CAPITOLO SECONDO
I CRITERI DIMENSIONALI DELLA VIGENTE LEGGE FALLIMENTARE
1 - La riforma: l’attuazione del principio delega.
Dopo oltre sessanta anni la legge fallimentare italiana viene profondamente rinnovata e si adegua alle nuova esigenze di mercato e soprattutto al contesto europeo. In un mercato ormai globalizzato, tendente ad uniformare le regole di funzionamento delle imprese fisiologicamente sane, la ricerca di comuni strumenti di soluzione delle crisi e, più genericamente, l’individuazione di punti di contatto nella disciplina della patologia dell’impresa, rivestono un’importanza sempre maggiore, anche nella prospettiva della competitività concorrenziale dei soggetti del mercato.
Innumerevoli aspettative sono state poste in questa riforma
101che è frutto di altrettanti compromessi. Molte e contrapposte sono le spinte che il legislatore ha dovuto sopportare
102. Principio base della riforma è considerare “ le procedure concorsuali non più in termini meramente liquidatori-sanzionatori, ma piuttosto come destinata ad un risultato di conservazione
103dei mezzi organizzativi
101 Per l’iter completo della riforma vedi nota cap. 1, paragrafo 1.5 pagina 36 ss., nota 86.
102 Il mondo delle piccole imprese e di quelle agricole (interessate a mantenere l’esenzione dal fallimento), la galassia bancaria, l’area dei professionisti, la magistratura e anche settori più circoscritti come le società di leasing.
103 La legge del ’42 tutelava in via diretta solo l’interesse dei creditori e dell’imprenditore, così l’interesse alla conservazione dell’impresa riceveva una tutela riflessa e limitata. L’impresa era tutelata solo nei limiti in cui questa coincidesse o non fosse contrastante con gli interessi tutelati in via diretta.
Per approfondimenti vedi MAFFEI, La conservazione dell’attività di impresa nelle procedure
dell’impresa, assicurando la sopravvivenza, ove è possibile, di questa e, negli altri casi, procurando alla collettività, ed in primo luogo agli stessi creditori, una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento e il trasferimento a terzi delle strutture aziendali” (così la Relazione illustrativa)
104. La tecnica usata nel D.lg. n. 5/ 2005 è quella della novellazione
105ritenendo che, nonostante l’ampiezza della delega, questa non consentisse la completa abrogazione della legge del ’42, di cui si lasciano immutati alcuni ambiti.
L’operazione si presenta come altamente rischiosa perché, da un lato mantiene la vecchia ideologia liquidatoria e demolitrice dell’impresa in crisi, ma dall’altro
concorsuali vigenti, in Liquidazione o conservazione dell’impresa nelle procedure concorsuali. Atti del Convegno S.I.S.C.O., 10-11 marzo 1995, Milano, pag. 19.
104 I criteri direttivi della riforma sono enunciati nella legge n. 80/2005 da cui emerge la maggiore sensibilità verso la conservazione degli elementi positivi dell’impresa (beni produttivi e livelli occupazionali). Essi in sintesi sono: Semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati e l’accelerazione delle procedure; Ampliare le competenze del comitato dei creditori per consentire una maggiore partecipazione di tale organo alla gestione della crisi dell'impresa;
Modificare la disciplina dei requisiti per la nomina a curatore, includendo gli studi professionali associati, le società tra professionisti, nonché coloro che abbiano comprovate capacità di gestione imprenditoriale; Modificare la disciplina delle conseguenze personali del fallimento, eliminando le sanzioni personali; Modificare la disciplina degli effetti della revocazione (verso l'effettivo destinatario della prestazione ); Ridurre il termine di decadenza per l'esercizio dell'azione revocatoria; Modificare la disciplina degli effetti del fallimento sui rapporti giuridici pendenti (ampliando i termini entro i quali il curatore deve manifestare la propria scelta e prevedendo una disciplina per i patrimoni destinati e per i contratti di locazione finanziaria); Modificare la disciplina della continuazione temporanea dell'esercizio dell'impresa; Modificare la disciplina dell'accertamento del passivo, abbreviando i tempi della procedura e semplificandone le modalità; Prevedere l’introduzione di un programma di liquidazione, redatto dal curatore da sottoporre, previa approvazione del comitato dei creditori, all'autorizzazione del giudice delegato; Modificare la disciplina della ripartizione dell'attivo, abbreviando i tempi della procedura e semplificando gli adempimenti connessi;
Modificare la disciplina del concordato fallimentare, accelerando i tempi e prevedendo l'eventuale suddivisione dei creditori in classi; Introdurre la disciplina dell'esdebitazione e disciplinare il relativo procedimento; Abrogare la disciplina del procedimento sommario.
105 Non la riscrittura delle norme regolanti la procedura ma l’inserimento di singole modifiche nel tessuto normativo preesistente.
introduce la nuova sensibilità della tendenza al salvataggio e del favor verso soluzioni concordatarie.
106Con questa tecnica si rischia che le singole norme non siano coordinate tra loro, magari per una semplice questione di distrazione.
La tecnica dell’innesto, oltre ad aver limitato molto l’intervento rinnovatore, farà probabilmente nascere anche molti problemi interpretativi per la compatibilità delle nuove norme con quelle vecchie rimaste immutate.
107106 Infatti il legislatore ha lasciato pressoché inalterata la struttura complessiva del vecchio regio decreto:
tutta la parte della procedura liquidatoria continua a mantenere la sua posizione prioritaria sotto il profilo logico e temporale (primi 160 articoli) mentre gli istituti di natura anticipatoria o preventiva continuano ad essere nella porzione terminale del corpo normativo. Sarebbe stato consigliabile una sistemazione più logica.
107Altra critica forte è stata fatta al metodo utilizzato per l’attuazione della riforma. Il Governo ha messo a capo un’operazione molto discutibile sotto il profilo costituzionale per la mancanza di quei presupposti di eccezionale gravità ed urgenza che giustificano la legiferazione per decreto legge (decreto d’urgenza sulla competitività). Sia il Comitato Superiore della Magistratura che il Comitato per la legislazione hanno infatti sollevato una serie di critiche sulla modalità di produzione della legge sostenendo che è politicamente poco opportuno ricorrere allo strumento della delega inserita nella legge di conversione del decreto legge sulla competitività. La prassi dei decreti legge usati come forme ordinarie di legislazione ricorda molto il quadriennio dopo la prima guerra mondiale, quando il controllo del Parlamento era palesemente inefficace. Il vizio della decretazione d’urgenza si è dunque ripresentato in occasione della riforma del fallimento, dove “le ragioni della politica hanno finito per travolgere quelle della tecnica, ma con esiti largamente problematici e contraddittori rispetto alle conclamate finalità di semplificazione e di maggiore certezza e celerità delle procedure” (citazione di FORTUNATO, L’incerta riforma della legge fallimentare, in Corriere giuridico, 2005, 597). La legge delega (inserita nella legge di conversione n.
