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Knowledge e Management: sono compatibili?

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Academic year: 2021

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UNIVERSITY

OF TRENTO

DEPARTMENT OF INFORMATION AND COMMUNICATION TECHNOLOGY

38050 Povo – Trento (Italy), Via Sommarive 14

http://www.dit.unitn.it

KNOWLEDGE E MANAGEMENT: SONO COMPATIBILI?

Matteo Bonifacio, Paolo Bouquet and Davide Merigliano

2002

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Knowledge e Management: sono compatibili?

Matteo Bonifacio, Università di Trento1

Paolo Bouquet, Dipartimento di Informatica e Telecomunicazioni, Università di Trento Davide Merigliano , Andersen M.B.A S.r.l.

Questo articolo è in corso di pubblicazione su Economia e Management numero 3, 2002.

1. Introduzione

La seconda metà degli anni Novanta ha visto l’emergere, nel mondo del business, di un tema per certi aspetti già affrontato nel mondo accademico: il sapere come oggetto d’analisi nelle organizzazioni economiche. Libri come The Knowledge Creating Company di Nonaka e Takeuchi (1995) o The Fifth

Discipline di Senge (1996) hanno segnato lo “sdoganamento” di questo tema nel mondo del management,

sia attraverso la creazione di un linguaggio manageriale per parlare di conoscenza aziendale (a partire dalla diffusione dell’etichetta “Knowledge Management” o KM) sia, e forse soprattutto, creando una serie di presupposti fondamentali per l’adozione da parte del management di un nuovo approccio alla gestione d’impresa. Questa letteratura compie lo sforzo di semplificare un tema altrimenti astratto e per certi versi ostico, ma ancor di più pone le condizioni per la creazione di tutta quella strumentazione necessaria al manager come i business case , le success stories, i KPI, le metodologie e, perché no, i miti. Tale opportunità viene così raccolta dalle società di consulenza e, in seconda battuta, dai molti produttori di software che iniziano ad offrire strumenti di supporto ai progetti di KM.

Nonostante le previsioni ottimistiche degli analisti e le promesse di performance dei consulenti e dei

software vendors, i sistemi di KM non si sono mostrati all’altezza delle aspettative. Tale considerazione

nasce sia dall’esperienza diretta di consulenti che operano a livello nazionale e internazionale in aziende che hanno realizzato autonomamente, o hanno chiesto ad Andersen e ad altre società di consulenza, di realizzare sistemi di KM, sia dall’osservazione indiretta di casi e analisi proposte durante convegni o in report di soc ietà specializzate. Essa, soprattutto nell’osservazione indiretta, non si sostanzia necessariamente nella dichiarazione di un insuccesso, ma è spesso celata o implicata da altri elementi quali l’impossibilità di dimostrare i benefici o la mancata corrispondenza tra le dichiarazioni di intenti (cambiare il modo di lavorare) e la realtà implementativa (installazione di tecnologie disertate dagli utenti). Obiettivo di questo articolo è di proporre una spiegazione di tale insuccesso e alcuni spunti di riflessione dai quali partire per ripensare il KM.

Nella prima parte cercheremo di delineare i tratti salienti che hanno caratterizzato la genesi del KM inteso non in senso accademico, ma nel suo uso più pragmaticamente manageriale. Tale genesi verrà rintracciata da un lato nel contributo di Nonaka e di una letteratura ad esso strettamente connessa sulla natura

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soggettiva del sapere, dall’altro nell’interpretazione manageriale del tema delle comunità della pratica (Communities of Practice, o CoP). Dalla sintesi di questi due contributi derivano gli elementi che caratterizzano concretamente e tipicamente i sistemi di KM. Nella seconda parte dell’articolo, partendo dalla constatazione del sostanziale insuccesso di molti sistemi di KM, mostreremo come tale insuccesso sia imputabile ad una contraddizione di fondo tra i tradizionali modelli manageriali di controllo (tipicamente centralizzati) e le conseguenze che deriverebbero dall’adozione di un sistema di KM basato su presupposti epistemologici sinceramente soggettivisti (tipicamente distribuiti). Tanto Nonaka quanto l’interpretazione manageriale delle CoP decidono di rimanere coerenti rispetto ai modelli tradizionali di controllo, mantenendo solo alcune suggestioni di un’epistemologia soggettivista2. Alla luce di questa scelta saranno riletti e interpretati quei limiti che, ad oggi, hanno pregiudicato il successo dei sistemi di KM. Per concludere suggeriremo alcuni spunti utili a ripensare il KM sia in senso generale sia, nello specifico, in ambito tecnologico e organizzativo.

