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Una storia malvagia. La guerra degli italiani in Montenegro dal 1941 al 1945 fra occupazione e guerra partigiana.

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(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN

STORIA E CIVILTÀ

TESI DI LAUREA

Una storia malvagia

LA GUERRA DEGLI ITALIANI IN MONTENEGRO

DAL 1941 AL 1945 FRA OCCUPAZIONE E GUERRA PARTIGIANA

RELATORE

Prof. Luca Baldissara CONTRORELATORE Prof. Gianluca Fulvetti

CANDIDATO Stefano Lazzari A.A. 2015/2016

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Indice

Ringraziamenti ______________________________________________________ 1

Introduzione. "Una storia malvagia" _____________________________________ 2

I. "Maledetto Montenegro": occupazione, resistenza, repressione (6 aprile 1941 – 20 luglio 1943) ________________________________________________________ 6 1. Gli antefatti: l'invasione della Jugoslavia _______________________________ 6 1.2. La spartizione dei territori jugoslavi _________________________________10 1.3. Nel Montenegro occupato: l'effimera restaurazione monarchica ___________12 1.4. La Resistenza jugoslava: la sua nascita, i suoi protagonisti _______________14 1.5. La Resistenza in Montenegro: l'insurrezione del luglio 1941 ______________ 20 1.6. Arriva Pirzio Biroli ______________________________________________ 22 1.7. Verso il crollo __________________________________________________ 26 2. "Italiani brava gente" : raccontare l'occupazione ________________________ 28 3. La guerra degli italiani in Montenegro: un itinerario nella memorialistica ____ 37 3.1. La tempesta all'orizzonte _________________________________________ 37 3.2. Il "canestro di vipere" ___________________________________________ 38 3.3. Guerriglia psicologica ___________________________________________ 42 3.4. Il nobile alpino e il barbaro montenegrino ___________________________ 50

II. "Morte al fascismo! Libertà al popolo!": la scelta partigiana (25 luglio – 2 dicembre 1943) ____________________________________________________ 59 1. Dal 25 luglio all'8 settembre ________________________________________ 59 1.1. L'8 settembre nei Balcani _________________________________________ 64 1.3. Disertori, sbandati, partigiani _____________________________________ 65 1.4. Montenegro, 8 settembre 1943 ____________________________________ 71 1.5. Nasce la Garibaldi _____________________________________________ 84 2. L'armistizio: tradimenti, scelte di parte, sacrifici e riscosse _______________ 89 3. La memoria dell'armistizio e il tempo delle scelte ________________________ 95 3.1. "In balia di noi stessi": l'armistizio ________________________________ 95 3.2. Giorni incerti ________________________________________________ 103 3.4. "L'incredibile alleanza": i soldati del Re con i partigiani ______________ 108 3.5. Primi mesi di vita partigiana ____________________________________ 112

(3)

III. "Garibaldini in grigioverde": la divisione italiana partigiana Garibaldi _____ 119 1. Guerra in Europa e nei Balcani dal dicembre 1943 alla primavera 1945 ____ 119 1.1. L'era di Oxilia: un duro battesimo del fuoco (dicembre 1943 – febbraio 1944) ___ 120

1.2. La parentesi Vivalda (24 febbraio – 2 luglio 1944) ____________________ 128 1.3. Ravnich al comando (2 luglio 1944 – marzo 1945) ____________________ 133 2. L'ultima, dimenticata epopea risorgimentale dell'esercito italiano _________ 145 3. Da Pljevlja a Dubrovnik: quindici mesi di calvario dei garibaldini _________ 153

Conclusioni ______________________________________________________ 171

Documenti _______________________________________________________ 173

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Al garibaldino Giovanni Paladini A tutti i combattenti della divisione Garibaldi

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1

Ringraziamenti

Desidero ringraziare in primo luogo Eric Gobetti e Luciano Luciani, assieme ai quali ho avuto il piacere di presentare il film "Partizani" il 6 aprile 2016 a Lucca, e che hanno saputo consigliarmi al meglio sulle opere da consultare. Un ringraziamento in particolare va ovviamente anche all'ANPI, all'ANVRG e all'Istituto storico della Resistenza e dell'età contemporanea di Lucca, che mi hanno dato ben più di un sostanzioso aiuto nell'organizzazione del sopracitato esempio, fornendomi inoltre ulteriori indicazioni bibliografiche. Un ringraziamento anche a Sergio Goretti, direttore della rivista dell'ANVRG "Camicia Rossa", preziosa risorsa per i miei studi. Ringrazio inoltre l'Istituto storico della Resistenza in Toscana di Firenze, nella cui biblioteca ho trovato praticamente quasi tutto il materiale necessario per le mie ricerche, nonché l'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e nella Valsesia di Varallo, che con grande gentilezza e disponibilità ha messo a mia disposizione il fondo archivistico appartenuto a Luigi Ferraris. Voglio inoltre ringraziare l'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea di Asti, unitamente al personale del museo della divisione "Garibaldi", dove sono conservati moltissimi cimeli legati a quelle vicende di settanta e più anni fa.

Ringrazio ovviamente i relatori della presente tesi, i professori Luca Baldissara e Gianluca Fulvetti, e tutti coloro che mi hanno sopportato in questi quattordici mesi di lavoro sulla tesi, ed ai quali ho inflitto qualche aneddoto di troppo sul mio soggetto di studi.

L'ultimo ringraziamento va ai garibaldini che nel Montenegro, nella Bosnia e nel Sangiaccato hanno combattuto, sofferto e sognato il ritorno.

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2

Introduzione

"Una storia malvagia"

"Ognuno c'ha una storia... malvagia": così inizia il racconto del reduce Fabio Cangi nel film-documentario di Eric Gobetti "Partizani. La Resistenza italiana in Montenegro", ricordando la propria esperienza nella divisione italiana partigiana Garibaldi, nella quale a partire dal dicembre 1943 militarono i soldati italiani che dopo l'8 settembre avevano scelto di combattere contro gli ex alleati tedeschi. Queste due parole danno il titolo alla presente tesi, e la scelta è dovuta alla loro forza, all'efficacia con la quale esse sintetizzano a mio parere l'intera vicenda della guerra degli italiani in Montenegro: una "storia malvagia" perché poco conosciuta, fatta di lunghe marce, combattimenti, rappresaglie, in un teatro bellico – quello del Montenegro – povero di risorse e periodicamente tormentato dal tifo petecchiale, che compie vere e proprie stragi. Una "storia malvagia" che vede i soldati italiani, quasi tutti giovani di vent'anni o poco più, nati e cresciuti sotto il fascismo, mandati a combattere in terre delle quali ignorano usi, costumi, lingue, e che conoscono solo sotto il profilo esotico, in quanto dipinte come regioni storicamente abitate dai barbari slavi, che rivivono nella figura del partigiano; una "storia malvagia" infine che vede per un certo periodo gli italiani nei panni dei carnefici, un aspetto a lungo rimosso dalla storiografia. È di questa "storia malvagia" che ho deciso di scrivere per la mia tesi, perché fra quei giovani soldati ve ne fu uno, Giovanni Paladini, che fu mio nonno, che non ho potuto conoscere ma che, nei racconti dei parenti, fu sempre fiero di essere stato un "garibaldino", e che mantenne sempre verso la popolazione jugoslava una simpatia istintiva: dunque la scrittura di questa tesi è stata anche un

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3 modo per poter meglio conoscere quattro anni di vita di questo garibaldino nato il 4 aprile 1921 a Gorfigliano, in Garfagnana, che la guerra ha portato a contatto con figure leggendarie della Resistenza jugoslava quali Tito o Peko Dapcevic. Questo non mi ha impedito – spero – di mantenere nonostante tutto un certo "distacco" dalle vicende narrate, quel rigore scientifico che si chiede ad ogni storico.

Ho deciso di strutturare la tesi su tre capitoli, a loro volta suddivisi in tre grandi paragrafi, non solo per facilitarne la lettura, ma anche perché lo svolgimento stesso delle vicende belliche montenegrine dal 1941 al 1945 ben si presta a questa ripartizione: così il primo capitolo spazia dall'occupazione del Montenegro nell'aprile del 1941 agli ultimi giorni di Pirzio Biroli come governatore militare del paese nell'estate del '43; e proprio nel 1943 si svolgono tutti i fatti narrati nel secondo capitolo, prendendo le mosse dal 25 luglio e arrivando sino al 2 dicembre, data della costituzione della divisione Garibaldi; infine, il terzo ed ultimo capitolo riprende la narrazione dalla VI offensiva tedesca dei primi di dicembre per arrivare al marzo 1945, quando i reparti italiani finalmente rimpatriano.

