• Non ci sono risultati.

CAPITOLO IV LA RAGIONEVOLE DURATA DELLE MISURE CAUTELARI PERSONALI: Il PROBLEMA DEL SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "CAPITOLO IV LA RAGIONEVOLE DURATA DELLE MISURE CAUTELARI PERSONALI: Il PROBLEMA DEL SOVRAFFOLLAMENTO CARCERARIO"

Copied!
29
0
0

Testo completo

(1)

CAPITOLO IV

LA RAGIONEVOLE DURATA DELLE MISURE CAUTELARI PERSONALI: Il PROBLEMA DEL SOVRAFFOLLAMENTO

CARCERARIO

Sommario: §1. La produzione alluvionale della Consulta sulle presunzioni in

materia cautelare; §2. La ragionevole durata delle misure cautelari e il problema del sovraffollamento carcerario; §2.1. (Segue). Uno sguardo alle fonti normative convenzionali e costituzionali che regolamentano la ragionevole durata delle misure cautelari personali; § 3. La riduzione dei detenuti in attesa di giudizio: un impegno verso gli altri Stati europei.

§1. La produzione alluvionale della Consulta sulle presunzioni in materia cautelare.

Dal fitto sciame di precedenti, snodatosi nell’arco di tre anni, dalla Consulta emergono profili di indubbio interesse, che al di là del singolo problema volta a volta scrutinato1 e di un messaggio culturale ostile alla strumentalizzazione del carcere in funzione placativa dell’allarme sociale2

se ne possono trarre, infatti, principi di sistema e regole di giudizio, che la Corte ha tradotto in precisi corollari e criteri di merito, oltre a indicazioni di metodo più generali e destinate a durare, che toccano i confini della discrezionalità legislativa e delle

1

Amodio E., Inviolabilità della libertà personale e coercizione cautelare minima; Tonini P., La carcerazione cautelare per gravi delitti: dalle logiche dell’allarme sociale alla gestione in chiave probatoria, 2013, pp. 1 ss. del dattiloscritto (relazioni svolte nell’incontro di studi dell’associazione fra gli studiosi del processo penale “Pisapia G.D., sul tema, Le fragili garanzie della libertà personale. Per una effettiva tutela dei principi costituzionali”, Università di Trento, 11 ottobre 2013.

2 Lo rileva, tra gli altri, Iasevoli C., Politica della sicurezza, presunzione processuale e

(2)

limitazioni ammissibili per i diritti fondamentali, al vaglio di ragionevolezza cui ogni limite deve soggiacere ed infine il necessario radicamento empirico che tale vaglio impone di riscontrare alla luce di precipui e circostanziati elementi.

“Quanto alle indicazioni più generali, le numerose pronunce di accoglimento tutte sentenze “additive di regola”, poggiano su un chiaro denominatore comune, che rappresenta il punto di partenza del percorso argomentativo: il principio di fondo, è quello del massimo livello di tutela dei diritti, cui fa da contrappeso il principio del minimo sacrificio possibile dei diritti fondamentali, e, nella specie, del “minor sacrificio necessario” della libertà dell’indagato in sede cautelare”3.

Muovendo da tale principio, nella più parte dei casi scrutinati, la Corte ha ritenuto irragionevole la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare, “sgretolandone l’assolutezza e restituendo al giudice il potere di applicare la misura corrispondente al grado effettivo di pericolo, con conseguente possibilità di acquisire “elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure” (come appunto disposto mediante il menzionato intervento additivo “di regola”).

In questo sfondo, gli snodi argomentativi seguiti hanno fatto leva su una regola di giudizio frutto del bilanciamento tra i diversi principi in gioco ed ormai consolidata, secondo la quale le presunzioni legali limitative di diritti fondamentali possono essere (eccezionalmente) ammissibili solo se ragionevoli, e sono (eccezionalmente) ragionevoli

3 Manes V., Lo sciame di precedenti della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia

(3)

solo se fondate su un preciso radicamento empirico”4: come ripete in un ritornello costante la giurisprudenza della Corte, ove, ““le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”, ove l’irragionevolezza della presunzione assoluta – più in particolare – “[…] si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa””5

.

In effetti, ciò che vulnera i principi costituzionali non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del “minore sacrificio necessario”; di contro, la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria, atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario, non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo circa l’ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso6.

Tutto ciò sembra ascrivere questo ormai “stabile orientamento ad una vera e propria dottrina che promette di fissare un (felice, ed

4

Manes V., op. cit.

5

C. Cost., sentenza n. 265 del 2010.

6 Così le sentenze n. 265 del 2010, n. 164, n. 231 e n. 331 del 2011, n. 110 del 2012, n. 57, n. 213 e

n. 232 del 2013. dunque, e solo per inciso, l’illegittimità della presunzione assoluta lascia pur sempre vivere la presunzione relativa, e il relativo meccanismo di semplificazione, che resta superabile alla luce dell’acquisizione di elementi di segno contrario (tra i quali, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità non annovera il tempo trascorso dall’inizio della misura, gli arresti domiciliari concessi a taluni coimputati, il comportamento collaborativo dell’imputato nel corso del processo: C. Cass., 22/04/2013, n. 18304).

(4)

auspicabile) punto di non ritorno: un assetto che muove dal primato della libertà personale per affermarla come risorsa solo eccezionalmente attingibile in fase cautelare, sottoponendo ogni presunzione legale, in questo ambito, ad una indagine ancora più rigorosa, e riaffermando, al contempo, una distinzione tra coercizione cautelare e pena”7.

Tale ultima differenza è evidenziata in quelle pronunce ove “la Corte argomenta l’irrazionalità della presunzione assoluta di adeguatezza del carcere anche alla luce del rilievo per cui il legislatore, in tale modo, “attribuisce alla coercizione processuale tratti tipici della pena”8

: in effetti, gli automatismi custodiali innescati dalla ricorrenza di taluni “gravi” reati finiscono col tradursi in una addenda punitiva anticipata, ove non siano giustificati da specifiche e comprovate esigenze cautelari, perché rispondono ad una logica che mescola alle necessità preventive note di afflittività, alterando le diverse ed opposte finalità cui pena e cautela devono rispondere, anche e soprattutto alla luce degli imperativi costituzionali (segnatamente, discendenti dagli artt. 25 e 27, commi primo e terzo, da un lato; dagli art. 13 e 27, 2° co., dall’altro9

)”10. In definitiva la logica della cautela, per non tracimare nella logica della pena, dovrebbe preludere “ove logicamente possibile” ad una circoscrizione della misura cautelare al solo ambito di rischio che si ha esigenza di neutralizzare, rispondendo alla diversità di ratio, ancor prima che alle istanze del principio di proporzionalità.

7 Manes V., op. cit.

8 Si veda da esempio la sentenza n. 232 del 2013, riguardante la violenza sessuale di gruppo. 9

Centrale, in particolare, il ruolo del principio di non colpevolezza (art. 27, 2° co., Cost.), che “rappresenta […] uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano”, sentenza, n. 265 del 2010.