2. Genesi e caduta del Knowledge Management

2.1 Il contributo di Nonaka: la suggestione di un’epistemologia soggettivista

Una delle pietre miliari della letteratura manageriale sul KM (Nonaka e Hirotaka, 1995; Nonaka, 1994) pone la questione fondamentale del dualismo epistemologico che permea tutto il dibattito sulla natura della conoscenza. Secondo Nonaka, da un lato c’è un approccio oggettivista – che Nonaka ritiene di matrice tutta occidentale - che vede il sapere come materia generale e astratta e pertanto indipendente dal soggetto conoscitore; dall’altro lato vi è un approccio soggettivista - di matrice tutta orientale - che vede il sapere come materia specifica e concreta, intimamente legata all’esperienza conoscitiva del soggetto. Secondo il primo approccio, sapere significa descrivere un qualche oggetto di conoscenza per come è in sé, indipendentemente dal soggetto, dalle sue credenze, dal suo background culturale e sociale; per il secondo approccio, sapere è descrivere la relazione che si instaura tra un certo soggetto che conosce e l’oggetto di tale conoscenza (da quest’ultimo punto di vista, conoscere significa influenzare ciò che si conosce e, per certi aspetti, “produrre” le condizioni per la sua esistenza). La natura soggettiva del sapere, sebbene in occidente trovi un esteso presidio in campo filosofico nel filone costruttivista (Berger e Luckman, 1966) e nel campo dell’analisi sociale nella prospettiva dell’interazionismo simbolico (Blumer, 1969), e nonostante la sua geniale traduzione in ottica organizzativa proposta da Karl Weick (1979), viene indicata da Nonaka come una conquista tutta orientale sia in senso filosofico (o, più correttamente,

2 In Italiano, il termine epistemologia è oggi usato in due sensi distinti. Nel senso più comune, è usato come

sinonimo di filosofia della scienza (vale a dire di quella branca della filosofia che ha per oggetto lo studio dei problemi posti dal metodo e dal sapere scientifico); nel secondo senso, più vicino all’uso del termine inglese

epistemology, è usato come sinonimo di teoria della conoscenza (vale a dire, lo studio dei limiti e della

giustificazione della conoscenza). In questo articolo, noi lo useremo esclusivamente nel secondo senso, per restare aderenti all’uso che di questo termine fanno gli autori di riferimento nel dominio del Knowledge Management, i cui testi sono per lo più in Inglese. Nel seguito, parleremo diffusamente dell’opposizione tra un’epistemologia oggettivista e un’epistemologia soggettivista; rimandiamo al testo per un chiarimento dei due termini.

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culturale), sia in senso organizzativo attraverso l’esperienza delle aziende giapponesi. In questa chiave, le aziende sono viste come entità di persone che producono continuamente sapere soggettivo (da lui chiamato tacito o implicito) che, se opportunamente esplicitato (e quindi reso nuovamente oggettivo), può produrre miglioramento continuo e innovazione. Il sapere esplicito, infatti, è un sapere astratto (cioè indipendente da un contesto specifico) e generale (cioè applicabile in più contesti). Una volta incorporato in un prodotto o servizio, esso può generare valore attraverso la sua replicazione. L’esempio portato da Nonaka è quello del panettiere che sa fare il pane migliore della città, ma secondo un sapere soggettivo, personale, non codificato; attraverso un processo di affiancamento, tale sapere può essere reso indipendente dal soggetto (il pa nettiere) e reso applicabile a diversi contesti (il processo di produzione del pane) attraverso una sua codificazione all’interno di un prodotto (una macchina).

Questa impostazione consente a Nonaka di soddisfare un requisito fondamentale per attrarre l’interesse del mondo manageriale. Infatti, un manager difficilmente accetterebbe l’idea di un mondo in cui non solo tutto è soggettivo, ma non vi è neanche un modo di ricondurre le cose all’oggettività. Infatti, almeno apparentemente, l’oggettività sta alla base di un principio economico fondamentale: la replicabilità. La replicabilità dei processi produttivi è infatti alla base delle economie di scala così come la replicabilità del sapere è alla base delle economie di scala cognitiva (Rullani e Di Bernardo, 1990). Se quindi il sapere non fosse oggettivabile/replicabile (e per esserlo deve essere indipendente dal soggetto che lo produce), allora non varrebbe neanche la pena di parlare di KM. Nonaka risponde a questa esigenza fondamentale con l’idea dell’esplicitazione, un processo attraverso il quale il sapere soggettivo viene “ripulito” dagli elementi che lo rendono specifico e concreto, rendendolo generale e astratto (in altre parole, nuovamente oggettivo). In questo senso, la soggettività è vista un po’ come la condizione in cui il sapere nasce, ma non come una sua caratteristica intronseca; attraverso l’esperienza soggettiva noi produciamo un sapere, ma questo sapere può essere reso oggettivo senza nulla togliere al sapere stesso. Nell’esempio del panettiere, il sapere incorporato nella macchina che fa il pane non toglie nulla al sapere del panettiere, anzi semmai vi aggiunge la replicabilità (ognuno può fare il pane più buono della città). Vi è quindi un sapere di serie B (soggettivo) o uno di serie A (oggettivo), e tutto è riconducibile dal primo al secondo. L’apparente semplicità del modello viene a scontrarsi, soprattutto nelle organizzazioni di maggiori dimensioni, con la debole definizione di come l’esplicitazione debba avvenire. Di fatto, l’esempio proposto da Nonaka presenta l’esplicitazione come un processo macchinoso, per certi aspetti artistico e comunque di difficile implementazione su larga scala. Esso consiste nell’affiancamento di un manager ad un operativo laddove il primo, attraverso il meccanismo di socializzazione, fa suo il sapere tacito ed aiuta il secondo a spiegare i nessi causali sottostanti il suo sapere tacito (know how), che diviene così esplicito (know why). Una volta reso oggettivo, il sapere diventa può essere diffuso e replicato, divenendo valore attraverso la sua trasformazione in un processo produttivo. Nicolini (1995), parlando del processo di esplicitazione descritto da Nonaka afferma: “Per la verità, nonostante si tratti del processo che sta alla base di gran parte degli sforzi di insegnare la pratica, di come questo avvenga si sa ben poco […] E’ noto a tutti quanto siano distanti le descrizioni della pratica dalla pratica stessa”. In un’ottica sistematica, ovvero di esplicitazione continua e diffusa di sapere tacito soprattutto in organizzazioni che contano molti membri, il processo di KM alla Nonaka appare complesso e di difficile attuazione. La necessità di superare tale difficoltà, anche per i suoi costi (distogliere un manager dal suo lavoro operazionale),