Ognuno di questi capitoli, come ho già scritto, si regge su tre paragrafi: il primo è costituito da una ricostruzione sintetica degli eventi bellici, laddove il secondo, imperniato su una breve critica storiografica, svolge il ruolo di trait d'union fra il primo ed il terzo paragrafo, fondato sullo studio della memorialistica prodotta dai reduci (dalle interviste ai diari di guerra), uno studio che si propone di aprire uno squarcio sul vissuto quotidiano dei soldati.

Questa tesi nasce purtroppo segnata da un non trascurabile handicap: la ricostruzione storiografica contenuta nel primo paragrafo di ogni capitolo infatti sconta la mancanza di fonti vere e proprie, e si regge soprattutto sulla storiografia prodotta sull'argomento, a sua volta non particolarmente ricca, soprattutto per quanto concerne la divisione Garibaldi: ciò a causa dell'impossibilità – allo stato attuale – di poter consultare le carte dell'archivio di Carlo Ravnich, ultimo comandante della divisione e monarchico convinto, che oggi si trovano presso la fondazione "Umberto II" in Svizzera, alla quale Ravnich stesso, poco prima di morire, ha lasciato in eredità questo prezioso patrimonio (decisione contestata dalla stessa Associazione Nazionale

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4 Veterani e Reduci Garibadini, come ho avuto modo di sapere parlando con i dirigenti toscani dell'associazione nel febbraio 2016, e presa nel quadro di una situazione non del tutto limpida, come mi è stato raccontato dallo storico e regista Eric Gobetti, uno dei maggiori esperti delle vicende relative ai teatri di guerra balcanici).

In Italia, se si escludono i diari pubblicati nel corso degli anni – l'ultimo dei quali, quello dell'ex ufficiale della divisione Venezia, Gaetano Messina, curato da Eric Gobetti, è uscito nel 2015 – e quelli conservati presso l'Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, non resta moltissimo quanto a fonti archivistiche: di qualche interesse è però il fondo lasciato da Luigi Ferrari, contenente il diario ed alcuni documenti particolarmente rilevanti (come un corso di politica tenuto dai partigiani per gli italiani), oggi conservato a Varallo, in Piemonte, presso l'Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e nella Valsesia. Anche a questo si deve quindi il largo spazio concesso alla memorialistica in questa tesi.

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5

Soldati italiani in Montenegro (data sconosciuta, presumibilmente prima dell'armistizio); primo da destra mio nonno, Giovanni Paladini.

(10)

6

I

"Maledetto Montenegro": occupazione,

resistenza, repressione

(6 aprile 1941 – 20 luglio 1943)

verrà l'autunno e se ne andrà e molte volte tornerà e se ne andrà, e voi non sarete di ritorno.

Bertolt Brecht, Il Führer vi dirà: la guerra

1. Gli antefatti: l'invasione della Jugoslavia

Il teatro delle vicende legate alla Divisione Italiana Partigiana "Garibaldi" è il Montenegro, il quale al 6 aprile 1941, data dell'attacco congiunto da parte delle truppe dell'Asse, fa parte della compagine territoriale allora conosciuta come Regno di Jugoslavia.

Costituitosi poco più di vent'anni prima, nel 1918, al termine della Prima guerra mondiale, il regno era stato lacerato fin da subito dai conflitti etnici, dovuti soprattutto allo strapotere esercitato dall'elemento serbo, che di fatto deteneva tutte le leve del potere a cominciare da quello dinastico, in mano alla casa regnante dei Karadordevic1.

Ulteriore fattore di indebolimento è il costante duello diplomatico ingaggiato con i paesi vicini, primo fra tutti il Regno d'Italia, interessato ad esercitare un ruolo egemonico tanto nel mar Adriatico quanto nella penisola balcanica2, ruolo che la

1

Joze PIRJEVEC, Serbi, croati, sloveni. Storia di tre nazioni, il Mulino, Bologna 2015, pp. 50-51

2

Dominique LORMIER, Les guerres de Mussolini. De la campagne d'Ethiopie à la république de

Salo, Jacques Grancher éditeur, pp.149; Denis MACK SMITH, Le guerre del Duce, Laterza 1976,

(11)

7 presenza di uno stato unitario jugoslavo minaccia di ostacolare seriamente3. In quest'ottica, la capitolazione del regno il 17 aprile, ad appena undici giorni dall'inizio delle ostilità, avrebbe potuto rappresentare il coronamento del progetto mussoliniano – ma che fu anche degli ultimi governi liberali – di estromettere dalla regione un potenziale concorrente: avrebbe, perché in realtà il quadro generale è stato nel frattempo modificato dal sorgere in Germania dell'aggressivo regime nazionalsocialista, la cui crescente potenza militare porterà l'Italia fascista a ricercarne l'alleanza4.

La comunione di destini fra le due dittature ha una ricaduta inevitabile sulla condotta bellica italiana, prima segnata dalla politica di "non belligeranza", quindi ancorata al progetto di "guerra parallela" caro a Mussolini, ma sulla quale altri membri del regime si fanno meno illusioni e che i tedeschi non concepiscono minimamente, come già nel gennaio 1940 rileva l'ambasciatore italiano a Berlino, Bernando Attolico:

L'alleanza non fu mai concepita dai tedeschi in condizioni di parità [...]. Lo stesso Goering, ad esempio, non vede una Italia combattere – magari parallelamente alla Germania – una guerra diversa da quella tedesca, cioè la propria guerra. Quando che sia, egli la vede combattere la stessa guerra della Germania.5

Attolico, anche grazie alla sua posizione privilegiata, vede lontano, e gli sviluppi della guerra gli daranno ragione: entro la fine dell'anno la "guerra parallela" italiana, anche a causa dell'impreparazione militare del paese, si è arenata su tutti i fronti, dall'Africa alla Francia, ma soprattutto in Grecia, dove le truppe del Regio esercito incontrano un'accanita quanto inaspettata resistenza6 che costringe Hitler a correre in soccorso dell'alleato in un teatro di guerra, quello balcanico, che il Führer stesso aveva cercato di preservare dalla guerra, in vista dell'attacco all'URSS, che deve quindi essere posticipato7.

Il dittatore tedesco avrebbe voluto evitare un intervento militare nella regione per

3

Massimo BUCARELLI, Mussolini e la Jugoslavia (1922 – 1939), B.A. Graphis, Milano 2006, p. 7

4

Ibidem, pp. 369-372 5

Dal dispaccio dell'ambasciatore a Berlino Attolico al ministro degli esteri Ciano del 16 gennaio 1940, in Enzo COLLOTTI, La Seconda guerra mondiale, Loescher, Torino 1973, p. 84; vedi

anche [DOCUMENTO 1]

6

Emanuele GRAZZI, Il principio della fine. L'impresa di Grecia, Faro, Roma 1945, pp. 257-259

7

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8 non turbarne i già fragili equilibri geopolitici, nonché per non mettere a repentaglio i giacimenti petroliferi romeni, ora esposti al pericolo di un bombardamento da parte degli inglesi8; posto di fronte al fatto compiuto dell'aggressione alla Grecia, così scriverà Hitler a Mussolini nel novembre 1940:

Quando io vi pregai di ricevermi a Firenze iniziai il viaggio colla speranza di potervi esporre i miei pensieri prima che avesse inizio la minacciosa controversia colla Grecia di cui avevo sentore solo in generale.

Volevo anzitutto pregarvi di procrastinare un poco l'azione possibilmente a stagione più propizia [...].

Lo stato delle cose così creatosi ha conseguenze psicologiche e militari gravissime [...].

Quali che siano le conseguenze [...] che ne derivano, quel che conta è il fatto che non ne nascano poi intralci alle nostre ulteriori operazioni ed in particolar modo che non avvengano prese di posizione poco amichevoli da parte di quelle potenze che, come la Jugoslavia, potrebbero provocare se non addirittura una catastrofe, almeno una spiacevole estensione del conflitto.9

Viene quindi predisposta l'operazione Marita per l'intervento della Wehrmacht in Grecia, ma nel frattempo si concretizza proprio quanto temuto da Hitler: il regno di Jugoslavia, che il 25 marzo 1941 ha aderito al patto Tripartito, è oggetto appena due giorni dopo di un colpo di Stato effettuato da esponenti militari filobritannici10, che destituiscono il reggente Paolo e proclamano re l'ancora minorenne Pietro II. Si rende dunque necessaria un'azione contro il regno ribelle: è l'inizio dell'operazione Strafgericht ("Castigo") e la fine dello Stato jugoslavo così come dei progetti imperiali italiani.