(5)

“Ciò premesso per quanto concerne i presupposti e le coordinate assiologiche che guidano il vaglio della Consulta sulle presunzioni legali, dall’impianto argomentativo di fondo, calato nel settore delle presunzioni di adeguatezza della custodia cautelare, possono essere desunti diversi corollari che si offrono come indici sintomatici per valutarne la ragionevolezza”11.

Un primo corollario, evidenziato sin dalla sentenza pilota del 2010, assume la tendenziale irrilevanza, per legittimare l’impiego di uno schema cautelare presuntivo, della mera gravità in astratto del reato, tanto sotto il profilo del compasso sanzionatorio previsto dalla fattispecie, quanto sotto il profilo del rilievo del bene giuridico protetto dalla norma12.

“Da questa angolatura, in effetti, declinare la legittimazione della presunzione cautelare in ragione dei quadri di disvalore astratto, in termini di cornice edittale o di bene protetto, oltre a poterne fomentare una generalizzata estensione, finirebbe con trasgredire la fondamentale indicazione che vieta di sovrapporre o invertire, come si è già accennato, la “logica della cautela” con la “logica della pena”, aprendo ad una punizione presofferta in spregio alla presunzione di non colpevolezza, e confondendo piani che vanno tenuti distinti13. Del resto, gli indici di gravità del reato, possono e devono svolgere il loro ruolo in sede di irrogazione della pena, ma in sede cautelare possono

11 Sul punto, cfr. anche le sintetiche ma incisive osservazioni di Leo G., Illegittima, anche per il

sequestro di persona a scopo di estorsione, la regola di applicazione obbligatoria della custodia in carcere, in www.penaleconteporaneo.it (22 luglio 2013).

12

In questo senso già con chiarezza la sentenza n. 265 del 2010.

13 Del pari irrilevante ai fini di fondare meccanismi presuntivi in ordine all’adeguatezza della sola

custodia cautelare è la mera comune sottoposizione di alcune fattispecie criminose alla medesima disciplina di natura processuale fissata dall’art. 51, 3° co. bis, c.p.p., poiché essa risponde a “una logica distinta ed eccentrica”, dovuta alla necessità di fissare binari processuali differenziati in ragione della complessità delle indagini o del coefficiente di disvalore, che nulla può dire in ordine all’atteggiarsi delle ricomprese fattispecie in sede cautelare: cfr. la sent., n. 231 del 2011, poi ripresa nella sent., n. 110 del 2012 e n. 57 del 2013.

(6)

fungere da limite, e non già da fondamento della misura, essendo alla stessa sottese esigenze affatto differenti14; ed è per ragioni del tutto analoghe che nessun appiglio può essere validamente tratto da ragioni di allarme sociale e/o da intenti generalpreventivi15.

Il secondo corollario che può trarsi dalle varie decisioni è che “la natura associativa è fattore inidoneo”16, di per sé, a sorreggere la presunzione legislativa17.

Da un lato il legislatore nell’individuazione dell’ambito di operatività della presunzione in esame non ha mai utilizzato come punto di riferimento il modello tipologico associativo; dall’altro, e soprattutto, tale riferimento risulterebbe un sostituto concettuale del negletto criterio della “gravità del reato”, con una semplice variazione prospettica che sposta il focus (dalla cornice edittale e/o) dalla rilevanza del bene protetto alla generica ed astratta attitudine lesiva insita nella forma associativa”18.

In questa prospettiva, ed a fortiori, “la legittimità della presunzione non può essere giustificata in ragione del carattere necessariamente

14 Le medesime argomentazioni valgono anche per altri automatismi, quale quello che vieta di

disporre gli arresti domiciliari in taluni casi: art. 284, 5° co. bis, c.p.p.

15 “Tanto meno, infine, la presunzione in esame potrebbe rinvenire la sua fonte di legittimazione

nell’esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale, determinate dalla asserita crescita numerica di taluni delitti […]. L’eliminazione o riduzione dell’allarme sociale cagionato dal reato del quale l’imputato è accusato, o dal diffondersi di reati dello stesso tipo, o dalla situazione generale nel campo della criminalità più odiosa o pericolosa, non può essere peraltro annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione. La funzione di rimuovere l’allarme sociale cagionato dal reato (e meglio che allarme sociale di direbbe qui pericolo sociale e danno sociale) è una funzione istituzionale della pena perché presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme e la reazione della società”.

Cfr. ancora sent., n. 265 del 2010.

16 Manes V., op. cit.

17 Così anzitutto la sent., n. 231 del 2011. Tale enunciazione è poi ripresa dalla sent., n. 110 del

2012.

(7)

plurisoggettivo del reato in esame, la cui gravità non raggiunge nemmeno quella della forma associata di commissione”19.

Insomma: “non gli astratti e generici schemi strutturali, ma solo le concrete e specifiche note costitutive possono fornire, secondo i giudici la necessaria giustificazione empirica”20. Se è così, l’unica fattispecie che incarna tali presupposti, evidenziandoli in precipui contrassegni di tipicità, risulta la peculiare figura associativa di stampo mafioso, come la Corte costituzionale aveva già evidenziato21, in forza della ““specificità del vincolo” tra i partecipi, frutto della capacità intimidatoria e di assoggettamento del sodalizio: vincolo a cui è sottesa, più in particolare, “una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale”, ossia caratteristiche la cui peculiarità (o forse unicità) rende la misura carceraria l’unica idonea “a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine”, minimizzando “il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti […]””22

.

Un terzo corollario, infine, attiene ad una regola logica di tenuta delle presunzioni: “maggiore è l’ampiezza delle fattispecie concrete

19

Cfr. la sent., n. 232 del 2013, in relazione al reato di violenza sessuale di gruppo.

20

Manes V., op. cit.

21 Nell’ord. n. 450 del 1995, ritenendo legittimo il meccanismo presuntivo previsto dal legislatore

italiano in tema di misure cautelari (e trovando peraltro sponda nella decisione della Corte Edu, 6 novembre 2003, Pantano c. Italia.

22

V. sent. n. 231 del 2011.

Importante riscontro di questo approccio “individualizzante” è la sent. n. 57 del 2013, ove si è sottoposto a scrutinio lo schema presuntivo in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. e a quelli commessi al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste da tale articolo. In questa pronuncia la Corte, tenendo fede al discrimen individuato nella precedente sent., n. 231 del 2011, esclude che tale presunzione possa giustificarsi anche rispetto a tali ipotesi nelle quali è ben possibile che il soggetto attivo del reato non appartenga in alcun modo all’associazione di stampo mafioso, non ponendosi dunque la suesposta esigenza di utilizzare la custodia cautelare in carcere come unico efficace mezzo di recisione del legame del reo con il sodalizio mafioso di appartenenza.

(8)

riconducibili alla previsione considerata, minore è il grado di resistenza della presunzione, poiché diviene proporzionalmente più agevole concepire situazioni non ragionevolmente comparabili, sul piano della gravità e del valore sintomatico, a quelle dal significato più univoco e allarmante”23.