80/2005 del decreto di legge n. 35/ 2005) inoltre è stata approvata senza un normale dibattito parlamentare (a seguito della fiducia parlamentare richiesta dal governo) ed in modo frettoloso , ciò ha dato vita ad un testo finale lacunoso e scarsamente tecnico (vedi LO CASCIO, I principi della legge delega della riforma fallimentare, in Il fall., 2005, 985). Le critiche più severe hanno riguardato, in primo luogo, lo stesso modus operandi del legislatore delegante. La legge delega, infatti, si presenta in alcuni punti , così ampia da essere inidonea a fornire specifiche direttive al legislatore delegato, e, in altri punti troppo stringente da togliere ogni spazio a delle scelte (nel senso dell’illegittimità costituzionale del modus operandi: MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, II, Padova, 1975, pag. 768; CERVATI, Legga di delegazione e legge delegata, in Enc.Dir., Milano, 1962, 946. Invero la Corte Costituzionale, pur avendo riconosciuto come principio che una legge delega troppo ampia è illegittima (Coste Cost.
sentenze: 26 gennaio 1957 n. 3 ; 8 febbraio 1991 n. 68 ; 17 ottobre 2000 n. 425) non ha mai praticamente fatto uso di questo potere dichiarando l’incostituzionalità di una legge). Per un esempio vedi lo stesso
La filosofia ispiratrice della riforma, in cui lo scopo prefisso dal legislatore e quello di una liquidazione rapida e soddisfacente
108, si riconduce ad una sostanziale privatizzazione delle procedure concorsuali
109, dove la giurisdizione viene relegata ad una funzione di controllo e di soluzione delle controversie. Il fallimento dunque privilegia oggi la soluzione concordataria, che consente un intervento anticipato sull’impresa in crisi e finalizzato alla ripresa e sopravvivenza nel mercato del complesso aziendale
110. Altro obbiettivo
punto a) 1 dell’art.1 che richiede di semplificare la disciplina attraverso l’estensione dei soggetti esonerati: non è posto alcun criterio di natura sostanziale idoneo a individuare la ragione giustificativa della definizione di area d’esenzione. Il decreto legislativo d’attuazione della delega (n. 6/2006) ha ridisegnato interi settori della legge fallimentare, rischiando di eccedere, in molti punti, i limiti oggettivi posti dalla delega stessa (vedi per approfondimenti: CAFARO, Prime riflessioni sui rischi d’illegittimità costituzionale della riforma delle procedure concorsuali, in Il fall, n. 6/2006. e DI LAURO , Il nuovo diritto fallimentare: che fine ha fatto la grande riforma? , in Dir.fall., I, 2005 ). Come si nota dal consenso espresso dalle Associazioni degli industriali e banchieri e dalle critiche avanzate da magistrati, avvocati, commercialisti e sindacati, la riforma appare sbilanciata a favore della parte datoriale e creditizia. Molte sono state le proposte di modifica avanzate dalle stesse associazioni e le richieste di rinvio dell’entrata in vigore della riforma, ma queste non sono state accolte e ciò ha confermato le perplessità , i timori e la profonda delusione. Tra i punti individuati come necessariamente da modificare, che purtroppo sono molti e diversi, vi è anche la ridefinizione della nozione del piccolo imprenditore.
108 Accelerazione e semplificazione dell’iter delle procedure concorsuali, alla luce dei tempi eccessivamente lunghi delle procedure italiane e della scarsa soddisfazione che esse garantiscono. La Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha recentemente condannato, per l’ennesima volta, l’Italia per l’eccessiva durata delle procedure , sentenza del 17 luglio 2003, appello n. 32190/96 caso Luordoc. Italia, n. 56298/00e caso Bottaio c. Italia.
109 Attribuzione di un ruolo più attivo del debitore e creditori con conseguente limitazione al ruolo dell’autorità.
110 Favore per i meccanismi e tecniche di conservazione e risanamento della struttura produttiva. In passato il diritto fallimentare aveva al proprio centro le ragioni del ceto creditorio, oggi ha al centro la relazione commerciale oggettivamente intesa: si ha perciò una rinnovata centralità.
Per un’ampia disamina delle finalità dell’esecuzione fallimentare e sull’evoluzione che esse determinano sulle situazioni giuridiche pregresse e pendenti, anche in rapporto ai progetto di riforma elaborati negli ultimi anni, vedi:V. SPARANO e B. SPARANO, La modifica delle situazioni giuridiche nelle procedure concorsuali, Padova, 2002, pag. 69.
fondamentale è stato l’eliminazione delle sanzioni personali inutili e afflittive. Si vuole riservare al fallito una condizione dignitosa e meno mortificante della legge del ’42, la sostituzione lessicale del termine fallito con debitore s’inserisce in tale ottica.
Dopo questo breve accenno alla riforma, guardiamo come è avvenuta l’attuazione del principio dettato dalla legge delega dell’estensione dell’area d’esenzione dal fallimento (art. 1 , comma 6, lett. a -1, attuato con la legge 14 maggio 2005 n. 80, che ha convertito il d.l. 14 marzo 2005).
La riforma interviene sulla norma con importanti e sostanziali modifiche, il legislatore infatti:
• Individua precisi parametri di riferimento per l’individuazione della figura del piccolo imprenditore.
• Uniforma la disciplina concorsuale per imprenditore commerciale e artigiano.
• Uniforma la disciplina concorsuale per imprenditore commerciale e società commerciale.
• Introduce un limite d’utilità per l’apertura della procedura (art. 15)
111.
111 Non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento, in ogni caso, se all’esito dell’istruttoria prefallimentare l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati è inferiore ad 25.000 euro. Con l’introduzione di tale limite di utilità all’apertura del procedimento, quest’ultimo si può chiudere ancora prima della verifica dello stato passivo. Inoltre vengono introdotte nuove norme che regolano dettagliatamente l’istruttoria prefallimentare e viene soppresso il primo grado di opposizione: non si fa più appello davanti al tribunale ma davanti alla Corte d’Appello. La motivazione è che prima della riforma tale grado d’opposizione era presente perché il procedimento prefallimentare era sommario e non garantiva pienamente l’interlocutorio. Con la riforma il procedimento prefallimentare è stato disciplinato e il primo grado non serve più.
In ossequio al criterio delega che richiede l’estensione dei soggetti esonerati, con l’art. 1 è stato novellato l’art. 1 L.F., ridefinendo l’ambito soggettivo d’applicazione dell’istituto fallimentare. Al riguardo, l’ampliamento dei soggetti esonerati è stato inteso in senso quantitativo e non meramente qualitativo. Infatti, l’individuazione dell’area di non fallibilità viene attuata con una particolare modalità: da un lato non viene ampliata, sotto il profilo qualitativo, la tipologia dei soggetti sottoponibili al fallimento
112, dall’altro, viene drasticamente ridotta l’area di applicazione della procedura attraverso l’individuazione di limiti quantitativi stringenti per determinare la figura del piccolo imprenditore e inoltre, novità assoluta, si escludono tutti gli imprenditori piccoli, siano essi individuali che collettivi (non si adopera più una distinzione circa la veste giuridica assunta dall’impresa insolvente ma i parametri dimensionali sono gli unici rilevanti per il requisito della fallibilità)
113. E’ giocando sulla nozione di piccola impresa e piccolo imprenditore che il legislatore ha tentato in qualche modo di ridurre il numero delle imprese soggette a fallimento.
Infatti, in un ottica soggettiva, benché vengono assoggettati al fallimento tutti gli imprenditori commerciali, qualunque sia l’attività esercitata, restano esclusi:
gli imprenditori agricoli
114ed gli enti pubblici
115i liberi professionisti ed, in un
112 Non è dal punto di vista qualitativo che il legislatore ha tentato di limitare il numero dei soggetti assoggettabili alla procedura, il presupposto soggettivo è rimasto l’imprenditore commerciale non piccolo.
113 Si è voluto risolvere nel senso dell’esclusione la vexata quaestio concernente la fallibilità delle piccole società commerciali, siano esse società di persone o di capitali. Argomento questo molto dibattuto in passato e di cui tratteremo nel capitolo successivo.