8

Simon P. MACKENZIE, La Seconda guerra mondiale in Europa, il Mulino, Bologna 2011, pp. 38-39

9

Dalla lettera di Hitler a Mussolini del 20 novembre 1940, in COLLOTTI, La Seconda guerra mondiale, pp. 97-99; vedi anche [DOCUMENTO 2]; cfr. Giorgio BOCCA, Storia d'Italia nella guerra fascista, 1940 – 1943, Mondadori, Trento 2011, pp. 217-218

10

Eric GOBETTI, L'occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941 – 1943), Carocci, Pisa 2007, p. 41

(13)

9

In Salvatore LOI, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia (1941 - 1943), USSME, Roma 1978, schizzo n. 10

(14)

10 1.1 La spartizione dei territori jugoslavi

In Jugoslavia, colonne motorizzate della 2° Armata procedono da Spalato su Ragusa. Reparti della Marina hanno completato l'occupazione delle isole dalmate. Dall'Albania altre colonne motorizzate, dopo aver occupato, superando le superstiti difese avversarie, Antivari e Cettigne, proseguono su Cattaro e Ragusa, per congiungersi alle truppe della 2° Armata provenienti dal nord.11

Così recita il bollettino di guerra n. 314 del Comando Supremo descrivendo le operazioni del Regio esercito nella regione: ma i toni enfatici nascondono la sudditanza degli interessi italiani a quelli dell'impero nazista.

Al momento della spartizione dei territori dell'ormai ex-regno jugoslavo, stabilita alla conferenza di Vienna (21 – 24 aprile), si palesano chiaramente le reali intenzioni del regime nazista, a tutto interessato tranne che ad un rapporto su basi paritarie con i suoi alleati, considerati poco più che satelliti, inclusa l'Italia: come sottolinea Giorgio Bocca, "la nostra esclusione dal bottino di guerra è categorica"12, e non potrebbe essere diversamente, dal momento in cui

sebbene rappresenti l'unica vittoria militare ottenuta fino ad allora dall'Italia, la conquista della Jugoslavia non è però il frutto dell'iniziativa italiana ma della schiacciante superiorità bellica tedesca. Quindi è evidente che i piani concepiti dalla diplomazia fascista negli anni precedenti devono ora passare al vaglio degli interessi nazisti nell'area.13

Nel Nuovo ordine europeo prospettato da Hitler e imperniato sulla centralità della Germania e sulla superiorità razziale ed egemonia del popolo tedesco14, non c'è che uno spazio marginale, periferico per il Nuovo ordine mediterraneo del regime fascista, che vede il proprio "spazio vitale" nei Balcani limitato alle aree più povere di risorse, come la Slovenia meridionale o lo stesso Montenegro, la cui storica capitale Cettigne viene occupata dalle truppe italiane il 17 aprile.

11

USSME (a cura di), Bollettini di guerra del Comando Supremo, 1940 – 1943, Roma 1970, p. 189; vedi anche [DOCUMENTO 3]

12

BOCCA, Storia d'Italia nella guerra fascista, p. 419

13

GOBETTI, Alleati del nemico. L'occupazione italiana in Jugoslavia (1941 – 1943), Laterza, Lecce 2013, p. 10

14

COLLOTTI, L'Europa nazista. Il progetto di un Nuovo ordine europeo (1939 – 1945), pp. 18-21; vedi anche Davide RODOGNO, Il Nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione

(15)

11

(16)

12 1.2. Nel Montenegro occupato: l'effimera restaurazione monarchica

Nel Montenegro, così come in Croazia, il regime fascista persegue la via della "limitata indipendenza", la quale

permetteva di uscire dall'impasse di un'occupazione militare permanente di tipo coloniale, con tutti i costi che ciò avrebbe comportato. Oltre a considerazioni pratiche [...] vi era anche l'ambizione di presentare <<l'ordine nuovo>> fascista per la sistemazione del sud-est europeo come un modello più accettabile del duro regime di occupazione tedesca.15

Ma se in Croazia i piani italiani vengono a infrangersi contro le crescenti ingerenze tedesche, contro le quali Ante Pavelic, leader degli ustascia e del governo collaborazionista croato, non può sottrarsi, soprattutto dal momento che le truppe germaniche offrono le maggiori garanzie contro le forze partigiane16, le cose sembrano seguire un corso più favorevole in Montenegro, dove inizialmente l'occupazione sembra procedere senza incontrare particolari ostacoli, tanto che nel paese resta una sola divisione, la Messina, comandata dal generale Carlo Tucci17. Il paese, che ha alle spalle una lunga e sanguinosa storia di battaglie contro l'impero ottomano e la cui popolazione è profondamente intrisa di sentimenti nazionalisti e patriottici, aveva vissuto nel corso del XIX secolo un proprio processo "risorgimentale", culminato nel 1878 al congresso di Berlino, dove il Montenegro ottiene il pieno riconoscimento internazionale della propria indipendenza18. A lungo retto dalla dinastia dei Petrovic, al potere sin dal Settecento, nel 1896 intreccia i propri destini con quelli del Regno d'Italia, quando il futuro re Vittorio Emauele III sposa Elena, figlia di re Nicola I.

Uscito dalle guerre balcaniche (1912 – 1913) con una cospicua espansione territoriale19, viene invaso dalle truppe austro-ungariche durante la Prima guerra

15

Elena AGA ROSSI, Maria Teresa GIUSTI, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani, 1940

– 1945, il Mulino, Bologna 2011, p. 24 16

Teodoro SALA, Fascisti e nazisti nell'Europa sudorientale. Il caso croato (1941 – 1943), p. 73, in COLLOTTI, SALA (a cura di), Le potenze dell'Asse e la Jugoslavia. Saggi e documenti

1941/1943, pp. 49-76 17

Cfr. AGA ROSSI, GIUSTI, Una guerra a parte, p.42; LOI, Le operazioni delle unità italiane in

Jugoslavia, p.115 18

Cfr. Mario PACOR, Italia e Balcani dal Risorgimento alla Resistenza, Feltrinelli, Milano 1968, p. 19; PIRJEVEC, Serbi, croati, sloveni, pp. 40-41

19

(17)

13 mondiale, al termine della quale è ormai scomparso come Stato indipendente, inglobato nel Regno dei serbi, croati e sloveni (il Regno di Jugoslavia). L'occupazione del paese da parte delle truppe del Tripartito significa la mutilazione del Montenegro di molti dei territori conquistati durante le guerre balcaniche, un elemento che avrà il suo peso al momento dell'insurrezione del luglio 1941.

L'obiettivo italiano è costruire un regno indipendente ma legato all'Italia, con a capo un membro della dinastia dei Petrovic: i lavori in questa direzione sono avviati già nel 194020, e un anno dopo, a Tirana, si costituisce un "comitato per la liberazione del Montenegro", che entra nel paese al seguito delle truppe italiane in aprile21 e dalle quali riceve i poteri civili lo stesso mese (ma non quelli decisionali, rimasti saldamente in mano alle autorità militari). Il progetto è però minato alla base dall'impossibilità di trovare un re disposto a sedere sul trono: il principale candidato, Mihailo, nipote della regina Elena, rifiuta adducendo come scusa il proprio giuramento di fedeltà ai Karadordevic22, e inoltre – come ricorderà Galeazzo Ciano sul proprio diario in data 7 giugno, il principe ha il sentore della sconfitta finale dell'Asse:

Il Principe Michele – quello che ha ripristinato la corona del Montenegro – ha aperto tutto il suo animo al Console Serra di Cassano. Non vuol saperne, lui, di compromettersi perché è convinto che alla fine la Germania e l'Italia prenderanno uno squasso di legnate, e da ciò ritiene che ogni soluzione attuale non sia che transitoria ed effimera. Non credo che la Regina sia molto fiera delle idee di questo rampollo dei Petrovich.23

Il 28 aprile il conte Serafino Mazzolini diviene commissario civile per il Montenegro, con delega al potere giudiziario: all'inizio di luglio l'adesso Alto commissario Mazzolini convoca a Cettigne un'Assemblea costituente incaricata dell'approvazione della "Dichiarazione sul ripristino del Montenegro", che avviene il 12 luglio: il documento, che definisce l'Assemblea "interprete fedele" della volontà della popolazione, stabilisce la fine del servaggio alla Serbia e la ricostituzione del Montenegro come "Stato sovrano e indipendente nella forma monarchica e

20

RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo, p. 131

21

LOI, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia, p. 87

22

Giacomo SCOTTI, Luciano VIAZZI, Occupazione e guerra italiana in Montenegro. Le Aquile delle

Montagne nere, Mursia, Milano 1987, pp. 70-71 23

(18)

14 costituzionale", legato all'Italia – alle cui armate deve la liberazione – da "vincoli di stretta solidarietà"24.