Tale aspetto era già stato messo in rilievo nella sentenza capostipite (n. 265 del 2010), ove si osservava che “il delitto di violenza sessuale (art. 609-bis c.p.) già in astratto comprende […] condotte nettamente differenti quanto a modalità lesive del bene protetto, quali quelle corrispondenti alle previgenti fattispecie criminose della violenza carnale e degli atti di libidine violenti”24

. Lo stesso criterio, più di recente, è stato approfondito e messo ulteriormente alla prova nella sent. n. 213 del 2013 concernente l’art. 630 c.p., “la cui cornice di tipicità è suscettibile di ricomprendere, anche alla luce del diritto vivente, fattispecie concrete di disvalore fortemente differenziato, tanto da aver già condotto la Corte, nella recentissima pronuncia n. 68 del 2013, a ritenere, per questa ed altre ragioni, irragionevole la mancata previsione di una circostanza attenuante di fronte ad una cornice edittale – e ad una pena minima – di inusitata gravità”25.

Sulla base di questi corollari, è forse possibile volgere lo sguardo allo scenario residuo, per sondarne ulteriori possibili applicazioni.

La previsione non è certo agevole: ma in un “quadro di tendenziale sfavore per i meccanismi presuntivi, forse l’unica costellazione di fattispecie capace di superare la “prova di resistenza empirica”, legittimando una presunzione assoluta della sola custodia cautelare

23

Manes V., op. cit.

24 Le medesime argomentazioni sono naturalmente riproposte in tema di violenza sessuale di

gruppo dalla sentt. n. 232 del 2013. Ma lo stesso argomento è presente nelle sent. 164 e 231 e 331 del 2011; nonché nella sent. n. 110 del 2012.

(9)

“empiricamente fondata”, potrebbe essere quella dei reati orientati alla finalità di terrorismo (e segnatamente, art. bis, quater e 270-quinquies), specie perché alla rete terroristica (e quindi non solo alla “associazione”) è in genere sotteso (non solo un gruppo strutturato ed organizzato, bensì pure) una connessione anche trasnazionale fatta di legami ombrosi e omertosi, che si avvale di canali di comunicazione difficili da scoprire e penetrare; dove la rete dimostra dunque una capacità di tenuta particolarmente subdola e sotterranea, che (forse) giustifica la massima misura custodiale come strumento volto a spezzare il collegamento tra le “cellule” e i componenti”26.

In conclusione possiamo evidenziare che “dallo sciame di precedenti sino ad ora inanellati dalla Consulta è emersa una perentoria riaffermazione del principio del “minimo sacrificio necessario” e, parallelamente, la giustificazione del carcere solo (e davvero) in chiave di extrema ratio sin dalla fase cautelare: giustificazione che si iscrive non solo, in una precisa cornice assiologica, ma che registra crescenti condivisioni a livello politico”27, certo stimolate dall’allarmante denuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla situazione insostenibile della carceri italiane28, cui ha fatto del resto eco il severo monito, ancora una volta, della Corte costituzionale29.

26 Manes V., op. cit. 27

Manes V., op. cit.

28 Con riferimento alla nota pronuncia della Corte EDU, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c.

Italia, ma anche alle plurime raccomandazioni del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa con le quali i magistrati della funzione requirente e quelli della giudicante sono stati invitati a fare ricorso il più largamente possibile alle misure alternative alla detenzione

29

Il riferimento è alla sent. n. 279 del 2013, la quale, nel giudicare inammissibile la questione di legittimità dell’art. 147 c.p., perché l’intervento richiesto alla Corte - a fronte della “pluralità di possibili configurazioni dello strumento normativo occorrente per impedire che si protragga un trattamento detentivo contrario al senso di umanità, in violazione degli artt. 27, 3° co. e 117, 1° co., Cost., in relazione quest’ultimo all’art. 3 Cedu “avrebbe invaso il campo della discrezionalità legislativa (compromettendo “la priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei

(10)

§2. La ragionevole durata delle misure cautelari e il problema del sovraffollamento carcerario.

Il sistema carcerario italiano è al centro dell’attenzione da parecchi anni e di parecchie istituzioni pubbliche e private, dal momento che una semplice visita ad uno dei tanti istituti penitenziari disvela una realtà drammatica e soffocante per la vita di coloro che, a vario titolo, sono obbligati a passare parte della loro esistenza in tali strutture. “La sentenza Torreggiani30

ha posto all’attenzione della Comunità la grave questione del sovraffollamento delle strutture carcerarie italiane, determinato, almeno in parte, dalla presenza di numerosissimi imputati ancora in attesa di giudizio. La Corte di Strasburgo preso atto di tale situazione, ha chiarito che le inadeguate condizioni in cui le persone detenute si trovano, si risolvono in un trattamento inumano e degradante; ed il numero così elevato di persone all’interno della struttura carceraria appare contrastante rispetto all’indirizzo comunitario che spinge ad un uso più massiccio delle misure alternative alla detenzione sia in sede cautelare sia a titolo di espiazione di pena31”32. Nella citata sentenza, la Corte, constatato che

mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario”), ha da un lato ricordato “le indicazioni offerte al riguardo dalla citata sentenza Torreggiani, laddove richiama le raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che invitano al più ampio ricorso possibile alle misure alternative alla detenzione e al riorientamento della politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione, oltre che a una forte riduzione della custodia cautelare in carcere”.

Dall’altro, ha ribadito il monito già contenuto in precedenti decisioni dove il non liquet è stato determinato dal doveroso rispetto delle prerogative del legislatore: “Nel dichiarare l’inammissibilità questa Corte deve tuttavia affermare come non sarebbe tuttavia tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato dalla presente pronuncia”.

In tale senso si esprimono le raccomandazioni del Consiglio d’Europa.

30 Corte eur. 8 gennaio 2013, Torregiani ed altri c. Italia.

31 Si vedano in proposito le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 22 del 1999 e n. 13 del

(11)

il disumano trattamento carcerario legato al sovraffollamento non rappresenta un caso isolato bensì un problema sistemico, ha deciso di ricorrere alla procedura della sentenza pilota ed ha imposto all’Italia di compiere modifiche strutturali idonee ad impedire la protrazione di tale situazione. “La carcerazione, hanno affermato i giudici di Strasburgo, non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione. Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato”33. In questo contesto, l’articolo 3 Cedu pone a carico delle autorità un obbligo positivo che consiste “nell’assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato ad uno stato di sconforto né ad una prova d’intensità che ecceda l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione e che, tenuto conto delle esigenze pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati adeguatamente”.

“La grave mancanza di spazio sperimentata dai sette ricorrenti per periodi variabili dai quattordici ai cinquantaquattro mesi, costitutiva di per sé di un trattamento contrario alla Convenzione, sembra essere stata ulteriormente aggravata da altri trattamenti denunciati dagli interessati. La mancanza di acqua calda nei due istituti per lunghi periodi, ammessa dal Governo, nonché l’illuminazione e la ventilazione insufficienti nelle celle del carcere di Piacenza, sulle quali il Governo non si è espresso, non hanno mancato di causare nei

32 Nacar B., La ragionevole durata delle misure cautelari personali, Dir. Pen. e Processo, 2014, 3,

339.

(12)

ricorrenti un’ulteriore sofferenza, benché non costituiscano di per sé un trattamento inumano e degradante”34.