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richiede una semplificazione del modello che prevede che siano i singoli membri dell’azienda a responsabilizzarsi nel lavoro di esplicitazione. Tale semplificazione viene offerta dall’approccio delle comunità di pratica.

2.2 L’interpretazione manageriale delle Communities of Practice (CoP)

Se dall’oriente emerge l’approccio nonakiano, così strettamente legato al recente interesse per il KM, dall’occidente emerge l’idea di comunità della pratica e del suo legame con la disciplina dell’Organizational Learning. La ribalta inizia con gli autorevoli lavori di Julian Orr (1987; 1990) e a seguire di tutta la scuola dello Xerox Park, con il celebre caso della comunità dei riparatori dei fotocopiatori (Brown S. J. e Duguid P. 1991). Anche secondo questo approccio il sapere è considerato come materia soggettiva; tuttavia, a differenza di ciò che propone Nonaka, esso non risiede nel singolo individuo, bensì nel tessuto di relazioni e di pratiche sociali che esso intrattiene con le proprie comunità di riferimento. Cosa identifichi una comunità è stato descritto in modi diversi, che per il momento non sono rilevanti per gli scopi di questo lavoro. Esiste comunque un denominatore comune di queste caratterizzazioni, che va dalla generica condivisione di un interesse, alla condivisione di repertori cognitivi e identità collettive. Ciò che conta è come nuovamente la traduzione di questi temi in linguaggio manageriale abbia significato una sua semplificazione e adeguamento agli obiettivi di economicità e controllo necessari ad una loro adozione. In particolare, la natura informale e volontaristica delle comunità della pratica è stata tradotta nell’opportunità di delegare ai network informali il compito di produrre, socializzare ed esplicitare il sapere pratico che gli individui producono attraverso il lavoro operazionale. In questo modo, il compito del management è, da un lato, quello di riconoscere ed abilitare questi circuiti informali che nascono dal naturale bisogno di socialità delle persone e, dall’altro, di trovare forme di presidio capaci di “catturare” il sapere laddove si forma in modo spontaneo ed emergente per poi diffonderlo in tutta l’azienda. Di solito questo obiettivo viene raggiunto attraverso l’inserimento di figure denominate knowledge manager, il cui compito è proprio quello di facilitare l’interazione comunitaria e catturare il sapere emergente attraverso processi di codifica e strutturazione dei contributi dei membri della comunità. Le CoP liberano dunque il management dalla costosa attività di affiancamento ed osservazione del singolo operatore e consentono di rivolgersi direttamente a gruppi peraltro informali (che quindi non richiedono riconoscimento formale/risorse) e auto-organizzanti (che quindi non distolgono eccessivamente il manager dai suoi compiti operazionali). In secondo luogo, soprattutto nelle organizzazioni di grandi dimensioni, le CoP consentono di utilizzare su larga scala le tecnologie della comunicazione come strumento che da un lato abilita la comunicazione laterale necessaria all’interazione comunitaria, e dall’altro supporta la diffusione del sapere codificato dai knowledge manager.

2.3 Le caratteristiche tipiche degli attuali sistemi di Knowledge Management

Secondo questa genesi, il KM viene direttamente a configurarsi come una soluzione a sé stante, alla stregua di soluzioni quali la Sales Force Automation o il Customer Relationship Management. In altri termini, diviene uno tra i tanti aspetti del mondo aziendale su cui il consulente va ad incidere con un intervento di cambiamento misurabile secondo una qualche misura di performance. Il consulente disegna e implementa un “sistema di gestione della conoscenza” che dovrebbe migliorare la capacità dell’azienda

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di produrre e diffondere sapere al proprio interno, ottenendo così svariati benefici quali la capacità di adattamento, la gestione degli imprevisti, il miglioramento continuo e l’innovazione.

In particolare, vorremmo sostenere che la sintesi tra il contributo di Nonaka e l’interpretazione manageriale del tema delle comunità rappresenta il fondamento sul quale si basano le infrastrutture e i progetti di KM proposte dai consulenti, presupposti dai prodotti software di KM e richieste dai manager. In generale, infatti, le infrastrutture e i progetti di KM sono caratterizzati dai seguenti elementi:

la creazione di un’infrastruttura di comunicazione (Intranet) diffusa e capillare per abilitare la comunicazione laterale;

l’adozione di tool di supporto all’interazione on-line (discussion groups, chat,…) per favorire la socializzazione e l’esplicitazione dei saperi taciti delle comunità;

la creazione di repository strutturati e condivisi (knowledge bases e enterprise knowledge portals) dove l’intelligenza organizzativa raccoglie, organizza e diffonde il sapere esplicitato dalle comunità;

la nomina di knowledge manager, il cui compito è di facilitare l’interazione comunitaria e l’alimentazione delle knowledge base;

• la creazione di tassonomie o sistemi categoriali aziendali per rappresentare in maniera codificata (esplicita) il sapere;

• la creazione di processi di contribuzione che vedono il singolo membro dell’organizzazione autoesplicitare il suo sapere tacito, principalmente mediante la codificazione del suo contributo secondo la tassonomia aziendale.