Il neonato regno ha vita brevissima: già privo di un re, in quanto dopo il rifiuto dei nipoti di Elena nemmeno lo stesso Vittorio Emanuele III ha voluto accettare il trono25, il 13 luglio riceve il coup de grace dall'insurrezione che infiamma l'intero paese e che costituisce, assieme alla coeva rivolta nella Serbia sotto dominazione tedesca, il primo vagito della nascente Resistenza jugoslava. Mazzolini fa immediatamente diramare l'ordinanza n. 40 che istituisce il coprifuoco, ma non basta certo a scoraggiare gli insorti26.

1.3. La Resistenza jugoslava: la sua nascita, i suoi protagonisti

La lotta contro l'occupante in Jugoslavia è entrata nella leggenda come "la più forte e combattiva Resistenza europea"27; colpisce, negli osservatori esterni, l'apparente compattezza della lotta, che unisce la popolazione oltre le barriere etniche, sociali e di genere, come testimonia il seguente passo tratto dal diario partigiano di Pietro Chiodi, già professore di Beppe Fenoglio al liceo di Alba:

23 gennaio. Cocito è rientrato dalla Croazia. Passa il tempo leggendo molto. Mi confida di aver

aderito al partito comunista [...]. Ad un tratto mi guarda stranamente dicendomi: – Sai che a Mostar professori e allievi del Liceo sono tutti in montagna a fare i partigiani. Anche le ragazze ci sono andate. Quello è un Liceo dove mi piacerebbe insegnare.28

L'episodio, riportato anche da Fenoglio nel secondo capitolo de Il partigiano Johnny29, dimostra anche l'ammirazione per la lotta dei popoli jugoslavi contro il fascismo, ammirazione che traspare anche da un altro diario, quello di Ada Gobetti,

24

SCOTTI, VIAZZI, Occupazione e guerra italiana in Montenegro, p. 73; vedi anche [DOCUMENTO 4]

25

Cfr. GOBETTI, L'occupazione allegra, p. 46; Alleati del nemico, p. 19; BOCCA, Storia d'Italia

nella guerra fascista, pp. 406-407; PACOR, Italia e Balcani, pp. 201-202; MACK SMITH, I Savoia re d'Italia. Fatti e misfatti della monarchia dall'unità al referendum per la repubblica,

BUR, Roma 1992, p. 380

26

SCOTTI, VIAZZI, Occupazione e guerra italiana in Montenegro, p. 76

27

BOCCA, Storia dell'Italia partigiana. Settembre 1943 – Maggio 1945, Feltrinelli, Padova 2012, p. 178

28

Pietro CHIODI, Banditi, Einaudi, Trento 2015, p. 13

29

(19)

15 che così descrive l'incontro con un prigioniero di guerra jugoslavo:

Assai meno infantile, con uno sguardo leggermente ossessionato, era invece il prigioniero jugoslavo [...]. Gli ho detto quanto ammiriamo la loro resistenza. I suoi occhi bruni si sono illuminati. – Imparerete anche voi, – ha detto, in ottimo italiano.30

E gli italiani dopo l'8 settembre impareranno, ed è ancora l'esempio jugoslavo quello da seguire, da imitare: i comandi del C.V.L. (Corpo Volontari della Libertà), che coordinano la lotta di Resistenza in Italia, pubblica nei propri opuscoli stralci di documenti prodotti dalle forze partigiane jugoslave, come ad esempio il "Decalogo del partigiano", distribuito fra i combattenti croati, vero e proprio compendio della guerra per bande:

Essere cacciatore [...]. [...] Saper improvvisare [...]. [...] Stare sempre in guardia [...]. Assicurarsi i rifornimenti [...]. Essere forte moralmente [...].31

Ma l'esempio jugoslavo non è solo quello da seguire: la sua eccezionalità può servire a giustificare anche l'attendismo, come è possibile rilevare dal seguente passo de Partigiani della montagna, di Giorgio Bocca:

Carissimo D.,

ti ringrazio molto per l'offerta che mi porgi a nome di tutti i tuoi compagni. Non posso accettare il posto di comando che mi offrite perché credo sia mio dovere lavorare più concretamente. Ti dirò subito [...] che io sono convinto che in Italia non possa verificarsi un movimento partigiano sul tipo di quello jugoslavo, fatto con bande armate [...].

Il movimento jugoslavo si manifestò dopo un lungo periodo di incubazione [...].

In Jugoslavia, all'atto dello scioglimento dell'esercito, furono messi in salvo e nascosti magazzini di armi e di munizioni [...].

La popolazione era là tutta partigiana, disposta ad ogni sacrificio, qui sarete osteggiati da alcuni ed indifferenti ai molti.

Il terreno della Serbia e della Slovenia pareva creato apposta da Dio per i partigiani,zone impenetrabili di boschi, con poche vie di comunicazione ove si potevano rifugiare con estrema sicurezza i reparti.32

In quei boschi "impenetrabili", così come fra le montagne nere che danno il nome al

30

Ada GOBETTI, Diario partigiano, Einaudi, Trento 2014, p. 17

31

La guerra partigiana n. 1, agosto 1944, in Cristiano ARMATI (a cura di), Il libretto rosso della Resistenza. La teoria e la pratica della guerriglia antifascista attraverso i documenti militari dei partigiani italiani, RedStar Press, Roma 2012, pp. 28-33; Arrigo BOLDRINI (a cura di),

Enciclopedia della Resistenza, p. 152, voce "decalogo del partigiano"; vedi anche [DOCUMENTO

5]

32

BOCCA, Partigiani della montagna. Vita delle divisioni "Giustizia e Libertà" del Cuneese, Feltrinelli, Bergamo 2012, pp. 28-29

(20)

16 Montenegro, i soldati italiani sperimentano sulla propria pelle la guerra partigiana e tutta la sua brutalità: ma anche la Resistenza vive prove durissime, costituite non soltanto dalla repressione messa in atto dalle forze occupanti, ma anche dal contrasto interno sempre più insanabile fra i due movimenti che la costituiscono, i cetnici e i partigiani.

I cetnici di Mihailovic. In seno alla nascente Resistenza jugoslava, il movimento dei cetnici rappresenta quella che Mario Pacor definisce la componente "patriottica e nazionale", fedele al governo in esilio, in questo caso quello dei Karadordevic33. Principale esponente e animatore del movimento cetnico è Dragoljub "Draza" Mihailovic, nato il 27 aprile 1893 a Ivanjica, in Serbia; reduce delle guerre balcaniche e del primo conflitto mondiale, docente presso l'Accademia di Belgrado e membro dello Stato maggiore, alla vigilia della guerra è fra i pochi a giudicare negativamente la preparazione militare dell'esercito jugoslavo34.

Nell'aprile del 1941 rifiuta di arrendersi dopo l'ordine di capitolazione, e riunisce sull'altipiano di Ravna Gora, in Serbia, tutti gli ufficiali e i soldati dell'ex esercito intenzionati a proseguire la lotta: è l'atto di nascita di quello che verrà chiamato Jugoslavenska vojska u otadzbini, l'Esercito jugoslavo in patria.

L'organizzazione cetnica si richiama fin dal nome alle cete, le bande di guerriglieri e scorridori serbi e montenegrini per secoli protagoniste della resistenza all'impero ottomano35: ma milizie cetniche furono attive anche durante le guerre balcaniche, distinguendosi per le violenze effettuate a danno delle popolazioni civili, soprattutto quelle di religione musulmana36.

Ferocemente nazionalisti, i cetnici propongono un programma politico sintetizzabile in tre punti fondamentali: ricostituzione del regno jugoslavo sotto la dinastia Karadordevic; netto predominio dell'elemento serbo; costruzione di una "Grande

33

PACOR, Italia e Balcani, p. 213

34

Stefano FABEI, I cetnici nella Seconda guerra mondiale. Dalla Resistenza alla collaborazione con

l'Esercito italiano, LEG, Pordenone 2006, pp. 39-40 35

Cfr. Ivi; GOBETTI, L'occupazione allegra, pp. 75-76; PIRJEVEC, Serbi, croati, sloveni, pp. 58-59

36

(21)

17 Serbia" ripulita di tutte le minoranze etniche e religiose (ossia non ortodosse)37. Un programma di pura e semplice continuità rispetto dell'esperienza interbellica quindi, che unitamente all'assenza di una qualsiasi forma di comando centrale sulle varie bande, costituisce una tara per i cetnici, che si alienano il sostegno delle minoranze e delle fasce più giovani della popolazione, maggiormente attratte dal messaggio partigiano di una repubblica federale fondata sull'equità fra le etnie, e che costituisce la prima, grande debolezza del movimento cetnico, punito peraltro anche dalla propria strategia attendista, motivata comunque dal timore di scatenare rappresaglie38.