“Ora, poiché il 40% della popolazione carceraria è in attesa di giudizio, per provare ad adeguarsi al diktat della Corte, la dottrina più attenta ha proposto l’introduzione di strumenti cautelari nuovi prendendoli “a prestito” dai Paesi anglosassoni, quali la c.d. cauzione35; il Governo ad ipotizzare un ampliamento dell’utilizzo e della durata delle misure interdittive, in alternativa a quella inframuraria, ed il Parlamento a delimitare l’ambito di applicazione della misura in vinculis circoscrivendone i presupposti36. Orbene, se con la pronuncia Torreggiani si condanna l’uso troppo disinvolto della misura carceraria e si invita lo Stato italiano a prendere gli opportuni

34 Così la sentenza della Corte eur., 8 gennaio 2013, Torreggiani ed altri c. Italia.

35

La libertà su cauzione è un diritto fondamentale della persona, come tale implicito nell’accettazione di un sistema garantista. Questo è dimostrato dal fatto che l’istituto del Bail è stato previsto nel Bill of rights del 1689, che costituisce il testo-base del diritto costituzionale inglese. Se in Italia fosse introdotto l’istituto della cauzione, il sistema tornerebbe ad essere razionale, perché si consentirebbe all’imputato di adempiere ad un onere della prova che, altrimenti, potrebbe essere per lui troppo pesante. D’altra parte, la cauzione è uno strumento efficace e comprensibile. È efficace, perché segue la massima di esperienza secondo cui, quando si tocca il portafoglio, le persone diventano sensibili: è una logica che ha funzionato anche con la mafia attraverso lo strumento della confisca dei patrimoni.

La cauzione è uno strumento comprensibile da tutti, perché segue logiche chiare: se nella famiglia qualcuno dei congiunti presta i soldi, il congiunto poi si garantirà il mezzo per non perderli. Ed è anche, l’adeguatezza della cauzione, un dato facilmente accertabile. Oggi la Guardia di finanza è in grado di conoscere i redditi di ogni persona e svolge accertamenti del genere, ad esempio, quando si deve valutare la meritevolezza del patrocinio a carico dello Stato per coloro che si affermano nullatenenti. La valutazione dell’adeguatezza della cauzione è un accertamento che può essere basato su garanzie giurisdizionali. Oggi vi sono gli strumenti probatori che permettono una decisione ponderata e che possono essere utilizzati sia dal giudice per le indagini preliminari, sia dal tribunale della libertà; meccanismi che nel vecchio codice non esistevano; e così si può spiegare l’ostracismo che nel’88 vi è stato verso l’istituto in esame. Occorre uno sforzo eccezionale di fantasia, che deve essere compiuto dal legislatore, ovviamente indirizzato dalla dottrina. Ma è possibile mai che noi italiani ci facciamo insegnare dal terzo mondo che esiste un istituto giuridico che è stato inventato dal diritto romano? Un istituto giuridico, la libertà su cauzione, che esisteva in Italia nei codici del 1865, del 1913, del 1930 e che soltanto il codice dell’88 ha eliminato per motivi che oggi riconosciamo essere meramente ideologici.

Limitarsi ad aumentare le quantità di pena che consentono di far scattare la carcerazione cautelare, come è stato fatto nello scorso agosto, ad opera del legislatore che ha convertito il d.l. n. 78 portando la soglia della carcerazione cautelare a cinque anni nell’art. 280, comma 2, è uno strumento rozzo; ed anche pericoloso perché si presta ad essere piegato alle logiche dell’allarme sociale. In questi termini Tonini P., La carcerazione per gravi delitti: dalle logiche dell’allarme sociale alla gestione in chiave probatoria, Dir. Pen. e Processo, 2014, 3, 261.

(13)

provvedimenti e se l’attenzione della Comunità italiana è prevalentemente orientata a ridurre le situazioni in cui è possibile ricorrere alla misura custodiale, non può escludersi a priori un intervento normativo mirato a rendere più ragionevoli i tempi di privazione della libertà personale. Anche in questo modo si contribuisce alla diminuzione dell’affollamento delle carceri”37.

Allo stato, difatti, le disposizioni che regolano il procedimento cautelare, ed in special modo la durata delle misure limitative della libertà personale, nonché le prassi giurisprudenziali formatesi in materia, “manifestano l’irrazionalità di un sistema che, talvolta, presenta segni di frizione rispetto al dettato costituzionale; tal’altra, soprattutto a seguito delle stratificazioni legislative successive all’entrata in vigore del codice dell’8838

sembra prevalentemente orientato ad ammettere, sia pur nei limiti fissati dal 4° co., dell’art. 306 c.p.p., un numero sempre maggiore di proroghe dei termini fasici rendendo, così, del tutto evanescente la loro natura perentoria. Invero, al fine di evitare la scarcerazione dell’imputato per il superamento dei termini intermedi quando la fase del processo non si è ancora conclusa in ragione delle inutili stasi processuali ovvero per l’esercizio di diritti da parte dell’imputato, sono stati predisposti istituti che assumono di volta in volta nomina differenti congelamento, proroga, sospensione, i quali hanno tutti l’obiettivo comune di alterare la relazione di compromesso, individuata nei termini di fase, fra libertà personale ed esigenze processuali”39.

37 Nacar B., op. cit.

38 A partire già dalla L. n. 336/1991, che ha modificato il 2° co., dell’art. 299 c.p.p. 39 Nacar B., op. cit.

(14)

§2.1. (Segue). Uno sguardo alle fonti normative convenzionali e costituzionali che regolamentano la ragionevole durata delle misure cautelari personali.

In un ordinamento giuridico che si connota per la molteplicità delle fonti normative, l’esame di istituti incidenti su beni primari quali la libertà personale non può prescindere da un’analisi delle fonti gerarchicamente superiori che ad essi si riferiscono e al cui dettato è necessario uniformarsi. In quest’ottica appare rilevante che, al pari di quanto accade per la ragionevole durata del processo, la Convenzione non pone alcun tetto massimo di durata della misura cautelare, epperò riconosce il diritto della persona accusata ad essere giudicata entro un termine ragionevole, se sottoposta a misura custodiale, ovvero di essere rimessa in libertà40. Invero i tempi della carcerazione preventiva non possono considerarsi ragionevoli41 in astratto, ma devono essere valutati con riferimento al caso concreto e alla necessità di bilanciare il diritto di libertà e la presunzione di innocenza con l’interesse pubblico42

. A tal fine, dunque, diventano essenziali le ragioni poste dall’autorità giudiziaria per giustificare il rigetto di istanze di scarcerazione e le circostanze addotte dall’accusato a sostegno della propria richiesta43; ed il prolungamento della detenzione è ragionevole solo in presenza di elementi concreti che dimostrino l’esistenza di una effettiva necessità di interesse pubblico

40 Corte eur., 20 luglio 2000, Caloc c. Francia.

41 Corte eur., 13 dicembre 2005, Kozlowski c. Polonia. 42

Va però ricordato che per la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo la ragionevole durata della misura cautelare rileva solo fino alla sentenza di primo grado; successivamente alla emissione della pronuncia, la detenzione non è qualificabile, come custodia cautelare, indipendentemente dal nomen iuris dato dai diversi ordinamenti.

