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La sostenibilita dei debiti pubblici in alcuni paesi europei prima e dopo la crisi dei debiti sovrani (1995-2012)

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INTRODUZIONE

A vent’anni dall’entata in vigore del Trattato di Maastricht, il futuro dell’Europa appare piuttosto incerto. Eppure, solo fino a poco tempo fa si esaltava l’esperienza macroeconomica dell’Eurozona, in termini di stabilità e convergenza, e nessuno osava mettere in discussione l’autocompiacimento delle autorità monetarie e dei governi. A tal riguardo, basti pensare a quanto sostenuto da Mario Draghi all’assemblea dell’ABI dell’11 luglio 2007: “L’euro ha ampiamente contribuito alla crescita italiana ed europea”1. Parimenti, la Bce, nel Bollettino speciale del giugno 2008, pubblicato in occasione del decimo anniversario dell’euro, asseriva: “I dieci anni appena trascorsi hanno anche dimostrato che l’Uem poggia su solide fondamenta e che i paesi in cui è stato introdotto l’euro hanno raggiunto un elevato livello di convergenza economica”2

.

Negli ultimi anni, il clima di opinione si è radicalmente ribaltato: con lo scoppio della crisi del debito in Europa, si teme oggi il rischio di default di alcuni paesi dell’area euro e non mancano i pessimisti che prefigurano la scomparsa

1

All’epoca dei fatti, Mario Draghi era Governatore della Banca d’Italia.

2

Si veda Vaciago G., «Introduzione Ricostruire l’Euro», in Osservatorio Monetario n. 2, 2012, p. 1.

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8 stessa della moneta unica europea. A questo punto, sorge spontanea la domanda: cosa sia potuto accadere per aver esposto l’Europa all’ondata del debito pubblico?

La recente crisi finanziaria mondiale ha determinato un deterioramento molto rilevante delle finanze pubbliche dei paesi dell’aera euro a causa di tre principali fattori. Innanzitutto, alcuni paesi hanno sostenuto oneri considerevoli in relazione alle iniezioni di capitale a favore delle istituzioni finanziarie. In secondo luogo, il marcato rallentamento della crescita economica ha provocato una contrazione del gettito fiscale ed un aumento della spesa pubblica connessa alla disoccupazione. Infine, le misure discrezionali adottate per compensare il calo della domanda privata, unitamente all’azione esercitata dagli stabilizzatori automatici, hanno avuto un impatto avverso sulle posizioni di bilancio. Peraltro, a causa del mancato raggiungimento di solide posizioni di bilancio nei periodi di congiuntura favorevole, le condizioni economiche di alcuni paesi europei erano già deboli quando è iniziata la fase di rallentamento. Come un effetto detonatore, i disavanzi ed i debiti pubblici in rapporto al Pil sono bruscamente aumentati, sebbene da posizioni iniziali notevolmente diverse e a ritmi differenti.

Il deterioramento delle finanze pubbliche e le deboli condizioni economiche, a loro volta, hanno causato un ampliamento dei differenziali di rendimento dei titoli pubblici, dal momento in cui gli investitori hanno iniziato a mutare opinione circa la solidità dei conti pubblici e le prospettive di crescita di tali paesi, i quali non sono riusciti a rafforzare la propria capacità di tenuta agli shock economici

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9 avversi, adottando sane politiche di bilancio ed adeguate riforme strutturali prima del rallentamento.

Come risultato, la maggior parte degli Stati membri affronta ora crescenti problemi di sostenibilità del debito pubblico, con gravi ripercussioni sulla stabilità finanziaria e crescita economica. In altri termini, squilibri macroeconomici specifici per ciascun Stato e vulnerabilità delle singole posizioni di bilancio, in precedenza sottostimate tanto dalle autorità quanto dagli operatori finanziari, emergono ora come fattori destabilizzanti.

È in questo contesto che il presente lavoro evidenzia le cause e gli effetti della crisi del debito, rispondendo al contempo all’obiettivo di valutare la sostenibilità del debito pubblico, vale a dire la capacità di un governo di assicurare ad un dato momento il servizio dell’intero debito accumulato.

A tal fine, si fa ricorso alla condizione di sostenibilità condivisa da Pasinetti (1998) e Sylos Labini (2003): sebbene l’uno in maniera deterministica e l’altro in maniera evolutiva, gli autori individuano il limite tra la zona di sostenibilità e quella di insostenibilità del debito attraverso la relazione tra avanzo primario del bilancio pubblico e debito pubblico, entrambi considerati in rapporto al Pil. In base a questa relazione, la capacità dell’erario di provvedere al pagamento degli interessi sul debito senza ricorrere ad un ulteriore indebitamento è indicata dall’avanzo primario su Pil e dipende sia dall’andamento del debito pubblico su Pil sia dalla differenza fra tasso di interesse e tasso di crescita del Pil. In particolare, sorgono problemi di sostenibilità del debito se il rapporto tra debito

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10 pubblico e Pil tende a crescere oppure se tale rapporto rimane invariato poiché il debito pubblico ed il Pil crescono alla stessa velocità, ma il tasso di interesse supera sistematicamente il tasso di crescita del Pil (i > g).

A riguardo, si tenga conto che l’esito dell’analisi della sostenibilità del debito dipende in misura determinante dall’andamento delle variabili sottostanti e si caratterizza per una notevole incertezza. Pertanto, occorre procedere in maniera prudenziale, onde evitare che valutazioni sfavorevoli sulla sostenibilità del debito da parte dei mercati o delle agenzie di rating possano innalzare i rendimenti sui titoli di Stato, incrementando gli oneri per il rifinanziamento del debito pubblico ed alimentando ulteriori problemi di sostenibilità.

L’analisi qui esposta mette in luce una pluralità di vedute sulle cause e gli effetti della crisi, che rispecchia la divergenza di opinioni da tempo esistente sulla lunga fase del processo di realizzazione dell’Uem. Si conviene sul fatto che la qualità dell’integrazione monetaria non si è accompagnata ad un equivalente convergenza cum integrazione reale. Alcuni vedono la vicenda in chiave di puro fallimento della regolazione così come prescritta dal Trattato di Maastricht ed dal Patto di stabilità e crescita, avendo tutti gli Stati membri derogato, parzialmente o totalmente, ai criteri prestabiliti in materia di debito pubblico. Altri, invece, vedono nella ricercata stabilità dei prezzi e nel basso livello dei tassi di interesse – inizialmente interpretati come benefiche conseguenze dell’Unione monetaria – l’espediente per nascondere sia gli squilibri esistenti fra paesi “virtuosi” e non sia

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11 un insostenibile indebitamento (pubblico e/o privato), che è esploso in modo drammatico con la crisi.

Tra i fautori di quest’ultima interpretazione è possibile annoverare Krugman, secondo il quale l’introduzione della moneta unica ha prodotto un boom di flussi di capitali esteri verso i paesi più remunerativi dell’area euro e, di conseguenza, ampi disavanzi correnti nei paesi dell’Europa meridionale, in primis Grecia, Portogallo e Spagna3. Diversamente, Tilliford e Whyte (2011) del Center for European Reform, hanno posto l’attenzione su una valutazione “morale” della crisi stessa, intesa come una contrapposizione tra coloro che hanno peccato per la dissolutezza nel governo della finanza pubblica (i paesi periferici europei) e coloro che sono rigidamente ancorati al sentiero della virtù economica.

Ebbene, nonostante le diverse visioni possano dar luogo ad accentuazioni dei medesimi fatti o stabilire fra di essi diverse connessioni causali, esse poggiano su un tessuto comune riconducibile alla fragilità del progetto di Unione monetaria in cui i costi e i benefici veri, cioè quelli reali, vengono mascherati dai costi e benefici apparenti, cioè quelli dati dall’integrazione finanziaria. Si è così realizzato un duplice, opposto, processo di integrazione: uno soprattutto finanziario di cui hanno beneficiato i paesi della periferia per diversi anni; ed uno reale che ha invece riguardato l’industria manifatturiera e la sua integrazione soprattutto al “cuore” rappresentato dalla struttura industriale tedesca.

