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La rappresentazione della figura della donna straniera nel cinema italiano contemporaneo

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione 1 Vesna Va Veloce 10 La Sconosciuta 18 L’Amico di Famiglia 27 Io Sono Li 38

Riflessioni comparative sui film 45

analizzati Conclusioni 55

Bibliografia 57

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Introduzione

A partire dal 1986, con una serie di leggi regionali (la prima in Lombardia, poi in Basilicata) l’Italia prese atto della presenza di lavoratori stranieri non comunitari sul suo suolo e rese obsolete le norme di pubblica sicurezza in merito, risalenti al 1935.

Fino a quel momento, l’unico tipo di migrazione presa in considerazione dalle leggi regionali era quella verso l’esterno, un fenomeno massiccio che riguardò una notevole porzione di popolazione tra l’Ottocento e il Novecento.

I massicci fenomeni migratori, incrementatisi nel corso degli ultimi vent’anni, hanno fatto sì che i governi succedutisi alla guida dell’Italia promulgassero leggi volte a regolamentare gli ingressi di cittadini stranieri: dapprima la legge Martelli del 1990 volta a programmare i flussi migratori, poi la Turco-Napolitano del 1998 che istituì i Centri di Permanenza Temporanea (oggi Centri di Identificazione ed Espulsione) per scoraggiare gli ingressi illegali, quindi la famigerata Bossi-Fini del 2002, attraverso la quale si istituì nel 2009 il reato di immigrazione clandestina e che negli ultimi mesi, a seguito delle tragedie umanitarie occorse nei pressi dell’isola di Lampedusa, è stata oggetto di forti dibattiti in Parlamento e nella società civile.

Sul versante opposto, l’emigrazione italiana è diventata un fenomeno costante ma minore, sia quella esterna che quella dal Sud al Nord del Paese, rendendo di fatto l’Italia la destinazione più che il luogo di partenza di migranti.

L’atteggiamento della società italiana di fronte agli arrivi sempre più massicci di stranieri, sovente attraverso viaggi rocamboleschi nei migliori casi e tragici nei peggiori, è stato per lungo tempo ambivalente.

L’integrazione nei processi economici è andata di pari passo con la criminalizzazione, con le leggi speciali e le detenzioni nei CPT, con l’istinto di

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conservazione di una millantata purezza nazionale minacciata dagli altri (ciononostante, i matrimoni misti tra il 1996 e il 2008 sono stati più di 240 mila): elementi probabilmente propri del trauma del confronto con un arrivo massiccio e non controllato di stranieri, ma che sono stati enfatizzati e strumentalizzati dai partiti politici come ad esempio dalla Lega Nord, impedendo parzialmente l’integrazione e fomentando le paure degli italiani di fronte a persone appartenenti a culture e religioni differenti.

Fin dalle prime migrazioni verso l’Italia, le donne hanno costituito la percentuale maggiore rispetto agli uomini: collaboratrici domestiche o operaie, o ancora sfruttate nel mercato sommerso e illegale della prostituzione, la presenza di migranti donne è divenuta presto estremamente importante nel tessuto sociale italiano, determinando l’affermazione di importanti modifiche culturali e di altrettanto importanti stereotipi legati ai loro corpi, ai Paesi di origine e alle loro intenzioni.

Il cinema si è presto fatto veicolo prediletto di storie ispirate alle vicende di questo nuovo gruppo sociale presente sul territorio italiano, spesso contrastando gli stereotipi negativi veicolati dai mezzi di informazione come televisioni e giornali, a volte invece assecondandoli, ma in generale fungendo da elemento normalizzatore dell’esperienza sovente traumatica dell’incontro con una cultura altra, ossia costruendo personaggi complessi e narrazioni che favorissero l’identificazione apparentemente impossibile con i personaggi delle straniere. Le contraddizioni insite nel difficile confronto con l’alterità è emersa anche nelle rappresentazioni filmiche di narrazioni riguardanti le donne straniere, soprattutto nei film degli anni meno recenti.

Infatti, dai primi anni Novanta la migrante è stata presente nel cinema italiano come personaggio problematico, al di fuori delle norme sociali, ad esempio nel ruolo della prostituta o della clandestina in fuga dalle forze dell’ordine, riproponendo quindi le contraddizioni esistenti nella realtà dell’Italia del tempo; in particolare, molta enfasi è stata posta sulla questione del corpo della migrante

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come luogo di emersione di tali contraddizioni in quanto elemento fascinatorio ma pericoloso, punto d’incontro di pulsioni e di orrori inesprimibili nei rapporti sociali non sommersi.

In questo senso, i racconti filmici hanno avuto la funzione di rappresentare un aspetto fortemente contraddittorio conseguente alle ondate migratorie, mostrando un ordine sociale che funziona solo finché gli stranieri restano al posto loro assegnato, svolgendo le occupazioni professionali più dure e rifiutate dagli italiani, ai margini della società1.

I cineasti che hanno scelto di confrontarsi con le problematiche dell’immigrazione lo hanno sovente fatto focalizzandosi su racconti che rappresentassero la specifica realtà dell’Italia, non mostrando gli eventi occorsi in precedenza nei Paesi di origine e realizzando quindi degli affreschi che raccontano l’Italia più che le storie dei migranti, i quali diventano quindi dei pretesti per indagare la realtà contemporanea anche quando sono i personaggi principali dei film; la Repubblica Ceca da cui proviene Vesna, protagonista di

Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati, non viene mai mostrata, così come accade

con la Romania, Paese di origine della protagonista di Occidente di Corso Salani e con l’Ucraina di Irena, la sconosciuta dell’omonimo film di Giuseppe Tornatore.

Alcuni cineasti hanno preferito lasciare alle immagini documentarie il compito di contestualizzare l’origine e le motivazioni dei migranti, come ad esempio ha fatto Salani in Occidente, film che si apre con le immagini della caduta del regime di Ceausescu; il found footage è stato tuttavia utilizzato anche con scopi diegetici diversi, come avviene in Lamerica di Gianni Amelio, film che si apre con immagini dello sbarco delle truppe italiane in Albania nel 1939 per creare un

1 _ Si veda ad esempio quanto accade in Pummarò di Michele Placido (1989), film in cui il migrante ghanese Kawaku si scontra con il razzismo dei concittadini dell’italiana Pamela, con cui egli inizia una relazione sentimentale.

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parallelo con l’immagine della nave Partizani che, carica all’inverosimile di persone, lascia il porto di Durazzo alla volta delle coste pugliesi.

Il film in questione rappresenta, pur essendo uno dei primi ad occuparsi della questione migratoria, un importante punto di arrivo poiché ricordando le imprese coloniali fasciste e mostrando il personaggio di Spiro, soldato italiano naturalizzato albanese per sfuggire alle persecuzioni del regime di Enver Hoxha, richiama un periodo della storia italiana, ossia le imprese coloniali, rimosso e non affrontato, così come è avvenuto con la questione delle migrazioni di cittadini italiani verso le Americhe e verso i Paesi europei più ricchi.

La cinematografia mondiale ha contribuito in parte alla percezione acritica e quasi mitica dell’italiano migrante, una posizione che ha forse influito sulla percezione dello straniero che si reca in Italia.

Il fascino del potere esercitato da produzioni come la trilogia de Il Padrino (1972, 1974, 1990) di Francis Ford Coppola continua ad essere molto forte anche sulle generazioni più giovani, consolidando un’idea di italianità mitizzata anche quando questa è legata a doppio filo alla criminalità organizzata; la mancanza di una visione critica dell’emigrazione nazionale e delle difficoltà ad essa connesse (nel Sud degli Stati Uniti d’America, gli italiani erano considerati white niggers2) ha in parte contribuito alla percezione dell’alterità in termini negativi.

Sull’importanza delle figure degli stranieri nei film per comprendere l’Italia contemporanea, le sue contraddizioni e il difficile approccio con culture diverse che improvvisamente divengono parte della realtà italiana, e sull’utilizzo dello sguardo di tali figure come superficie riflettente di quella realtà si è pronunciato Matteo Garrone, parlando del suo film a episodi Terra di mezzo (1996).

