopoguerra e ai tentativi di una revisione critica che, passando per la stagione neorealista, di lì a poco condurrà nell’avventura del Postmodern, si affianca la consapevole impossibilità di porre la qualità della forma architettonica come condizione fondamentale dello sviluppo urbano portando, con questo, ad esaurimento l’esperienze del meta-design e della zonizzazione formale appena compiute dalla cultura architettonica di quegli anni. Nel nuovo fronte di crisi che si è appena aperto, Fiorentino è probabilmente consapevole del rischio insito nel ripiegamento da una dimensione utopica e anticipatrice propria dell’architettura verso l’immediata concretezza offerta dalle circostanze. Altrettanto è consapevole delle conseguenze di un decadimento della funzione dell’architettura da fatto culturale, a fatto di mero servizio. Il disincantato realismo e le notevoli capacità di mediazione dell’architetto, già intraviste da Tafuri1, che impronteranno l’agire e condizioneranno gli esiti progettuali del Corviale, sono dunque, in questa visione, gli strumenti per individuare le strade possibili e tra queste quelle effettivamente percorribili. Non c’è la rinuncia dunque, bensì la necessità di ribadire il ruolo politico dell’architettura riaffermandone la funzione culturale. Per la nascente immagine architettonica del Corviale si scelgono così per referenze figurative e concettuali, il Plan Obus algerino, filtrato attraverso il Forte Quezzi di Daneri che lo stesso Fiorentino2 cita quali antecedenti, anziché, come spesso equivocato, l’Unité corbusieriana. Distinzione questa rilevante in quanto espressione della volontà, già intuibile nei primi disegni planimetrici di studio dell’insediamento3, di derivare una possibile forma urbana dal sito. Ed è in questa scelta che si vuole esprimere la strategica necessità di annullare qualsiasi pretesa o allusione modellistica, che avrebbe ricondotto il progetto al punto da dove si era voluti fuggire. Il Corviale è quindi l’espressione della ricerca di una distanza; distanza che caratterizzerà l’intero percorso progettuale e che si avverte già osservando 17. 24-09-2008 9:41:42.

(42) gli sviluppi dalle fasi intermedie dove l’impianto del grande segno è già tracciato4. L’attenzione che Fiorentino pone alle relazioni tra la morfologia del sito e i caratteri dell’insediamento e dell’architettura, eredità delle precedenti esperienze compiute sull’architettura del quartiere e tributo all’insegnamento di Ridolfi, diviene il presupposto di una ricerca di identità dichiaratamente irriproducibile e locale e dunque, in questo, dichiaratamente non moderna, ma non per opposizione quanto per impossibilità. Questi indizi del contesto in cui il Corviale è stato immaginato e prodotto, sono fatti dunque rivelatori di motivazioni progettuali dense di preoccupazioni disciplinari e politiche e di interrogativi sulla relazione dell’architettura, quale attività simbolica, con il mondo. Ma sono anche l’enunciazione dell’impossibilità a rinunciare alla cura del destino della città. E in questa luce contribuiscono a chiarire anche quelle scelte di progetto che si manifesteranno, nel progetto finale del Corviale, nella durezza di forma e di linguaggio che, cancellando qualsiasi intonazione descrittiva capace di addomesticarne l’immagine, si mostra nell’articolarsi delle fronti nelle ritmiche e ossessive cadenze degli elementi costruttivi, nelle fasce sovrapposte orizzontali di serramenti e pannelli, nei giunti verticali degli elementi prefabbricati e dove le possibili istanze decorative sono delegate alle sole striature diagonali disegnate da Carrino. Questa volontà del Corviale di essere progetto al vero, solleverà il disaccordo di alcuni componenti del nutrito gruppo di progettazione. Federico Gorio sosteneva a proposito che: […] Io e Valori eravamo in disaccordo sulla proposta che aveva fatto e cioè quella della stecca lunga un chilometro perché ci sembrava una cosa troppo rigida. Insomma ci sembrava, come diceva Quaroni, un progetto al vero, rimasto cioè allo stadio della prima idea, lo steccone lungo un chilometro e che poi come tale sarebbe rimasto fino alla fine, senza cioè elaborazioni successive[…]5. Ma la perentoria configurazione del grande segno individuata da Fiorentino è fatto strategico capace di sostenere la relazione con la realtà di quegli anni indicando una possibilità esemplare e metodologica. La scelta del grande segno assume, infatti, un valore contemporaneamente politico e operativo; politico in quanto capace di incidere sulla forma della città attraverso l’introduzione di una configurazione di tipo aperto all’impianto del quartiere. Corviale, quale frammento ordinatore della forma urbis, oltrepassa così la recente tradizione del quartiere di edilizia economica, come fatto urbano marginato e chiuso, verso l’indicazione di una possibile integrazione formale con la città che avverrà con la crescita di