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A riguardo, si noti che “le fasi di boom alimentate dall’indebitamento determinano troppo spesso false certezze sulla bontà delle politiche di un governo, sulla capacità di un istituto finanziario di fare ingenti profitti o sul tenore di vita di un paese. La maggior parte di questi boom finisce male” (Reinhart e Rogoff, 2009, p. 13).

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12 La crisi attuale ha accentuato quel divario e l’ha reso sempre più evidente: da un lato, un’eccessiva accumulazione di debiti (pubblici e/o privati) che non ha finanziato il processo di integrazione reale, ma il suo contrario (soprattutto consumi e/o bolle immobiliari); dall’altro lato, una crescente integrazione produttiva che rappresenta il miglior risultato della moneta unica, a cui nessuno vorrebbe rinunciare.

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CAPITOLO I

Alle origini della crisi attuale

1.1. Lo scenario internazionale

Da sempre le crisi hanno accompagnato lo sviluppo della moneta e dei mercati finanziari, ma spesso esse si verificano a grappolo e su scala globale ((Reinhart e Rogoff, 2009, p. 14).

Ecco perché la crisi dei debiti sovrani in Europa non può prescindere dalla crisi finanziaria mondiale, innescata dal crollo dei mutui subprime4 sul mercato statunitense a partire dalla seconda metà del 2007.

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Si tratta di crediti ipotecari offerti, a condizioni particolarmente vantaggiose, a mutuatari di bassa qualità o a basso reddito. Si noti che questi mutui non vengono cartolarizzati, vale a dire ceduti dalle banche a società veicolo appositamente create nei paradisi fiscali per eludere le restrizioni normative poste alla loro attività, ed aventi compito di emettere titoli comprensivi dei mutui stessi e di altre svariate attività da collocare poi sui mercati nazionali ed internazionali affinché le banche possano recuperare il denaro e concedere ulteriori prestiti. Il processo della cartolarizzazione, dunque, consente l’acquisto di una casa a soggetti che in precedenza non avrebbero mai pensato di poterlo fare, ma sfortunatamente molti di essi dipendono da crediti a tassi d’interesse variabili e con bassi tassi iniziali di natura promozionale. Ne consegue che al momento di ridefinire le condizioni di credito, l’aumento dei tassi d’interesse ed il deterioramento

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14 A monte vi è un paradigma di crescita economica basato sulla fiducia che “la mano invisibile dei mercati – nonostante l’evidenza contraria – conduca all’equilibrio, alla stabilità e all’efficienza: tutti sono liberi di scegliere se assumersi o meno dei rischi e come garantirsi dai rischi stessi, e tutti, come prevede la teoria, si comportano in modo da massimizzare il proprio tornaconto personale” (Ventura, 2012). Questo nuovo paradigma della crescita, noto negli anni Novanta come Washington Consensus, si caratterizza per alcuni elementi tipici della teoria economica neoclassica, quali: ridimensionamento dell’intervento pubblico a favore del settore privato, deregulation e rapidità della liberalizzazione finanziaria e delle privatizzazioni. Si noti che esso si è dapprima affermato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti; poi si è diffuso progressivamente in tutti i paesi europei mediante il braccio operativo delle organizzazioni internazionali, specie del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.

Con lo sviluppo dell’innovazione finanziaria e della tesi secondo cui ad ogni rischio può essere associato un costo certo, il sistema finanziario statunitense genera complessi titoli finanziari con i quali i rischi derivanti dagli investimenti immobiliari vengono diluiti e trasferiti nei portafogli dei risparmiatori, degli investitori istituzionali e di altre banche in tutto il mondo5. Ad ogni modo, a chi vuole tutelarsi dal rischio di fallimento dell’emittente del titolo, il sistema offre la

dell’economia pongono molti individui nell’impossibilità di adempiere ai propri obblighi ipotecari. E così comincia il crollo dei mutui subprime.

5

In particolare, gli istituti finanziari europei e giapponesi si assumono notevoli rischi, manifestando un’esposizione non trascurabile al mercato statunitense dei mutui subprime, in ragione anche del fatto che le opportunità di profitto nel settore immobiliare nazionale sono piuttosto limitate o quanto meno insoddisfacenti.

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15 possibilità di trasferire il rischio ad un altro soggetto acquistando un credit default swap6.

Dall’inizio degli anni 2000, negli Stati Uniti è proprio l’ampio afflusso di capitali provenienti dall’estero ad alimentare la bolla dei prezzi delle abitazioni e a generare basse oscillazioni dei tassi di interesse, che consentono di occultare i rischi agli occhi sia dei regolatori sia delle agenzie di rating.

Tuttavia, occorre tener presente che gli Stati Uniti non sono l’unico paese ad avere un deficit delle partite correnti ed a vivere un boom nell’importazione di capitali. Molti paesi d’Europa e di altri continenti, come l’Islanda e la Nuova Zelanda, sperimentano al proprio interno bolle immobiliari che traggono origine proprio dall’ampio afflusso di capitali esteri. Nella fattispecie, “gli studi empirici condotti da Bordo e Jeanne, così come quelli della Banca dei regolamenti internazionali, suggeriscono che quando il boom del mercato immobiliare è accompagnato da un netto aumento dell’indebitamento, il rischio di una crisi si fa notevolmente elevato” (Reinhart e Rogoff, 2009).

Ecco che nel 2006, quando mutano le condizioni sui mercati e i tassi di interesse cominciano ad aumentare, di riflesso aumentano anche le rate dei mutui. Rapidamente si elevano i casi di insolvibilità che nel 2008 raggiungono il 40% dei

6

Il credit default swap (cds) è un contratto derivato usato per trasferire i rischi dell’esposizione creditizia tra le parti. È un accordo tra un acquirente ed un venditore per mezzo del quale il primo corrisponde un premio periodico a fronte di un pagamento da parte del venditore in occasione di un evento relativo a un credito (come ad esempio il fallimento del debitore) cui il contratto è riferito. In particolare, il cds è usato dal sottoscrittore di un’obbligazione come polizza assicurativa contro il rischio di fallimento del soggetto che emette il titolo di debito. Tanto più il suo valore sale, tanto più è costoso assicurarsi contro il rischio default, tanto maggiori sono le probabilità di fallimento. I cds sono scambiati sul mercato over-the-counter (Parola chiave Il Sole 24 Ore, 2011)

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16 mutui concessi solo due anni prima. A questo punto, le banche devono mettere in vendita le abitazioni che hanno in garanzia, ma se le insolvenze sono diffuse ed il mercato si trova in una situazione speculativa, il valore dei beni immobili cala drasticamente. Di conseguenza, esse non sono più in grado di recuperare il loro capitale ed anche chi ha acquistato i titoli emessi sulla base dei mutui non riesce a recuperare dalla loro vendita i fondi investiti, proprio perché a causa della complessità dei prodotti finanziari, nessuno è più in grado di valutare l’affidabilità degli stessi titoli, ormai divenuti tossici. Inoltre, i soggetti che hanno acquistato i cds avrebbero potuto onorare il contratto per il fallimento dell’emittente di un titolo, ma non certo per il fallimento dell’intero sistema finanziario.

In questo scenario, i governi non possono limitarsi ad attuare piani di stimolo fiscale che, per quanto necessari, tendono ad esaurire i loro effetti nel breve periodo (Nuti, 2011), ma devono far fronte a costosissimi interventi di varia natura: immissioni di capitali, acquisti di titoli tossici, aumento dell’offerta di liquidità, garanzie speciali, nazionalizzazioni7. Il principio alla base

7

Sul fronte europeo, “le principali nazionalizzazioni si sono concretizzate tra il 4° trimestre del 2008 ed i primi mesi del 2009: i) il Tesoro del Regno Unito, sottoscrivendo aumenti di capitale risultati inoptati, ha acquisito il 70,3% della RBS ed 43,4% della Lloyds Banking Group (risultante dalla fusione tra Lloyds TSB Group e HBOS); ii) gli stati del Belgio e della Francia ed enti regionali belgi entrano con il 5,7% ciascuno nel capitale della Dexia, mentre la Caisse de Dépôts et Consignationis (ente pubblico francese) ha incrementato la propria quota al 17,6%, con ciò portando la componente pubblica, già presente nell’azionariato, a detenere oltre la metà del capitale sociale; iii) lo Stato olandese ha acquisito la totalità delle attività bancarie ed assicurative in Olanda del Gruppo Fortis, le prime costituite dalla Fortis Bank Nederland (Holding), a seguito dello smembramento dello stesso e, nell’ambito di quest’ultima operazione, iv) il Belgio ed il Lussemburgo hanno rilevato le attività bancarie nei rispettivi paesi, facenti capo alla Fortis Bank (Mediobanca Ricerche e Studi, 2010, p. 28).