Nelle note di regia, egli sostiene che «Su questi volti segnati [degli stranieri

2 _ Cfr. G.Parati, Migration Italy: the Art of Talking Back in a Destination Culture, University of Toronto Press, Toronto, 2005, p.27

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protagonisti del film] si riflettono gli italiani, come l’altro lato di uno specchio»; attraverso queste parole, si consolida l’idea di un approccio finalizzato ad un indagine di ampio respiro, di uno sguardo finalizzato a raccontare l’Italia contemporanea più che l’esperienza di migrazione e di integrazione in sé.

Le speranze spesso frustrate dalla tragica realtà della vita da immigrato sono state trasportate sul grande schermo attraverso modalità spesso simili tra loro, che possono forse trovare una definizione nelle parole della protagonista del già citato Occidente di Salani: la voce fuori campo di Malvina pronuncia la seguente battuta: «Farei qualsiasi cosa, perché questa fosse davvero la libertà. Speriamo di avere da oggi in poi il diritto di essere uomini», e sebbene il riferimento sia alla caduta del regime romeno, tali riflessioni possono essere la chiave per comprendere le motivazioni comuni alla maggior parte dei personaggi filmici destinati ad un destino di emigrazione e di emarginazione nel Paese di arrivo, e allo stesso tempo permettono di comprendere i destini tragici cui spesso questi personaggi vengono sottoposti; l’atteggiamento del personaggio di Fiore, l’italiano che approfitta della caduta del regime comunista in Albania ne

Lamerica, è speculare a quello della maggioranza dei personaggi italiani che si

trovano di fronte agli stranieri nei film ambientati in Italia, soprattutto per quanto riguarda l’incapacità di approcciare l’altro come pari.

Un recente studio3 di Elena Codeluppi e Damiano Razzoli ha identificato due differenti periodi in cui è possibile suddividere la produzione cinematografica italiana che ha affrontato i temi legati all’immigrazione: il primo va dal 1990 al 2000, il secondo dal 2000 al 2010:

«The first [period] goes from 1990 to 2000: there is a different approach on migration: the need of integration, the exclusion, and the effect of that. In the

3 _ E.Codeluppi, D.Razzoli, “Being here, being there”. Experiencing the threshold of the

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second period, from 2000 to 2010, films are in opposition of the news media discourse on migration: media are more superficial, while the film tries to go deeper and further, while developing a reflection over security, identity, the procession of integration going on, and focusing on the blurred boundaries between personal lives and prejudice4»

Una separazione di questo tipo è forse un po’ forzata e non tiene conto delle singole opere e delle sensibilità dei diversi cineasti che hanno affrontato l’argomento, tuttavia il riferimento alla contrapposizione tra media informativi e cinema è effettivamente riscontrabile, soprattutto per ciò che riguarda le differenti percezioni del migrante, da una parte visto come figura opaca e principalmente come parte di un gruppo, dall’altra invece indagato in quanto persona anche quando l’indagine risulta un pretesto per affrontare tematiche più generali e di carattere sociale.

Inoltre, nel saggio si sottolineano i diversi campi di indagine, identificati in base alle attività svolte nei film dai personaggi stranieri: se l’immigrato che svolge un’attività professionale legale è spesso inserito in narrazioni che analizzano comparativamente la cultura italiana e quella dello straniero5, l’occupazione legale ma marginalizzata rappresenta sovente un’identità in crisi a causa dell’esclusione sociale6, nei film in cui l’occupazione del personaggio straniero è illegale l’identità dello stesso risulta, secondo i due autori, frammentata a causa dell’inesistenza di una relazione tra lo straniero e l’italiano.

4 _ E.Codeluppi, D.Razzoli, “Being here, being there”, op. cit., p.2

5 _ Come avviene ne L’orchestra di Piazza Vittorio di Agostino Ferrente (2006) e ne L’assedio di Bernardo Bertolucci (1998)

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Infine, l’ultima categoria identificata è quella in cui si inseriscono i film all’interno dei quali vi è la riaffermazione dell’identità dello straniero anche in assenza di lavoro legale, come avviene in Lezioni di cioccolato (Claudio Cupellini, 2007).

Il ruolo del lavoro è, secondo le conclusioni degli autori, fondamentale nelle narrazioni cinematografiche, ma ciò che emerge è in effetti un’evoluzione del ruolo dello straniero a seconda delle condizioni materiali della sua vita in Italia. La questione dell’identità dello straniero a paragone con l’identità dell’italiano è un tema fondamentale nei film che affrontano l’argomento delle migrazioni verso l’Italia, poiché l’identità del Paese ospite è in effetti più problematica di quanto non si possa credere se si fa affidamento ai media informativi e ai politici, pertanto la chiusura e la diffidenza verso l’altro diviene la spia di una frammentazione interna al Paese: le consistenti differenze tra Nord e Sud e tra le diverse regioni, esplicitate politicamente da partiti come la Lega Nord, fanno sì che la retorica filo razzista sia più che altro una forma di difesa; inoltre, le problematiche che pochi decenni fa emersero con le consistenti migrazioni verso le città del Nord Italia sembrano ormai dimenticate ed è stato nuovamente compito del cinema portarle alla luce, come ad esempio ha fatto Gianni Amelio che dopo essersi occupato delle relazioni tra Italia e Albania, ha girato un film (Così ridevano, 1998) incentrato sull’esperienza migratoria dalla Sicilia al Piemonte, e sulle difficoltà riscontrate dai migranti nella nuova realtà in cui si trovarono a vivere.

Nell’ambito del cinema legato ai fenomeni migratori, i film agiscono sia come agenti di rappresentazione della società che come agenti in grado di modificare le norme sociali e i comportamenti e di favorire l’approccio verso l’altro: la proiezione a Prato del film Io sono Li di Andrea Segre nel 2011 e il dibattito da essa scaturito7 ha consentito un interessante confronto tra la comunità cinese

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presente sul territorio e il regista, presente in sala.

In quell’occasione, uno spettatore cinese, Shi Yang, ha chiesto di fare da traduttore perché ha sostenuto che «Altrimenti i cinesi presenti in sala non possono parlare e il dibattito sull’integrazione lo fate tra di voi8», sottolineando l’importanza della partecipazione e il ruolo cruciale del medium cinema nel dibattito sull’immigrazione e sull’integrazione.

Nel caso specifico dei film incentrati su protagoniste donne e straniere, o meglio di straniere non comunitarie e quindi soggette a particolari restrizioni, difficoltà e pregiudizi, il problema della rappresentazione dell’alterità si unisce a quello dello sguardo autoriale maschile, poiché la maggior parte dei film in questione sono stati diretti da uomini: alla questione della rappresentazione di stranieri operata da italiani si aggiunge quindi quella delle storie al femminile veicolate attraverso una sensibilità maschile, oltre alla problematica legata alla donna come oggetto di una pulsione scopica maschile così come è stata studiata ed elaborata nell’ambito della Feminist Film Theory e dai successivi gender studies, elementi che nel corso della tesi verranno affrontati per come emergono nei singoli film, poi secondo un metodo di analisi comparativa.

I quattro film principali che compongono questo studio sono case studies di realtà rappresentate anche in altri prodotti cinematografici dedicati agli stessi argomenti.

Il primo in ordine cronologico è Vesna va veloce di Carlo Mazzacurati (2006), un film che narra le vicende di una ragazza che cerca fortuna in Italia e finisce per diventare una prostituta, seguono La sconosciuta di Giuseppe Tornatore e

L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino, entrambi del 2006, il primo sulle

vicende di una donna ucraina che tenta di sfuggire alle grinfie del suo sfruttatore

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e di ritrovare la figlia strappatele e il secondo legato a vicende slegate dal fenomeno migratorio femminile se non per alcune brevi scene che però veicolano realtà importanti e attuali.

Infine, Io sono Li di Andrea Segre del 2009 sposta l’attenzione dalle donne provenienti dall’Est Europa a quelle che giungono in Italia dall’Oriente, aprendo una sorta di finestra su una realtà perlopiù sconosciuta che, come si è detto, ha favorito un primo accenno di dibattito sulla questione.