Tra le conseguenze di questo approccio, ben rappresentato sia nel linguaggio sia nei contenuti nel libro “Gestire la Conoscenza” di Sorge (2000) o dallo studio compiuto su 31 progetti di KM di Davenport, Long e Beers (1998), vi è la presunta legittimazione di assunzioni che hanno permesso al management di vedere il KM come una soluzione ad un problema specifico. Dato quindi il problema di rimanere competitivi in un ambiente sempre più mutevole attraverso l’innovazione sistematica e il miglioramento continuo, e intravista la soluzione nell’avviare processi di esplicitazione e diffusione dei saperi taciti, tali assunti possono essere così riassunti:

Assunto 1: il sapere è una risorsa che nel suo stato originale o di natura è grezza (o implicita) e che va

depurata (resa generale e astratta) per poterla poi replicare (estrazione di valore);

Assunto 2: il processo di KM è coerente ai modelli organizzativi e di controllo tradizionali in quanto è

gestibile in modo centralizzato (il management organizza il processo di estrazione del sapere così come organizza il processo di estrazione del lavoro operazionale) e senza alcuna perdita di potere (il sapere, una volta esplicitato, diviene sganciato da chi lo ha prodotto e quindi di proprietà/controllabile dall’azienda).

3. Le ragioni dell’insuccesso

3.1 Le promesse mancate

Nonostante le promesse e le alte aspettative ingenerate, il KM non sembra aver prodotto risultati di grande rilievo. La maggior parte delle volte, esso ha significato la creazione o l’aggiornamento di grandi

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intranet aziendali con l’aggiunta, a volte marginale, di un qualche sistema o applicazione per la gestione di workflow documentali, repository o discussion group. In genere tali sistemi sono diventati “cattedrali nel deserto”, disertati dagli utenti che, nonostante le petizioni di principio, non ne capiscono l’utilità. La misurazione delle performance si è rivelata non solo difficile, ma anche basata su criteri labili e alquanto discutibili, quali ad esempio il numero dei documenti/contributi presenti, usato come misura approssimativa della quantità di sapere prodotta. Anccora Davenport, Long e Beers (1998) affermano a proposito dei progetti di KM: “Still consulting firms attempt to demonstate economic returns. Ernst &Young, for example, measures the amount of knowledge it reuses in the form of proposals, presentations, and deliverables and the contributions of its knowledge repository to closing sales”. Altre aziende di consulenza propongono approcci simili. Più in generale, dalla premessa/promessa di un intervento capace di produrre un cambiamento sostanziale nel modo di lavorare delle persone, il KM è andato progressivamente svuotandosi dei suoi contenuti più innovativi, divenendo un intervento puramente tecnologico, seppur mascherato da intervento su aspetti organizzativi e sociali. In questo senso, il “progetto di KM” è divenuto una sorta di alibi per gli IT manager per legittimare grandi investimenti tecnologici con la “complicità” dei consulenti e dei produttori di software, i primi nella convinzione di “mettere un piede dentro per poi proporre il vero cambiamento”, i secondi nell’illusione che un software potesse incorporare e spingere un modello di cambiamento sostanziale. Tali convincimenti, nonostante le previsioni ottimistiche di analisti internazionali, non si sono rivelati veri. Oggi, vuoi per la nuova moda dell’e-Business (anch’essa già tramontata?), vuoi per i limiti intrinseci alla proposta stessa, le Big Five hanno eliminato il KM dalle business solution strategiche da proporre sul mercato ai propri clienti.

3.2 Analisi dell’insuccesso

Dal nostro punto di vista, i germi dell’insuccesso (o almeno del successo molto parziale) dei sistemi di KM sono da rintracciare tanto nel contributo di Nonaka, quanto nell’interpretazione manageriale delle CoP, e dipendono da una contraddizione di fondo tra le implicazioni profonde di un approccio realmente soggettivista ai temi della conoscenza e i modelli tradizionali di controllo manageriale. In un certo senso, entrambi gli approcci nascono da una premessa necessaria in cui risiede la novità del loro contributo, vale a dire la natura soggettiva del sapere, che però essi stessi devono poi tradire per poter rendere i modelli proposti accettabili dal management (coerenza rispetto ai modelli di controllo). Per comprendere questo punto è allora necessario delineare i tratti salienti di un’epistemologia sinceramente soggettivista e prenderne in considerazioni le conseguenze ipotizzabili in campo organizzativo.