I cetnici sono inoltre divisi e indeboliti proprio nel cuore di quella che dovrebbe essere la loro roccaforte, la Serbia, dove i tedeschi hanno messo a capo del governo un vecchio rivale di Mihailovic sin dai tempi dell'esercito, Milan Nedic, scelto proprio per la sua capacità di riunire attorno a sé i cetnici, staccandoli dal fronte della Resistenza39.

Ma ciò che davvero mina le possibilità dei cetnici è la loro crescente compromissione con le forze occupanti, in primo luogo con gli italiani, compromissione che diventa facilmente collaborazione contro il comune nemico "comunista" partigiano, percepito – non a torto – come una minaccia per l'ordine sociale che gli uomini di Mihailovic vogliono restaurare40: nondimeno, il sostegno degli Alleati – in primo luogo degli inglesi – ai nazionalisti serbi e a Mihailovic, presentati dalla BBC come "the first resistance in occupied Europe"41, resta a lungo incondizionato, non solo per il favore di cui Mihailovic gode presso il governo in esilio, ma anche e soprattutto perché, alla fine della guerra, avrebbe potuto costituire uno strumento in più contro i partigiani comunisti, sostenuti dall'URSS42. Si deve comunque sottolineare, con

37

GOBETTI, L'occupazione allegra, pp. 154-155

38

Ezio CECCHINI, Storia della guerriglia. Dall'antichità all'era nucleare, Mursia, Varese 1990, p. 226

39

Yves DURAND, Il Nuovo ordine europeo. La collaborazione nell'Europa tedesca (1938 – 1945), il Mulino, Bologna 2002, p. 95

40

Cfr. FABEI, I cetnici nella Seconda guerra mondiale, p. 38; GOBETTI, Alleati del nemico, p. 43; RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo, pp. 366-367

41

Vjeran PAVLAKOVIC, Yugoslavia, p. 219, in Philip COOKE, Ben H. SHEPHERD, European

Resistance in the Second world war, Preatorian Press, UK 2013, pp. 213-242 42

David STAFFORD, Britain and European Resistance, 1940 – 1945. A Survey of the Special

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18 Davide Rodogno, che la scelta collaborazionista dei cetnici rientrava in un quadro di momentanea convenienza: gli stessi italiani erano consci che

i cetnici parteggiavano per i britannici e che, quando l'occasione si fosse presentata, avrebbero rivolto le armi contro l'Asse [...].

I partigiani di Tito. L'altra grande componente della Resistenza jugoslava, destinata a divenire maggioritaria, è l'esercito partigiano comandato dal leggendario maresciallo Tito, pseudonimo di Josip Broz, "figura in cui non trovavano espressione talenti particolari", come scriverà il suo antico collaboratore Milovan Djilas molti anni dopo la fine della guerra, con una nota polemica, "eccezion fatta per quello della politica"43.

Nato il 7 maggio 1892 a Kumrovec, in Croazia, da una famiglia ben presto caduta in una difficile situazione economica, Tito si avvicina al movimento operaio e socialista per la prima volta nel 1910, quando a Zagabria si iscrive al sindacato dei metalmeccanici e quindi all'organizzazione giovanile del Partito socialdemocratico44. Durante la Prima guerra mondiale serve sul fronte serbo e dunque su quello russo, dove viene fatto prigioniero: qui si trova a vivere le vicende rivoluzionarie che portano al crollo dell'impero zarista, e si avvicina al movimento comunista45.

Rientrato in patria nel 1920, comincia a collaborare con il Komunisticka partija Jugoslavije, il Partito comunista jugoslavo, ma ripiega ben presto sull'attività sindacale per sfuggire alle lotte fra le varie correnti del partito46.

Gli anni successivi fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale sono segnati dagli scontri interni al partito comunista e al Comintern, l'Internazionale comunista, nonché dalla prigionia (1928), ma soprattutto dall'esperienza della Guerra civile spagnola: lo scontro in atto fra la Repubblica e i ribelli franchisti vede l'URSS schierarsi dalla parte dei primi, e Tito

sposò questa politica con tutto il suo impegno, nella convinzione che la Spagna sarebbe potuta diventare un'ottima scuola per i futuri quadri militari e politici jugoslavi, chiamati ad attuare la

43

Milovan DJILAS, Compagno Tito. Una biografia critica, Mondadori, Milano 1980, p. 11

44

PIRJEVEC, Tito e i suoi compagni, Einaudi, Torino 2015, pp. 9-10

45

Ibidem, p. 13-14 46

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19

rivoluzione: il che puntualmente avvenne. Durante la Seconda guerra mondiale nessun partito comunista poteva contare su un numero così cospicuo di <<spagnoli>> come il PCJ. Furono loro a prendere il comando della Resistenza partigiana.47

Ciò nonostante, ancora al momento dell'invasione, i comunisti – in ossequio al patto Molotov-Ribbentropp del 1939 – non si muovono contro le forze occupanti, limitandosi alla propaganda contro la guerra imperialista e tutti coloro che la combattono. Certamente sono presenti nelle manifestazioni del marzo 1941 che portano alla destituzione del governo in carica, ma ancora non si passa alla lotta armata, sia a causa degli ordini in direzione contraria che arrivano da Mosca, sia per la presenza dentro il PCJ di correnti dubbiose sull'opportunità di organizzare una rivolta in armi48.

A cambiare le carte in tavola sarà l'attacco tedesco all'Unione Sovietica il 22 giugno 1941: l'aggressione alla patria del socialismo contribuisce alla discesa sul campo di battaglia dei partiti comunisti49, rappresentanti della componente "sociale e rivoluzionaria" della Resistenza europea50, la quale però si trasforma, come nota David Stafford, in una "potential arena for a civil war"51.

Questa guerra civile, che nella Jugoslavia occupata si combatte in primo luogo fra partigiani e cetnici, vede i primi emergere vittoriosi grazie a tutta una serie di fattori che emergono nel corso del conflitto: in primo luogo, dal momento in cui si gettano nella lotta armata, le forze di Tito non hanno timore di combattere contro le truppe occupanti, anche a costo – contrariamente ai cetnici – di scatenare rappresaglie sulla popolazione civile. Queste possono contribuire infatti a portare i sopravvissuti a schierarsi coi partigiani, abbandonando la "zona grigia", anche se si deve sottolineare che dietro non c'è un vero e proprio piano prestabilito, e spesso i comandi partigiani sono i primi a impedire un'operazione qualora si presenti il rischio concreto di una inutile rappresaglia52.

In secondo luogo, l'esercito partigiano evita gli scontri frontali con le più potenti truppe nemiche, ricorrendo alla tattica della guerriglia: qui entrano in campo 47 Ibidem, p. 26 48 Ibidem, pp. 83-85 49

GOBETTI, Alleati del nemico, p. 32

50

PACOR, Italia e Balcani, pp. 213-214

51

STAFFORD, British and European Resistance, p. 69

52

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20 implicazioni non soltanto di tipo militare, ma anche politico, perché la guerriglia per sua natura ha sempre un lato politico: ed è proprio sul piano politico, prima ancora che su quello militare, che l'esercito partigiano riporta uno schiacciante successo sui diretti rivali cetnici.

I partigiani riescono infatti ad attirare dalla propria parte i giovani, soprattutto gli studenti, che già avevano cominciato ad avvicinarsi in massa al partito comunista negli anni '3053, e le donne54, ma dove veramente si registra il maggior successo è nello spinoso territorio della questione nazionale, cui Tito dedica una importanza cruciale già nel periodo interbellico55 e che si traduce in un progetto politico agli antipodi della proposta conservatrice e granserbista dei cetnici: si accantona infatti l'obiettivo rivoluzionario socialista in favore della costituzione di una repubblica democratica e federale, che sappia garantire la convivenza pacifica fra le diverse etnie all'insegna del principio di equità. La proposta è tanto più convincente in quanto i partigiani la praticano nel concreto quotidiano, come evidenziato da Vjeran Pavlakovic:

The key to the Partisans' eventual success was their commitment to being a multiethnic resistance movement in the midst of a brutal internecine struggle.56

Ma tutto questo non è che il frutto di un processo segnato da errori e passi falsi talvolta fatali, come proprio il caso montenegrino ci dimostra.