114 In dissintonia con tutta la normativa straniera, compresa la comunitaria. Vedi cap. 1 paragrafo 1.5, pagine 40 e ss.
115 Gli enti pubblici economici, aventi ad oggetto l’esercizio di un’attività commerciale, erano già sottratti dal fallimento : la riforma non ha innovato nulla. La dottrina li definisce come enti che non si prefiggono di conseguire un lucro dalla propria attività, ma che si propongono di ricavare fonti di sostenimento per la propria attività dai beni e servizi erogati. Vedi JORIO, op. cit. pag. 128. Le società a partecipazione pubblica, anche totalitaria, viceversa, sono fallibili.
ottica oggettiva: i soggetti che risultano assoggettabili ad altre procedure
116, nonché gli imprenditori che hanno cessato l’attività, decorsi i limiti degli art. 10 e 11 L.F. e le società cancellate dal registro delle imprese da oltre un anno.
Si ripercorre l’antica strada dell’esenzione soggettiva, la cui ratio, però deve essere ora ricercata nei criteri direttivi di “semplificazione della disciplina”.
Infatti, fra gli scopi perseguiti dal nuovo legislatore fallimentare vi è anche la
“deflazione” del peso gravante sui tribunali, da realizzarsi mediante un alleggerimento dalle procedure di scarsa importanza
117. E’ così che nasce il nuovo art. 1, comma 2, e la definizione ivi contenuta di piccolo imprenditore, che in quanto tale, è sottratto all’applicazione della procedura. Il comma 2° è sempre stato al centro di una complessa vicenda interpretativa, come abbiamo visto.
Oggi, occorre evidenziare che la nuova formulazione dell’articolo non individua direttamente la figura del piccolo imprenditore, ma attraverso una disposizione poco felice dispone che ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori
118coloro che esercitano un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente
119, abbiano superato i seguenti parametri:
1. hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a 300.000 euro;
116 Gli imprenditori assoggettabili all’amministrazione straordinaria, alla liquidazione coatta amministrativa e quelli assoggettabili alla procedura di ristrutturazione aziendale.
117 Tale restringimento e limitazione del numero dei soggetti assoggettabili alla procedura è soprattutto per decongestionare i tribunali fallimentari di procedure inutili ma avremo come contropartita a ciò, un aumento esponenziale delle azioni individuali accertative e esecutive
118 La singolarità di una disposizione rovesciata (nel senso che la descrizione non attiene al piccolo imprenditore ma a chi piccolo imprenditore non è), porta a due possibili e diverse interpretazioni della norma. Di questo problema ci occuperemo alla fine di questo capitolo.
119 Il superamento anche di uno solo dei due parametri fa rientrare l’imprenditore nell’area di fallibilità.
2. hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a 200.000 euro.
Per evitare che i parametri di valori indicati possano divenire inadeguati nel tempo, è previsto che essi possano essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della Giustizia sulla base della media delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, intervenute nel periodo di riferimento
120.
2 - Criteri dimensionali quantitativi.
La riforma sul requisito dimensionale del piccolo imprenditore commerciale esonerato dal fallimento, ha prescelto, in via alternativa tra loro, i due criteri che rispettano in maniera più congrua l’effettiva consistenza delle dimensioni effettivamente assunte dall’impresa insolvente e del patrimonio aziendale, ma che siano comunque accertabili in sede prefallimentare sia sulla base delle scritture contabili e dei registri fiscali , sia sulla base delle informative richieste di prassi dalla Guardia di finanza.
I due criteri, peraltro, sono tra loro complementari, in quanto, mentre il primo si adatta maggiormente alla fase iniziale dell’attività d’impresa, quando non sono stati realizzati ancora ricavi di rilievo, il secondo si adatta meglio ad un’attività d’impresa dove gli investimenti risalgono ad un tempo ormai lontano. Tuttavia è da sottolineare che nell’ambito della discussione incentrata sul requisito dimensionale, è stata prospettata la possibilità di applicare diversi criteri di
120 L’indicazione normativa di un valore economico ragguagliato ad una cifra fissa, non adeguabile alla svalutazione monetaria, assumerebbe nel tempo un significato gradualmente diverso in presenza del fenomeno dell’inflazione che , col variare del valore della moneta, modificherebbe il significato stesso della norma (cosa che, come abbiamo visto, è avvenuta per il vecchio limite delle 900.000 lire, presente nella formulazione del ‘42).
riferimento: il capitale investito, il numero di dipendenti impiegato dall’imprenditore, il totale dell’attivo di imprese, l’ammontare dell’indebitamento complessivo, un criterio misto che faccia riferimento al patrimonio investito salvo che l’impresa abbia conseguito una soglia di minima di utili , altri criteri basati su indici civilistici di valutazione degli utili di bilancio.
121All’esito della discussione sono stati prescelti i criteri visti, ma nonostante le buone intenzioni, la formulazione della norma suscita ancora alcuni dubbi e richiede ancora molte riflessioni.
La scelta dei livelli dimensionali è certamente discrezionale, ragguagliata ad una figura teorica di imprenditore, presumibilmente con limitato impatto sui rapporti creditori d’impresa in genere. Quindi la linea di demarcazione ai fini della fallibilità dell’imprenditore è costituita dalla dimensione dell’azienda e non dalla dimensione dell’insolvenza, che invece è un presupposto di non utilità all’apertura della procedura (art. 15) e non un’esenzione prettamente soggettiva.
Per vero sotto il profilo economico aziendale, la dimensione aziendale è un concetto privo di valore assoluto. Esso è anzitutto legato al complesso degli elementi costituenti il sistema aziendale, elementi molteplici e variabili e fra loro correlati, che s’identificano negli assetti organizzativi e patrimoniali, nelle strutture operative, nei risultati conseguiti. Ma poiché il sistema aziendale è inserito in un ambiente, con il quale è in costante e continuo rapporto, la dimensione aziendale risulta altresì correlata a quella dei settori e dei mercati nei quali il sistema d’impresa agisce ed alla posizione che in essi è in grado di assumere e mantenere. In quanto, dunque, dipende da molteplici variabili, interne ed esterne, il concetto si presenta assai indeterminato, relativo ed esposto all’evoluzione e agli andamenti del contesto esterno.
Nel concreto, per essere utilizzato ai vari fini che la realtà prospetta, esso necessita di parametri convenzionali che non possono che offrirne una determinazione approssimata, sebbene utili agli scopi pratici. Di regola, i parametri per l’identificazione e la misura dei livelli dimensionali delle imprese
121 Così si legge nella relazione al decreto.
sono rappresentativi o di aspetti della loro dinamica operativa o di talune loro caratteristiche strutturali. I primi si ricollegano all’attività, svolta ed ai risultati raggiunti (fatturato, produzione realizzata, valore aggiunto), i secondi attengono agli assetti patrimoniali od organizzativi (capacità di produzione, numero degli addetti, patrimonio netto, investimenti effettuati, totale dell’attivo).
Quindi accade che l’ordinamento conferisca rilevanza alle dimensioni dell’impresa in relazione a specifici istituti e che la data caratterizzazione valga solo relativamente agli stessi. E siccome, per molte indagini o per talune specifiche finalità concrete, un solo criterio mal si presterebbe per una definizione adeguata di una classe dimensionale, di frequente si combinano fra loro più criteri.