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17 dell’interventismo statale è che le banche siano “too big to fail”8

; ciò è particolarmente evidente in Europa, dove a fine 2008 i maggiori istituti di credito mostrano attivi aggregati di bilancio per quasi €29.000 miliardi pari a circa 2,6 volte il Pil dei Paesi ospitanti9.

Dal rapporto della Commissione europea sulla crisi (European Commission 2009b) si evince che un totale di €3.500 miliardi (il 30% del Pil) è stato approvato in materia di aiuti di Stato alle istituzioni finanziarie, di cui solo €1.500 miliardi di euro (il 13% del Pil dell’Ue) è stato effettivamente impiegato in termini di supporto al capitale, garanzie sul debito, offerta di liquidità ed acquisto di titoli tossici10.

Ciò nonostante, si possono notare sostanziali differenze tra i singoli paesi europei per quanto concerne l’ampiezza dei vari interventi pubblici (tabella n. 1).

Dalla tabella è possibile rilevare che i paesi del Nord Europa hanno impiegato il maggior numero di risorse in termini di Pil per il salvataggio del proprio sistema finanziario, considerando le sue notevoli dimensioni. In particolare, ai primi posti vi sono Irlanda, Belgio e Regno Unito. Seguono i restanti paesi europei, tra cui Spagna, Francia, Portogallo e Grecia, in ordine di successione.

8

La nozione too big to fail confligge con l’effettiva credibilità della nozione che le autorità monetarie e del governo di un determinate paese possano salvare una banca il cui totale di bilancio di molto eccede le dimensioni del Pil dello stesso paese. Essa si trasforma, quindi, nella nozione

too big to be saved (De Cecco, 2009). A riguardo, si pensi che ad oggi negli Stati Uniti sono fallite

94 banche.

9

Si veda Mediobanca Ricerche e Studi (a cura di), «Dati cumulativi delle principali banche internazionali», in Ricerche e Studi (R&S), Milano, 2010, p. 11.

10

“Sebbene i costi per le finanze pubbliche possano rivelarsi inferiori alle aspettative iniziali, gli interventi pubblici di questo tipo rischiano di alimentare nel lungo periodo l’azzardo morale, indebolendo gli incentivi degli operatori a comportarsi con la dovuta prudenza” (BCE, 2011, p. 87-88).

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18

Tabella n. 1 – Interventi pubblici nel settore bancario (in % del Pil) Iniezioni di capitale Garanzie sulle passività Acquisto di attività tossiche Liquidità e fondi di sostegno Totale

Appr. Effet. Appr. Effet. Appr. Effet. Appr. Effet. Appr. Effet.

Irlanda 5.1 2.1 225.2 225.2 - - - - 230.3 227.3 Belgio 4.2 5.7 70.8 16.3 5.7 5 ND NR 74.6 35.3 Regno Unito 3.5 2.6 21.7 9.5 - - 25.1 18.7 50.3 30.8 Paesi Bassi 7.9 7.9 34.3 5.7 - 4.9 - 5.8 42.2 24.3 Lussemburgo 6.9 7.9 12.4 NR - - - - 19.3 18.5 Svezia 1.6 0.2 48.5 8.8 - - 0.1 - 50.2 9 Lettonia 1.4 - 10.9 2.8 - - 10.9 6.1 23.2 8.9 Austria 5 1.7 27.3 5.1 0.4 0.4 27.3 1.5 60 8.7 Germania 4.2 1.6 18.6 7.3 3.6 0.4 - NR 26.4 6.3 Spagna - - 9.3 2.8 - - 2.8 1.8 12.1 4.6 Francia 1.2 0.8 16.6 3.1 2.3 0.3 - - 20.1 4.2 Portogallo 2.4 - 12.5 3 - - - - 14.9 3 Grecia 2 - 6.1 0.4 - - 3.3 1.7 11.4 2.1 Danimarca 6.1 0.3 253 NR - - NA NR 243.8 0.5 Ungheria 1.1 0.1 5.9 - - - 7 0.1 Slovenia - - 32.8 - - - 32.8 - Slovacchia - - - - Romania - - - - Polonia - - - - Malta - - - - Lituania - - - - Italia 1.3 - ND - - - 1.3 - Finlandia - - 27.7 - - - 27.7 - Estonia - - - - Repubblica Ceca - - - - Cipro - - - - Bulgaria - - - - Unione Europea 2.6 0.5 24.7 7.8 12 0.5 4.3 3 43.6 11.8 Area Euro 2.6 1.4 20.6 8.3 12 0.7 1.3 0.7 36.5 11.1

Note: Appr.= approvato, Effet. = effettivo, ND = non disponibile, NR = non riportato dagli Stati membri.

Fonte: Commissione Europea11.

Nonostante gli interventi effettuati, i conti del sistema finanziario sono lungi dall’essersi riassestati, con l’ulteriore aggravante che il salvataggio delle istituzioni “too big to fail” ed i pacchetti di stimolo fiscale che si sono resi necessari hanno determinato, nel loro insieme, un aumento dei deficit di bilancio che, a sua volta, ha contribuito ad accrescere l’ammontare del debito pubblico in essere12: “ponendo uguale a 100 lo stock di debito al tempo della crisi, tre anni dopo lo stock reale del debito raggiunge il valore di 186. In altri termini, si ha

11

Si veda Sylvester C. W. Eijffinger, «Spread of the Crisis – Impact on Public Finances», European Parliament, Directorate General for Internal Policies, Policy Department A: Economic and Scientific Policies, 2010, p. 5.

12

Naturalmente, l’aumento del debito pubblico dipende da molteplici fattori responsabili della politica economica e da fattori economici, tra cui l’efficacia della risposta politica e la gravità dello stock iniziale, che colpisce l’economia reale e genera la crisi. In ogni caso, sorprende il fatto che l’incremento dell’indebitamento costituisce un fenomeno generalizzato.

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19 quasi un raddoppio dello stock reale del debito” (Reinhart e Rogoff, 2009, p. 191). Si noti che l’incremento del debito pubblico si verifica sia nelle economie emergenti che in quelle avanzate, con implicazioni avverse per entrambe.

La crisi finanziaria internazionale, dunque, lascia in eredità un più elevato livello del debito pubblico, che costituisce un onere di gran lunga maggiore rispetto a quello relativo ai soli costi diretti associati ai pacchetti di salvataggio del sistema finanziario (figura n. 1).

Figura n. 1 – Evoluzione del debito mondiale, anno 2009

Fonte: IMF Data Mapper®.

Per effetto della crisi, nel corso del 2009 la Federal Reserve e le altre banche centrali continuano a spingere al ribasso i tassi d’interesse fino al

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20 cosiddetto livello ZIRP13 e a stampare moneta a profusione, al fine di garantire l’assorbimento dei titoli tossici nei portafogli delle grandi banche e l’acquisto delle obbligazioni emesse dagli Stati per finanziare il crescente debito pubblico. A tal riguardo, occorre notare che la Banca dei regolamenti internazionali fa opposizione ad una politica monetaria oltremodo espansiva, ritenendo che sebbene le azioni delle banche centrali hanno consentito di evitare il tracollo finanziario e di supportare le deboli economie, ci sono dei limiti a ciò che la politica monetaria può fare. “Essa può fornire liquidità, ma non può risolvere i sottostanti problemi di solvibilità. Una prolungata ed aggressiva espansione monetaria ha effetti collaterali che possono ritardare il ritorno ad un recupero sostenibile e può creare rischi per la stabilità dei prezzi e finanziaria a livello globale”14. In quest’ottica, non è possibile rilanciare lo sviluppo economico,

poiché si surriscalda la congiuntura e si mantengono i prezzi degli assets artificialmente inflazionati, considerando che ogni bene “garantisce” una quota crescente di moneta nazionale.