1.4. La Resistenza in Montenegro: l'insurrezione del luglio 1941

[...] ignoti ribelli hanno interrotto collegamenti telefonici lungo zona costiera Montenegro et hanno assalito posto Guardia Finanza Misici fra Antivari e Budva alt Sembra vi siano vittime alt Pare sia stata assalita una autocolonna alt Altra autocolonna certamente assalita fra Budva et Cettigne alt [...].57

Il 13 luglio 1941 il Montenegro, allora presidiato come abbiamo già visto da una sola

53

PIRJEVEC, Tito e i suoi compagni, p. 35

54

GOBETTI, L'occupazione allegra, pp. 167-168

55

Cfr. PIRJEVEC, Tito e i suoi compagni, pp. 37-38; Jacques DROZ, Histoire de l'antifascisme en

Europe, 1923 – 1939, Editions la découverte, Paris 1985, p. 170 56

PAVLAKOVIC, Yugoslavia, p. 226; vedi anche GOBETTI, Alleati del nemico, p. 153

57

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21 divisione, la Messina, viene scosso da una violenta insurrezione che coglie di sorpresa le poco numerose e mal equipaggiate truppe italiane, sparpagliate peraltro su un territorio aspro e coperto di foreste: ma di rivolta le forze di opposizione montenegrine parlavano sin dalla fine di aprile, ma è solo l'attacco all'URSS a determinare il passaggio all'azione, sia per l'influenza sulle forze comuniste, sia per il secolare legame fra i paesi slavi meridionali e la Russia58.

Diversi fattori concorrono allo scoppio della rivolta: certamente le umiliazioni inflitte all'orgoglio nazionale montenegrino dalle sconfitte militari di aprile e dalle successive amputazioni territoriali, che impediscono qualsiasi possibilità di ripresa della vita economica del paese, come lo stesso generale Pirzio Biroli, chiamato a sedare la rivolta, ammette59; ma a queste sono da aggiungersi le ondate di profughi dalle regioni limitrofe, teatro di spietate violenze da parte delle milizie ustascia sulle minoranze serbe, e l'azione del partito comunista, "il meglio organizzato" secondo Pirzio Biroli60, che nel Montenegro può contare su un valido luogotenente, Milovan Djilas, tornato nella sua terra natale su ordine di Tito in persona.

Come lo stesso Djilas ricorda nelle sue memorie di guerra, Tito gli aveva raccomandato di iniziare con piccole azioni di sabotaggio61, ma ben presto la situazione gli sfugge di mano: gli attacchi ai presidi italiani più isolati hanno successo, e la rivolta inizia letteralmente a nutrire sé stessa, fino a sfociare in un sommovimento a carattere nazionale62, mentre il controllo italiano finisce per limitarsi a Cettigne, Niksic e Podgorica63; altri importsanti centri, come Berane, Kolasin, Zabljak o Bjelo-Polje, sono caduti in mano agli insorti fra il 17 e il 20 luglio64.

L'insurrezione montenegrina vede la partecipazione di rappresentanti dell'intero corpo sociale, ed è uno dei rari casi di collaborazione fruttuosa fra cetnici e comunisti: ben presto però questi ultimi iniziano a praticare vere e proprie forme di

58

SCOTTI, VIAZZI, Occupazione e guerra italiana in Montenegro, p. 81

59

LOI, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia, p. 235; vedi anche SCOTTI, VIAZZI,

Occupazione e guerra italiana in Montenegro, p. 83 60

Ibidem, p. 92 61

Milovan DJILAS, Wartime, Harcourt Brace Jovanovich, USA 1977, pp. 5-8

62

GOBETTI, Alleati del nemico, pp. 37-38

63 Ivi 64

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22 terrore nelle aree sotto il loro controllo, alienandosi il sostegno popolare65.

Djilas dal canto suo tenta di circoscrivere la lotta armata riportandola nel campo della guerriglia, soprattutto a seguito dei primi rastrellamenti, ma molti interpretano la sua azione come un ripiegamento proprio quando la vittoria sembra vicina, e abbandonano i comunisti o rifiutano di ritirarsi, esponendosi alla sconfitta per mano delle truppe italiane66.

Il 25 luglio 1941 Mussolini conferisce al generale Alessandro Pirzio Biroli i pieni poteri militari e civili, e lo incarica nel Montenegro per stroncare l'insurrezione.

1.5. Arriva Pirzio Biroli

Ben ha fatto Sua Eccellenza Pirzio Biroli ad imitare l'esempio di Debrà Libanòs, che per il clero dell'ex Scioa è stato assai salutare, perché preti e monaci adesso filano che è una bellezza.67

Queste le parole con cui il viceré d'Etiopia, Rodolfo Graziani, si congratula nel 1937 con l'allora governatore dell'Amhara Pirzio Biroli, il quale aveva appena fatto fucilare venti persone e ordinato l'impiccagione di quattro preti. Questo il background dell'uomo chiamato da Mussolini a sedare l'insurrezione montenegrina scoppiata in luglio.

Pirzio Biroli porta con sé nei Balcani la propria esperienza coloniale, secondo il modello consolidato della colonia come "palestra" della guerra totale68: le operazioni di controguerriglia, da condurre, come viene sottolineato nelle disposizioni emanate il 15 luglio, con rigore ma "senza inutile crudeltà"69, durano poco meno di un mese, e vedono la partecipazione di varie divisioni italiane, fra le quali la "Venezia", che ritroveremo impegnata nella lotta partigiana dopo l'8 settembre. All'aspetto repressivo – che vede brillare per crudeltà i reparti della divisione alpina "Pusteria", la quale rade al suolo interi villaggi70 – Pirzio Biroli, soprattutto in un primo tempo,

65

LOI, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia, p. 225

66

SCOTTI, VIAZZI, Occupazione e guerra italiana in Montenegro, pp. 164-166

67

Angelo DEL BOCA, Italiani, brava gente? Un mito duro a morire, Neri Pozza, Padova 2006, p. 233

68

Enzo TRAVERSO, A ferro e fuoco. La guerra civile europea, 1914 – 1945, il Mulino, Bologna 2014, pp. 65-66

69

LOI, Le operazioni delle unità italiane in Jugoslavia, p. 231; vedi anche [DOCUMENTO 7]

70

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23 affianca una sorta di attività di intelligence, per raccogliere quante più informazioni possibile sul nemico, e avvia una inchiesta per stabilire le responsabilità degli ufficiali italiani colpevoli dell'abbandono del presidio di Danilovgrad71.

La rivolta viene domata, e il paese quasi completamente pacificato, ma al prezzo di una vera e propria "guerra ai civili" portata avanti dalle truppe italiane e dalle milizie di camicie nere – la cui violenza tocca picchi tali da costringere le stesse autorità occupanti a rimpatriarne diversi squadristi colpevoli di eccessi72 – e che vede inaugurare la pratica dei roghi di interi villaggi e la cattura di ostaggi da fucilare per rappresaglia in caso di nuove rivolte73: una dura lezione per le forze antifasciste locali, che devono ripensare la propria strategia. Come scriverà Djilas molti anni dopo,

I soon realized that a guerrilla army [...] was capable only of slowing the offensive of a regular army. This means, as a rule, the necessity of evading enemy attacks; that is, one must engage the enemy only when he is in retreat or stationary.74

Mentre Djilas e i suoi compagni si leccano le ferite, Pirzio Biroli assume la carica di governatore nell'ottobre 1941: da questo momento in avanti, fino all'8 settembre 1943, il Montenegro resterà un protettorato militare.