122122 Per ricordare qualche esempio: l. 6/10/71 n. 853 sugli interventi a favore del Mezzogiorno, per i propri fini intendeva imprese piccole quelle che avevano realizzato investimenti fissi o raggiunti immobilizzi compresi tra 100 milioni e 1,5 miliardi di lire. La l. 5/10/91 n. 317, ai fini degli interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese, considerava piccola impresa industriale quella avente non più di 200 dipendenti e 20 miliardi di lire di capitale investito, al netto degli ammortamenti e rivalutazione monetarie, e piccola impresa commerciale e di servizi quella avente non più di 75 dipendenti e 7, 5 miliardi di lire di capitale investito, sempre al netto di ammortamenti e rivalutazioni. E’
interessante osservare che un successivo d.m. del 1/06/93, che provvede ad adeguare alla disciplina comunitaria i criteri di individuazione di piccola e media impresa e dei limiti di intervento previsti dalla legge ora richiamata, definisce piccola impresa industriale l’impresa avente un massimo di 50 dipendenti, nonché un fatturato annuo non superiore ai 5 milioni di euro, oppure un totale dello stato patrimoniale non superiore ai 2 milioni di euro; e piccola impresa commerciale e di servizi l’impresa avente un massimo di 20 dipendenti, nonché un fatturato annuo non superiore a 1, 9 milioni di euro, oppure un totale della stato patrimoniale non superiore a 0,75 milioni di euro.
E’ opportuno anche ricordare che le nuove indicazioni dettate dalle raccomandazioni della Commissione europea 2003/361/Ce, a decorrere dal 1/1/2005 hanno modificato nel territorio comunitario la definizione di piccola e media impresa, introducendo altresì la categoria della microimpresa. La classificazione, che riesce utile soprattutto per stabilire il limite della possibilità di ottenere agevolazioni in base a norme regionali, nazionali e comunitarie, è stata recepita anche nel nostro paese con d.m.
18/4/2005. Quindi oggi, per effetto delle suddette indicazioni, si definisce piccola impresa quella che ha meno di 50 occupati e che ha un fatturato annuo, oppure un totale dell’attivo di bilancio annuo, non superiore a 10 milioni di euro e si definisce microimpresa quella che ha meno di 10 occupati e che ha un fatturato annuo, oppure un totale dell’attivo di bilancio, non superiore a 2 milioni di euro.
Infine l’Istat identifica la piccola impresa con il criterio del numero dei dipendenti , in base al quale si considera tale l’impresa che occupa fino a 99 addetti. Mentre il codice civile (art. 2435 bis) per
Numerose leggi speciali danno rilievo alla dimensione dell’impresa, al fine di assoggettarla ad una determinata disciplina, abbiamo già detto come i limiti in sé di tali leggi non si possano adottare alla disciplina fallimentare ma, paragonando i criteri in valori assoluti, vediamo che la legge fallimentare presenta una peculiarità: qui i due criteri sono alternativi (e per la relazione anche complementari, uno per la fase iniziale e l’altro per le successive) mentre in tutte le altre disposizioni sono concorrenti e coesistenti (oltre al fatto che il numero dei dipendenti è un criterio ripreso in quasi tutte le leggi speciali ma non presente nella L.F.).
123Il pluralismo delle forme d’imprese, che è la risposta all’attuale fase d’evoluzione dei sistemi economici, può far apparire insufficienti e inefficaci i criteri tradizionalmente utilizzati, basati su variabili dimensionali quali il fatturato, e sottolinea la necessità di adottare modalità classificatorie anche di tipo più qualitativo (anche se nella esperienza fallimentare abbiamo già sottolineato quali grossi inconvenienti abbiano portato dei parametri prettamente qualitativi)
124.
identificare le società alle quali si concede la possibilità di redigere il bilancio in forma abbreviata, adopera i parametri del totale dell’attivo della stato patrimoniale, dei ricavi delle vendite e delle prestazione e il numero dei dipendenti occupati.
123 Nel progetto della Commissione Trevisanato il piccolo imprenditore veniva individuato in base al totale dell’attivo patrimoniale, al totale dei ricavi ed al numero dei dipendenti. Questi sono anche i tre criteri ripresi dal codice civile per identificare le società che possono redigere il bilancio in forma semplificata (art. 2435 bis). Inoltre, tra le varie critiche fatte dalle varie associazioni: l’associazione nazionale dei magistrati aveva proposto, proprio per la ridefinizione della nozione di piccolo imprenditore, di aggiungere il criterio, concorrente o alternativo, del riferimento al limite occupazionale;
il consiglio nazionale dei dottori commercialisti, nell’individuare 15 consigli di categoria, al punto 3, sosteneva che per determinare le soglie andassero aggiunti nuovi e diversi criteri rispetto a quelli attuali, solo contabili e facilmente eludibili.
124 Secondo BUONOCORE, L’impresa in Trattato di Diritto Commerciale, Torino, 2002 pag. 583 , “ la verità , dimostrata del resto anche dalle difficoltà incontrate dalla dottrina economica o aziendale nella definizione di plausibili parametri identificativi della piccola impresa, è che il problema delle dimensioni non può essere risolto in termini numerici, di per se intrisi di una certa percentuale di arbitrarietà se soggetti a fenomeni esterni, come è il caso della piccola impresa ; e deve essere, perciò, risolto in base ad
Inoltre, nell’utilizzare le variabili dimensionali spesso si danno per scontate relazioni fra esse che, fino a ieri, forse, erano valide, ma che nella situazione attuale sono tutte da verificare.
125Evitando di circoscrivere e banalizzare il problema della specificità della piccola impresa alle semplici variabili dimensionali e di ricorrere a liste più o meno lunghe di fattori costruiti a tavolino o dedotti da dati di ricerche effettuate su settori e aree geografiche limitate, è riscontrabile una certa convergenza, da parte degli studiosi economici, nell’individuare alcuni tratti fondamentali distintivi delle small business. Tali tratti sono: la stretta relazione fra impresa e famiglia, la configurazione strutturale semplice e l’idea imprenditoriale limitata.
126Occorre ora chiedersi se la soluzione adottata dal legislatore fallimentare sulle soglie quantitative introdotte, sia davvero tecnicamente adeguata e sufficientemente chiara o se non finisca invece per perpetuare errori antichi.
La cosa non è secondaria, il reticolo delle piccole e medie imprese è una componente fondamentale del nostro sistema economico: avere una ragionevole certezza su quali, fra le imprese minori, siano fallibili e quali no, è un’esigenza essenziale non solo per loro stesse ma anche per tutti gli altri soggetti che con esse intrattengono rapporti giuridici.
L’utilizzo di termini come “ricavi lordi” e “investimenti nell’azienda”
evidenziano l’introduzione nella disciplina concorsuale, in dose rilevante, di una cultura d’impresa e quindi della necessità che le norme giuridiche siano integrate e interpretate, sul piano della tecnica, da principi estratti dalla scienza economica. Non si tratta evidentemente di un’impossibile estensione delle fonti
altri criteri, l’errore fondamentale essendo stato quello di identificare il problema delle dimensioni con quello del piccolo imprenditore”.
125 Per esempio: fino a ieri numero di addetti e fatturato erano correlati in modo abbastanza omogeneo tra loro e con definite caratteristiche di complessità organizzativa. Oggi questi fattori tendono ad intrecciarsi nelle forme più varie e in una realtà assai diversificata che va dalla piccola impresa che guida e controlla unità produttive complesse e differenziate, alla grande organizzazione ridotta a livello di scatola vuota.
126 Vedi BOLDIZZONI , SERIO , Il fenomeno piccola impresa, una prospettiva pluridisciplinare, Milano, 1996.
del diritto, rigidamente consacrate nell’art. 1 delle preleggi, bensì del ricorso semantico alla scienza economica in presenza di termini che, accanto al significato letterale, ne hanno uno più specialistico, proprio della scienza economica; a bene vedere non ci si allontana dai canoni esegetici di cui all’art.12 delle stesse preleggi , là dove si pone in primo piano il “significato proprio delle parole”, ma si prende in debita considerazione la circostanza che talvolta dette parole hanno un chiaro contenuto in altra branchia del sapere.