Da questo punto di vista, la politica di iniezione di liquidità, a cui le banche centrali hanno fatto ampiamente ricorso per salvare il sistema finanziario, sembra non avere alcuna reale efficacia. In condizioni di estrema avversione al rischio, le banche preferiscono detenere la liquidità aggiuntiva presso i depositi delle banche

13

ZIRP è l’acronimo in inglese di “zero interest rate policy”, ossia la politica varata dalla Federal Reserve per rilanciare la crescita americana mediante lo strumento della svalutazione competitiva, poiché il tasso zero, rendendo gli investimenti in dollari meno appetibili che in altre valute dai rendimenti superiori, determina l’indebolimento della valuta statunitense (Giannuli, 2011).

14

Cit. Bank for International Settlements, «82nd Annual Report», Bank for International Settlements Communications CH-4002 Basel, Switzerland, 24 June 2012, p. 34.

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21 centrali piuttosto che investirla in titoli o credito. Di conseguenza, i soggetti appartenenti al settore privato, specialmente le imprese di piccole e medie dimensioni, corrono il rischio di collassare per asfissia finanziaria, dal momento in cui le banche non trasferiscono sui loro clienti la maggiore riduzione del tasso d’interesse che, quindi, si traduce in un aumento della domanda di moneta per effetto della preferenza della liquidità (Lettieri e Raimondi, 2010).

In presenza di tassi di interesse troppo bassi, se c’è liquidità in abbondanza ed essa non viene incanalata in investimenti privati da destinare alle infrastrutture, alla modernizzazione tecnologica e alla produzione, inevitabilmente scatta la famosa “trappola della liquidità”15

di Keynes che in tempi di crisi rappresenta la più grave minaccia alla stabilità economica e monetaria internazionale.

1.2. L’Europa: l’altra superpotenza?

La crisi attuale così come si è evoluta presenta due caratteristiche particolari. Innanzitutto, essa ha cause che vanno ricercate interamente all’interno dei meccanismi di funzionamento del sistema economico e finanziario. In secondo luogo, il suo epicentro è nel paese dal quale da oltre mezzo secolo dipendono gli

15

In questo caso l'economia esprime una capacità produttiva lontana da quella potenziale nonostante il costo del denaro sia talmente basso da stimolare, almeno in teoria, consumi e investimenti. Come risultato, si hanno tassi troppo bassi, investimenti congelati, redditi in calo e consumi sempre più ridotti in attesa di tempi migliori (Annichiarico, 2009).

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22 andamenti dell’economia mondiale: gli Stati Uniti. È l’economia americana ad aver generato una vera e propria “economia del debito”, in base alla teoria di ispirazione neoclassica secondo cui i mercati sono stabili ed l’innovazione finanziaria consente di farli funzionare in modo efficiente.

Per anni il motore principale della crescita mondiale è stata la spinta al consumo presente a tutti i livelli nella società americana e stimolata dalle esportazioni di un grande paese emergente come la Cina la quale, carente delle infrastrutture bancarie necessarie per un’espansione economica sostenuta dai consumi interni, ha reinvestito gli utili ricavati dalle esportazioni in dollari, ritenendo che il sistema finanziario statunitense fosse efficiente, sofisticato e soprattutto sicuro. Pertanto, gli equilibri globali si bilanciavano fra un’America in crescente deficit di parte corrente e una Cina in costante surplus, che insieme rappresentavano il cosiddetto G216.

In questo contesto, il sistema finanziario statunitense agisce da catalizzatore, poiché consente alla società americana di sostenersi non sulla crescita della produzione interna e dei redditi delle famiglie, che restano compressi dalle dinamiche delle retribuzioni e delle politiche fiscali dell’amministrazione Bush, ma sul debito. Questo compromette la fiducia nel centro del sistema e dissolve il paradigma della crescita economica fondato sullo sviluppo dell’innovazione finanziaria e sull’asse cino-americano.

16

“Esso è nato da un’iniziativa di George Bush, che nel 2006 varò un forum biennale, il Dialogo economico strategico, limitato all’economia. Le intenzioni del Presidente Obama sono di estendere il dialogo alla cooperazione su una serie di temi che vanno dall’economia, ai cambiamenti climatici, alla proliferazione nucleare ad alle minacce transnazionali”(Manzolillo, 2011, p. 1).

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23 Mentre gli Stati Uniti trascinano l’economia mondiale nel vortice della crisi economico-finanziaria, l’Europa continentale appare meno vulnerabile alla crisi, grazie alla maggiore solidità del suo sistema finanziario ed al suo maggior conservatorismo in materia di mutui immobiliari. Inoltre, il suo posizionamento nell’export mondiale le permette di reggere la concorrenza proveniente dalle economie emergenti. A tal proposito, i dati relativi al Trade Performance Index dell’Unctad/Wto17

mettono in evidenza che, nonostante la grave crisi, nel 2009 la Germania è la prima tra i paesi più competitivi nel commercio internazionale. Seconda e terza per competitività sono l’Italia e la Cina rispettivamente, mentre gli Stati Uniti sono solo ottavi (tabella n. 2).

Allo stato l’Unione europea, una comunità allargata di 27 Stati membri18

con quasi mezzo miliardo di abitanti, costituisce la più grande area economica integrata al mondo: è prima per valore aggiunto nell’industria, nell’agricoltura, nel turismo, ben davanti a Cina e Usa (Fortis, 2010). In particolare, il settore dove l’Europa è più competitiva, è quello dei beni a medio-alta tecnologia che comprendono la chimica, i mezzi di trasporto, la meccanica non elettronica e gli apparecchi elettrici. Nel 2009, mentre la Cina presenta un surplus commerciale con l’estero di $221 miliardi per i beni hi-tech ed un deficit di $56 miliardi per

17

Si veda Fortis M., Dentro la crisi: 2009 – 2011. America, Europa, Italia, in Collana della Fondazione Edison, il Mulino, Bologna, 2011, pp. 41-42

18

L'Ue non ha sempre avuto le dimensioni attuali. La cooperazione economica avviata in Europa nel 1951 riuniva solo Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Col tempo, sempre più paesi hanno deciso di aderire all'Ue: Danimarca, Irlanda e Regno Unito (1973); Grecia (1981); Portogallo e Spagna (1986); Austria, Finlandia e Svezia (1995); Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria (2004); Romania e Bulgaria (2007). Tuttavia, è opportuno ricordare che l’ultima adesione sarà quella della Croazia, il 1° luglio 2013, che porterà a 28 il numero degli Stati membri.

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24 quelli a medio-alta tecnologia, l’Ue registra con i paesi esteri solo un modesto deficit commerciale di $21 miliardi per i beni hi-tech ed un consistente surplus di $300 miliardi per quelli a medio-alta tecnologia, grazie soprattutto alla meccanica non elettronica. In profonda recessione sono gli Stati Uniti con un deficit di $156 miliardi per i beni hi-tech e di $56 miliardi per quelli a medio-alta tecnologia19.

Tabella n. 2 – Unctad/Wto Trade Performance Index. La graduatoria dei

paesi più competitivi del G-20, anno 2009 (numero di posizionamenti nei primi 10 posti delle classifiche mondiali di competitività nel commercio estero di 14 settori) Primi posti Secondi posti Terzi posti Quarti posti Quinti posti Sesti posti Settimi posti Ottavi posti Noni posti Decimi posti Germania 8 1 Italia 3 4 1 Cina 3 1 1 1 1 1 Francia 2 1 1 1 1 Australia 1 1 Giappone 3 1 1 1 Turchia 1 1 1 Stati Uniti 1 1 Russia 1 Indonesia 1 1 2 Canada 1 1 India 1 1 1 Brasile 1 1 Argentina 1 1 Repubblica di Corea 1 2 Gran Bretagna 1 Arabia Saudita 1 Messico Sud Africa

Note: I settori sono: alimenti freschi; alimenti trasformati; legno e carta; tessili; chimica e farmaceutica; cuoio e calzature; manufatti di base; meccanica non elettronica; It ed elettronica di consumo; componenti ed apparecchi elettrici ed elettronici; mezzi di trasporto; abbigliamento, altri manufatti diversi; minerali.