Le analisi dei quattro film saranno disposte in ordine cronologico, perché ognuno di essi è strettamente legato al periodo storico in cui è stato realizzato: le riflessioni comparative tenteranno di esplicitare tale relazione con la storia e gli eventi coevi alla realizzazione.

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Vesna va veloce

(Carlo Mazzacurati, 1996)

Vesna va veloce è il primo, in termini cronologici, dei film che verranno

analizzati in questa tesi; realizzato per la regia di Carlo Mazzacurati nel 1996, narra le vicende della ventunenne ceca Vesna tra Trieste e Rimini.

L’azione ha inizio su un autobus fermo ad un posto di frontiera, con un poliziotto che restituisce alle viaggianti – tutte donne – i passaporti; come si scopre a breve, le donne hanno compiuto il viaggio tra la Repubblica Ceca e l’Italia per acquistare beni di consumo probabilmente introvabili nel Paese d’origine: esse vengono prima mostrate nell’atto dell’acquisto, quindi intente a caricare le numerose buste sull’autobus prima del ritorno in patria.

Solo una di loro, Vesna (Tereza Zajickova), non fa ritorno al mezzo e nonostante le suppliche di un’amica preoccupata, l’autista riparte.

Da dietro una vetrina, la giovane fuggitiva guarda l’autobus allontanarsi dalla piazzola di sosta. Ha così inizio l’avventura italiana della ragazza, che dapprima incontra un padre di famiglia (Silvio Orlando) che le offre ospitalità e le fa avances sessuali venendo però rifiutato, poi riceve un passaggio da un camionista e nel corso del viaggio, assiste alla morte di un connazionale ubriaco: un evento che si ripeterà, tragicamente, nel finale del film.

Giunta a Rimini, presto Vesna si trova costretta a prostituirsi perché priva di denaro ed è così che incontra Antonio (Antonio Albanese), un muratore che prende a cuore il destino della ragazza e le offre ospitalità quando viene ferita da un malvivente.

Sarà proprio il rapporto con Antonio a determinare il ritorno al punto di partenza, ossia alla fuga, in quanto una lite sfociata in un incidente stradale fa sì che le forze dell’ordine scoprano che la donna non ha con sé i documenti: nel corso del viaggio verso Firenze (e poi, come si apprende dalle parole di un poliziotto, verso il rimpatrio), Vesna fugge tra le automobili e i tir che sfrecciano sull’autostrada

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causando un incidente e perdendo la vita sotto un camion, salvo poi apparire intenta a correre tra i boschi che costeggiano l’autostrada, apparentemente in fuga anche dopo la morte.

Il film mostra per intero il percorso che porta la giovane straniera alla prostituzione, mostrando i rifiuti iniziali agli uomini che vorrebbero possederla e l’improvvisa decisione di intraprendere tale strada: è infatti lei ad avvicinarsi ad un automobilista proponendogli di avere un rapporto sessuale e indicando il prezzo di tale prestazione, ed è in seguito alle trattative per avere una camera in un albergo che scopre qual è il luogo in cui le donne si recano in cerca di clienti. Vesna nasconde la terribile realtà della sua vita italiana nelle lettere che invia in Repubblica Ceca, missive in cui racconta di aver trovato un buon lavoro in un negozio di abbigliamento e che se per lo spettatore stridono con la durezza delle immagini delle donne in attesa e delle automobili in fila che avanzano lentamente (il contenuto delle lettere è veicolato allo spettatore attraverso la voce over della protagonista in italiano, espediente che lo avvicina al personaggio ma che è in contrasto con le prime scene del film, quelle in cui le donne parlano tra di loro in ceco e i dialoghi sono sottotitolati), sembrano però creare una realtà altra per la protagonista: infatti sembra che Vesna, attraverso le menzogne scritte e inviate a casa, trovi consolazione alla sua condizione.

Nel corso della narrazione, la protagonista si trova ad avere a che fare quasi esclusivamente con personaggi maschili, quasi a sottolineare la condizione di pericolosa solitudine in cui si trova, una condizione in cui ogni uomo è un potenziale cliente e dunque un possibile pericolo, e in cui l’unico rapporto solidale è quello con un’altra ragazza che si prostituisce, anche se questa compare solo poche scene ed è proprio la sua presenza a distruggere le illusioni di Antonio, determinando l’arresto e la fuga conclusiva di Vesna.

La solidarietà tra le due donne è esemplificata dal gesto dell’altra di dare la sua sciarpa a Vesna, un atto che nella condizione di povertà estrema in cui verte la giovane nella prima parte del film assume una valenza molto forte in termini di

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considerazione per l’altro da sé, tanto che la protagonista restituirà il capo alla proprietaria.

Ad esclusione delle scene appena descritte, e alla breve sequenza ambientata nel negozio in cui Vesna acquista alcuni capi d’abbigliamento, il corollario di personaggi che la circonda è esclusivamente maschile: dalle persone che le offrono passaggi in auto nel corso del viaggio tra Trieste e Rimini ai baristi che incontra nei locali in cui non può permettersi di mangiare, dal gestore dell’albergo che fissa i termini della sua permanenza agli amici di Antonio che la accolgono e la curano, l’universo narrativo del film non prevede la presenza di personaggi femminili rilevanti nella relazione con la protagonista, enfatizzandone quindi la solitudine e la condizione precaria; è interessante notare i termini con cui tali personaggi, anche quelli per così dire positivi, si approcciano a Vesna. Per costoro, la condizione di necessità della donna ne fa prima di tutto un soggetto debole e quindi sfruttabile, e solo in un secondo tempo un essere umano in difficoltà.

Ci sono almeno due esempi a dimostrarlo: in primo luogo l’approccio del personaggio interpretato da Silvio Orlando, il quale offre ospitalità alla ragazza dopo averla incontrata in un caffè ma immediatamente dopo la approccia sessualmente, e neanche di fronte alla richiesta di soldi accenna a desistere.

È vero che di fronte al rifiuto egli pare riaversi e realizzare di avere di fronte a sé una persona e non un oggetto, ma di fatto l’approccio istintivo è quello di approfittare di una condizione di bisogno, un atteggiamento riscontrabile in diversi altri prodotti filmici9 e nel contesto sociale italiano emerso fin dalle prime ondate migratorie: il migrante è sovente visto come altro da sé, diverso perché inferiore e quindi non completamente umano, di conseguenza sfruttabile senza

9 _ Si vedrà ad esempio ripetersi, tra gli altri, in La sconosciuta di Giuseppe Tornatore e ne

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rimorso.

Tali rigurgiti di ideologia coloniale emergono anche in produzioni cinematografiche italiane non inerenti alla questione dello straniero di sesso femminile, ad esempio in Pummarò di Michele Placido o ne Lamerica di Gianni Amelio, film quest’ultimo in cui lo sfruttamento avviene al di fuori dei confini nazionali e che quindi assume caratteristiche coloniali, trasposte nell’epoca capitalista.

Il secondo esempio di pretesa subalternità della straniera in difficoltà emerge nel rapporto tra Vesna e Antonio, un rapporto che pur assumendo alcune caratteristiche delle relazioni amorose, ha inizio proprio con un sordido rapporto sessuale tra prostituta e cliente.

Lo spettatore simpatizza per il personaggio maschile in questione, riconoscendone l’umanità anche attraverso il sorriso stupito di Vesna quando egli le si presenta stringendole la mano, ma nella scena successiva il volto della donna si è fatto assente, e l’uomo è inquadrato solo in quanto corpo intento a sfogare i propri istinti sessuali su di lei.

Le caratteristiche del personaggio di Antonio sono ambigue e a tratti stridenti tra loro, come si evince dall’invito a cena che fa alla donna con cui ha appena avuto un rapporto sessuale a pagamento.