(15)

prevalente sulla tutela della libertà personale44. Sicché, pure quando la misura cautelare è stata mantenuta entro i limiti legali non si esclude che la sua durata possa considerarsi irragionevole nell’ipotesi specifica, in presenza di ritardi ingiustificati nella conduzione del processo45. “Dunque, la Convenzione stabilisce una stretta e dichiarata interconnessione fra libertà personale e durata del processo e la Corte, per questa ragione, ritiene che esiste un particolare dovere del giudice di decidere sulla responsabilità del soggetto in vinculis in tempi assai più celeri rispetto a quelli ordinari”46; altrimenti l’accusato dovrà essere giudicato da libero. “Ciò, però, non significa dire che la Convenzione imponga una alternativa fra un giudizio in tempi brevi e la liberazione dell’imputato essendo, tale interpretazione, in contrasto con l’art. 6, 1° co., Cedu, secondo il quale “il processo deve svolgersi in tempi ragionevoli”; la previsione va intesa, invece, come necessità di scarcerare il soggetto in vinculis quando la sua detenzione superi i limiti della ragionevolezza, cioè “quelli del sacrificio della libertà che, attraverso una valutazione in concreto dei dati della causa, può essere ragionevolmente inflitto a una persona presunta innocente”47. In quest’ottica, quindi, la ragionevolezza della durata della misura inframuraria dipende dai tempi di definizione del processo e dalle esigenze processuali che su di essi hanno influito. Esiste, pertanto, una proporzione diretta fra durata della cautela e modalità di conduzione del procedimento di cognizione: la prima sarà sempre considerata ragionevole fino alla conclusione del processo principale se i tempi di

44 Corte eur., 24 agosto 1998, Contrada c. Italia. 45

In tal senso si esprime Nacar B., op. cit.

46 Sul tema si veda Pisani M., Commento all’art. 5 della Convenzione europea dei diritti

dell’uomo, in Commento alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a cura di Bartole S., Conforti B., Raimondi G., Padova, 2001, p. 134.

(16)

trattazione del giudizio sono giustificati dalla complessità dell’accertamento48

, nella quale, ovviamente, non rilevano le stasi processuali se prive di motivazione49”50.

Nel sistema italiano, invece, “il collegamento non è così stringente poiché i termini di durata della misura cautelare sono individuati dal legislatore quale compromesso fra la tutela della libertà personale ed i bisogni del processo e variano in rapporto alla gravità del reato contestato. Più elevata è la pena prevista per la fattispecie per la quale si procede, maggiore sarà la durata della misura cautelare poiché, si presume, più difficoltosa sarà la ricostruzione del fatto attribuito all’imputato. Dunque, a differenza della normativa convenzionale ove la ragionevolezza della durata della misura cautelare dipende dalla specificità del caso sottoposto all’attenzione del giudice, nel nostro ordinamento è il legislatore ad effettuare a priori quella valutazione sulla base di parametri che questi reputa a tal’uopo indicativi; i quali, però, non sempre sono idonei a rispecchiare la reale complessità del singolo procedimento. Per cui non è sempre vero che ad una ragionevolezza in astratto, compendiata nei termini di fase, complessivi e massimi, corrisponda, poi, una effettiva ragionevolezza in concreto dei tempi di privazione della libertà personale”51.

I termini, così individuati, sono cadenzati nel corso dell’intero procedimento per assicurare che l’imputato rimanga in vinculis, permanendo i presupposti, fino a quando la sentenza passa in cosa

48

Il diritto del detenuto ad essere giudicato in tempi brevi, difatti, deve essere contemperato con l’esigenza di buona amministrazione della giustizia e, specificatamente, con il bisogno dei magistrati di accertare i fatti contestati, dell’accusa e della difesa di produrre le prove e argomentare sulla quaestio, del giudice e di emettere una pronuncia matura sull’esistenza del reato e sull’entità della pena. Corte eur., 10 novembre 1969, Matznetter c. Austria.

49 Corte eur., 27 agosto 1992, Tomasi c. Francia. 50 Nacar B., op. cit.

(17)

giudicata. Sicché, la durata del processo gioca un ruolo residuale essendo considerata al solo scopo di ““spalmare” i tempi della cautela per l’intero arco del giudizio. Si vuole dire, cioè, che, nella logica sottesa all’impianto codicistico, l’estensione dei termini di custodia cautelare non può trovare la fonte di legittimazione nella durata del processo, se non indirettamente, nella misura in cui un eccessivo spostamento in avanti nello svolgimento del processo procrastina il momento dell’accertamento e dunque determina il persistere di specifiche esigenze processuali”52.

Nonostante le diversità testé indicate, “ove, in un caso, la ragionevole durata della misura cautelare deve essere valutata in concreto, nell’altra, attraverso presunzioni legislative, deve rilevarsi che se la disciplina ordinaria che regola la durata della misura cautelare rispondesse alla ratio innanzi delineata, non sempre si giungerebbe a conclusioni così diverse da quelle a cui perviene la Corte di Strasburgo. Difatti, tanto nell’ottica convenzionale quanto alla luce del descritto impianto normativo se, ad esempio, il prolungamento della cautela deve considerarsi ragionevole in presenza di una istruzione dibattimentale particolarmente complessa, lo stesso non può dirsi se la proroga sia determinata da una udienza preliminare o dibattimentale celebrata in più date per l’eccessivo carico giudiziario dell’organo deputato a valutare la fondatezza dell’ipotesi accusatoria.

Sennonché, l’analisi della attuale normativa in materia cautelare ha dimostrato, soprattutto nelle novellazioni successive all’88, che il legislatore ha introdotto talune fattispecie di neutralizzazione dei termini fasici proprio a causa dell’eccessiva durata del processo, senza porre alcuna distinzione di effetti, come vorrebbe la Corte di

(18)

Strasburgo, in ragione dei soggetti che hanno contribuito a darvi causa e delle evenienze che hanno comportato tale conseguenza”53.

Dunque, allo stato, “laddove voglia individuarsi un collegamento fra i tempi della cautela e la durata del processo, nell’ordinamento italiano la relazione si presenta esattamente in termini opposti a quelli convenzionali: non un processo breve che comprima la libertà personale per il tempo strettamente necessario a valutare la responsabilità del soggetto in vinculis, bensì un prolungamento dei termini fasici e complessivi per adeguarli alle lungaggini processuali. Se così è, allora, la durata della misura cautelare non può considerarsi ragionevole come impone la Convenzione almeno tutte le volte in cui il suo protrarsi non trovi fondamento in stringenti esigenze processuali”54.

“La difformità della disciplina codicistica rispetto ai dettami della Convenzione europea dei diritti dell’uomo si palesa con altrettanta chiarezza pure in rapporto alle norme Costituzionali in materia di

53

Ancora Nacar B., op. cit.