Elementi di un’epistemologia soggettivista

L’epistemologia descrive i criteri e i processi attraverso i quali attribuiamo valore di verità ad un enunciato e in base ai quali è legittimo giustificare tale attribuzione. Un’epistemologia oggettivista si basa sul presupposto che tali criteri e processi siano indipendenti dal soggetto che esprime tale giudizio, quindi sono oggettivi. Un enunciato vero è quindi tale indipendentemente da chi lo pronuncia, e il sapere diviene il sistema degli enunciati oggettivamente veri. Di converso un’epistemologia che si dichiari soggettivista deve assumere che i criteri e i processi attraverso i quali attribuiamo un giudizio di verità non sono dati indipendentemente dal soggetto, bensì che dal soggetto, in qualche modo, dipendano. In altre parole il

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soggetto che produce conoscenza contribuisce anche alla produzione dei criteri e dei processi di verificazione e giustificazione. Non ha dunque senso parlare di sapere tout court, ma di vari “saperi” che dipendono dai diversi criteri di verificazione e legittimazione prodotti da soggetti differenti.

Come entri in gioco la specificità del soggetto nella “produzione” della verità è stato descritto in filosofia e nelle scienze cognitive in modi diversi. Ai fini di questo lavoro, è sufficiente notare come esista un denominatore comune nell’idea che ciascuno di noi produce dei modelli interpretativi della realtà che, da un punto di vista cognitivo, hanno la funzione di criteri in base a cui un determinato enunciato viene ritenuto vero o falso. A livello individuale (o cognitivo), tali premesse sono state chiamate ad esempio

contesti (Bouquet, 1998; Giunchiglia Ghidini, 2001), modelli mentali (Johnson Laird, 1992), spazi mentali (Fauconnier, 1985). Da questo punto di vista un sapere appare come un qualche cosa che si

articola su due livelli, poiché è al tempo stesso premessa e contenuto: è premessa, in quanto comprende il sistema di “assiomi” all’interno del quale un determinato contenuto (una parola, una frase, o un qualsiasi simbolo) assume un determinato significato; è contenuto, in quanto – all’interno di certe premesse - esso costituisce una rappresentazione del mondo dal punto di vista di un certo soggetto. In breve, il sapere è al contempo un sistema di condizioni di verificazione/legittimazione di un contenuto e il contenuto stesso. A livello collettivo – ovviamente quello che interessa maggiormente parlando di azione organizzata - questa impostazione pone il problema di come sia possibile parlare di un sapere collettivo o comune a più soggetti. Il problema nasce proprio dall’accettazione di un’epistemologia soggettivista a livello individuale: poiché ciascun soggetto produce modelli interpretativi autonomi, non direttamente accessibili agli altri se non attraverso il linguaggio, è solo attraverso l’interazione sociale (e soprattutto linguistica) che è possibile negoziare modelli interpretativi, per quanto possibile condivisi, senza i quali non sarebbe possibile comunicare alcunché. In caso contrario, ciascuno produrrebbe interpretazioni scorrelate (e arbitrarie) di uno stesso contenuto. Secondo questa linea di argomentazione, il concetto di modello interpreta tivo individuale può essere esteso a collettività organizzate, enucleando il concetto di “strutture interpretative condivise”, negoziate a livello sociale, risultato cioè di un accordo intersoggettivo più o meno esplicito tra i membri di una comunità di parlanti. I termini coniati per queste strutture condivise sono i più svariati. Tra questi citiamo: mappe cognitive (Eden, 1992), frames (Goffman, 1974), schemi

interpretativi (Giddens, 1984), paradigmi (Khun, 1970), scripts (Gioia, 1986), thought worlds

(Dougherty, 1992). I teorici delle comunità sottolienano la relazione biunivoca esistente tra un sapere inteso come prospettiva conoscitiva (Boland e Tenkasi, 1995) o identità (Lave e Wenger, 1990) collettiva e forme tipiche di aggregazione sociale quali, per l’appunto, le comunità.

Un’epistemologia soggettivista, da un punto di vista collettivo, porta quindi alla descrizione del sapere come un qualche cosa di socialmente costruito; come tale esso non solo nasce all’interno dell’esperienza sociale, ma è solo all’interno di essa che può esistere. Un sapere è tale solo all’interno del contesto sociale che lo ha prodotto; in breve, non esiste un sapere al di fuori di un contesto sociale. Tra le conseguenze di questa impostazione ne elenchiamo alcune tra le più rilevanti ai nostri fini:

• parlare di sapere come categoria astratta non ha senso. Ha senso invece parlare di saperi locali, intesi come sistemi differenti di contenuti e di modelli interpretativi atti ad interpretarli;

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• le comunità possono essere viste come entità sociali che negoziano e producono modelli interpretativi collettivi condivisi, e che quindi sono composte da persone capaci di attribuire un significato comune ad un determinato evento;

• la pretesa di separare il sapere dalle comunità che lo hanno prodotto ai fini della sua replicazione può facilmente incorrere nel rischio di replicare informazioni prive di significato. La comunicazione di contenuto (informazione), quando separato dalle sue premesse (modello interpretativo), non produce valore;

• laddove i modelli interpretativi sono tendenzialmente omogenei e statici, è possibile assumere “convenzionalmente” che il sapere sia oggettivo e che coincide con il contenuto. L’obiettivo della comunicazione è assimilabile alla trasmissione del contenuto;

• laddove i modelli interpretativi sono eterogenei e mutano nel tempo, è necessario invece considerare come meta obiettivo della comunicazione l’esplicitazione dei modelli interpretativi sottostanti;

• se è vero che un sapere locale è la sintesi, sia in termini di contenuti sia di modelli interpretativi, del portato di un gruppo di persone denominabile come comunità, allora diremo che i concetti di comunità e di sapere locale sono due facce della stessa medaglia.