Il ristorante scelto è una specie di circolo di sinistra, con tanto di “insalata comunista” nel menu e immagini di Che Guevara alle pareti, ma il patetismo espresso dal personaggio nei dialoghi, in particolare nell’affermare di non ritenere che la vita di Vesna sia semplice, riporta ad un rapporto di pretesa subalternità: l’uomo italiano sfrutta la donna straniera, quindi la sfama e si dispiace della sua condizione di sfruttata, portando alla luce alcune delle profonde contraddizioni insite nel tessuto sociale italiano e riscontrabili nelle insufficienti e spesso insensate leggi che puniscono la schiava ma non, per usare un termine particolarmente attuale, “l’utilizzatore finale”.

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di quello che può essere considerato uno dei punti di svolta narrativi, ossia il ferimento della protagonista per mano di un criminale (anch’egli straniero) che la deruba dei soldi e del passaporto e che, quando lei tenta di fuggire, la accoltella lasciandola agonizzante in un’area isolata: la scena successiva mostra la ragazza, ferita e sanguinante, aggirarsi per il ristorante in cui Antonio l’aveva portata per cercare un aiuto nell’uomo che è stato sì un cliente, ma che ha mostrato una certa, strana empatia per la sua situazione; infatti egli la soccorre, e di fronte al rifiuto di essere trasportata in ospedale riesce a farla curare nella propria abitazione.

Il ferimento di Vesna permette l’introduzione nella narrazione di alcuni personaggi secondari che lavorano con Antonio, molti dei quali sono stranieri. Tale presenza fa sì che il film rifletta alcune caratteristiche della società rappresentata che si sono poi consolidate con il passare degli anni e l’aumento dei flussi migratori, infatti lo spazio filmico è occupato da rappresentazioni degli stranieri che spaziano dal delinquente al muratore alla prostituta, componendo così un affresco abbastanza realistico della realtà rappresentata.

Nonostante l’inserimento di Vesna nella vita di Antonio e le scene che li ritraggono felici e intenti a chiudere simbolicamente la vita di prostituzione della donna, portando via i suoi effetti personali dall’albergo in cui risiedeva in precedenza, il destino della protagonista pare segnato dall’incapacità dell’uomo di considerarla altro che una ex prostituta: saranno proprio la sua rabbia e la sua l’insofferenza a scatenare gli eventi che ne determineranno la morte.

In questi termini, il corpo di Vesna come rappresentazione della migrante donna rende esplicita la pericolosità che vi pare insita.

La sua presenza è infatti tollerata finché può essere controllata attraverso l’abuso mascherato da transazione economica, la subordinazione sociale di cui è oggetto è necessaria alla sua sopravvivenza, o in alternativa lo diviene l’assoggettamento ad un corpo maschile, poiché in assenza di queste condizioni, la disparità dovuta alle differenze etniche ed economiche ne rende impossibile l’esistenza.

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Oltre a questi elementi, il racconto filmico sembra sottolineare l’impossibilità di successo di una relazione amorosa tra la donna straniera e l’uomo italiano, una tendenza comune a diverse produzioni cinematografiche di quegli anni10 che pur indagando il nuovo assetto sociale e i cambiamenti in atto, sembrano incapaci di rappresentare la normalizzazione del trauma del cambiamento.

Questo approccio emerge anche dalla visibilità ambigua del corpo di Vesna, il quale dapprima è invisibile agli occhi del mondo che la circonda se non a quelli dei suoi clienti, e che diventa visibile solo quando problematico, ovvero quando Antonio causa un incidente d’auto ed entrambi finiscono in una questura. Costretti a vedere la donna in quanto immigrata irregolare, i poliziotti devono applicare la legge (anche se l’omissione dell’ebbrezza di Antonio al momento dell’incidente sottolinea la disparità tra italiano e straniero: il connazionale viene aiutato, mentre per la straniera non c’è possibilità di scampo).

Il Paese di origine emerge attraverso cifre narrative e stilistiche che si ripeteranno nelle produzioni successive, ovvero attraverso i rapporti epistolari che intercorrono tra la protagonista e gli affetti ormai lontani, anche se come si è già detto, la distanza e il senso di nostalgia vengono parzialmente smorzati dalla voce che legge tali missive, perché la lingua utilizzata è l’italiano e non il ceco. Inoltre, la morte del connazionale di Vesna nell’incidente autostradale sembra rappresentare una sorta di presagio mortifero per la ragazza, che in effetti perderà la vita nello stesso modo, e pare anche veicolare un messaggio pessimistico circa la sopravvivenza degli stranieri in Italia.

Essi sembrano destinati ad incontrare una fine tragica, a non avere possibilità nell’Italia degli anni Novanta, un Paese forse ancora impreparato ad affrontare e gestire i flussi migratori che dall’Est Europa e dai Paesi del Mediterraneo

10 _ Si vedano ad esempio Il metronotte di Francesco Calogero (1999) o Saimir di Francesco Munzi (2004)

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meridionale sarebbero presti divenuti una costante e, in alcuni casi, un’emergenza.

Il film di Mazzacurati inaugura un filone cinematografico, quello della rappresentazione della straniera errante che esiste al di fuori della legge pur essendo parte del sistema economico italiano, che venne sviluppato negli anni successivi e indagato attraverso approcci differenti.

Come si avrà modo di considerare, molti film incentrati sugli stessi argomenti veicolano un messaggio pessimistico e fortemente critico delle contraddizioni insite al sistema giuridico italiano e della società stessa, colpevole di sfruttare i soggetti deboli come le immigrate donne ma di rifiutare di vederle se non quando esse interferiscono con l’ordine costituito, sia anche solo iniziando una relazione con un uomo italiano.

Il soggetto maschio italiano, da parte sua, sembra antropologicamente incapace di sviluppare un’empatia sufficiente a comprendere le motivazioni che spingono la straniera a prostituirsi, a capire la povertà, lo sradicamento e lo straniamento di fronte ad una realtà che pare accettarla solo in quanto bene di consumo.

Per Antonio, che addossa a se stesso il ruolo di salvatore della ragazza, il fine ultimo è strappare Vesna al mondo della prostituzione, non in quanto sbagliato in sé (egli conosce la ragazza proprio in quanto cliente), ma poiché in contrasto con l’amore possessivo che egli prova per lei e che la fa diventare una specie di prigioniera; finché Vesna è ferita e necessita cure, le è impossibile lasciare l’abitazione dell’uomo e di conseguenza non può esercitare la sua professione, ma non appena il passato recente della ragazza torna a presentarsi attraverso l’incontro con la prostituta che le aveva prestato la sciarpa, la paura di Antonio diviene rabbia e disprezzo e la sua incapacità di comprendere e di accettare tale passato si fa manifesta, fino alle estreme conseguenze.

Che la donna sia oggetto di sguardi prevalentemente maschili è evidente fin dalla preminenza di personaggi uomini nel corso di tutta la narrazione, ma questa peculiarità viene enfatizzata dalle lunghe soggettive di Antonio, che mentre

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lavora sul tetto di un edificio si incanta a guardarla mentre balla sulla terrazza della propria abitazione.

Vesna è ignara dello sguardo maschile che la osserva finché un amico dell’uomo non glielo indica, facendole restituire lo sguardo.

Le donne dell’Est sono state spesso le protagoniste di film italiani degli anni successivi, finché il recente incremento di persone provenienti dall’Asia non ha permesso l’indagine dell’incontro di realtà ancora più distanti tra loro.

Il finale irrealistico del film, con l’immagine di Vesna che corre tra gli alberi che costeggiano l’autostrada, non è affatto consolatorio poiché l’esistenza in fuga della ragazza pare destinata ad essere tale anche dopo la morte.

Il distacco dalla propria terra di origine e la non-esistenza che è costretta a vivere in un Paese straniero sembrano perseguitarla e impedirle di riposare in pace, ma con il passare degli anni e con i mutamenti del tessuto sociale dovuti all’integrazione e alla presenza degli stranieri “di seconda generazione”, ossia i nati in Italia da genitori stranieri, la presenza delle donne immigrate nei film si farà meno tragica, e la possibilità di una salvezza si farà più frequente.

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La sconosciuta (Giuseppe Tornatore 2006)

Nel 2005, due anni prima dell’uscita in sale del film La sconosciuta di Giuseppe Tornatore, l’immigrazione femminile in Italia contava un 44,2 % di soggetti provenienti dai paesi dell’Est Europa, e due su tre donne lavoravano come collaboratrici domestiche11.