questa. Tornerebbe con ciò la dialettica propria della città antica tra monumento e tessuto, dove l’emergenza architettonica può agire polarizzando il tessuto urbano o dove, come a Spalato, la relazione diverrà simbiotica e il monumento la matrice della stessa forma urbana e dei suoi successivi sviluppi. Ed è in questo carattere di opera aperta che implica da 18. GCZ pag 01 testi intro.indd 18-19. subito la possibilità di un completamento che può essere visto il successivo tentativo operato da Fiorentino nel disegno «Corviale rivisitato» in cui, tuttavia, l’improprietà del linguaggio urbano a cui il disegno allude, sposta la centralità della riflessione dal completamento, quale ulteriore possibilità e destino del quartiere, verso possibili ripensamenti o pentimenti dell’autore6. Ma a fianco di questo, nella scelta del grande segno, è anche contenuto un valore operativo espresso attraverso la strategica induzione alla rinuncia ai linguaggi individuali7. Il grande segno abbozzato sulla carta, quale obiettivo comune e condiviso e finalità inderogabile, grande e ambiziosa, rende possibile legare le differenti identità dei quaranta diversi autori che condivideranno con Fiorentino i circa otto anni di studio e i successivi del cantiere in un lavoro progettuale collettivo che arriverà a descriverà capillarmente l’architettura attraverso i disegni esecutivi accurati e perentori qui pubblicati. F-attualità A trent’anni dalla sua ideazione, sebbene le condizioni urbane d’intorno siano solo parzialmente mutate e non tutte le contraddizioni intrinseche si siano risolte in ricchezza anziché in difficoltà materiali, Corviale è entrato a far parte, in genere positivamente, dell’esistenza dei suoi abitanti. Dal punto di vista urbano, la sua funzione gerarchizzante si è inverata e si dimostra nella magnetica capacità di polarizzare la città, costituendosi esso stesso quale sua parte figurativamente compiuta e identitariamente individuata. La questione dell’identità, dunque spinge a scorgere il significato attuale del Corviale attraverso le pieghe del suo essere opera di architettura. Come in ogni forma architettonica compiuta, in Corviale il valore d’uso si congiunge con l’immaginario veicolato e attraverso questa opera di significazione viene a raggiungersi quel valore narrativo già riconosciuto da Tafuri, quando annotava la volontà (del Corviale) di introdurre differenze nella continuità metropolitana8. Due, dunque, i punti di un possibile discorso sul Corviale che trovi una legittimità nell’attualità: il valore d’uso che sostanzia in maniera archetipica l’idea di abitare e la connotazione di questo attraverso il patrimonio di immagini che il Corviale è in grado di rievocare. Naturalmente il Corviale è principalmente una casa e come tale assolve già, nonostante le note difficoltà tecniche e gestionali, la sua funzione per così dire primaria. Il particolare valore d’uso offerto è piuttosto nella tonalità che l’abitare assume. Laddove l’immagine compatta della città storica non è giunta, né potrà mai giungere, ma dove anche una possibile idea di esistenza suburbana si appanna, contaminata dai frammenti incoerenti che la città attuale proietta verso la campagna, Corviale permette di descrivere una specifica esperienza spaziale insita nel rapporto di tipo corporeo dell’abitante con lo spazio architettonico e naturale. In Corviale il corpo acquisisce una. dimensione di alterità e di finitezza rispetto alle dimensioni descritte dagli improvvisi scatti di scala dell’architettura e del paesaggio. La natura piranesiana dello spazio, già intuita nei numerosi disegni di studio ed esecutivi della sezione, espelle, dunque, una qualsiasi idea convenzionale di internità dal Corviale dove la linearità, che accumula ritmicamente e con un’ossessività narcotica eventi sempre uguali a se stessi, attende le improvvise accelerazioni percettive verticali dei cavedi e trasversali attraverso i vuoti del piano libero verso l’intorno. Corviale introduce dunque un uso estremo dello spazio che, contemplando una percezione anche vertiginosa del resto, si afferma nei suoi margini che si definiscono come confine e recinto virtuale che accomuna chi è a bordo ed esclude chi è fuori. In questa comunicazione di abitabilità Corviale sembra presentare un carattere di analogia con il convento de la Tourette, laddove l’idea di comunità viene sostantivata attraverso il riferimento a due idee archetipiche della vita comunitaria: ancora una volta la nave e la palafitta, evocati attraverso l’espediente di sollevare le celle dei monaci dal suolo che fluisce liberamente al di sotto. Ma oltre alla pensilità degli spazi, che rinvia alla conformazione degli insediamenti dell’Alto Lazio e prima fra tutti alla Caprarola vignolesca, a Corviale è anche l’impermeabilità del basamento che conferisce il tono roccioso di una fortezza, a materializzare l’opposizione tra intero ed esterno, o a meglio