Rispetto al contributo di Nonaka, quanto detto implica l’impossibilità di separare un sapere di serie B (soggettivamente e socialmente caratterizzato) da un sapere di serie A (indipendente dal soggetto produttore). Semplicemente il secondo non esiste, anche se può essere convenzionalmente assunto ove i modelli interpretativi siano sufficientemente condivisi. Tale circostanza non solo sembra improbabile negli attuali contesti organizzativi e ambientali caratterizzati da elevata complessità e turbolenza, ma è soprattutto non auspicabile, dato il forte ruolo giocato dall’esistenza di prospettive diverse nel produrre innovazione (Boland e Tenkasi, 1995). Da questo punto di vista diremo che la soggettività e l’eterogeneità dei saperi è un dato irriducibile dell’esperienza organizzativa, non evitabile attraverso improbabili processi di depurazione. Esso è piuttosto una condizione fondamentale dei processi di innovazione.

Dall’altra parte, la ben più profonda innovazione apportata dai teorici delle CoP ai modelli di apprendimento secondo schemi epistemologici rigorosamente soggettivisti è stata semplificata ed indebolita dall’interpretazione manageriale delle CoP. Della socialità, infatti, viene recuperato solo l’antico bisogno, già evidenziato da tutta la scuola delle relazioni umane di Elton Mayo (1945), di ricondurre l’evidente natura sociale del lavoro e, a maggior ragione del lavoro cognitivo, a schemi di riconoscimento controllato secondo un’idea non confessata che le persone, quando è loro consentito in certa misura di socializzare, lavorano meglio. Dal nostro punto, di vista le comunità, ben lungi dall’essere generici gruppi di persone che socializzano in qualche modo, sono i luoghi sociali all’interno dei quali un sapere locale nasce ed esiste nel tempo. Quando muore una comunità, con essa muore il suo sapere.

Conseguenze organizzative

Se alla luce di tutto ciò pensiamo al modello tradizionale di controllo manageriale, queste considerazioni implicano l’impossibilità da parte del management di concepire il sapere aziendale alla stregua di una qualsiasi altra risorsa. Questo perchè neanche in linea di principio è possibile centralizzare e controllare i processi di produzione e diffusione dei saperi.

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La produzione dei saperi non viene a coincidere con il processo di accumulazione dei contenuti (processo che può invece essere pensato come centralizzato e indipendente da chi li ha prodotti), ma piuttosto con quello di negoziazione dei modelli interpretativi che, come detto, è necessariamente sociale e distribuito. In questo senso diremo che l’organizzazione, letta da un punto di vista orientato alla conoscenza, è raffigurabile come una costellazione di comunità, ovvero di saperi locali, che riproducono localmente e in modo distribuito i propri repertori cognitivi al fine di adeguare la propria capacità di dare senso alle situazioni. Tali saperi, anche quando codificati, avranno significato solo all’interno del sistema di assunzioni di ciascuna comunità.

Dall’altra parte la diffusione del sapere non viene a coincidere con la trasmissione dei contenuti (anch’essa pensabile come centralizzabile e indipendente dalle soggettività), ma piuttosto come processo sistematico di interoperazione tra modelli interpretativi differenti. Tali processi sono stati descritti come

double loop learning (Argyris e Schon, 1978), deutero apprendimento (Bateson, 1979) o perspective taking (Boland e Tenkasi 1995). Da un punto di vista organizzativo ciò implica che la diffusione dei

saperi non può risolversi nella centralizzazione di un sistema a-contestuale di informazioni ma deve necessariamente prendere la forma di un processo di comunicazione che vede nuovamente i gruppi sociali protagonisti di una costante traduzione tra prospettive eterogenee e mutevoli.

Nè tantomeno il management può auspicare (anche se a volte accade quando si parla di portali aziendali o di corporate language) un processo di omogenizzazione dei modelli interpretativi per massimizzare la funzione di KM tradizionale (alla Nonaka), poichè ciò sarebbe in diretta contrapposizione con la natura del processo di innovazione basato sulla ricchezza delle prospettive e sulla loro capacità di incontrarsi: si incorrerebbe nel paradosso di voler massimizzare il sapere minimizzando l’innovazione.

4. Una rilettura dei limiti degli attuali sistemi di KM

E’a nostro giudizio la contraddizione esistente tra paradigmi centralizzati di controllo manageriale e natura distribuita dei processi cognitivi ad aver causato, da un lato, l’annacquamento sostanziale della proposta innovativa insita nel KM e, dall’altro, il sostanziale fallimento delle infrastrutture di KM.

Secondo questa prospettiva, le infrastrutture correnti di KM ereditano i limiti e le contraddizioni intrinseche al contributo di Nonaka e all’interpretazione manageriale delle CoP. In primo luogo, esse presuppongono la possibilità che attraverso la comunicazione tecnologicamente mediata sia possibile non solo supportare l’interazione comunitaria, ma anche abilitare la nascita e la formazione di nuove comunità. Si immagina, infatti, che un processo comunicativo ricco e fortemente legato a dinamiche di tipo relazionale come la negoziazione sociale di modelli interpretativi possa esaustivamente risolversi all’interno della comunicazione mediata. Se è pensabile che tali forme di comunicazione possano contribuire ed affiancarsi a processi di comunic azione più tradizionali, è più difficile, per lo meno per i tipi di supporti oggi esistenti, pensare che possano completamente sostituirli (Daft e Lengel, 1984).