Nel 2012, la Caritas ha rilevato che l’80% degli immigrati provenienti dall’Ucraina sono di sesso femminile, individuando la causa di una simile sproporzione nell’esistenza, nella loro madrepatria, di agenzie turistiche che fin dagli anni Novanta si occupano di fornire visti turistici ed eventualmente, posti di lavoro presso le abitazioni italiane, mentre per gli uomini ucraini la destinazione più comune è la Russia; lo stesso studio evidenzia la pratica non infrequente di garantire l’ingresso delle donne ucraine in Italia promettendo lavori in regola (anche se sottopagati rispetto alle promesse iniziali) per poi convogliarle nel mercato nero dello sfruttamento della prostituzione12.

Altri studi identificano nelle donne in età fertile la fascia maggiormente interessata dallo sfruttamento sessuale, un dato che messo in rapporto al film di Tornatore del 2007 ne rivela la pregnanza sociale, e indica che l’opera filmica mostra la realtà italiana almeno quanto fa con quella dell’immigrazione femminile, costituendo un corollario di personaggi secondari che presentano i tratti dei possibili approcci al fenomeno, dallo sfruttamento per fini economici del protettore a quello per scopi sessuali o riproduttivi dei clienti, dal “pizzo” richiesto dal portiere in cambio di un posto di lavoro al sospetto mai sopito della

11 _ Fonte: http://www.inps.it/news/Il_lavoro_femminile_immigrato.pdf

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datrice di lavoro, fino all’atteggiamento privo di pregiudizi razziali del marito di quest’ultima.

Quindi si può pensare che al di là della storia della sconosciuta, il regista abbia voluto raccontare i diversi atteggiamenti della società italiana nell’affrontare le ondate migratorie, e in seguito si vedrà con quali modalità.

L’approccio di Tornatore al tema dell’immigrazione avviene attraverso un film che affronta la questione utilizzando cifre stilistiche e narrative molto differenti rispetto all’approccio di tipo realista e vicino al documentario tipico di altri cineasti, ibridando generi cinematografici come il noir, il poliziesco e il melodramma.

Il film affronta la storia di Irena, donna ucraina che si trasferisce in una città del nord est dell’Italia portando con sé inquietanti ricordi che spezzano il continuum narrativo sotto forma di flashback dai contorni quasi onirici che mostrano episodi di inaudita e inenarrabile violenza; questi inserti intervengono nella struttura del film come contrappunto di eventi che capitano alla protagonista (l’attrice russa Ksenia Rappoport) nel corso della vita quotidiana, lasciando intendere allo spettatore che essi siano reminiscenze della memoria che rimandano a un trauma che poco a poco prende forma, soprattutto con la messa a fuoco dell’aguzzino, l’inquietante Muffa (Michele Placido).

Il film procede in modo tale da non permettere allo spettatore di avere una comprensione parziale degli eventi, mostrando in modo sincopato e spesso fuori fuoco, o eccessivamente vicine e quindi ugualmente incomprensibili le sequenze delle violenze e in generale della vita precedente di Irena, ma lascia all’oscuro riguardo le intenzioni del personaggio, i motivi per cui fa di tutto per avvicinarsi alla ricca famiglia Adacher arrivando a ferire gravemente la domestica pur di prenderne il posto.

In alcuni casi le immagini suggeriscono alcune risposte, ma il quadro completo non arriva che alla fine del film, quando è la stessa “sconosciuta” a ricomporre il racconto di fronte agli inquirenti.

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Il film venne nominato agli Academy Awards come miglior film straniero ma non vinse, probabilmente perché si allontana troppo dalle atmosfere nostalgiche alla

Nuovo Cinema Paradiso amate dal pubblico statunitense13 per indagare una realtà scomoda e forse troppo attuale, quella del mercato delle schiave del sesso e quello dei neonati, operazione che non permette di riconoscere innocenti.

Ognuno sfrutta la straniera a suo modo, chi imponendole di prostituirsi, chi scegliendo tra le prostitute la madre del proprio figlio, finanche il portiere che chiede (e ottiene) una percentuale dello stipendio della protagonista in cambio del posto di lavoro: ad ogni livello si manifestano tipi diversi di sfruttamento, di sopruso.

Fin dalle prime inquadrature lo spettatore viene immerso in un mondo fatiscente e disturbante, fatto di voyeurismi e di donne in biancheria intima dal volto coperto da maschere.

Non sappiamo quale sia il motivo di tale esposizione dei corpi, supponiamo riguardi la mercificazione del sesso ma solo alla fine il vaso di Pandora delle “madri in affitto” viene scoperchiato, mostrando non solo l’orrore di tale pratica, ma anche il dolore di una madre a cui è stato strappato il figlio appena nato e i cui seni bagnano la camicia di latte sottolineando il senso di perdita.

La narrazione al tempo presente ha inizio subito dopo questa scena, con Irena (che presumiamo stesse ricordando) in viaggio su un autobus, la testa appoggiata al finestrino sulla cui superficie si intravede il riflesso della donna, il primo di molte inquadrature simili che sottolineano la doppiezza (l’apparenza e le intenzioni) e forse le due vite della stessa, quella precedente al tentato omicidio di Muffa e quella successiva.

L’universo filmico è fatto di silenzi, di lunghe inquadrature contemplative e di

13 _ V.J. Nathan, Nuovo Cinema Infermo: The affect of ambivalence in Giuseppe Tornatore’s La

sconosciuta, in G.Russo Bullaro (a cura di), From Terrone to Extracomunitario: New Manifestations of Racism in Contemporary Italian Cinema, Leicester, Troubador Publishing Ltd, 2010, p.266

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dettagli e primi piani contrapposti a campi medi e a totali geometricamente equilibrati all’interno dei quali i personaggi si muovono come fossero all’interno di un girone infernale in cui l’atmosfera sembra carica di elettricità e pronta ad esplodere come accade, ad esempio, nella sequenza della brutale aggressione di Irena ad opera di due scagnozzi di Muffa travestiti da Babbo Natale; la pulsione scopica riguarda sia gli abusanti della protagonista che Irena stessa, che affitta un appartamento di fronte all’abitazione degli Adacher e li osserva finché la sua datrice di lavoro (Claudia Gerini) la scopre, restituendo lo sguardo.

Prima di procedere con l’approfondimento dei modi utilizzati da Tornatore per rappresentare la donna straniera nel film, è interessante ricordare che non solo il soggetto dell’opera fu mantenuto segreto fino all’uscita nelle sale, ma anche che la scelta di affidare il ruolo di protagonista a un’attrice molto conosciuta in Russia, ma assolutamente sconosciuta in Italia e di affiancarle volti conosciuti dalla larga maggioranza del pubblico italiano (Placido, Gerini, Buy, Favino, Haber) non permette allo spettatore di decodificare le azioni del personaggio principale, essendo impossibile associarlo a ruoli precedentemente ricoperti in altre produzioni14:

Questa specie di ribaltamento dei meccanismi divistici rende Irena una sconosciuta non solo per i personaggi che la circondano, ma anche per lo spettatore del film, con il quale diventa possibile instaurare un rapporto dialettico fondato sulla svelamento progressivo dei misteri che circondano la donna e che porta alla fine al cambiamento di focalizzazione, che da esterna diventa interna. Il film agisce come svelamento di una realtà sommersa, o meglio di un mondo ben visibile nelle città italiane ma forse volutamente ignorato dai più, e sulla problematica di genere a più livelli affiancando la prostituzione, la maternità come business, l’omicidio dell’aguzzino a temi meno tragici come il rapporto tra

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la protagonista e la domestica Gina e con la piccola Tea, fino alla difficile relazione (che sembra quasi un percorso a ostacoli, o una prova perpetua) con la madre adottiva di Tea che rende esplicite le problematiche che sovente si riscontrano nelle relazioni tra italiani e immigrati: il sospetto, la sfiducia mascherata, la velocità nel trarre conclusioni anche se non si può negare che al personaggio in questione vengono dati seri motivi per sospettare di Irena, e che sarà proprio lei a pagare il prezzo più alto dopo l’arrivo nella narrazione al tempo presente di Muffa, sorta di fantasma del passato che si insinua, distruggendola, nell’imperscrutabile esistenza della sua schiava ribelle; allo stesso tempo però, i corpi dei personaggi femminili subiscono in alcune scene un’esposizione quasi gratuita della loro nudità: come accade quando i personaggi della Gerini e della Rappoport dividono la scena ambientata nel bagno della casa di campagna degli Adacher, occasione in cui il nudo frontale della Gerini è assolutamente superfluo all’azione, o quando il seno nudo della Rappoport viene inquadrato durante la scena d’amore con il personaggio del suo amante successivamente ucciso.