54

Per porre rimedio alla violazione della disposizione convenzionale non è sufficiente prevedere un ristoro economico, ai sensi dell’art. 314 c.p.p. E ciò non tanto in ragione della circostanza che la norma si rivolge esclusivamente a chi essendo stato sottoposto a misura cautelare veda il procedimento principale concluso con una sentenza di proscioglimento ovvero se di condanna qualora si sia accertato che il provvedimento è stato emesso senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p. E, dunque, poiché non si riconosce alcun diritto nell’ipotesi in cui la protrazione della misura cautelare sia stata in concreto irragionevole in rapporto alle modalità di conduzione del procedimento. Sotto questo aspetto, difatti, il limite potrebbe essere superato facendo proprio l’orientamento della dottrina (Chiavario M., La riforma del processo penale, 2° ed., Torino, 1990 p. 184) la quale ha proposto una interpretazione estensiva del 2° co., del citato articolo, alla luce dell’art. 5 Cedu, che ricomprenda anche tale evenienza. La previsione, difatti, non soddisferebbe ove si ricordi che l’art. 46 Conv. eur. dir. uomo stabilisce che “adempiere alla decisione di Strasburgo comporta anche l’obbligo per gli Stati membri di assumere le misure generali necessarie a prevenire nuove violazioni dei diritti in situazioni analoghe […] anche per evitare un sovraccarico di lavoro alla Corte di Strasburgo, che altrimenti sarebbe chiamata ad intervenire a ripetizione su un elevato numero di casi, tutti simili l’uno all’altro”. Sicché, il legislatore italiano, per dare attuazione alla volontà convenzionale, non può limitarsi a riconoscere un risarcimento economico tutte le volte in cui la durata della misura cautelare sia irragionevole, ma deve predisporre gli interventi normativi più opportuni per evitare che nel futuro qualsiasi cittadino italiano possa adire la Corte di Strasburgo per ottenere il riconoscimento della violazione del diritto ad una ragionevole durata della misura cautelare.

(19)

libertà personale. Anzi, a ben riflettere, la lettura integrata dell’art. 5 Cedu e degli artt. 13 e 27 Cost., rileva l’esistenza di un quadro normativo, assolutamente armonico, il quale, ponendosi come riferimento indispensabile, trattandosi di disposizioni di rango superiore, per il legislatore ordinario, manifesta l’assoluta irragionevolezza dell’attuale impianto normativo. La fonte sovrannazionale, infatti, impone che la durata della misura cautelare sia ragionevole rispetto agli interessi che vengono in rilievo nella vicenda cautelare e ai tempi di definizione del procedimento di cognizione; la Carta costituzionale, attraverso il combinato disposto del 5° co., dell’art. 13 e dell’art. 27, stabilisce quando i tempi della cautela sono assolutamente irragionevoli, indipendentemente dalla gravità indiziaria o dalle esigenze del procedimento”55. Insomma, la Costituzione fissa il limite di assoluta irragionevolezza della durata della misura cautelare oltre il quale, secondo la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’accusato deve essere scarcerato e giudicato da libero.

Orbene, “sotto il primo aspetto, operando quale regola di giudizio, l’art. 27 Cost., letto unitamente al 5° co., dell’art. 13 Cost., garantisce che la privazione della libertà personale nel corso del processo non possa protrarsi fino alla sua equiparazione con la pena comminata per il reato per il quale si procede”56. “Diversamente, nel caso in cui esse coincidessero, l’imputato sarebbe parificato al colpevole”57. L’interpretazione è stata condivisa dalla giurisprudenza costituzionale la quale ha sottolineato che “la detenzione preventiva in nessun caso

55 Nacar B., op. cit.

56Fiandaca G., Di Chiara G., Una introduzione al sistema penale. Per una lettura

costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, p. 316.

(20)

può avere funzione di anticipazione della pena; essa, dunque, può essere predisposta unicamente in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo. Ed è proprio in questa logica che il legislatore ordinario ha predisposto un sistema assai complesso di termini di durata delle misure cautelari e in special modo di quella più afflittiva attraverso la fissazione di termini di fase, complessivi e massimi”58. La stessa Consulta ha, poi, chiarito che se i termini massimi manifestano la attuazione a livello di legislazione ordinaria della volontà costituzionale, la individuazione di termini di fase, invece, non è imposta dalla Carta59 né appare con essa incompatibile purché copra l’intera durata del processo.

Deve, tuttavia, osservarsi che se si vuole “differenziare la posizione dell’imputato in stato di custodia cautelare da quella del condannato con sentenza irrevocabile, nel senso imposto dalla Costituzione, non è possibile che il termine ultimo di durata della misura cautelare sia fatto coincidere con la pena astrattamente irrogabile a quel determinato soggetto se fosse considerato colpevole. Difatti, poiché per ciascuna fattispecie penale incriminatrice il codice prevede una pena minima e massima che, poi, va commisurata alla gravità della condotta effettivamente posta in essere dall’imputato, la diversità di trattamento non può essere in ogni caso garantita quando il parametro di riferimento è sempre la pena massima edittale, come invece stabilisce il legislatore ordinario nel 6° co., dell’art. 304 c.p.p.; non essendo sempre vero che l’imputato ancora innocente, in questo

58 C. Cost., 23/04/1970, n. 64. 59

“ Le statuizioni della presente sentenza non precludono al legislatore una nuova disciplina della materia, eventualmente differenziata non solo in relazione ai vari tipi di reato, ma anche in relazione alle varie fasi del procedimento, purché in conformità con l’ultimo comma dell’art. 13 Cost., si assicuri in ogni caso la predeterminazione d’un ragionevole limite di durata della detenzione preventiva”. Ancora la Consulta attraverso la sentenza del 23/04/1970, n. 64.

(21)

modo, sarebbe considerato in maniera disomogenea rispetto alla stessa persona successivamente reputata colpevole”60. Insomma, la diversità di trattamento non può essere assicurata avendo quale riferimento un qualsiasi soggetto considerato colpevole con sentenza passata in giudicato per il medesimo reato né avendo riguardo alla pena che potenzialmente potrebbe ad esso essere comminata, bensì rispetto a quel determinato imputato poi ritenuto responsabile del fatto contestatogli ed alla pena inflittagli nella sentenza di condanna.

“Se l’interpretazione è corretta, allora, la fissazione di un termine astratto di durata della cautela non è condizione sufficiente a dare attuazione alla volontà costituzionale né soddisfa il principio di ragionevolezza richiesto dall’art. 5 Cedu; è, invece, indispensabile che la durata sia adeguata agli sviluppi ed alla complessità del procedimento principale del singolo imputato in vinculis. La Corte costituzionale, difatti, ha chiarito in maniera illuminante che le condizioni ed i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare devono essere apprezzati sulla base “della situazione concreta, alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, così da realizzare una piena individualizzazione della coercizione personale”61. L’attuale normativa, al contrario, laddove

ancora i termini di privazione della libertà personale a parametri non strettamente legati alla posizione dell’indagato rischia di garantire una ragionevolezza in astratto della durata della cautela alla quale, però, potrebbe non corrispondere una ragionevolezza in concreto della stessa. E ciò asseconderebbe il dettato costituzionale solamente sul piano formale e sicuramente si porrebbe in contrasto con

60 Nacar B., op. cit.

(22)

il dictum della Corte di Strasburgo se la durata della misura non trovasse giustificazione nelle peculiarità del procedimento”62.