Fonte: Elaborazione Fondazione Edison su Dati International Trade Centre Unctad/Wto.

19

Si veda Fortis M., Dentro la crisi: 2009 – 2011. America, Europa, Italia, in Collana della Fondazione Edison, il Mulino, Bologna, 2011, p. 201.

(19)

25 Tuttavia, l’Europa cresce poco e rischia di crescere ancora meno, poiché meno di altre aree sembra in grado di cambiare la propria specializzazione e, quindi, la propria collocazione nell’economia globalizzata.

“Ferma restando la natura sostanzialmente export-led della crescita europea, questa rimane essenzialmente ancorata a quella americana” (Guerrieri e Padoan, 2009, p. 68). Osservando i dati relativi alla crescita del Pil reale, è possibile rilevare che a partire dal 2007 la relazione tra la crescita economica dell’Ue e quella della Cina è addirittura negativa, mentre la correlazione con l’economia americana è in crescente aumento (figura n. 2).

Figura n. 2 – Tasso di crescita annuale del Pil in termini percentuali

Fonte: OECD, Statistics, Database, National Accounts at a Glance, Gross Domestic Product, volume, annual growth rates in percentage.

(20)

26 Tuttavia, il problema macroeconomico dell’Europa è duplice, poiché oltre alla crescita poco vivace e molto dipendente da quella americana, vi è anche il problema della divergenza all’interno della stessa Europa (figura n. 3).

Figura n. 3 – Differenziali di crescita del Pil nei paesi dell’Ue 2001-2009

(variazioni % rispetto alla media europea)

Fonte: Elaborazione personale su dati Eurostat20.

Si tratta di aspetti tra loro interdipendenti. La bassa crescita europea è anche il riflesso di un modello di crescita che in molti paesi è, appunto, trainato prevalentemente dalla domanda estera e troppo poco da quella interna. È un modello – in qualche misura erede delle prime fasi del processo d’integrazione – che necessariamente assume, almeno in parte, connotazioni di tipo beggar my

20

Si veda Eurostat, Statistics, Database, Exports and imports by Member States of EU/third countries – volume.

(21)

27 neighbour e da cui non tutte le economie della regione possono trarre beneficio. Ne consegue una penalizzazione complessiva della crescita dell’area. Inoltre, tale modello si associa ad una divergenza nelle posizioni competitive e negli andamenti della produttività, che per essere affrontati responsabilmente, richiedono interventi di tipo strutturale (Guerrieri e Padoan, 2009, p. 69).

In quest’ottica, si presume che l’Europa possa crescere solo nella misura in cui rafforzi i propri legami con le nuove economie emergenti in modo da garantire un efficace equilibrio tra domanda estera e domanda interna sulla base del multilateralismo commerciale e dell’apertura dei mercati.

1.3. L’economia e le finanze pubbliche europee

Negli ultimi anni, la crescita dell’economia europea viene ostacolata da diverse “strozzature”. Secondo il modello standard della contabilità della crescita, nel periodo 2001-2007 la produttività del lavoro è il principale fattore di crescita, mentre l’utilizzazione della manodopera e l’aumento della popolazione in età lavorativa rappresentano solo un quarto della crescita totale. Per contro, la diminuzione della partecipazione al mercato del lavoro da parte dei giovani e degli uomini della prima fascia di età, nonché la riduzione delle ore di lavoro

(22)

pro-28 capite prestate sono fattori che inibiscono la crescita dell’economia europea (figura n. 4).

Ad aggravare il quadro economico interviene la crisi finanziaria internazionale, che determina una brusca contrazione del Pil, causando un forte aumento della disoccupazione e il crollo della produttività totale dei fattori a causa della minore utilizzazione della capacità produttiva.

Figura n. 4 – Scomposizione della crescita del Pil nell’Unione europea

Fonte: Commissione Europea, 201121.

Prima della crisi, diversi Stati membri hanno trasgredito i principi sottostanti all’elaborazione di politiche di bilancio prudenti. Le maggiori entrate prodotte durante l’espansione economica del 2003-2007 sono state destinate solo in parte all’aggiustamento fiscale, mentre una parte considerevole di esse è stata utilizzata

21

Si veda Commissione Europea, «Analisi annuale della crescita - Relazione macroeconomica», Bruxelles, gennaio 2011, p. 4.

(23)

29 per finanziare spese supplementari. Questo ha fatto sì che nello stesso periodo il tasso medio di aumento della spesa primaria superasse il tasso medio di crescita economica in dodici Stati membri dell’Ue, con un’eccedenza talvolta notevole per alcuni (figura n. 5).

Come era logico attendersi, l’insostenibilità di questa scelta politica emerge all’inizio della crisi finanziaria, quando il crollo delle entrate pubbliche mette in luce la vulnerabilità delle relative posizioni di bilancio caratterizzate da un margine di manovra fiscale inesistente o comunque insufficiente a garantire una risposta adeguata alla contrazione economica.

Figura n. 5 – Crescita della spesa primaria reale rispetto alla crescita del

Pil reale nei paesi dell’Ue 2003-2007

Fonte: Commissione Europea, 201122.

Negli ultimi anni precedente la crisi si è evidenziato anche un forte aumento degli squilibri macroeconomici. Dall’introduzione dell’euro, alcuni Stati membri

22

(24)

30 hanno sperimentato notevoli divergenze nell’andamento della competitività così come misurata dal tasso di cambio effettivo reale23. I paesi più competitivi, come la Germania, hanno registrato una caduta dei loro tassi di cambio effettivi reali; al contrario, quelli meno competitivi come la Spagna e l’Irlanda ne hanno evidenziato un aumento con evidenti perdite di competitività (figura n. 6).

Figura n. 6 – Andamento dei tassi di cambio effettivi reali nell’area euro

1998-2007 (basati sui deflatori del Pil, variazioni in %)

Note: (1) SK è fuori misura, l’attuale valore è 52,5%. BE include anche LU.

Fonte: Commissione Europea, 201024.

23

Il tasso di cambio effettivo reale è un indice relativo di prezzo e di costo che mira a valutare la competitività di prezzo o di costo di un paese rispetto ai suoi principali competitor sui mercati internazionali. Esso dipende non solo dai movimenti del tasso di cambio, ma anche dagli andamenti dei prezzi e dei costi. L’interpretazione dell’indice è che ad un incremento corrisponde una diminuzione della competitività del pese (ad esempio perché i prezzi domestici sono aumentati mediamente di più rispetto ai prezzi dei competitor), mentre ad un decremento corrisponde un aumento di competitività del paese.

24

Si veda European Commission, Directorate-General for Economic and Financial Affairs, «Quarterly Report on the Euro Area», in European Union Publications, vol. 9, n. 1, 2010, p. 7.

(25)

31 Al contempo si è evidenziato un costante ampliamento delle divergenze nelle posizioni di conto corrente. Alcuni Stati membri dell’area euro come Germania, Paesi Bassi, Austria e Finlandia hanno accumulato surplus; invece, altri come Grecia, Spagna, Portogallo ed Irlanda, ampi deficit (figura n. 7).

Figura n. 7 – Posizioni di conto corrente nell’area euro 1998-2007

(variazioni in % del Pil)

Fonte: Commissione Europea, 201025.

L’andamento divergente nelle posizioni competitive e di conto corrente è stato guidato principalmente da squilibri macroeconomici interni, quali: lo scarso aggiustamento dei salari all’andamento della produttività; l’eccessiva crescita del credito al settore privato e le bolle dei prezzi immobiliari. In particolare, la maggioranza degli squilibri delle partite correnti è stata alimentata da una spinta divergente della domanda interna tra gli Stati membri. Mentre nei paesi in surplus

25

(26)

32 si registrava una strutturale debolezza della domanda interna, nei paesi in deficit le pressioni sulla domanda interna esercitate da un ampio afflusso di capitali esteri hanno contribuito ad alimentare la domanda di importazioni e deprimere il conto corrente con un’accumulazione insostenibile di debiti a livello di famiglie ed imprese.