È vero che, come sostiene Nathan, la fisicità di Irena quasi trascende dall’universo filmico (si pensi all’inquadratura in cui siede sul letto piangente mentre i seni gonfi di latte materno emergono dalla camicia da notte, simbolo del terribile abuso a cui è stata sottoposta), e che i frequenti flashback delle violenze subite non avrebbero la stessa carica visiva se non si intuisse la fragilità e la deturpazione delle carni, ma l’atto di mostrare i corpi nudi delle due attrici in scene in cui la nudità non pare necessaria toglie forza a quelle altre in cui essa è simbolo di fragilità e di sottomissione, e sembra rifare il verso ai film che «si riempiono di spogliarelli col pretesto del documentario sociologico15»; alla nudità fragile e offesa della sconosciuta si contrappone quella quasi demoniaca dello sfruttatore creduto morto, Muffa, il cui corpo glabro e lucido, quasi

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riflettente, unito all’apparente immortalità e ubiquità ne fanno una creatura notturna e crudele in un ambiente dai tratti onirici (nell’inquadratura in cui si introduce in casa di Irena, la macchina da presa inquadra prima la sua ombra sul soffitto e solo successivamente scende per mostrare l’aggressione).

Il corpo trasfigurato e possente di Michele Placido si pone quindi in contrasto con quello abusato della donna, il volto reso quasi inespressivo dall’assenza di sopracciglia rende ancora più tragico ed espressivo quello di Ksenia Rappoport, i cui tormenti silenziosi sembrano emergere nei frequenti primi piani.

Tornatore segna il cambiamento di Irena da schiava di Muffa a donna in cerca dell’ultima figlia strappatale subito dopo il parto costruendo un’immagine che rimanda alla visione stereotipata della prostituta dell’est Europa: dai capelli ossigenati al trucco agli indumenti, i flashback relativi al periodo precedente alla

fuga mostrano un personaggio aderente all’immagine che persiste

nell’immaginario collettivo fin dall’arrivo sulle strade delle grandi città italiane delle donne che sono il modello di riferimento per il personaggio; al contrario, fin dalla prima inquadratura che restituisce l’immagine della donna sull’autobus si notano i capelli scuri e ricci che diventeranno uno degli elementi visivi che suggeriscono allo spettatore la possibile parentela tra la donna e Tea Adacher, gli abiti dai toni desaturati e scuri e il volto struccato, un’immagine che non impedirà al custode del palazzo di innamorarsene e di tentare un approccio ben poco romantico.

Un aspetto importante del film di Tornatore è la modalità con cui l’appartenenza della protagonista ad un paese estero viene assorbita e mostrata sullo schermo: l’Ucraina emerge solo nella filastrocca che Irena canta alla piccola Tea per farla addormentare, mentre rimane assente nel resto del film, poiché in effetti la nazionalità della “sconosciuta” non è fondamentale, il suo essere soggetto debole nella società italiana deriva dall’essere straniera, non ucraina, com’è evidente dalla sequenza ambientata, dopo l’infortunio della governante Gina, sulle scale dell’elegante palazzo in cui vivono gli Adacher: Irena e altre donne attendono in

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piedi, immobili e silenziose su gradini posti ad altezze diverse, mentre la padrona di casa sceglie quale di queste donne (alcune delle quali sono africane, a sottolineare la natura straniera del gruppo) debba sostituire Gina.

La composizione dell’inquadratura suggerisce un richiamo alla scena iniziale del film, quella in cui un occhio privo di corporeità guarda e sceglie la futura madre del proprio figlio, e quindi insiste sui diversi tipi di sfruttamento cui sono sottoposte le donne straniere: naturalmente, Valeria Adacher sceglierà Irena, che sarà quindi costretta a consegnare una percentuale di guadagni sempre più alta al custode del palazzo (Alessandro Haber).

D’altra parte però, è significativo che la protagonista arrivi da un Paese da cui, secondo i rilevamenti Istat dello scorso anno16, si muovono verso l’Italia più donne che uomini, come accade anche per la Moldavia, la Polonia, il Perù, insomma per quei Paesi le cui migranti sono in effetti legate nell’immaginario collettivo all’idea della domestica o della badante; come sottolinea Alberta Giorgi, « For the increasing presence of migrant women – characterized by a high degree of internal differences in terms of migratory experience and legal status – triggered an increasing interest from the media and, slowly, feminine migration began to be visible even in the press, modifying the predominant representation of migration as an essentially male process17» e da questa prospettiva, il film di Tornatore sembra riassumere nel suo racconto questo processo avvenuto su scala nazionale: all’inizio Irena viene scoraggiata dal cercare un impiego nella città fittizia in cui arriva in virtù del suo essere straniera, ma anche se la sua assunzione in casa Adacher avviene in seguito a un atto di

16 _ http://noi-italia.istat.it

17 _ A.Giorgi, The Cultural Construction of Migrant Women in the Italian Press, e-cadernos CES, 16, 2012, pp.68-69

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violenza compiuto sulla domestica Gina, nel corso del film la sua presenza tra le mura dell’elegante appartamento diventa sempre più “normale”, finché anche i limiti posti in principio da Valeria Adacher si spostano (Irena viene ammessa nello studio orafo in cui in principio le era stato proibito accedere) per poi venire ristabiliti appena la presenza della donna diventa oggetto di sospetto, quindi di pericolo e il personaggio di Valeria preferisce allontanarla, rifiutando di indagare i fatti e relegandola quindi al ruolo originale di sottoposta, di diversa, di sconosciuta appunto.

La linea narrativa che riguarda l’inserimento di Irena nella famiglia Adacher e l’evoluzione del suo rapporto con Tea si svolge seguendo abbastanza fedelmente gli elementi tipici del melodramma, ma al suo interno le continue ricerche di “qualcosa” nell’abitazione della famiglia fa cadere ombre minacciose sul normalizzante e consolatorio inserimento della donna tra gli affetti dei suoi datori di lavoro: Tornatore ha eliminato in partenza la possibilità di aderire a una forma mentis di matrice razzista mostrando Irena che, trovata e aperta la cassaforte, trova dei gioielli evidentemente molto di valore ma è evidente che non le interessano, infatti li ignora per continuare la sua ricerca di documenti che effettivamente trova, ma che l’ostinata narrazione in focalizzazione esterna non svela; si può quindi osservare che i crimini comunemente legati a una visione razzista delle lavoratrici domestiche straniere in Italia, ossia i furti nelle abitazioni dei datori di lavoro, vengono rimpiazzati da un altro tipo di crimine che però lo spettatore tollera e anzi quasi incoraggia: il tentato omicidio dello sfruttatore e il furto dei suoi soldi.

La decisione di uccidere Muffa matura in Irena a seguito dell’ultimo figlio strappatole, un figlio nato da una relazione d’amore con lo scaricatore Nello, la scoperta dell’uccisione di Nello e del cognome della famiglia che ha adottato il neonato e la consapevolezza che Muffa vuole sbarazzarsi di lei; ciononostante, con il ritorno dell’aguzzino sulla scena è lei stessa a convincersi di aver commesso un errore non a ucciderlo, ma a «credere che per una come me, alla

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fine dei conti poteva esserci ancora un futuro, quella è stata la mia colpa più grande... Solo per questo mi merito di morire».