dire, fra inclusione ed esclusione. E sarà proprio il nodo dell’occupazione abusiva del piano libero la maggiore urgenza da affrontare nel Corviale. La possibilità di un uso pubblico e semipubblico così come previsto dal progetto originario rappresenta un fatto essenziale nell’economia complessiva dell’edificio, sia in vista del necessario riequilibrio della funzione residenziale con altre integrative, che per ripristinare la significante gerarchia dinamica degli spazi. Se dunque è questa particolare esperienza dello spazio a contraddistinguere l’abitabilità del Corviale quale fatto che si declina secondo le differenti scale d’uso, individuale, semicomune e comune, d’altra parte è proprio il radicarsi nella tradizione urbana romana e ai suoi riferimenti figurali, che numerosi condizionano l’immagine del Corviale, connotandone i diversi gradi d’uso, a contribuire alla definizione di un’identità condivisibile e riconoscibile. In primo luogo, per la sua collocazione sul crinale di una delle colline attraversate dalla Portuense, in un sito di impareggiabile bellezza che contiene ancora i caratteri primordiali della campagna ovest di Roma9, Corviale appare all’improvviso e inaspettatamente, così come Roma è sempre apparsa dal vuoto idilliaco e pericoloso della sua campagna, con la perentorietà emblematica propria della città. Ed è una città che per la propria capacità di descriversi in un rapporto ordinatore di tipo metrico e lineare con il suo intorno, ripropone una simbiosi di tipo dialettico con la natura. Fatto che appartiene all’iconografia della città antica, ma che ne connota anche alcune fra le infrastrutture: gli acquedotti, le mura imperiali, la se-. zione costruita della via Appia, gli argini del Tevere: opere di architettura e, contemporaneamente, fatti di paesaggio di una geografia artificiale. La grande dimensione, capace di radunare simbolicamente e percettivamente lo spazio urbano, è raggiunta attraverso il riferimento e in continuità con la tradizione romana del grande edificio. Già lo stesso Fiorentino a questo proposito sosteneva che: […] nel tentativo di recuperare il valore dei «segni» anche nella città contemporanea non si può sfuggire ai riferimenti che la stessa città di Roma ci suggerisce, e dimenticare la scala della città barocca e ottocentesca dove dal San Michele (300 m) alla manica lunga del Quirinale (250 m), e più recentemente al fianco di Termini (500 m) ecc., si avevano riferimenti a una struttura urbana ridotta dimensionalmente ma ricchissima di immagini fuori scala. Ma il ricorso evidente alla metafora che definisce il Coviale quale geografia artificiale perdura anche la tradizione propria dell’architettura romana che allude alla rinaturalizzazione del manufatto architettonico. Tradizione che da Piranesi in poi diviene matrice dello sguardo poetico e romantico sulla città e che trae origine dai caratteri propri, ma anche dalla loro corruzione, del paesaggio e dell’architettura dell’Urbe e dell’Alto Lazio. Metafora che caratterizza alcune delle ricerche formali di scuola romana circa coeve al Corviale come quelle di Moretti, Di Castro, dei Luccichenti e dello stesso Ridolfi. L’attenzione alla ricerca di un radicamento al sito e alle sue origini, si riflette anche nelle tematiche compositive e sulle scelte esecutive che Fiorentino e gli altri adotteranno. La sovrapposizione che organizza la sezione del Corviale finisce così a essere una concreta allusione alla costituzione stratificata di Roma e alle sue architetture regolarmente accumulate sulla materia urbana preesistente. Tema sperimentato, per altro, già varie volte da Moretti e dallo stesso Fiorentino nel Monumento ai Martiri delle Fosse Ardeatine dove, come accadrà con il «piano libero» del Corviale, le porzioni, inferiore e superiore, si relazionano attraverso il giunto architettonico di un’asola luminosa. A Corviale tuttavia, contrariamente alla allusione lirica a un’ipotetica preesistenza che determina la frizione linguistica e tettonica tra il basamento e l’elevato delle palazzine di Moretti, la sovrapposizione tra gli strati del piano dei parcheggi, delle case in linea e della parte superiore a ballatoio non acquisisce nessun carattere oppositivo. La stessa lingua descrive le parti, quasi a sottolinearne senza dubbio alcuno, nella compattezza di un’unica materia compositiva e di materiale, il valore abitativo unitario. Solo l’aggetto della porzione superiore, fungendo da coronamento, completa l’edificio e ne dichiara, in un latente antropomorfismo, la conclusione. L’attenzione di Fiorentino per gli aspetti costruttivi, fatto che già connota le sue precedenti realizzazioni, assume a Corviale una particolare evocatività quale espressione di una costruttività «parlante», che risulta ben evidente già dalla qualità e precisione esecutiva dei disegni di progetto. In 19. 24-09-2008 9:41:43.

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