(23)

§3. La riduzione dei detenuti in attesa di giudizio: un impegno verso gli altri Stati europei.

“L’impegno a ridurre drasticamente i numeri dei detenuti in attesa di giudizio, sia per fronteggiare il fenomeno del sovraffollamento sia per garantire l’effettivo rispetto del principio secondo cui la carcerazione preventiva deve rappresentare l’extrema ratio anche in questa materia, lo impone l’Europa”63.

Il convincimento che governa tale necessità è riassunto in questo inciso: “I detenuti in attesa di giudizio e quelli condannati hanno diritto a un ragionevole livello di detenzione. Le carceri sovraffollate e le accuse di trattamento inadeguato dei detenuti possono deteriorare la fiducia sulla quale necessariamente si basa la cooperazione giudiziaria nell’Unione europea”64

.

Sennoché, risulta che la custodia cautelare, pur essendo qualificata da tutti gli ordinamenti nazionali strumento eccezionale, ha ancora una diffusa e squilibrata applicazione. L’entità della popolazione carceraria è considerevole e le condizioni della detenzione sono state sovente considerato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in contrasto con l’art. 3 della Cedu, il quale sancisce il principio secondo cui “nessuno può essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti”65

.

63 Ciavola A., Il Rafforzamento delle garanzie dell’indagato sottoposto a custodia cautelare, Diritto

penale contemporaneo 1/2013, p.132.

64Commissione Europea, COM (2011) 327, Bruxelles, 14 giugno 2011, Libro verde

sull’applicazione della normativa UE sulla giustizia penale nel settore della detenzione.

65 La Corte europea dei diritti dell’uomo, da anni, al fine di valutare il contrasto delle condizioni

detentive con l’art. 3 Cedu., utilizza come riferimento, seppure non vincolante, i criteri individuati dal CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti). Il CPT ha fissato in 7 mq a persona la superficie minima auspicabile per una cella

(24)

Le condizioni in cui attualmente versa il sistema penitenziario italiano, alle quali non pare eccessivo riferirsi in termini di “emergenza nazionale, sono drammaticamente evidenziate da due indicatori, il primo dei quali è costituito dal dato sull’entità della popolazione detenuta, la cui consistenza numerica non accenna a diminuire in modo apprezzabile, nonostante alcuni recenti segnali in controtendenza; il secondo, dal numero dei suicidi e dei tentativi di suicidio avvenuti tra le mura del carcere, sintomo inequivocabile di una situazione di insostenibile sofferenza umana e di un degrado complessivo. Tale situazione rende in radice vana ogni possibilità di indirizzare l’esecuzione penale a quel fine rieducativo che, per vincolo costituzionale, deve connotarla e sta esponendo da tempo a gravi responsabilità il nostro Paese per la violazione dei diritti fondamentali delle persone detenute, come testimoniano le sempre più frequenti condanne dell’Italia di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (v. sentenza del 16 luglio 2009 nel caso Sulejmanovic c. Italia) e dell’amministrazione penitenziaria davanti al giudice interno, in alcuni recenti leading cases”66.

Chi come gli avvocati ed i magistrati, ha avuto la possibilità di frequentare gli istituti penitenziari, nella piena consapevolezza di

detentiva, un dato che sebbene solo indicativo, evidenzia, comunque, come un’eccessiva sovrappopolazione carceraria ponga di per sé un problema sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione. Se, da una parte, però, la Corte ha chiarito che non è possibile quantificare, in modo preciso e definitivo, lo spazio personale che deve essere concesso ad ogni detenuto ai sensi della Convenzione, atteso che esso può dipendere da numerosi fattori, quali la durata della privazione della libertà, le possibilità di accesso alla passeggiata all’aria aperta o le condizioni mentali e fisiche del detenuto. Dall’altra parte, rimane fermo che quando la mancanza di spazio personale per i detenuti non è talmente flagrante da giustificare da sola la violazione dell’art. 3, devono essere presi in considerazione altri aspetti delle condizioni detentive. Tra di essi figurano la possibilità di utilizzare privatamente i servizi igienici, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce e all’aria naturali, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base.

(Sul punto, ex plurimis, v. Corte eur., 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia).

66 Così nei Quaderni del Consiglio superiore della magistratura, Sovraffollamento carceri: una

proposta per affrontare l’emergenza, “Relazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza”, 2013, n. 160.

(25)

uscirne dopo avere adempiuto al proprio incarico professionale, ha mantenuto sempre la sensazione di essere di fronte ad un mondo nel quale la ghettizzazione e l’impoverimento della personalità hanno creato e possono creare danni irreversibili anche in soggetti apparentemente in grado, per intelligenza, sensibilità esistenziale ed abitudine alla frequentazione dei luoghi, di metabolizzare esperienze davvero difficili sia sul piano materiale che sul piano spirituale e psicologico; chi ha avuto occasione di seguire persone sottoposte a custodia cautelare e poi assolte o prosciolte nel corso del procedimento sa bene quali effetti devastanti tale esperienza ha potuto determinare, senza dimenticare peraltro che molte di esse, anche a distanza di anni, sono sottoposte a trattamenti di analisi psichiatrica o psicanalitica.

Con riferimento allo scenario comunitario, la Corte europea ha individuato nelle condizioni di vita presenti all’interno delle carceri italiane una delle più significative cause dell’imponente aumento dei ricorsi per violazione dei diritti fondamentali della persona nel caso di soggetti detenuti, lievitati in breve tempo sia in termini di numerosità che di intensità del vulnus arrecato alle posizioni soggettive degli interessati, ed ha riconosciuto che la ““questione penitenziari” ha assunto in Italia una intollerabile configurazione strutturale, tale da rendere improcrastinabili interventi non più caratterizzati da risposte di natura episodica o, peggio, “emozionale”, ma ispirati da una visione di sistema e dalla percezione chiara delle criticità che è necessario affrontare”67.

Non vi sono dubbi che l’attuale situazione sia il frutto del sommarsi di

67 In tale senso la Relazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura

(26)

fattori, soprattutto di carattere organizzativo, strutturale e normativo, che hanno operato in una sorta di sinergia perversa. “Una incidenza non trascurabile, anche se talvolta trascurata, hanno esercitato le molteplici criticità nei rapporti tra la magistratura di sorveglianza e le articolazioni dell’amministrazione penitenziaria, che hanno reso eccessivamente inefficiente e farraginoso lo svolgersi delle procedure finalizzate alla gestione dell’esecuzione penitenziaria. Molto ha pesato, inoltre, lo scarso coordinamento tra il sistema penitenziario e le agenzie esterne, quali in primo luogo il servizio sanitario nazionale e gli enti amministrativi territoriali”68. Tali “deficit organizzativi hanno concorso ad aggravare il progressivo scadimento del trattamento fornito negli istituti di pena, dovuto essenzialmente alla fatiscenza delle strutture e alle carenze negli organici degli operatori e del personale di polizia penitenziaria. Gli effetti di tali limiti “endemici” hanno poi da tempo superato gli argini della tollerabilità civile e giuridica per l’esiziale effetto moltiplicatore delle presenze negli istituti di pena ascrivibile a diverse cause, tra le quali: la esponenziale crescita dell’area delle condotte penalmente rilevanti per effetto della continua introduzione di nuove fattispecie di reato; la codificazione di ipotesi “obbligatorie” di applicazione della custodia cautelare69; nonché il ricorso alla stessa, da parte dei giudici al fine di neutralizzare la pericolosità sociale degli imputati e di rispondere alla diffusa percezione collettiva di insicurezza sociale; il patologico fenomeno delle c.d. “porte girevoli”, che vede il passaggio in carcere, spesso per pochi giorni, di soggetti in

68

In tale senso la Relazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di sorveglianza, op. cit.