Guardiamo quindi gli ulteriori dubbi interpretativi che derivano dalle stesse definizioni normative delle soglie quantitative indicate.
2.1 - Il criterio strutturale
Non sono piccoli imprenditori coloro che hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a 300.000 euro.
Occorre innanzi tutto rimarcare che il legislatore ha usato l’espressione
“imprenditore che investe nell’azienda” imponendo all’interprete di fare tesoro delle definizioni di imprenditore e azienda contenute negli art. 2082, 2195 e 2555 del codice civile, pertanto il soggetto che investe è colui che esercita l’attività economica e l’investimento deve essere effettuato nel complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa.
Dell’espressione capitale investito non viene poi fornita alcuna ulteriore specificazione per cui è lecito supporre che ci sia qui un rinvio alla tecnica ma il significato giuridico della nozione andava comunque meglio esplicitato perché con tale espressione e anche rinviando alla tecnica, potrebbero indicarsi valori molto diversi.
Il termine investimenti ha un significato estremamente ampio ma nella
letteratura aziendalistica e nella prassi economico finanziaria deve intendersi
come la somma delle immobilizzazioni nette (immateriali, materiali e finanziarie
- cioè i crediti vantati verso altri) e del capitale circolante netto. Non appare
corretto limitare gli investimenti al capitale fisso o ai beni durevoli; si andrebbe
contro al significato proprio delle parole
127(si pensi alle espressioni quali investimenti in borsa o in pubblicità). Gli investimenti possono riguardare tutti i beni che compongono l’azienda dalle immobilizzazioni al capitale circolante.
Infatti non avrebbe senso distinguere l’attivo tra immobilizzazioni e circolante al fine di individuare la misura degli investimenti risultanti in bilancio perché sarebbe irragionevole che l’assoggettabilità al fallimento aumenta o diminuisca , a parità d’importo, in relazione alla composizione del capitale investito in fisso o in circolante. Questo perché non ha senso ritenere più o meno soggetta al fallimento un’impresa in dipendenza dell’attività che esercita, in dipendenza cioè del fatto che essa consista nella prestazione di servizi (attività che non richiede ingenti immobilizzazioni) o nella produzione di beni (attività questa che invece richiede maggiori capitali fissi).
128Per il calcolo del capitale circolante netto si opera la differenza tra le attività a breve (escludendo le disponibilità liquide) e le passività non finanziarie (compresi i fondi per rischi e oneri) e perciò esso deriva dall’insieme delle risorse che in ogni istante risultano essere investite in azienda.
Tali risorse sono fornite da due fonti: mezzi di terzi e mezzi propri. Infatti l’imprenditore riceve dei capitali, dai soci o dai terzi, che, per loro natura, una volta affluiti nell’impresa si spersonalizzano, si fondono e diventano i mezzi d’investimento utilizzabili dall’imprenditore
129; se si potesse leggere
127 Art . 12 delle preleggi.
128 Esistono imprese che richiedono elevati investimenti in attrezzatura ed altre invece in scorte di magazzino o in relazione alla durata del ciclo produttivo e al fido concesso ai clienti. Tale interpretazione è confermata anche dalla produzione giurisprudenziale formatasi prima della dichiarazione d’incostituzionalità della vecchia disposizione in cui appunto vi era come criterio sussidiario quello del capitale investito.
investimenti per un capitale come sinonimo di conferimenti, il problema sarebbe molto semplice ma non è questa la strada da seguire, bisogna far riferimento eventualmente anche a voci di bilancio particolari.
Una distinzione tra capitale proprio (o dei soci) e capitale di fornitori (o finanziatori) porterebbe a conseguenze illogiche perché, per la nota e equazione ragionieristica “attivo = passivo + patrimonio netto”, se si operasse tale distinzione, a parità d’attivo, l’assoggettabilità a fallimento aumenterebbe con l’aumentare del patrimonio netto e la corrispondente diminuzione del passivo.
Tale situazione sarebbe manifestatamene illogica, dato che con l’aumentare del passivo l’effetto dovrebbe essere normalmente l’opposto.
130Solo se si abbraccia la tesi del capitale investito dall’imprenditore, indipendentemente dalla fonte di provenienza, al posto della tesi del capitale investito dai soci, la società sarebbe soggetta al fallimento.
131Con riferimento alla precedente formulazione, la Corte di Cassazione (sentenza n. 4733/1983) si era espressa nel senso che: “per capitale investito deve intendersi ogni investimento effettuato dall’imprenditore per l’acquisto di macchinari e merci, per l’allestimento dei negozi e di impianti anche se il frutto del cosiddetto autofinanziamento”. In altri termini esso consiste nella quantità di ricchezza immessa nell’attività commerciale.
129 I soci investono nella società (capitale sociale, finanziamenti), l’imprenditore è la società che investe nell’azienda.
130 Vedi VERNA, Gli imprenditori assoggettabili a fallimento secondo la nuova legge fallimentare : profili aziendalistici in Dir. fall., 2006, I, 729.
131 Esempio: Una piccola s.r.l. con capitale di 10.000 euro, la quale attraverso la prestazione di garanzia da parte di soci o terzi, ottiene un finanziamento di 300.000 euro che investe nell’esercizio dell’impresa.
Ci troviamo di fronte ad un capitale investito dall’imprenditore di 310.000 euro, di cui 10.000 provengono dai soci e 300.000 da terzi finanziatori. Solo con la tesi sostenuta la società fallirebbe, con la tesi opposta sarebbe esentata perché piccola.
La nuova formulazione della norma non considera più il capitale investito ma gli investimenti nell’azienda. In questa prospettiva si ritiene confermato che gli investimenti nell’azienda siano da individuare in tutti i beni economici, materiali e immateriali, e i servizi utilizzati per attuare la produzione. Trattasi dunque degli investimenti produttivi, beni, servizi e crediti risultanti nell’attivo del bilancio, realizzati con l’utilizzo delle varie forme di finanziamento degli investimenti stessi (abbiamo detto sia capitale proprio ovvero capitale sociale, riserve e utili non distribuiti, sia capitale di terzi cioè i debiti aziendali).
132Da tutto ciò ne consegue che, sostanzialmente , il capitale investito nell’ azienda è in un determinato momento l’attivo patrimoniale, escludendo dall’attivo investito solo i valori di cassa e banca
133(il criterio degli investimenti effettuati è stato presente anche in molte leggi recanti aiuti finanziari e poi, nel tempo, è stato sostituito da un parametro patrimoniale più preciso quale l’attivo del bilancio, conformemente alla interpretazione esposta).
Una tale identificazione però considererebbe gli investimenti nel solo momento della fotografia dell’azienda scattata per ultima e sarebbe perciò troppo restrittivo. Nel caso dei ricavi il legislatore fa riferimento ad un valore medio
132 Il Trib. di Mantova, che è stato uno dei primi a soffermarsi sul concetto di piccolo imprenditore alla luce delle nuove soglie introdotte dalla riforma, nel conteggio degli investimenti aziendali ha conteggiato anche gli apporti di capitale derivanti dalla concessione di mutuo bancario (capitale di terzi) oltre ai mezzi propri e ai crediti vantati verso i clienti (che fanno parte dell’attivo circolante). Infatti la sentenza del 19/09/2006, seconda sezione civile, accerta che la società ha investito un capitale pari ad euro 167.060,00 così composto: € 150.000,00 derivante da erogazione di un mutuo bancario concesso per l’inizio dell’attività (assume infatti rilievo nella determinazione del predetto dato numerico anche il capitale immesso da terzi: vedasi, in relazione al testo originario dell’art. 1 L.F., Cass. 18-5-1971 n.