“Una come me”, un concetto che affonda nello sfruttamento, nell’indifferenza sociale che ammanta le donne invisibili che lavorano sulle strade, nella criminalità violenta e nella violenza quotidiana perpetrata dai clienti, nell’impossibilità di procreare dopo nove gravidanze portate a termine “su commissione” nel corso di dodici anni (un flashback mostra la donna in uno studio medico mentre il dottore le comunica che non potrà più avere figli) e infine, nell’essere finalmente conosciuta solo quando la tragedia della sua esistenza coinvolge la donna benestante italiana, decretandone la morte per mano di Muffa: allora il sistema la vede, la interroga e lascia che la sua storia emerga sciogliendo l’intreccio e permettendo al pubblico, che fino a quel momento conosce solo la superficie e non le motivazioni, di capire.

La sepoltura sotto terra di elementi importanti nell’economia della storia è frequente e riguarda principalmente il personaggio di Irena e le vicissitudini antecedenti all’arrivo in casa Adacher, ma successivamente emergono anche nella narrazione al tempo presente: la donna infatti nasconde i soldi sottratti a Muffa dopo il tentato omicidio in un vaso pieno di terra, porta Muffa stesso in campagna convincendolo di averli invece nascosti sottoterra e infine lo uccide, nascondendo il cadavere in una buca.

Ciò che viene nascosto nella terra si contrappone a ciò che invece viene svelato allo stesso modo, dal cadavere dell’amato Nello rinvenuto da Irena scavando tra i rifiuti in una discarica a quello di Muffa che permette lo svelamento davanti alle forze dell’ordine della storia carica di orrore della donna.

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L’amico di famiglia (Paolo Sorrentino, 2006)

La produzione cinematografica recente all’interno della quale è presente la figura dello straniero migrante, e in particolare della donna immigrata, presenta una casistica differenziata sia nei metodi di rappresentazione che nella preminenza dei ruoli che tali personaggi occupano nell’universo filmico: nello stesso anno in cui Tornatore faceva di Irena il personaggio principale de La sconosciuta (2006) , in un altro film d’autore italiano la figura della migrante (o meglio, come si vedrà in seguito, delle migranti) occupa uno spazio narrativo decisamente minore, di contorno, ma comunque rilevante nell’ambito dell’analisi di questi personaggi. Nel film di Paolo Sorrentino L’amico di famiglia viene costruito un universo tanto realistico da apparire surreale, o meglio le vicende narrate hanno come protagonisti personaggi tanto grotteschi quanto reali, possibili:

«è una commedia grottesca perfettamente all’italiana, perché rielabora deformandoli quelli che sono i “tipi comuni” della consapevolezza sociale del momento [...] ma nel nostro caso la maschera non c’è: Geremia è orrido e viscido non perché lo disegnano così. Si ride di meno, quindi, o non si ride affatto, perché lui e i suoi “amici” sono personaggi possibili e non estremi18».

È attraverso questa consapevolezza che si guarderà ai ruoli che qui ci interessano, attraverso una presa di coscienza che riguarda l’intero corpus dei personaggi, principali e non, che come suggerito da Gervasini, nell'articolo appena citato, compongono un’umanità plausibile, non estremizzata e pertanto pregna di valore sociologico e del ruolo di testimone del suo tempo.

Alla giovane straniera Belana è dedicata una delle prime scene del film: il regista introduce questo personaggio seguendo modalità simili a quelle di Tornatore, ossia attraverso l’arrivo nella città in cui si svolgerà l’azione a bordo di un

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autobus che la lascia ad una fermata che presenta tutte le caratteristiche che saranno proprie dell’ambiente in cui si svolgerà l’intero film: come ha osservato Roberto Nepoti su La Repubblica, la città in cui è ambientata l’azione è «una Sabaudia metafisica e trasfigurata come le piazze di De Chirico19» che anche se con metodi espressivi differenti, ricorda la costruzione degli spazi urbani operata proprio da Tornatore ne La sconosciuta nell’imponenza trasfigurata e quasi onirica che accoglie lo svolgimento della storia. Dunque Belana, sola nella notte con al seguito una grossa e pesante valigia, si incammina in un ambiente silenzioso e deserto, salvo essere quasi investita dall’autobus da cui è appena scesa. La macchina da presa inquadra il suo volto spaventato e poi sembra dimenticarsi di lei, che comparirà solo più due volte e sempre in relazione al vero protagonista del film, il grottesco strozzino che i suoi clienti chiamano assurdamente “l’amico di famiglia”.

Le sorti di Belana vengono quindi lasciate in sospeso, nascoste allo sguardo dello spettatore, finché l’usuraio Geremia si reca nei locali di un’agenzia di appuntamenti dove un’imbellettata e imponente donna non gli propone proprio la ragazza, che si scopre essere completamente incapace di comprendere o parlare l’italiano (particolare che sconcerta non poco l’uomo, che in più di un’occasione si vanta di saper conquistare le donne grazie alla sua cultura e che in generale avvolge le sue “vittime” con un linguaggio forbito), ma che si reca comunque nella fatiscente abitazione che l’usuraio divide con l’anziana madre.

È proprio in quella scena che il sogno di benessere che immaginiamo abbia condotto la giovane donna in Italia si infrange contro la realtà quasi disgustosa di un appartamento piccolo e fatiscente, sporco e squallido e arredato miseramente, ed è allora che la sentiamo pronunciare la sua unica battuta, un’unica parola che

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riporta alla mente le decine di servizi televisivi dedicati agli sbarchi sulle coste del sud Italia delle imbarcazioni cariche di uomini e donne in fuga dai loro Paesi: infatti, l’unica parola che Belana pronuncia è “acqua”, salvo poi dileguarsi proprio mentre Geremia si allontana per soddisfare la sua richiesta.

Il ruolo subalterno della giovane donna è enfatizzato fin dalle modalità con cui viene fatta entrare nell’inquadratura nella scena ambientata nell’agenzia matrimoniale, infatti la macchina da presa inizialmente inquadra esclusivamente Geremia e la direttrice mentre sono occupati a discorrere sulla ricerca dell’uomo di una compagna, tanto che solo un movimento di macchina verso il basso svela la presenza di un’altra persona all’interno della stanza.

Il personaggio di Belana è funzionale alla narrazione nei termini in cui anche se sappiamo che non ha familiarità con la lingua italiana, la sua presenza in casa dell’uomo permette all’istanza narrante di veicolare allo spettatore determinate informazioni riguardo la storia di Geremia e le motivazioni di alcuni aspetti precedentemente non spiegati, come la fascia con le fette di patata crude che egli si applica intorno al capo per scongiurare le emicranie; la donna diventa portatrice dello sguardo attraverso le soggettive che mostrano l’abitazione e che determinano uno stridore tra le architetture ordinate e monumentali inquadrate nella scena precedente, enfatizzando le condizioni fatiscenti dell’interno di cui Geremia stesso diventa chaperon, infatti la descrizione verbale degli ambienti ha inizio attraverso uno sguardo in macchina della ragazza che determina una sovrapposizione tra lo sguardo di Belana e quello dello spettatore.

Belana tornerà inquadrata solo un’altra volta, oggetto dello sguardo di Geremia che la scorge intenta a baciare delicatamente le labbra di un anziano seduto su una sedia a rotelle, quasi angelica attraverso lo sguardo di un uomo brutto e abbruttito che pare intravedere per un istante ciò che avrebbe potuto avere se la ragazza non fosse scappata da casa sua, e che sembra trasfigurare quel volto fino a fargli assumere contorni angelici che, a ben guardare, si contrappongono alla bellezza convenzionale ma cupa della femme fatale del film, la sposina

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interpretata da Laura Chiatti.