Pirzio Biroli, almeno in principio, sembra voler risparmiare al paese un regime di occupazione eccessivamente oppressivo, ma chiarisce nondimeno che la sua azione di governo è improntata in primo luogo al mantenimento dell'ordine75: a questo scopo decide di favorire la creazione di un fronte unitario fra tutte le formazioni nazionaliste e anticomuniste, a cominciare dai cetnici, inquadrati nelle MVAC, Milizie Volontarie Anticomuniste. Di questa strategia basata sul dividi et impera, di marca squisitamente coloniale76, Pirzio Biroli è uno dei principali promotori – oltre ad essere uno dei più decisi oppositori alle ripetute richieste di disarmo delle milizie

71

Ibidem, pp. 206-211 72

Andrea ROSSI, Le guerre delle camicie nere. La milizia fascista dalla guerra mondiale alla guerra

civile, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2005, pp. 54-58 73

Pero MORACA, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti in Jugoslavia durante la

seconda guerra mondiale, in COLLOTTI (a cura di), L'occupazione nazista in Europa, Editori

Riuniti, 1964, pp. 538-539

74

DJILAS, Wartime, p. 32

75

RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo, p. 172

76

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24 collaborazioniste, cetniche in primis, da parte dei tedeschi77. Ma l'impiego delle bande locali ancora non basta a sradicare il fenomeno partigiano, che deve essere colpito in quello che è il suo punto debole e la sua più grande forza: il sostegno della popolazione civile, che deve essere a sua volta colpita per togliere acqua al mulino partigiano. In tal senso, le disposizioni emanate da Pirzio Biroli precedono idealmente nello spirito quello che viene considerato il documento-simbolo della politica repressiva antipartigiana italiana, la famigerata circolare 3C del generale Roatta. Le misure prese dalle autorità italiane per reprimere l'insurrezione sono recuperate integralmente e inasprite; particolarmente massiccio risulta il ricorso all'internamento: a tale scopo sono stati approntati campi di concentramento speciali "per slavi"78, localizzati sia nel Montenegro (Mamula e Prevlaka, presso le Bocche di Cattaro), sia in Italia, dove spicca il campo di Colfiorito in Umbria79, da dove ci arriva l'interessante testimonianza di un internato montenegrino, Dragutin Drago Ivanovic, imprigionato proprio perché colpevole di aver collaborato con i partigiani. Ivanovic, arrestato nell'aprile 1942 dai cetnici e da questi consegnato agli italiani, arriva a Colfiorito il 28 maggio 1943: come ricorda nelle sue memorie, è forte il contrasto fra il nome della località, che richiama placidi paesaggi campestri, e la realtà del filo spinato e delle vecchie stalle dei muli adibite ad alloggio per gli internati80. La vita nel campo è dura, segnata dalla fame e dalle privazioni, ma non dalla solitudine, come emerge chiaramente dal racconto di Ivanovic:

Avevamo un gran numero di compagni con i quali eravamo arrivati qui, tramite loro allargammo la nostra cerchia di conoscenze. La lunga permanenza nei campi di concentramento aveva sviluppato presso molti la capacità, così necessaria, di entrare facilmente in relazione con altre persone, di avvicinarsi a loro. Ciò impediva di isolarsi, di sprofondare nelle proprie preoccupazioni, di sentirsi senza aiuto. Queste nuove conoscenze divennero delle grandi e durature amicizie, crearono un'atmosfera di cameratismo e solidarietà, sentimenti che nascono spontaneamente in situazioni di vita difficili. Il fatto di trovarci in terra straniera, lontano dalla nostra patria, ci avvicinava ancor più rapidamente, e ciò serviva per riuscire a vivere in armonia i giorni che incombevano.81

77

FABEI, I cetnici nella Seconda guerra mondiale, p. 230

78

Carlo Spartaco CAPOGRECO, I campi del duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940 –

1943), Einaudi, Trento 2006, pp. 3, 68-71 79

Ibidem, pp. 195-196 80

Dragutin Drago IVANOVIC, Memorie di un internato montenegrino. Colfiorito 1943, Editoriale Umbra, Foligno 2004, pp. 37-38

81

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25

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26 1.6. Verso il crollo

Cari genitori, fratelli e sorelle,

vi è certamente già noto come, insieme ad altri 12 compagni, sono stato ingannato dai fratelli, o meglio dai traditori Cuce [...], e caduto nelle mani del nemico del nostro popolo e della sua libertà, per la quale ho lottato tutta la mia vita degnamente e infaticabilmente e per cui ecco finalmente oggi offro anche la mia vita per la libertà e per una migliore esistenza del mio amato popolo montenegrino.82

Così si apre l'ultima lettera ai propri cari di Vojo Rajnatovic, ventiseienne studente di Cettigne, membro del partito comunista dal 1935 e partigiano fin dall'insurrezione del luglio 1941: da allora è passato quasi un anno – siamo nel giugno 1942 – e la Resistenza, nel Montenegro come in tutta la Jugoslavia, è riuscita a riorganizzarsi e rafforzarsi. Già il nell'ottobre 1941 sono riprese le operazioni in grande stile contro le truppe d'occupazione: le comunicazioni telefoniche fra Podgorica e Berane vengono interrotte, e una colonna di autocarri diretta a Berane viene attaccata83; il 15 novembre il comando partigiano montenegrino si riunisce in assise, emanando il "giuramento partigiano" poi adottato in tutti i reparti84; il 30 novembre inizia l'assedio di Pljevlja, sede del comando della "Pusteria", da parte dei partigiani85; poco meno di un mese dopo, il 21 dicembre, giorno del compleanno di Stalin, avviene la fondazione ufficiale dell'Esercito popolare di liberazione jugoslavo86. Ma è anche un periodo di dure prove: si è infatti acuito lo scontro con i cetnici, a partire da febbraio, e i partigiani arrivano addirittura a costituire battaglioni specializzati anticetnici, come il "Radomir Mitrovic", guidato da Bajo Sekulic e attivo nelle zone fra Andrijevica e Berane87; a questo si aggiungono i contrasti con Mosca, che il 5 marzo 1942 comunica a Tito che "l'Unione Sovietica mantiene rapporti con il re e il governo jugoslavo e che l'aperta presa di posizione contro di essi creerebbe nuove difficoltà nei comuni sforzi bellici e nelle relazioni fra l'Unione Sovietica da un lato e

82

Athos BIGONGIALI (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana ed europea, Pisa 1984, pp. 155-157; vedi anche [DOCUMENTO 8]

83

SCOTTI, VIAZZI, Occupazione e guerra italiana in Montenegro, p. 299

84

Ibidem, p. 328; vedi anche [DOCUMENTO 9] 85

Ibidem, p. 391 86

GOBETTI, Alleati del nemico, p. 50

87

SCOTTI, VIAZZI, L'inutile vittoria. La tragica esperienza delle truppe italiane in Montenegro, Mursia, Milano 1989, p. 139

(31)

27 l'Inghilterra e gli Stati Uniti dall'altro.88 A coronamento di quello che si delinea come un anno difficile, il 25 luglio la bandiera italiana viene piantata sulla cima del massiccio montuoso del Durmitor, azione simbolica atta a testimoniare il ripristinato controllo sul paese89: ma anche allora la Resistenza sopravvive e riesce a riorganizzarsi, superando con successo – anche se al prezzo di numerose perdite – sia le operazioni antipartigiane del 1942 sia il ciclo di operazioni Weiss-Schwarz (gennaio-giugno 1943), che vide ancora una volta il Durmitor assediato dalle truppe italo-tedesche e da bande di cetnici, assedio durante il quale l'esercito partigiano rischiò seriamente l'annientamento prima di riuscire a ripiegare in Bosnia90. L'obiettivo finale delle operazioni doveva essere quello di distruggere completamente il nemico partigiano, punendo anche la popolazione che aveva osato prestargli aiuto: come ricorda l'ufficiale inglese Frederick William Deakin, allora in missione presso i partigiani, allo scopo di eliminare qualsiasi forma di resistenza era necessario

dar la caccia anche ai civili, uccidendoli se opponevano resistenza, terrorizzandoli se restavano passivi. Bisognava bruciare tutti i villaggi, portar via il bestiame. Sulla montagna e nel << territorio libero >> ogni traccia di vita doveva scomparire [...]. I partigiani, come forza organizzata, non dovevano più ritornare in quei luoghi.91

Ma la pacificazione dell’ex regno jugoslavo, più necessaria che mai dopo i rovesci dell'Asse sul fronte orientale, è ancora lontana, e proprio nel Montenegro la Resistenza dimostra una capacità di reazione tale da costringere i comandi italiani a concentrare il grosso delle proprie forze nei principali centri abitati, come Cettigne e Podgorica92. Il 20 luglio, nel quadro di quello che dovrebbe prefigurarsi come un graduale disimpegno italiano in Jugoslavia, Pirzio Biroli è costretto a dimettersi, sostituito da Curio Barbasetti93, mentre il comando delle truppe passa da Luigi Mentasti a Ercole Roncaglia94: ma di lì a cinque giorni ben altri cambi al vertice influenzeranno la guerra degli italiani in Montenegro.