1471), € 9.060,00 per crediti verso terzi (infatti, fanno parte del capitale circolante e costituiscono trasformazione degli originari impieghi: v. art. 2424 c.c. voce CII) ed € 8.000,00 per l’acquisto di attrezzature sportive (dei canoni di locazione per l’uso del campo sportivo e per l’alloggio dei giocatori, non si può invece tenere conto trattandosi di meri costi).
133 Ma non escludendo i riscontri attivi se essi riscontano, sulla base del principio di competenza, costi di leasing che scadranno nei futuri esercizi che rappresentano pur sempre investimenti effettuati con capitali ottenuti dal concedente in leasing.
tratto da un arco di tre anni ma nel caso degli investimenti manca qualsiasi indicazione temporale: è un limite senza una definizione temporale. La realtà economica tuttavia sconsiglia di limitarsi ad una rappresentazione istantanea del capitale investito e suggerisce di privilegiare una retrospettiva critica o dinamica.
Il concetto di capitale investito ripropone un criterio già previsto dal testo originario dell’art. 1 L.F. e successivamente censurato dalla Consulta (sent.
570/89). La produzione giurisprudenziale formatasi prima della dichiarazione d’incostituzionalità della vecchia disposizione potrebbe, in tale prospettiva, offrire qualche utile indizio interpretativo sugli elementi compresi nel capitale investito o anche sul riferimento temporale per la determinazione dell’ammontare del capitale investito nell’azienda.
Ma è da sottolineare che nella legge del 42 si parlava di capitale che risulta essere investito e questo risulta indica un riferimento temporale che non può non essere se non quello del momento in cui è necessario acclarare l’esistenza del presupposto soggettivo dell’adozione delle procedure concorsuali (così Satta, ma di diverso parere erano Provinciali, Bigiavi, Azzolina e Pajardi).
134Tale riferimento è oggi del tutto assente perciò, l’espressione usata dall’articolo in commento sembra che abbia il senso di riferirsi a quanto nel tempo è stato investito nell’azienda insolvente.
135Secondo tale interpretazione occorre quindi tener conto degli investimenti effettuati dall’imprenditore ancorché essi siano stati distrutti (atti fisici) o perduti ( atti economici) e distratti ( atti illeciti).
136134 Vedi cap. 1, paragrafo 1.2, pagina 19.
135 A favore di tale interpretazione vedi: VERNA, Gli imprenditori assoggettabili al fallimento secondo la nuova legge fallimentare : profili aziendalistici, in Dir. fall., 2006, I, pag. 731 e POTITO, SANDULLI, NIGRO in La riforma della legge fallimentare, Torino 2006 ; tale interpretazione è corroborata anche dalla relazione, laddove è scritto “… il secondo si attaglia meglio ad un’attività d’impresa dove gli investimenti risalgono ad un tempo più lontano”, per cui emerge con sufficiente evidenza la volontà del legislatore di indurre a determinare il capitale che a partire dall’origine è stato investito in azienda, anche se tale valutazione sarà fatta dopo molti anni.
Gli investimenti sarebbero così ricostruiti considerando: l’attivo alla data di rivelazione dell’insolvenza ma anche le perdite di esercizio, le riduzioni di capitali (per esuberanza o per eccesso o per esclusione dolosa di un socio), la distruzione e la destinazione di beni a finalità estranee all’esercizio e gli ammortamenti e le svalutazioni (voci B16 e B19 del conto economico che misurano il capitale investito ma consumato o perduto nel periodo di riferimento).
Il legislatore non precisa l’arco di tempo da prendere in considerazione: esso potrebbe essere dall’inizio dell’impresa o negli ultimi tre anni (preferibile la seconda per analogia e semplificazione di calcoli). Non sembra condurre a risultati appagati presupporre che la data di riferimento sia quella dell’accertamento dello stato d’insolvenza, perché è altamente probabile che il capitale investito a quel punto sia andato ormai in larga parte perduto. Anche suggerire la data dell’ultimo bilancio (con le critiche dette) o la media degli ultimi tre anni (in analogia con i ricavi) non è del tutto corretto perché la lettera della norma non autorizza l’introduzione di alcuna ipotesi e non fornisce alcun ulteriore specificazione né rimanda a successivi emendamenti da emanare; anzi usa un’espressione che evoca chiaramente una determinazione storica di quanto avvenuto negli investimenti. Tuttavia l’orientamento espresso (di guardare ad un attivo della stato patrimoniale in maniera retrospettiva), non risulta uniformemente condiviso anche perché l’obbiettivo primario del legislatore, teso ad un’ottica accelleratoria delle procedure, difficilmente potrebbe conciliarsi con una ricerca eccessivamente risalente nel tempo. Per un’opportuna quantificazione dell’arco temporale di riferimento, dovranno pertanto attendersi gli ordinamenti giurisprudenziali in merito, anche se si ritiene che un elemento attendibile d’interpretazione possa desumersi dal periodo triennale indicato per il computo
136 Prima si seguiva la diversa interpretazione e non si cumulavano gli investimenti perduti. A sostegno di tale orientamento vi era la ratio della disciplina di voler determinare le reali dimensioni dell’impresa.
Vedi cap.1 , paragrafo 1.2, pagina 21.
dei ricavi e potrebbe così considerarsi il livello massimo raggiunto dagli investimenti produttivi negli ultimi tre anni.
Il significato prescelto al termine d’investimenti dell’imprenditore nell’azienda, ovvero l’attivo patrimoniale in senso retrospettivo, va però confrontato con le intenzioni della relazione governativa al d.lgs.. Infatti in essa era prevista la possibilità di applicare diversi criteri di riferimento: capitale investito, totale dell’attivo, numero di dipendenti, ammontare dell’indebitamento complessivo ect..
137Non sembra che aver prescelto il criterio dell’investimento del capitale, aldilà del significato non tutto chiaro del termine, escluda quello del capitale investito o di attivo patrimoniale, soprattutto se si considera che l’attivo patrimoniale non va preso nell’eccezione statica ma in una visione critica retrospettiva. L’eccezione semantica dell’attivo patrimoniale meglio si presta a misurare “ le dimensioni… dell’impresa insolvente e del patrimonio aziendale”
(relazione governativa). Quindi, non c’è dubbio che il parametro relativo agli investimenti verrà raggiunto se dall’ultimo bilancio emergerà un attivo patrimoniale superiore a 300 mila euro. Se l’importo fosse inferiore, gli investimenti dovrebbero essere determinati attraverso l’esame delle dichiarazioni fiscali precedenti o del registro degli acquisti o delle fatture ricevute o in qualsiasi altro modo, stando al principio della libertà della prova ( art. 116 c.p.c.).
Tale conclusione è poi supportata dai dati di ormai comune assunzione nella materia economico-aziendale per la quale con il termine impiego, “ si indicano gli investimenti, generici o specifici, durevoli o non durevoli, in essere in un determinato momento . Detti investimenti sono accolti nella sezione intitolata attivo della stato patrimoniale. L’insieme degli impieghi è denominato anche attività o capitale lordo di funzionamento o capitale investito”
138.
137 La relazione evidenzia un utilizzo disordinato ed atecnico di alcuni termini, basti pensare a capitale investito, patrimonio investito e attivo dell’impresa e raffrontare tali termini a investimento di capitali.
