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Capitolo II Evoluzione della colpa medica

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Capitolo II

Evoluzione della colpa medica

Sommario

I. Colpa in generale,

II. Colpa medica: l’elaborazione del secolo XX.

III. Colpa medica: l’elaborazione negli anni 1990 – 2008,

a. L’intervento delle Sezioni Unite (2008),

b. Questioni rimaste irrisolte nonostante

l’intervento delle Sezioni Unite,

IV. Strumenti per l’accertamento della responsabilità medica: visione comparatistica,

a. Caratteristiche delle linee guida,

b. Natura ed efficacia delle linee guida,

c. Diffusione delle linee guida e profili critici, d. Ingresso delle linee guida nella gerarchia delle

fonti,

V. Accertamento della responsabilità,

a. Criteri per l’individuazione delle regole cautelari,

b. Imputazione dell’evento,

c. Cause di esclusione della responsabilità – cenni, VI. Responsabilità del medico in contesti organizzativi

e plurisoggettivi,

a. Responsabilità per carenze strutturali, a.1 Giudizio di imputazione soggettiva, a.2 Responsabilità dell’ente ex d.lgs. 231/01,

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a.3 Colpa di organizzazione, b. Responsabilità plurisoggettiva

b.1 Posizioni della giurisprudenza,

b.2 Ruolo delle checklist nel lavoro d’équipe, b.3 Giudizio di responsabilità,

b.4 Derelizione degli oggetti,

b.5 Giudizio di responsabilità fondato sulla posizione di supremazia gerarchica,

b.6 La posizione del primario,

b.7 Rapporto tra medico in posizione apicale e figure speciali di sanitari, in particolare: medici specializzandi e personale paramedico,

VII. Una panoramica sul fenomeno della medicina difensiva,

VIII. Proposte di modifica della responsabilità per colpa medica,

a. Progetto di riforma del Centro Studi Federico Stella.

b. “Decreto Balduzzi” – rinvio.

I. Colpa in generale

Prima di analizzare l’evoluzione della colpa medica, è necessario soffermarsi su alcuni aspetti della colpa in generale.

La colpa denota l’assenza di volontà nella commissione del fatto tipico.

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Vi sono innanzitutto due tipologie di colpa: generica e specifica, la prima consiste nella violazione di regole di comune esperienza (individuate nella prudenza, diligenza e perizia) che sono idonee a far emergere il comportamento da tenere in presenza di alcune circostanze, la seconda fa riferimento alla violazione di regole codificate di vario rango, poste per l’esercizio di un’attività.

Le regole, in entrambi i casi, hanno come obiettivo quello di evitare il prodursi di un evento dannoso per l’interesse di terzi.

Queste norme non vanno ad incidere sul precetto penale riguardante il divieto di cagionare l’evento, ma si occupano di valutare se il fatto è imputabile all’agente in virtù della condotta che si poteva da lui esigere per scongiurare l’offesa.

Tutto ciò trova compimento nella teoria dell’agente

modello che fa riferimento ad un livello di conoscenze ed

esperienze da considerarsi proprio di un “gruppo” di soggetti all’interno del quale si può includere anche l’autore del fatto da valutare. Il giudizio sulla condotta tenuta dal soggetto verrà effettuato sulla base di un parametro di riferimento che sia in grado di esprimere il livello di diligenza richiesto ed esigibile da un gruppo di individui in cui rientra anche il soggetto della cui responsabilità si discute.

La regola viene individuata attraverso la combinazione di due fondamentali elementi di giudizio: la prevedibilità

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dell’evento e la sua evitabilità, in modo da escludere la responsabilità se viene dimostrato che, dinanzi alle precauzioni del caso, il soggetto si è trovato in circostanze tali da poter essere fronteggiate solo da soggetti dotati di più esperienza.

La condotta quindi, non viene commisurata alla figura dell’agente concreto, ma si effettua una valutazione che prescinde dal comportamento specifico in quella circostanza.

Approfondendo brevemente il tema delle regole cautelari è necessario evidenziare che molto più frequentemente esse trovano origine in norme “codificate” perché, da un lato, si vuole costruire un sistema di precetti cautelari preciso e puntuale – in modo da poter gestire nel miglior modo l’impedimento di eventi dannosi, dall’altro si vuole consentire ai consociati di operare in base a riferimenti normativi adeguati a segnalare i rischi collegati all’attività stessa.