La crisi finanziaria internazionale corregge solo in parte ed, in via temporanea, i forti squilibri macroeconomici esistenti fra gli Stati membri. Questo significa che la conseguente stagnazione economica consente di ridimensionare l’eccessiva domanda interna26

ed eliminare o attenuare alcuni fattori di divergenza, tra cui le bolle del mercato immobiliare e l’espansione del credito, portando ad una riduzione degli squilibri delle partite correnti. Da una parte, infatti, Germania, Paesi Bassi, Austria e Finlandia manifestano una caduta dei loro surplus con l’estero e, dall’altra, Grecia, Spagna, Portogallo ed Irlanda sperimentano una riduzione dei loro deficit27 nella direzione di una parziale convergenza delle posizioni di conto corrente all’interno dell’area euro (figura n. 8).

Sebbene la crisi determini una correzione degli squilibri globali, sia pur temporanea, ed implichi un ulteriore aggiustamento di natura più strutturale, il tasso di cambio effettivo reale rimane ampiamente stabile. Nel 2007-2009 la

26

Gli Stati membri con ampi deficit di conto corrente hanno visto dall’inizio della crisi una più forte contrazione della domanda interna rispetto al resto dell’area euro. Questo è imputabile ad un marcato aumento del risparmio privato e, per contro, ad un corrispondente aumento dei deficit pubblici che variano in diversa misura, a seconda del paese considerato.

27

Ampie riduzioni dei deficit delle partite correnti vengono registrate anche da alcuni Stati membri che recentemente sono entrati a far parte dell’area euro: Slovenia, Slovacchia e Malta.

(27)

33 maggior parte degli Stati membri registrano variazioni trascurabili del loro indice di competitività non eccedenti il 2% ad eccezione dell’Irlanda che mostra una riduzione intorno al 7%28.

Figura n. 8 – Posizioni di conto corrente dei paesi in surplus ed in deficit

dell’area euro 1991-2012 (variazioni in % del Pil)

Note: I paesi in surplus comprendono DE, LU, NL, AT, FI. I paesi in deficit comprendono IE, EL, CY, PT.

Fonte: Commissione Europea, 201029.

Tuttavia, la crisi finanziaria internazionale incide pesantemente sull’economia europea, provocando un forte aumento della disoccupazione. Nell’Unione europea i disoccupati hanno rappresentato nel 2008 il 7% della forza lavoro, ma nel 2009 il tasso di disoccupazione aumenta di due punti percentuali con un profilo che resta crescente anche negli anni successivi (figura n. 9).

28

Si veda European Commission, op. cit., p. 8.

29

(28)

34

Figura n. 9 – Andamento del tasso di disoccupazione nell’Unione europea

(variazioni in % della forza lavoro)

Fonte: Eurostat, Statistics, Database, Unemployment rate by sex and age groups - annual average, %.

Il tasso di disoccupazione è particolarmente elevato in Estonia, Irlanda, Spagna, Lettonia, Lituania, Slovacchia con oltre il 12% della forza lavoro, mentre la percentuale più bassa si registra nei Passi Bassi con il 3,7% (figura n. 10).

La disoccupazione a lungo termine, cioè quella superiore a un anno, manifesta un crescente aumento e rappresenta nel 2009 il 33% circa della disoccupazione totale nell’Ue con percentuali più elevate negli anni successivi30

. Ciò pone il rischio di una disoccupazione strutturale poiché esclusioni prolungate dal mercato del lavoro possono provocare un rapido deterioramento dell’incrocio tra domanda ed offerta di impiego. In particolare, la disoccupazione è diffusa tra le persone poco qualificate, i migranti ed i giovani. Nel 2009 la disoccupazione

30

Nel 2010 risulta pari al 39,9% e nel 2011 al 42,9% (Eurostat, Statistics, Database, Unemployment rate by sex and age groups – annual average, %). L'idea centrale è che, quando vi è un processo lento di aggiustamento di prezzi e salari a causa dell'esistenza di varie forme di rigidità, non ultima la scarsa mobilità territoriale che caratterizza l’economia europea (Oecd, 1999b), uno shock esogeno potrebbe creare un gap tra il livello di occupazione di equilibrio e quello effettivo che non può essere colmato nel breve periodo (Scarpetta, 1996).

(29)

35 giovanile supera il 20% della forza lavoro in oltre la metà degli Stati membri dell’Ue e registra la percentuale più elevata in Spagna con il 37,8%31

.

Figura n. 10 – Tasso di disoccupazione nei paesi dell’Ue, anno 2009

(variazioni in % della forza lavoro)

Fonte: Eurostat, Statistics, Database, Unemployment rate by sex and age groups - annual average, %.

Un ulteriore effetto della crisi finanziaria internazionale è la contrazione degli investimenti del settore privato32. Rispetto al periodo pre-crisi, il tasso di investimento nell’Ue risulta più basso, poiché nell’anno 2009 esso subisce un calo pari all’incirca all’8% a livello di famiglie e al 20% a livello di imprese (figura n.

31

È una percentuale destinata ad aumentare in futuro, poiché raggiunge il 41,6% nel 2010, il 46,4% nel 2011 ed il 53,2% nel 2012 (Eurostat, Statistics, Database, Unemployment rate by sex and age groups - annual average, %).

32

A tal riguardo, l’analisi settoriale mostra che la contrazione degli investimenti avviene principalmente dal lato dei macchinari e delle attrezzature piuttosto che dal lato dei beni immobili. Gli investimenti in macchinari ed attrezzature riducono a causa di un rallentamento della produzione manifatturiera dovuto alla minore utilizzazione della capacità produttiva e alla crescente avversione al rischio da parte delle imprese, la quale si manifesta in un mantenimento delle scorte relativamente basso pur in presenza di nuovi ordini. L’altra tipologia di investimenti, invece, si riduce ad un ritmo più lento per effetto di una domanda immobiliare insufficiente che lascia invenduta una quantità innumerevole di abitazioni.

(30)

36 11). I paesi con la più forte contrazione degli investimenti33 sono Estonia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Romania e Slovenia che registrano una riduzione superiore al 20% rispetto all’anno precedente (figura n. 12).

Figura n. 11 – Andamento del tasso di investimento nell’Unione europea

(variazioni percentuali)

Fonte: Eurostat, Statistics, Database, Household investment rate and Investment rate of non-financial corporations.

Figura n. 12 – Investimenti fissi lordi nei paesi dell’Ue, anno 2009

(variazioni in % rispetto all’anno precedente)

Fonte: Eurostat, Statistics, Database, Gross fixed capital formation (investments).

33

Si fa riferimento agli investimenti fissi lordi, che sono costituti dalle acquisizioni, al netto delle cessioni, di capitale fisso effettuate dai produttori residenti alle quali vanno aggiunti gli incrementi di valore dei beni materiali non prodotti. (Sistema europeo dei conti, SEC 95).

(31)

37 In questo contesto, gli stabilizzatori automatici e le misure di bilancio giocano un ruolo-chiave nello stabilizzare l’economia europea. Ciò nonostante, le posizioni di bilancio dei singoli Stati membri dell’Ue subiscono un graduale deterioramento.

Nell’arco di breve tempo, il rapporto tra deficit pubblico e Pil aumenta al punto tale che il numero degli Stati membri con un deficit superiore al 3% del Pil34 si eleva da tre a ventidue. Alla fine del 2009 il deficit pubblico dell’Ue raggiunge il 6,9% del Pil, superando di 6 punti percentuali i livelli del 2007. Gli Stati membri con le più elevate percentuali di deficit, ovvero oltre il 10% del Pil, sono Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo e Regno Unito (figura n. 13).

Figura 13 – Deficit/surplus di bilancio in % del Pil

Fonte: Eurostat, Statistics, Database, Government deficit/surplus, debt and associated data.

34

È il valore di riferimento indicato nel Trattato di Maastricht come la misura massima raggiungibile per poter essere ammessi all’Uem. Gli altri parametri da soddisfare per l’ammissione sono: un debito pubblico non superiore al 60% del Pil; un tasso d’inflazione non superiore al’1,5% quello dei tre paesi con i migliori risultati in termini di stabilità dei prezzi; un tasso di interesse a lungo termine non superiore al 2% quello dei tre paesi con la migliore performance dei prezzi; normali margini di fluttuazione del tasso di cambio senza gravi tensioni né svalutazioni nei confronti dell’euro per almeno i due anni che precedono l’ingresso nell’Uem.