69 Si pensi al D.L. n. 11 del 2009, convertito con modifiche nella legge n. 38 del 2009,

reiteratamente oggetto di censura da parte della Corte costituzionale – v. ad esempio le sent. nn. 265/2010 e 164/2011.

(27)

stato di arresto e sottoposti a custodia precautelare; il moltiplicarsi di automatismi che precludono l’accesso dei condannati alle misure alternative alla detenzione, mortificando irrimediabilmente ogni possibilità di tracciare percorsi rieducativi individualizzati e riducendo drasticamente il “flusso in uscita” dei detenuti”70

.

Le misure contenute nella legge 199/2010, in materia di esecuzione della pena detentiva presso il domicilio (al suo apparire ottimisticamente battezzata “svuota carceri”); la legge n. 62/2011, in tema di detenute madri, non sono riuscite ad incidere significativamente sul fenomeno. Anche le iniziative avviate sul fronte dell’edilizia penitenziaria (il c.d. “piano carceri”) o assunte dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria relativamente alla sperimentazione di innovative forme di gestione dei soggetti detenuti, pur muovendosi senz’altro nella giusta direzione, non hanno ancora potuto dispiegare appieno gli attesi effetti per influire stabilmente sul sovraffollamento degli istituti e sul miglioramento complessivo delle condizioni detentive. L’ultimo intervento che ambisce ad essere di tipo sistematico, risale al D.l. 1 luglio 2013, n. 78 intitolato “ Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena”, convertito nella L. 9 agosto 2013, n. 84, varato dal Governo nella prospettiva di ridurre con effetti immediati il sovraffollamento carcerario.

Gli interventi sono stati particolarmente numerosi e si possono ricordare, in via sintetica, i più significativi. Intanto sono stati aggiunti all’art. 656 c.p.p., alcuni commi mirati ad accelerare l’applicazione della liberazione anticipata; il 9° co., dello stesso articolo limita fortemente le restrizioni di tipo oggettivo e soggettivo. Di un certo

70 In tale senso la Relazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura

(28)

interesse la modifica all’art. 284 c.p.p., con la quale si stabilisce che il giudice debba identificare “il luogo degli arresti domiciliari in modo da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato”. Le modifiche dell’ordinamento penitenziario71

, in particolare, vengono ridotte le limitazioni per la concessione della detenzione domiciliare; i detenuti e gli internati possono essere assegnati a svolgere un’attività di tipo volontario e gratuito per la esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività mentre sono stati abrogati alcuni articoli che impedivano ai recidivi di accedere ai permessi premio, alla semilibertà e alle misure alternative; una qualche apertura alla considerazione delle persone tossicodipendenti si registra anche nelle modifiche al d.P.R. n. 309 del 1990, dal momento che a certe condizioni anche tali persone possono essere destinate ad un lavoro di pubblica utilità. Di particolare interesse l’istituzione del Commissario straordinario del Governo per le infrastrutture carcerarie. La legge di conversione del 9 agosto del 2013, n. 94, ha apportato delle modifiche significative, la prima delle quali riguarda le condizioni di applicabilità della custodia cautelare in carcere che attualmente è ammissibile solo per i delitti per i quali si è prevista la pena della reclusione non inferiore ad un massimo di 5 anni (il tetto massimo abrogato era di 4 anni). Sono infine previste misure per favorire l’attività lavorativa dei detenuti e degli internati72

. L’intervento legislativo è davvero cospicuo, ma, per capirne l’effettiva portata deflattiva del carico carcerario, bisognerà vedere in che misura il sistema penitenziario e giudiziario sarà in grado di assorbire in breve tempo tutte le modifiche prospettate.

71 Vale a dire della L. 354 del 1975.

72 Cfr., la Relazione della Commissione mista per lo studio dei problemi della magistratura di

(29)

La buona volontà non manca, ma l’impressione che si ricava da questa ennesima prova di risoluzione strutturale del problema carcerario è la seguente: il Governo e quindi il Parlamento partono dall’idea che non sia assolutamente possibile ridurre il carico personale delle istituzioni penitenziarie. Lo sforzo che viene pensato è quello di ampliare le strutture immobiliari destinate all’esecuzione della pena in carcere in modo da adeguarle alle esigenze delle persone che si vedono eseguire la pena detentiva in carcere. In realtà bisognava intervenire anche in un altro modo, vale a dire, identificare eventuali ragioni sistematiche per diminuire, all’interno delle carceri, il numero degli internati e dei detenuti per la esecuzione di una pena definitiva, il numero di coloro che si trovano nelle strutture carcerarie in attuazione di una misura cautelare. Si sarebbe dovuto vedere se fosse possibile identificare misure alternative all’esecuzione della pena o della misura di sicurezza in carcere ovvero modalità applicative della custodia cautelare, poiché si ha motivo di credere che la cultura della custodia cautelare in carcere adottata per fini investigativi e per sollecitare, sia pure in forma indiretta, una collaborazione degli indagati o degli imputati, sia tuttora alquanto diffusa tra i magistrati ed i giudici inquirenti73

Un’opera di penetrazione culturale è certo più difficile di una serie di programmazioni edilizie, ma è certo che la prima potrà dare dei risultati più significativi rispetto a delle fredde mura di ogni carcere sia pure moderno74.

73 Cfr. Giorda A., Il Sovraffollamento carcerario: un altro intervento di buona volontà, Corriere

Merito, 2013, 11, 1041.

Riferimenti

Documenti correlati

Cette résolution qui s’intitule « Les femmes, la paix et la sécurité » commence, entre autres, par réaffirmer « le rôle important que les femmes jouent dans la prévention et

(Ireland has never had compulsory military service). It has certainly been a less clear position than those of the four recognised European neutral states,

Despite the overall reduction in the prison population in 2015, there was no progress at the pan­European level to

In sede di conversione del d.l. 78/13, è stata modificata anche la disciplina in materia di arresti domiciliari. 284 c.p.p., dopo il comma 1, è stato aggiunto

L’individuazione delle ragioni dell’illegittimità della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia carceraria per i reati di.. violenza sessuale

Rinunciare a questo obiettivo ci porrebbe fuori dalla Costituzione, dalla democrazia, dalla civiltà e una resa di questo tipo regalerebbe alla criminalità organizzata fiumi

fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, su istanza presentata dal detenuto,

Muovendo dalla positiva esperienza del circondario di Catania, ove si è giunti – grazie alla collaborazione tra uffici interessati (procura, tribunale e direzione della casa