Rispetto ad Irena, la protagonista del film di Tornatore, Belana è apparentemente slegata dalle logiche criminali di cui una parte delle straniere presenti in Italia è vittima: ma questa è una condizione appunto apparente, perché anche se tutelata da un’agenzia regolare per cuori solitari, a ben guardare si configura come una versione socialmente accettabile e non violenta dello sfruttamento operato dai personaggi come Muffa, lo sfruttatore de La sconosciuta: come altro definire un’organizzazione che fa entrare in Italia giovani donne per “sistemarle” con uomini locali? Lo sfruttamento del corpo femminile passa anche attraverso queste pratiche, e l’impossibilità di Geremia e Belana di comunicare rende la transazione ancora più sordida ma, dall’altra parte, mostra l’usuraio e la sua abitazione con toni ancora più forti perché questi due elementi appaiono davanti alla ragazza in tutto il loro orrore e il loro lerciume proprio perché l’impossibilità di comprendere ciò che l’uomo le sta dicendo rende l’esperienza esclusivamente visiva, non normalizzata dalle spiegazioni, impossibile da addolcire.

La storia di Belana, anche se marginale rispetto alle vicende che coinvolgono i personaggi principali, è auto-conclusa e potrebbe, a voler forzare un po’ la mano, divenire la vicenda principale se si decidesse per assurdo di ribaltare i ruoli e relegare Geremia e tutta la sua corte dei miracoli in secondo piano: in tal caso, il racconto riguarderebbe la disillusione di una giovane convinta di giungere in un paese più benestante del suo per migliorare la propria condizione, salvo poi dover “aggiustare il tiro” rifiutando l’uomo ripugnante che le viene proposto e divenendo in seguito una badante (anche l’aspetto dimesso cambia, infatti l’ultima volta che viene inquadrata indossa un completo rosso e i capelli sono sciolti); invece, nell’universo filmico a cui appartiene, il ruolo della donna assume contorni agrodolci proprio perché l’ultima volta che viene mostrata, avviene attraverso una soggettiva di Geremia che in qualche modo sfuma i contorni del sogno infranto per rendere Belana una sorta di occasione mancata, di promessa d’amore ormai lontana. In questo senso, Geremia è simile al portiere

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interpretato da Alessandro Haber nel film di Tornatore perché per entrambi, sfruttamento e sentimenti convivono nelle relazioni che tentano di instaurare con le donne straniere, che in virtù della loro condizione di debolezza e di bisogno vengono oggettivate, scatenando nei due uomini rigurgiti di maschilismo (che però in Geremia si faranno concreti nelle terribili sequenze dedicate al “pagamento” della sposina del debito contratto dai propri genitori).

In sostanza, nel cinema l’uomo italiano attratto dalla donna straniera sembra essere essenzialmente incapace di relazionarsi con lei senza esibire la propria presunta superiorità, il suo ruolo dominante, o meglio senza decostruire la donna rendendola inferiore, sottomessa; se questa tendenza è evidente anche nelle commedie contemporanee, quelle che calcano la mano sui regionalismi e presentano un’infinita gamma di macchiette che partono dal settentrionale e vanno dal meridionale fino allo straniero, è nei film come quello di Sorrentino che la patina comica viene rimossa per lasciare intravedere (perché appunto non ci è concesso indagare più a fondo) uno spiraglio di realtà.

A questo proposito, all’interno del film ci sono altre due donne straniere, i cui ruoli sono ancora più marginali di quello di Belana: si tratta delle due prostitute che i finti imprenditori dei sanitari offrono a Geremia come incentivo alla conclusione dell’affare, che vengono inquadrate per una manciata di secondi mentre ammiccano dall’interno di una vasca da bagno colma di schiuma.

A onor del vero, niente a parte la percezione visiva le identifica come straniere: esse non parlano, non hanno un nome, sono “regali” da offrire all’uomo che si sta cercando di truffare (e che rifiuta, convinto di essere perfettamente in grado di conquistare una donna, salvo farsi circuire sempre attraverso il sesso dalla sposina violata); allora come è possibile affermare con certezza che si tratta di straniere?

Non si tratta di fermarsi all’aspetto più superficiale, al binomio straniera/prostituta, anche se questa categorizzazione è presente e forse rientra in quella rappresentazione del reale, del possibile senza maschera di cui si è dato

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conto in precedenza: se una delle due donne ha la pelle nera, ed è quindi facilmente identificabile come migrante dal continente africano, l’immagine dell’altra è talmente stereotipata da presentare alcune somiglianze con i flashback presenti ne La sconosciuta, quelli relativi al passato di schiava della protagonista: infatti, la ragazza in questione ha la pelle molto chiara, i capelli tinti di un biondo paglierino e ha le labbra tinte con un rossetto scarlatto, tutti dettagli che richiamano fortemente l’immagine stereotipata (e perlopiù catodica) della prostituta proveniente dall’est dell’Europa.

Dunque l’usuraio declina l’offerta disgustato, mentre i due imprenditori, dopo uno sguardo complice, decidono di cogliere l’occasione e si incamminano verso la vasca. Questa sequenza richiama vagamente un certo tipo di cinema, quello che viene solitamente chiamato dei “cinepanettoni”, che da situazioni di questo tipo cerca una risposta spettatoriale di tipo complice, ammiccante, da “chi non l’avrebbe fatto”, mentre pur essendo costruita in modo simile, dalle ragazze sorridenti all’occhiata dei due uomini, la medesima situazione diventa ripugnante: sarà per la bellezza un po’ trascurata delle due bagnanti, o forse per l’esasperazione del reale in termini grotteschi che permea l’intero film, ma sia il rifiuto di Geremia che il silenzioso “perché no” degli altri due uomini concorrono in questo senso.

Lo spettatore italiano riconosce quindi i due personaggi come appartenenti alla stessa categoria di Belana, che con le due prostitute condivide il mutismo, una condizione che suggerisce che quel tipo di personaggio non abbia bisogno di parlare, perché quello per le prestazioni che vengono richieste la parola non è necessaria, e in questo modo si accentua la vicinanza tra lo sfruttamento evidente delle due ragazze nella vasca da bagno e quello più subdolo della giovane che viene fatta arrivare in Italia per sposare uno sconosciuto.

La posizione di Geremia rispetto a questi personaggi rivela forse qualcosa sul pensiero sociale del suo tempo riguardo alle donne migranti, perché mentre lui ritiene normale condurre Belana a casa propria nella speranza che voglia restare

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(la donna dell’agenzia matrimoniale allude al fatto che i precedenti incontri tra Geremia e delle donne tramite il suo intervento non siano andati a buon fine, quindi la straniera è una specie di “ultima spiaggia”, di ultima scelta), rifiuta sdegnato l’offerta dei due finti imprenditori, ma solo perché ritiene di non aver bisogno di prestazioni a pagamento: quindi un atteggiamento è giustificato dal protagonista, l’altro è invece stigmatizzato non in quanto sbagliato, ma solo perché lede la vanità dell’uomo.

In questo modo, Sorrentino rielabora e mostra una realtà che non è figlia dei movimenti migratori dell’ultimo ventennio, ma che affonda le radici nella considerazione della donna come diversa (in termini svalutativi) dall’uomo: gli sguardi ammiccanti che le due prostitute rivolgono agli uomini sono evidentemente costruiti, falsi, ma scegliendo di mostrare le due donne attraverso lo sguardo maschile, inevitabilmente quei visi sembrano sinceramente allusivi: come a dire, la colpa non è dell’uomo che compra prestazioni sessuali, quanto della donna che le offre.

Anche l’accompagnamento musicale muta improvvisamente nel momento in cui i quattro uomini (Geremia, l’amico Gino e i due finti imprenditori) entrano nella stanza in cui le due donne li attendono: la musica diventa elettronica, commerciale, un tipo di accompagnamento sonoro che richiama alla mente l’ambiente dei night club rappresentato in altri prodotti audiovisivi.

L’immaginario a cui fa riferimento Sorrentino è quindi già codificato, appartiene al tessuto sociale che mette in scena e a quello dello spettatore che, quantomeno per affinità linguistiche, si presume sarà il fruitore della pellicola; sarebbe invece interessante indagare l’effetto ottenuto su uno spettatore non italiano o comunque non abitante in Italia, per comprendere quanto della deriva delle interazioni tra sessi sia effettivamente specifica della realtà italiana, che – a voler usare come metro l’universo diegetico del film – sembra far esistere le schiave del sesso in una realtà atemporale, cristallizzata, parallela a quella che si svolge alla luce del sole: non c’è problematizzazione della questione perché sono i personaggi a non

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