(32)

38 Il marcato aumento dei deficit pubblici è principalmente imputabile ai seguenti fattori:

 In primo luogo, l’implementazione di considerevoli misure discrezionali35

da parte degli Stati membri nel quadro comune del Piano europeo di ripresa economica: a) misure di stimolo fiscale aventi l’obiettivo di promuovere gli investimenti, supportare il potere d’acquisto delle famiglie, aiutare le imprese e sostenere i mercati del lavoro; b) misure di riforma strutturale finalizzate a supportare la crescita economica in un’ottica di medio-lungo periodo.

 In secondo luogo, l’azione degli stabilizzatori automatici36

che, in aggiunta alle misure discrezionali, consentono di far fronte alla riduzione delle entrate e al notevole incremento della spesa per la sicurezza sociale, in particolare, per le indennità di disoccupazione.

 Infine, una elasticità delle entrate significativamente più elevata rispetto alla debole attività economica. Ciò si riflette sia nel calo dell’incidenza fiscale37 sia nella caduta dei prezzi delle merci e dei profitti delle imprese, oltre che nel cambiamento delle componenti della crescita.

Dalla combinazione di questi tre fattori risulta evidente che il grave deterioramento delle posizioni di bilancio nell’Unione europea è una conseguenza

35

Considerate nel loro complesso, le misure discrezionali, di cui i tre quarti sono rappresentati da misure di stimolo fiscale, hanno un impatto sul bilancio dell’Ue pari all’1,4% del Pil nel 2009 e all’1,1% del Pil nel 2010 .

36

Gli stabilizzatori automatici hanno un impatto sul bilancio dell’Ue intorno al 2% del Pil nell’arco del 2009-2010.

37

In tal caso, si fa riferimento al minor gettito derivante dalle tasse sulla produzione e le importazioni ed, in misura più determinante, dalle tasse sul reddito e la ricchezza prodotta.

(33)

39 sia della diminuzione delle entrate sia del forte aumento delle pressioni sulla spesa le quali stanno azzerando il discreto equilibrio raggiunto negli anni precedenti la crisi (figura n. 14).

Figura n. 14 – Entrate e spesa pubblica in % del Pil

Fonte: Eurostat, Statistics, Database, Government revenue, expenditure and main aggregates.

Naturalmente, l’incremento dei deficit di bilancio, unitamente agli stimoli finanziari discrezionali38, contribuisce ad una revisione al rialzo delle posizioni sul debito pubblico. Nell’Unione europea il rapporto tra debito pubblico e Pil aumenta in tutti gli Stati membri, eccetto Bulgaria e Cipro (figura n. 15). Alla fine

38

Tra le misure di stimolo, gli Stati membri adottano numerose misure extra-bilancio per supportare la domanda. Esse consistono in prestiti ed iniezioni di capitale al settore privato non-finanziario od investimenti rafforzati nelle imprese pubbliche, pari nel loro complesso all’0,5% del Pil dell’Ue. Inoltre, ad esse occorre aggiungere il denaro pubblico iniettato nel settore finanziario in forma di ricapitalizzazioni pari al 2% circa del Pil dell’Ue. Si noti che tali misure incidono sul debito pubblico, ma non sul deficit. Considerando, invece, le misure di stimolo approvate dalla Commissione europea, le garanzie governative fornite al settore finanziario ammontano all’8% del Pil dell’Ue, mentre gli acquisti di titoli tossici ed il supporto alla liquidità, simili in natura alle garanzie, ammontano al 4%. Tali misure rappresentano passività potenziali che incidono sul deficit e, di conseguenza, sul debito pubblico solo quando sono impiegate.

(34)

40 del 2009 il debito pubblico lordo39 dell’Ue è pari a circa il 74% del Pil, mentre quello dell’Eurozona è pari a circa l’80% del Pil con la Grecia che raggiunge il massimo livello del debito pubblico, superiore al 120% del Pil.

Figura n. 15 – Debito pubblico in % del Pil

Fonte: Eurostat, Statistics, Database, Government deficit/surplus, debt and associated data.

Si noti che il rapporto tra debito pubblico e Pil aumenta non solo per effetto dei disavanzi pubblici, ma anche per effetto delle passività implicite40 prevedibili connesse all’invecchiamento demografico ed alla lenta crescita dell’attività economica nel lungo periodo. In particolare, esso raggiunge livelli oltre i quali un ulteriore indebitamento pubblico rischia di frenare la crescita economica anziché stimolarla. Ciò dipende dal fatto che il servizio di elevati livelli di debito, da un

39

Il debito pubblico lordo tiene conto anche delle attività finanziarie pubbliche che (in media nell’area euro corrispondono a circa un terzo del valore delle passività pubbliche) costituiscono un’importante riserva dei governi per far fronte ai timori circa la sostenibilità del debito. La vendita di tali attività, infatti, può servire a riscattare il debito pubblico in essere, ma anche a finanziarie l’acquisto di altre attività finanziarie. Tuttavia, è probabile che in un contesto di debolezza economica, essa generi un gettito limitato oppure che non sia affatto realizzabile.

40

Le suddette passività riguardano prevalentemente i diritti a prestazioni la cui erogazione sarà dovuta in futuro, come per le pensioni ed altre voci di spesa pubblica relative all’evoluzione demografica (BCE, 2012).

(35)

41 lato, richiede un aumento delle imposte che ha riflessi negativi sull’economia e, dall’altro, preclude una spesa pubblica produttiva a fronte di una maggiore spesa per interessi. È altrettanto vero che l’incremento del rapporto tra debito pubblico e Pil determina un crescente aumento dei premi di rischio sui titoli di Stato, rendendo ancora più oneroso il servizio del debito e sollevando dubbi sui mercati finanziari circa la solvibilità dello Stato.

Pertanto, sebbene quasi tutti gli Stati membri dell’Ue registrino l’incremento in bilancio dei deficit e dei debiti pubblici, l’incidenza della crisi mondiale sulle finanze pubbliche varia considerevolmente da uno Stato membro all’altro (figura n. 16).

Figura n. 16 – Situazioni di partenza diverse nel 2010

(36)

42 b) Debito pubblico/disavanzo delle partite correnti

Note: I valori negativi indicano corrispondenti avanzi. Nel caso della bilancia dei beni e servizi, l’avanzo del Lussemburgo supera il 30% del Pil, fuori dai limiti di questo grafico.

Fonte: Commissione Europea, 201041.

Osservando i precedenti grafici, è possibile notare che i paesi con ampi squilibri fiscali devono operare un aggiustamento considerevole per riportare le finanze pubbliche sulla via della sostenibilità. Essi hanno margini di manovra fortemente ridotti, per cui devono correggere in via prioritaria gli squilibri fiscali e, nei limiti consentiti, gli squilibri macroeconomici eventualmente esistenti. Al contrario, i paesi che non hanno squilibri fiscali e/o macroeconomici rilevanti devono sforzarsi di migliorare i fattori di crescita a lungo termine, evitando al contempo futuri squilibri.

41

Si veda Commissione Europea, «Analisi annuale della crescita - Relazione macroeconomica», cit., pp. 9-10.

(37)

43 Solo in presenza di ampi squilibri di bilancio, gli Stati membri incontrano rischi specifici relativi alla sostenibilità delle finanze pubbliche. In primo luogo, essi sono più suscettibili agli shock dell’economia nel breve-medio termine e ad aumenti del tasso d’interesse. In secondo luogo, si ritiene che tali paesi siano incapaci di mantenere il loro saldo primario di bilancio42 al livello attuale, con la conseguenza che spesso saldi primari negativi vengono associati ad una massa di debiti crescenti. Inoltre, essi possono registrare un marcato decremento del rapporto di utilità pubblica rispetto al Pil43 in corrispondenza di un incremento del tasso di povertà delle persone anziane e della percentuale di contribuzioni sociali che vengono trasferite dai sistemi pubblici pensionistici ai sistemi privati con impatto negativo sulle finanze pubbliche.