138 Vedi FACCHINETTI, Il bilancio per i non esperti , Milano , 1995, pag. 361
La conclusione, sulla scorta di giurisprudenza e dottrina economica-aziendale, sembra dunque abbastanza pacifica: gli investimenti effettuati in azienda dovrebbero corrispondere all’attivo di bilancio, dato dalla sommatoria di tutte le sue componenti ( immobilizzazioni, crediti, rimanenze).
Qualche problema potrebbe sorgere riguardo ai beni in leasing che, pur rientrando nei beni aziendali, non sono rappresentati nell’attivo di bilancio dell’utilizzatore ma del concedente. Nel caso in cui i beni in leasing rientrino tra gli investimenti aziendali, si ritiene che si debba calcolarne il valore trovandone riscontro dalla nota integrativa.
Quindi, il concetto di capitale investito, che ha ricevuto molte critiche dai primi commentatori della riforma, può indicare valori molto diversi
139, a seconda che le immobilizzazioni vengano intese al lordo o al netto dei fondi d’ammortamento (si ritiene che i beni iscritti nell’attivo debbano essere assunti per il loro valore contabile, al netto degli ammortamenti e ciò in accoglimento della logica di semplificazione sottesa a tutta la riforma ed evidenziata dalla relazione che individua “criteri… facilmente accertabili… sulla base delle scritture contabili”), del metodo di contabilizzazione dei beni in leasing o dell’adozione ( per legge o per opzione) del fair value.
140139 Ciò rischia evidentemente di ingenerare un aggravamento dell’ iter istruttorio con relativo allungamento dei tempi di accertamento in merito all’avvenuto accertamento della stesso.
140 Vedi LUCCHETTI, Fallimenti, esclusioni pericolose, in Italia Oggi, 12 ottobre 2005; secondo cui , per evitare aree di impunibilità penale per usi criminali dell’impresa commerciale, il testo dell’art. 1 andrebbe temperato con la previsione di limiti quantitativi anche con riguardo al passivo, nel senso di assoggettare al fallimento gli imprenditori che, malgrado non abbiano nemmeno uno dei requisiti dimensionali previsti dall’attuale formulazione, ad un esame compiuto in sede prefallimentare, anche mediante ricorso ad informazioni della Guardia di Finanza o consulenze tecniche d’ufficio, dimostrino una massa passiva pari ad un ragionevole multiplo dei ricavi o del capitale investito. In ogni caso il fallimento andrebbe dichiarato quando, nell’istruttoria prefallimentare, venga in evidenza un fumus di situazioni penalmente rilevanti. Diversamente, l’esclusione al fallimento risulterebbe intollerabilmente premiante.
Nasce inoltre il problema di determinare il limite del capitale investito per i molti imprenditori individuali e società di persone che, in violazione dell’art. 2217 c.c., non tengono il libro degli inventari con l’indicazione e la valutazione delle attività relative all’impresa, ma solo i libri Iva in ottemperanza al regime fiscale di contabilità semplificata. Com’è noto, ai sensi dell’art. 18 del d.p.r. 29/09/73 n.
600, sono ammessi a tale regime semplificato gli imprenditori individuali e le società di persone che nell’anno precedente a quello in corso abbiano conseguito ricavi non superiori ai seguenti limiti:
• 309.874, 14 euro per le imprese esercenti attività di prestazione di servizi.
• 516.456, 90 euro per le imprese esercenti attività di produzione e/o cessione di beni.
Per le imprese soggette a tale regime, la ricostruzione degli investimenti potrà essere effettuata attraverso il registro degli acquisti tenuto ai fini Iva o comunque con qualsiasi altro strumento (il dato sull’attivo della stato patrimoniale e quello sui ricavi di vendita devono essere dichiarati ai fini fiscali: i contribuenti in contabilità semplificata lo faranno nell’Unico, quadro RF, righe RF67 e RF77).
Inoltre rimane il problema della difficoltà da parte del creditore istante di assolvere l’onere della prova nei confronti di una società di persone o di un imprenditore individuale non tenuti alla pubblicazione del bilancio. Per ovviare a ciò si ricorda che in sede d’istruttoria prefallimentare “in ogni caso il tribunale dispone, con gli accertamenti necessari, che l’imprenditore depositi una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata” e che il giudice delegato provveda, “senza indugio e nel rispetto del contraddittorio, all’ammissione e all’espletamento dei mezzi istruttori richiesti dalle parti o disposti d’ufficio” ( art. 15 L.F.).
Resta il dubbio di come il tribunale debba orientarsi quando non dispone dei dati,
nonostante abbia fatto ricorso hai poteri ufficiosi. Se non si vuole distorcere il
valore di mera tecnica redazionale dell’art. 1, al punto di capovolgere la regola
per cui l’impresa non è soggetta al fallimento salvo che non abbia oltrepassato la
soglia di certi parametri, si può affermare che se la norma stabilisce un formale esonero , in assenza di riscontri, il tribunale deve operare per la sentenza dichiarativa di fallimento.
141Altro problema preliminare è se il riferimento all’azienda riguardi il complesso degli strumenti organizzati dall’imprenditore per l’esercizio delle sue attività commerciali, oppure le sue eventuali plurime attività, singolarmente considerate, cioè: in caso d’imprenditore titolare di più complessi aziendale gestiti separatamente, il dato di riferimento è il singolo complesso o la loro sommatoria?
Tenuto conto che il fallimento coinvolge l’intero patrimonio del debitore, sembra logico affermare che il criterio di riferimento non possa non riguardare che complessivamente le sue attività imprenditoriali (e quindi più aziende). Per vero, proprio il riferimento ad un dato quantitativo non può tenere scissi i diversi rapporti economici che nella loro unitarietà attribuiscono un determinato livello di rilevanza ai rapporti d’impresa. Tale soluzione è inoltre coerente con la previsione della lettera b) che fa riferimento all’attività (“o dall’inizio dell’attività”), e quindi comprende, unificandole, tutte le iniziative economiche che fanno capo all’imprenditore.
E’ infine da chiedersi se tale criterio conduca a risultati omogenei per tutte le imprese, quale che sia l’oggetto dell’attività. Invero, la soluzione adottata dal legislatore, di fatto, pone l’equazione: ad eguale capitale investito corrisponde eguale rilevanza dell’insolvenza. Ciò, però, in taluni casi non è vero. Infatti esistono imprese di servizi che possono operare efficientemente anche senza un rilevante investimento di capitali e al tempo stesso provocare un dissesto di rilevanti dimensioni
142(questo problema è tipico per l’uso di un criterio quantitativo e non qualitativo).
141 Vedi FABIANI , Appunti sulla società-piccolo imprenditore nella legge fallimentare riformata, in Foro it., 2006, 652.
142 Esempio sono i casi di commercio elettronico dove il capitale investito può essere minimo a fronte di un vasto giro d’affari e quello della new economy dove gli investimenti sono prevalentemente di beni e
I dubbi che l’utilizzo della locuzione genera sono molto evidenti e potranno essere risolti o da un intervento correttivo o, ipotesi più probabile, dalle interpretazioni che le Corti territoriali dovranno esternare in occasione dei futuri procedimenti prefallimentari che si troveranno a decidere.
2.2 - Il criterio dinamico
Non sono piccoli imprenditori coloro che hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a 200.000 euro.
Anche se questo criterio è di più agevole riscontro, l’espressione appare comunque ambigua e atecnica, più chiaro e aderente al sistema sarebbe stato il termine ricavi tout cour. Così intesi i ricavi si sarebbero ottenuti direttamente dal bilancio, sommando le voci A1 e A5 del conto economico (ricavi della vendita dei beni e della prestazione di servizi ed altri ricavi).