Da un punto di vista più sostanziale, il limite delle attuali infrastrutture di KM è architetturale in senso lato. Le attuali architetture presuppongono infatti un processo di produzione-codificazione-diffusione del sapere che non trova riscontro nella natura distribuita dei processi cognitivi. Secondo queste architetture,

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sia in senso tecnologico sia - quando presente – in senso organizzativo, i membri dell’organizzazione producono durante il loro lavoro operazionale un sapere tacito che viene reso sociale nell’interazione comunitaria, codificato e depurato attraverso l’opera del knowledge manager e quindi diffuso al resto dell’organizzazione. L’ipotesi di fondo è che un sapere generale e astratto sia producibile e quindi sia rappresentabile in modo oggettivo e fruibile per tutti. Oltre alla teoria, la nostra esperienza conferma che il vero sapere di una azienda non trova mai adeguata rappresentazione all’interno di strutture trasparenti e globalmente condivise (Bonifacio, Bouquet e Manzardo, 2000); è piuttosto rappresentato localmente in modo opaco (parzialmente o ambiguamente accessibile dall’esterno) attraverso artefatti, simboli, relazioni sociali, persone e storie. In questo senso, mentre da un lato le infrastrutture di KM inseguono l’illusione di una rappresentazione omogenea, unitaria e non ambigua del sapere organizzativo, dall’altro lo svolgersi della vita organizzativa produce continuamente sistemi di saperi locali spesso incommensurabili tra loro ma dal cui incontro occasionale nasce l’opportunità dell’innovazione.

Le conseguenze di tali limiti sono spiegabili all’interno di questo quadro:

La diserzione delle on-line communities riflette la povertà del mezzo di comunicazione mediato quando inteso in senso totalizzante; laddove una comunità esiste on-line è in quanto epifenomeno di processi e momenti di interazione “dietro le quinte” ben più ricchi e frequenti. Nella nostra esperienza abbiamo spesso osservato come l’esistenza di una comunità possa sostenere, anche se non necessariamente, l’interazione on-line, non viceversa.

La scarsa contribuzione a sistemi centralizzati e codificati (knowledge base) nasce dal fatto che un sistema di codifica unitario dei contributi non è adeguato alla molteplicità dei modelli interpretativi cui i diversi membri dell’organizzazione afferiscono. Un esempio è dato dalla proliferazione e dall’eterogeneità semantica dei sistemi categoriali presenti nelle intranet aziendali. Questa stessa eterogeneità semantica, vissuta dal management non come eterogeneità intrinseca a un sistema di KM ma come semplice ambiguità - e quindi come limite alla replicabilità del sapere -, spinge verso tentativi continui di omogenizzazione dei linguaggi aziendali che sfociano nella continua proposizione di ontologie e tassonomie aziendali.

• Tale imposizione è a nostro giudizio la prima ragione della scarsa efficacia delle infrastrutture di KM nei processi di diffusione del sapere. In seguito a quanto detto, un sistema categoriale oggettivo e unico è per definizione privo di significato e pertanto semanticamente non accessibile ai membri delle diverse comunità aziendali. Il più delle volte tali sistemi, più che essere oggettivi, sono il portato di una comunità specifica, a volte della comunità che gestisce l’infrastruttura di KM, altre volte del top management. Di fatto viene fatto passare sotto un’aurea di oggettività un qualche cosa di potentemente soggettivo: il modello interpretativo di chi ha prodotto il sistema categoriale.

5. Considerazioni conclusive

Dall’analisi proposta emerge la domanda se ha ancora senso parlare di KM e, se sì, in che modo. La risposta che noi diamo è positiva, anche se in una chiave sensibilmente diversa, che richiede da un lato lo sviluppo di strumenti concettuali e tecnologici nuovi, e dall’altro anche di una nuova attitudine manageriale.

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Il KM deve essere pensato non tanto come una soluzione a sè stante di un problema, ma piuttosto come una lente di lettura tra le tante che può essere utilizzata nell’analizzare i contesti organizzativi. Un’azienda può essere letta come sistema di strutture fisiche, di tecnologie, di flussi informativi, di assetti di potere, di processi decisionali. Nessuna di queste lenti può esaurire l’analisi organizzativa e ciascuna di esse può essere utilizzata per enfatizzare determinati aspetti. La nostra proposta è di vedere nella conoscenza una delle lenti con cui possiamo descrivere l’organizzazione, che verrebbe quindi a essere considerata un sistema di saperi e di processi di apprendimento locali, distribuiti. Per l’accezione che abbiamo qui dato al concetto di sapere, questo significa descrivere l’organizzazione non solo nelle dinamiche di produzione e diffusione dei contenuti di informazione, ma innanzitutto (e soprattutto) come un sistema di modelli interpretativi che guidano il modo in cui le persone percepiscono e interpretano i fatti aziendali. Nella nostra esperienza diretta, sempre più spesso ci rendiamo conto di come sia possibile spiegare vari aspetti dell’organizzazione, da elementi soft (come le dinamiche comunicazionali) fino a giungere ad elementi ben più tangibili (come la forma stessa di un processo o di una struttura organizzativa), nei termini delle premesse conoscitive che caratterizzano i diversi gruppi informali presenti in azienda. Tenere presente l’impatto potentemente strutturante di tali modelli e la loro inevitabilità aiuta inoltre l’azione organizzativa del management o del consulente a considerare se stessa come parte in causa, a non assolutizzare il valore di schemi o modelli astratti e a concepire la diversità di prospettive presenti in azienda non come un limite da eliminare ma piuttosto come una opportunità da gestire. Secondo questo approccio, che per certi aspetti si rifà al filone simbolico interpretativo e che per altri si inserisce nella critica post-modernista ai paradigmi manageriali (Hatch, 1999), abbiamo e stiamo tutt’ora sperimentando analisi organizzative presso alcuni clienti.