88 Ibidem, p. 197 89 Ibidem, pp. 481-483 90

GOBETTI, L'occupazione allegra, pp. 232-233; CECCHINI, Storia della guerriglia, pp. 231-232

91

Frederick William DEAKIN, La montagna più alta. L'epopea dell'esercito partigiano jugoslavo, Einaudi, Torino 1972, p. 33

92

GOBETTI, Alleati del nemico, p. 138

93

Ibidem, pp. 156-157 94

(32)

28 2. "Italiani brava gente": raccontare l'occupazione

La narrazione che dell'occupazione italiana del Montenegro – e più in generale della guerra fino all'8 settembre 1943 – si impone nel dopoguerra è quella che ha la sua chiave di volta nella popolare figura degli "italiani brava gente", fortunata formula che ha dato anche il titolo ad un saggio di Angelo Del Boca atto a decostruire tale mito, e che è il frutto di quella vera e propria "collective amnesia" (Mark Mazower) che colpisce tutti gli ex alleati della Germania nazista nel dopoguerra95.

Il "bravo italiano" è un soldato che, come i richiamati alla leva descritti da Mario Tobino nelle pagine iniziali del suo "Il deserto della Libia", una volta ricevuta la cartolina precetto si avvia con rassegnazione ad una guerra che non sente e che deve combattere per

i fascisti, per un gruppo di persone che erano l'opposto della bontà o per lo meno dell'intelligenza e conducevano alla rovina l'Italia.96

Perché la guerra, sia ben chiaro, non è quella del popolo italiano, ma della minoranza fascista, come tutte le forze politiche interessate alla caduta del regime – dai ricostituiti partiti antifascisti del CLN alla monarchia – non si stancano di ripetere, recuperando un tema caro anche alla propaganda degli Alleati, come dimostra il testo del seguente volantino:

Tutti i vostri interessi e tutte le vostre tradizioni sono state tradite dalla Germania nazista e dai vostri stessi capi falsi e corrotti; soltanto col distruggere l'una e gli altri un'Italia rinnovata può avere la speranza di rioccupare un posto rispettato nella famiglia delle Nazioni europee. È questo il momento, per voi Italiani, di tener conto del vostro amor proprio, dei vostri interessi e dei vostri desideri per ricostituire la dignità nazionale, la sicurezza e la pace; è arrivato il tempo per voi di decidere se gli Italiani dovranno morire per Mussolini e Hitler oppure vivere per l'Italia e la civiltà.97

Nella guerra fascista, il soldato italiano è veramente tale, è davvero un soldato e non "un assassino", come ribadisce il colonnello Antonio Di Maggio interpretato da Totò nel film di Steno del 1962 "I due colonnelli", nella celebre scena in cui l'ufficiale

95

Mark MAZOWER, Hitler's Empire. How the Nazis ruled Europe, Penguin, USA 2009, p. 6

96

Mario TOBINO, Il deserto della Libia, Mondadori, Milano 1973, p. 3

97

Filippo FOCARDI, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda

(33)

29 rifiuta di eseguire l'ordine del maggiore tedesco Kruger di sparare con i mortai sull'inerme paesino di Montegreco. Questo perché il soldato italiano non si lascia quasi mai trascinare nella spirale di violenza e barbarie che contraddistingue invece i tedeschi e le forze partigiane dei paesi occupati, soprattutto quelle jugoslave, sulle quali si cerca di scaricare la colpa per ogni efferatezza commessa in quello che è un vero e proprio processo di "demonizzazione dei ribelli"98: ogni atto di violenza compiuto dai partigiani viene sempre descritto nei minimi dettagli, e ingigantito sino all'inverosimile, in particolare nella storiografia di taglio militare, come testimoniano i pur ricchi volumi prodotti dall'Ufficio storico dello Stato maggiore dell'esercito. Si tratta di un'operazione dettata in primo luogo dalla necessità di nascondere o minimizzare il coinvolgimento delle truppe italiane in quella che di fatto si configurò in una vera e propria "guerra ai civili", la stessa alla base dei memoriali prodotti nel dopoguerra dallo Stato maggiore per ribattere alle accuse da parte jugoslava e scagionare i numerosi comandanti italiani accusati di crimini di guerra (fra i quali lo stesso Pirzio Biroli): i partigiani, vengono incolpati di essersi serviti di essersi serviti di tutti i mezzi "leciti e illeciti", e quel che è peggio

in molti casi essi compirono atti di inaudita ferocia sia contro i prigionieri, sia contro i cadaveri dei caduti, sia contro le popolazioni civili99

laddove la reazione italiana era invece improntata unicamente alla "sicurezza delle nostre truppe"100.

Il buon soldato italiano che opera nei territori occupati diventa quasi un emulo del capitano Aldo Puglisi, protagonista di "Bandiera bianca a Cefalonia" di Marcello Venturi, lontano dalla figura del truce conquistatore, che rifiuta di dormire nelle case dei civili "col diritto del vincitore" e preferisce pagare l'affitto: e non ci si potrebbe aspettare diversamente da soldati

98

Gianni OLIVA, "Si ammazza troppo poco". I crimini di guerra italiani. 1940-43, Mondadori, Milano 2006, p. 144; cfr. GOBETTI, L'occupazione allegra, p. 19; FOCARDI, Il cattivo tedesco e il bravo

italiano, p. 127; Costantino DI SANTE, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941 – 1951), Ombre Corte, Verona 2005, pp. 8-9

99

Direttive seguite dalle autorità e dalle truppe italiane di occupazione nell'azione pacificatrice

svolta in Jugoslavia [aprile 1945], in DI SANTE, Italiani senza onore, p. 116 100

(34)

30

scesi dal cielo e sbarcati dal mare senza sparare un colpo.101

Il "buon italiano" non ha la forma mentis del conquistatore, egli è "figlio della terra" e, come sottolinea Alfonso Bartolini, reduce e autore di libri sulla storia della partecipazione italiana alla resistenza all'estero, "non concepisce la conquista della terra se non mediante il lavoro102.

Il rapporto fra questo soldato "proletario" e le popolazioni locali è il migliore che si possa immaginare, ipotesi tanto più veritiera in quanto suffragata persino da un ex ufficiale delle forze italiane alleate dei partigiani jugoslavi, Carlo Ravnich, ultimo comandante della divisione Garibaldi, che giudica l'occupazione del Montenegro una situazione

checché se ne dica, meno dannosa alle libertà essenziali delle infelicissime popolazioni del Montenegro, della Bosnia, dell'Erzegovina e del Sangiaccato, di quanto non lo sia il predominio del bolscevismo d'oggi.103

Gli italiani infatti prestano soccorso alle popolazioni civili, dividendo con loro le proprie scarse razioni alimentari, l'immagine quasi evangelica del pane spezzato e diviso fra il soldato e il civile affamato, ripresa anche dalla propaganda delle forze occupanti104. Al contempo, le truppe del Regio esercito difendono la popolazione dalle prepotenze dei ben più brutali alleati nazisti e dagli "eccessi" delle MVAC, soprattutto se si tratta di ebrei105: quello della protezione della popolazione ebraica è un aspetto costantemente valorizzato, che nella storiografia di matrice revisionista si trasforma in un vero e proprio "sabotaggio italiano" a danno della soluzione finale106. Tutto questo a costo della rimozione della dura repressione attuata dalle truppe italiane, sebbene notizie al riguardo siano arrivate in Italia, trovando persino spazio sulla stampa dei partiti del CLN: : nell'agosto 1944 infatti "l'Unità" pubblicò diverse

101

Marcello VENTURI, Bandiera bianca a Cefalonia, Garzanti, Milano 1964, p. 16

102

Alfonso BARTOLINI, Storia della Resistenza italiana all'estero, Rebellato, Padova 1965, p. 16

103

Carlo RAVNICH, La "Garibaldi", divisione dell'esercito italiano in Balcania, in Martiri ed eroi

della divisione Garibaldi, maggio 1950 104

Vedi anche immagine [1]

105

FOCARDI, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, pp. 107-108

106

Vedi ad esempio Arrigo PETACCO, La nostra guerra. L'avventura bellica tra bugie e verità, Mondadori, Milano 1995, p. 215

(35)

31 fotografie ritraenti le atrocità commesse dalle truppe italiane in Montenegro107.

107

FOCARDI, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, p. 135

[1] Vignetta di propaganda italiana del 1943, in Federica SAINI FASANOTTI, Basilio DI MARTINO, (a cura di), L'Esercito alla macchia: controguerriglia italiana 1860-1943.

L'esperienza italiana di controguerriglia dal Brigantaggio alla Seconda Guerra Mondiale,

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