Il fatto che si sia fatto riferimento ai ricavi e non al fatturato e neanche ai ricavi delle vendite e prestazioni (come invece avviene in molte leggi speciali, a conferma della atecnicità della nozione usata), induce ad affermare che, ai fini del calcolo, debba essere considerato non solo quanto realizzato dalla vendita di beni e servizi ma anche altre componenti positive: ricavi accessori, dividendi, canoni attivi, interessi attivi, royalties, utili su cambi, contributi; sempre però che siano stati generati nell’attività d’impresa.
143La legge comunque non specifica quali componenti finanziarie devono essere prese , rientrano in tale categoria anche le sopravvenienze attive e le somme ottenute a titolo di risarcitorie e le caparre confirmatorie? Se si, questi vanno
risorse immateriali spesate nei singoli esercizi e quindi senza lasciare traccia nell’attivo del bilancio (la loro ricostruzione e quantificazione appare molto difficile).
143 Vedi POTITO SANDULLI NIGRO, op. cit. pag. 10
determinati in ragione del criterio di competenza o di quello di cassa? Le eventuali perdite su cambi possono essere computate a deconto dei ricavi relativi all’anno di competenza del credito inesigibile e/o non incassato?
Anche il termine lordi può generare qualche incertezza. Infatti i ricavi devono essere considerati sicuramente al lordo dei costi di diretta imputazione , ma, per tutta evidenza, al netto di resi, abbuoni, sconti, premi, dell’Iva relativa (art. 2425 bis c.c.) e delle imposte direttamente connesse con la vendita di prodotti e servizi (come invece viene prescritto in base al principio della chiarezza sia dai principi contabili che dal codice civile, art. 2425 bis.), giacché gli importi portati in detrazione non sono certo dei ricavi, e , soprattutto, l’importo dell’Iva non ha alcuna relazione con la dimensione dell’impresa. Pertanto l’aggettivo “lordi”
adoperato è da intendersi che i ricavi vanno considerati senza tener conto d’eventuali altri significativi costi direttamente ad essi dedotti (come le spese di trasporto, assicurazioni, provvigioni) o con essi compensati (come avviene se si indica solo il saldo tra interessi, fitti o canoni di segno opposto).
Inoltre, come già accennato, a differenza del criterio precedente, il legislatore fornisce qui qualche ulteriore specificazione, cioè: occorre fare la media degli ultimi tre anni, da intendersi, crediamo, a partire da quelli dell’anno precedente all’accertamento più il biennio anteriore.
Il legislatore ha aggiunto inoltre l’inciso in base al quale il criterio in esame può
risultare in “qualunque modo”: ciò, si legge nella relazione illustrativa, allo
scopo di evitare qualsiasi tipo di interferenza tra l’accertamento dei ricavi
compiuto in sede fallimentare e quello eventualmente compiuto in sede
tributaria. Dal che è parso potersi ricavare che, ai fini dell’individuazione
dell’importo dei ricavi lordi, non ci si possa riferire esclusivamente ai concetti
tradibili dal Tuir (art. 85) o dalla normativa Iva (volume d’affari), quanto
piuttosto (in riferimento al termine lordi) a dati effettivi estesi anche ad
eventuali operazioni “in nero” o non ufficiali, in qualunque modo
dimostrabili.
144Quindi il presupposto può risultare, indipendentemente da quanto
fiscalmente dichiarato, anche considerando quanto accertato in sede eventuale di verifica tributaria (non interessa che risultino in sede fallimentare o in sede tributaria). Se è vero che anche dopo la riforma il procedimento prefallimentare risulta essere caratterizzato da un impianto inquisitorio, è nondimeno vero che la costituzionalizzazione del principio del c.d. giusto processo (art. 111 Costituzione) suscita perplessità in merito all’utilizzabilità processuale di elementi di prova che siano stati acquisiti agli atti senza un adeguato contraddittorio.
Concludendo, come per la nozione del primo criterio, tutti i dubbi che tale disposizione ingenera dovranno, pertanto, essere risolti da un auspicato intervento normativo o, comunque, dalle interpretazioni giurisprudenziali che le Corti territoriali saranno tenute a manifestare nei propri provvedimenti.
2.3 - Problemi e critiche
Pur condividendo la finalità di riservare alle insolvenze più grandi la procedura concorsuale, lasciando quelle economicamente e socialmente meno rilevanti alle procedure esecutivi individuali, molte perplessità suscitano i limiti dimensionali appena analizzati: due parametri oggettivi, due valori aziendali inerenti il bilancio (o il rendiconto nelle società di persone).
In definitiva, pare piuttosto evidente che i due criteri introdotti valgano a delimitare le dimensioni dell’impresa in due fasi della sua esistenza (la relazione fornisce un’inequivocabile chiave di lettura). Il primo criterio va sostanzialmente inteso come capitale immesso nell’azienda per impiantarla, e, quindi, risulta di possibile e piuttosto semplice applicazione nella fase iniziale di vita di questa, quando non è difficile quantificare il capitale che in essa è stato investito. Mentre se tale criterio si dovesse riferire per imprese da tempo esistenti potrebbero
144 Per approfondimenti vedi: IANIELLO, Il nuovo diritto fallimentare, 2006,pag. 5 e DE ANGELIS, Fuori piccole aziende e imprenditori agricoli, in Italia Oggi, 23 Dicembre 2005, pag. 28.
incontrarsi delle difficoltà di non poco conto nella ricostruzione di quanto investito nel tempo, e sarebbe necessario introdurre ipotesi semplificatrici che ne consentano in concreto il calcolo, a partire dalla data cui riferirlo, giacché il capitale investito è una grandezza continuamente variabile. Inoltre tale criterio è apparso al legislatore abbastanza efficace in quanto farebbe riferimento ad elementi fatturali che si rilevano di per sé, senza che l’imprenditore possa agevolmente nasconderli.
145Si può dunque ritenere che il secondo criterio sarà quello preferenziale per imprese esistenti da tempo e che siano, o siano state, pienamente operative.
Una forte critica è stata avanzata perché si tratta , forse, di soglie troppo elevate (quella riguardante il capitale investito pone anche problemi d’individuazione della relativa nozione), anche se presentano il merito di offrire certezza rispetto alla situazione passata in cui ogni Tribunale aveva dei propri parametri. Ciò che lascia perplessi è l’entità delle cifre monetarie prese dal legislatore a parametro della dimensione aziendale: un qualunque professionista del diritto o della contabilità potrebbe confermare che in forza di tale disposizione non rientreranno nella categoria dei soggetti fallibili non solo le micro e le piccole imprese ma anche quelle di una certa importanza patrimoniale, che si potrebbero definire medio - piccole, vale a dire, notoriamente, la maggioranza dei soggetti imprenditoriali del nostro paese. La generalizzata immunità fallimentare, di cui verranno godere le imprese escluse dalla procedura, potrebbe tradursi in una compressione discriminatoria dei diritti dei creditori e della par condicio.
L’importo di 300 mila euro d’investimenti sembra davvero inadeguato.
146145 La prova dell’esistenza del presupposto sembrerebbe potersi ricavare agevolmente dai beni esistenti (quali evidenziati nella situazione patrimoniale che il debitore è tenuto a depositare in sede di istruttoria prefallimentare , nonché da quelle redatte gli anni precedenti) , oppure, anche in via indiretta, attraverso la natura dei rapporti posti in essere , dai contratti, o anche , in via successiva, dalle dimensione dell’azienda.
146 Posto che si può costituire una s.r.l. con un capitale di 10 mila euro: non è ipotizzabile e non accade mai in pratica, di trovarci con un indice di copertura delle immobilizzazioni con il capitale proprio pari al