Da un punto di vista tecnologico, questa analisi non nega il ruolo delle tecnologie della comunicazione come strumento di produzione e diffusione di conoscenza, ma pone alcuni questioni fondamentali alle quali le tecnologie disponibili non danno adeguata risposta. Tra queste, prima tra tutte, la necessità di gestire i processi di information retrieval in una logica non più centralizzata ma distribuita (Bonifacio, Bouquet e Manzardo, 2000; Bonifacio, Neumann e Schuurmans 2000; Bonifacio, Bouquet e Traverso, 2002). Da un punto di vista molto concreto, ciascun gruppo all’interno di una azienda utilizza strutture semantiche diverse per codificare e rappresentare l’informazione; nell’esperienza consulenziale è tipico incontrare intranet in cui si assiste al proliferare spontaneo e incontrollabile di sistemi categoriali e tassonomie prodotte dai diversi gruppi al fine di organizzare l’informazione. Di fronte a questa situazione l’utente si trova nell’impossibilità di recuperare le informazioni che cerca: nonostante siano tecnologicamente accessibili, esse sono rappresentate attraverso sistemi categoriali appropriati ad altri contesti d’uso (e quindi semanticamente inaccessibili). Tipicamente la risposta del management è di investire nella creazione di repository centralizzati capaci, in linea di principio, di rappresentare l’informazione secondo una semantica unica e condivisa. Come abbiamo già detto, troppo spesso questi tentativi falliscono, e questo perchè, nella nostra interpretazione, essi sono concettualmente sbagliati. Presunte tassonomie oggettive sono prive di significato o, in realtà, significative solo per la comunità dei loro manutentori.

Un sistema di information retrieval adeguato in un’ottica di KM deve rappresentare ed agevolare la natura distribuita dei processi cognitivi (Boland, Tenkasi e Te’eni, 1994). Esso deve consentire a ciascun gruppo

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di gestire autonomamente le proprie strutture di codifica e concettualizzazione dell’informazione, e all’organizzazione di fornire strumenti capaci di supportare l’interoperabilità tra le diverse strutture. L’obiettivo di un sistema tecnologico di KM non deve essere quello di condividere un unico linguaggio o sistema categoriale aziendale, ma piuttosto quello di facilitare la traducibilità di un linguaggio nell’altro (interoperabilità semantica), permettendo inoltre di evidenziare come i diversi paradigmi aziendali evolvano nello spazio e nel tempo. Su questa base, stiamo partecipando attivamente a progetti di ricerca congiunti tra accademia e impresa al fine di sviluppare tecnologie sensibili ai contesti semantici locali e capaci di supportare processi di interoperabilità semantica3.

Da un punto di vista organizzativo, quando l’obiettivo esplicito di un progetto di intervento è il KM, la nostra prospettiva suggerisce di non nascondersi dietro al dito della tecnologia, ma di porre il problema più squisitamente organizzativo al centro dell’intervento. Alla base infatti di molte value proposition dei progetti di KM vi è l'affermazione secondo cui oggi il sapere è la dimensione chiave del vantaggio competitivo. Se e quando questo è vero, ciò implica la necessità di assumere una forma organizzativa in cui la lente del KM giochi non solo un ruolo analitico, ma anche strutturante. Ciò richiede non solo di riconoscere la natura distribuita del sapere, ma anche di assecondarla ed enfatizzarla progettando modelli organizzativi conseguentemente distribuiti. Come abbiamo già sottolineato, questa evoluzione è in conflitto con i tradizionali modelli di controllo centralizzati, anche se vi è da sottolineare l’emergere – anche sull’onda di internet - di modelli organizzativi nuovi basati sull’idea dell’impresa rete (Rullani, Di Bernardo, 1990). Tuttavia ci sembra onesto osservare come una tale evoluzione tocchi il cuore di una azienda in modo così profondo ed esteso che difficilmente è concepibile nei termini dell’intervento deliberato all’interno dell’orizzonte temporale e d’azione del tipico progetto di KM. Dal punto di vista del consulente ci pare più verosimile immaginare il KM come un percorso di medio-lungo periodo che vede l’azienda e il consulente lavorare insieme su più fronti, laddove il KM rappresenta la lente di lettura dei fatti aziendali e il filo conduttore che ispira i diversi interventi di cambiamento. Da questo punto di vista il KM tradizionalmente inteso come soluzione autonoma ad un problema specifico nell’orizzonte di un progetto non ha alcun senso.

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