A ciò occorre aggiungere ulteriori rischi di sostenibilità connessi all’invecchiamento demografico, che mette sotto pressione le finanze pubbliche di un paese attraverso i suoi effetti immediati sul mercato del lavoro44 e, a lungo termine, sulla crescita economica.

42

Il saldo primario di bilancio si riferisce alla differenza fra l’ammontare complessivo della spesa pubblica, escluse le spese per interessi, ed il totale delle entrate. Generalmente, esso si assume avere un andamento costante, se si escludono gli effetti sul bilancio prodotti dall’invecchiamento della popolazione.

43

Il rapporto di utilità è l’utilità media per la pensione pubblica e le altre pensioni, intesa come una percentuale del salario medio dell’intera economia (salari lordi e salari in relazione a ciascun impiegato).

44

Oltre alle diverse conseguenze sociali, l’invecchiamento della popolazione ha significative implicazioni economiche, poiché a seguito di una riduzione delle persone in età lavorativa e di un aumento di quelle anziane le economie devono affrontare più elevati costi relativi alla fornitura di beni e servizi e, quindi, un aumento della spesa pubblica, che riflette una più bassa crescita economica.

(38)

44

1.4. Le politiche e la governance europee

Dopo che gli effetti della crisi finanziaria internazionale cominciano a riflettersi in misura significativa sull’economia reale, emerge con chiarezza la necessità di avviare in tempi brevi politiche economiche efficaci dirette ad evitare che la fase di stagnazione dell’economia europea si trasformi in una vera e propria recessione, essendo alimentata anche dai segnali di caduta del reddito e dell’occupazione, i quali contribuiscono a diffondere il panico tra le famiglie e le imprese, con ulteriori conseguenze negative sui mercati.

In queste condizioni di incertezza non si ritengono sostenibili i costi di un aggiustamento affidato alle sole forze di mercato. I timori di una crisi del sistema finanziario del tutto nuova ed i rischi di incontrollabilità e imprevedibilità che ne derivano, inducono i governi e le banche centrali ad interventi di dimensioni che non si vedevano più da decenni. Questi interventi, da un lato, possono essere letti come una vittoria delle teorie Keynesiane45 che, ai tempi della crisi degli anni trenta, giustificarono gli interventi di sostegno alla domanda globale già intrapresi dall’amministrazione americana; dall’altro, possono rappresentare l’inizio di un nuovo paradigma di politica economica, più incentrato sulla dinamica delle

45

“Le politiche macro-economiche anticicliche seguite agli inizi della crisi sembravano avere un sapore keynesiano, stimolando la domanda aggregata con tagli alle imposte, espansione monetaria e bassi tassi di interesse. Ma i tagli alle imposte incoraggiavano solo temporanei aumenti di consumo, e la politica monetaria a tassi di interesse già molto bassi non poteva essere efficace, soprattutto in una fase di contrazione della domanda. Rimedi keynesiani avrebbero richiesto invece investimenti pubblici in infrastrutture, nonché incentivi diretti ad incoraggiare investimenti privati in modi diversi da una riduzione del tasso di interesse, per di più non goduta dalla maggioranza delle imprese” (Nuti, 2011, p. 6).

(39)

45 istituzioni e più orientato ad operare su quest’ultime per garantire la stabilità dei mercati e fornire supporto all’attività economica.

I primi interventi di politica economica che vengono messi in atto dalla Bce per far fronte alla crisi sono iniezioni di liquidità e drastiche riduzioni dei tassi d’interesse46

. Durante il 2009 i mercati finanziari hanno ancora bisogno di assistenza e la liquidità rimane scarsa, limitando l’attività economica delle imprese e dei consumatori. Per incoraggiare le attività di prestito, la Bce continua a ridurre drasticamente i tassi di riferimento dell’area euro, che sono passati dal 2,5% nel dicembre del 2008 al minimo storico dell’1% nel luglio 2009 (figura n. 17).

Figura n. 17 – Tasso di interesse ed inflazione (IACP) nell’area euro

Fonte: Commissione Europea/BCE47.

46

La crisi finanziaria ha indebolito il tradizionale meccanismo di trasmissione monetaria al punto tale da spingere i tassi di riferimento al minimo storico dell’1% nel luglio del 2009.

47

Si veda Commissione Europea, «Relazione generale sull’attività dell’Unione Europea», in

(40)

46 Nel 2008 la Bce ha già intensificato i propri sforzi ed, anziché lasciare che il costo dei prestiti concessi dalle banche centrali fosse determinato mediante procedura d’asta, ha fissato un basso tasso di riferimento per i prestiti agli istituti finanziari e, a quel tasso, aveva fornito tutta la liquidità necessaria. Nel 2009 gli effetti di tale operazione vengono triplicati con un’offerta illimitata di liquidità al tasso dell’1% con scadenza a un anno, ovvero il doppio rispetto all’ultima scadenza più lunga. Inoltre, nel 2008 la Bce ha ampliato il numero delle attività accettate come garanzia reale di tali prestiti, ma a metà 2009 il valore delle attività idonee supera i 12 mila miliardi di euro, il che consente di allentare le tensioni sulle operazioni di prestito delle banche commerciali.

Tuttavia, affinché la politica monetaria possa effettivamente perseguire la stabilità dei prezzi, è necessario porre in essere adeguate misure di politica fiscale per rilanciare l’economia in questa difficile fase che segue la crisi finanziaria.

A tal fine, nel novembre 2008 la Commissione europea ha presentato un piano di rilancio, «A European Economic Recovery Plan»48, che il Consiglio europeo ha approvato nella sua seduta dei successivi 11 e 12 dicembre. Esso differisce dal Piano Delors del 199349, poiché non si propone di realizzare una crescita sostenuta nel medio-lungo periodo, ma di «iniettare potere d’acquisto nell’economia, sostenere la domanda e stimolare la fiducia».

48

Commission of the European Communities, A European Economic Recovery Plan, Communication from the Commission to the European Council, Brussels, November 26, 2008.

49

Alla fine del 1993 J. Delors ha presentato nel Libro bianco della Commissione Europea su "crescita, competitività ed occupazione" un piano d'azione, applicabile a livello nazionale e comunitario, per realizzare il rilancio della crescita economica, il rafforzamento della competitività industriale e il dimezzamento entro il 2000 della disoccupazione.

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47 È un piano macroeconomico anticiclico di breve periodo che prevede per il biennio 2009-10 misure di bilancio discrezionali pari ad almeno 200 miliardi di euro o all’1,5% del Pil dell’Ue, di cui circa 170 miliardi di euro (1,2% del Pil) nel quadro dei bilanci dei singoli Stati membri e circa 30 miliardi di euro (0,3% del Pil) nel quadro del bilancio dell’Ue e della Banca europea per gli investimenti.

Si tratta di misure tempestive, temporanee e mirate, che combinano diversi strumenti, quali: maggiore spesa pubblica; garanzie; sussidi; incentivi finanziari ben designati; tasse più basse e contributi sociali. Per massimizzarne l’impatto, tali misure devono essere adottate in maniera coordinata e tenendo conto della posizione iniziale di ciascun Stato membro. Di conseguenza, tutti gli Stati membri dell’Ue devono impegnarsi a contrastare il deterioramento del bilancio con politiche fiscali espansive che siano coordinate a livello europeo e coerenti con la situazione economico-finanziaria a livello nazionale in modo da garantire l’equilibrato raggiungimento degli obiettivi di stabilizzazione e sostenibilità.

La parte innovativa del piano promuove una serie di investimenti50 la cui finalità non è solo quella di rendere l’economia europea più competitiva, ma anche di «inverdirla» (greening the economy), trasformandola in un’economia a basso consumo di anidride carbonica, grazie ad un aumento dell’efficienza energetica e all’introduzione di tecnologie pulite ad alto rendimento, in particolare

50

Si tratta di investimenti in settori «intelligenti», ovvero settori: a) iscritti nelle ampie politiche e strategie dell’Ue in materia di energia, ambiente, piccole e medie imprese, o di coesione; b) con buone capacità di creare velocemente posti di lavoro, sviluppare le infrastrutture e promuovere l’innovazione; c) in grado di aiutare l’Europa non solo ad uscire dalla crisi ma anche a ripristinare il potenziale di crescita.

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