Queste norme molto spesso, si ricollegano al giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento lesivo facendo emergere – a volte – l’inadeguatezza della regola a fondare l’imputazione dell’evento, perdendo la funzione orientativa nei riguardi del risultato.

Accade infatti, che la regola scritta si trova a rapportarsi con le norme di comune esperienza (idonee a fondare la colpa generica) perché non definisce gli elementi cui deve

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essere valutata la colpa; ciò avviene quando la norma scritta ha un connotato “elastico”: rinvia cioè a regole di comune esperienza o di tipo tecnico – a differenza di quelle rigide che indicano puntualmente la condotta da tenere per evitare eventi dannosi. La condotta corrispondente alle esigenze cautelari sarà valutata di volta in volta, calando le norme nella realtà cui fanno riferimento.

L’agente-modello risulterà di fondamentale importanza per individuare in concreto le cautele da adottare, perché la norma indica solo le finalità e gli elementi necessari per effettuare la concretizzazione.

Il soggetto che viola le norme elastiche potrà essere chiamato a rispondere in virtù dei parametri di riferimento della colpa generica.

Le norme codificate possono – e devono in alcuni casi – lasciar spazio alle norme non scritte, se le circostanze del caso ne sconsigliano l’applicazione.

La colpa, in secondo luogo, viene “graduata” tenendo conto, da un lato, del grado di scostamento tra la condotta dell’agente e il comportamento richiesto dalla norma cautelare, dall’altro, si devono esaminare le circostanze su cui si fonda il grado più o meno elevato di esigibilità della condotta: più l’autore si è discostato dalla condotta che doveva tenere e dall’agente modello della sua categoria, più la sua colpa sarà valutata con maggior rigore.

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Per la giurisprudenza vi è un ulteriore parametro per valutare il grado della colpa, e cioè il “concorso di colpe” secondo cui la condotta colposa dell’agente deve essere valutata meno gravosa se si è dinanzi ad una condotta colposa anche di altri soggetti.

Ciò trova condivisione nella misura in cui venga messa in relazione con le aspettative del principio di affidamento – principio secondo cui, nello svolgimento di un’attività, ogni soggetto confida nel fatto che gli altri cooperanti si attengono ai precetti cautelari.

Un ulteriore elaborazione giurisprudenziale è

rappresentata dalla colpa grave che, in alcuni settori dell’ordinamento – come quello medico – diviene un criterio autonomo di valutazione della colpa. I relativi problemi saranno analizzati nei paragrafi successivi.

Un ultimo punto che merita attenzione è la colpa per assunzione, che si riscontra spesso nell’attività medica e che si verifica quando un soggetto, dotato di un certo livello di capacità ed esperienza, “assume” su di sé l’esercizio di un ruolo professionale che ecceda la sua sfera di competenze o possibilità operative. Il limite al principio è costituito dall’esigenza di impedire la personalizzazione del giudizio di colpa che si avrebbe se, constatando che il soggetto aveva operato osservando le regole di diligenza corrispondenti al livello professionale, non poteva essere considerato responsabile a titolo colposo.

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Ecco quindi che assume particolare importanza anche la valutazione sul piano soggettivo-individuale, con cui ci si chiede se il soggetto era in grado di capire l’esistenza concreta della violazione.

Si nota che all’agente, viene richiesto di riconoscere gli stessi connotati fondamentali in cui si esprime il “modello” dell’agente abilitato per svolgere l’attività; questo giudizio si pone in una prospettiva preliminare rispetto alle singole regole di condotta che dovranno essere analizzate con le circostanze del caso.

La conoscenza o l’errore in cui è incorso l’agente deve essere valutata in base ai confini che delimitano l’esercizio dell’attività. 1

II. Colpa medica: l’elaborazione del secolo XX.

La dottrina e la giurisprudenza in tema di colpa medica hanno avuto una lunga evoluzione scandita da repentini cambiamenti di pensiero.

Fino al secondo dopo guerra si è avuto il periodo definito “della comprensione”2, in cui i medici erano perseguibili penalmente nei soli casi di condotta grossolanamente erronea: i medici erano chiamati a rispondere solo a fronte

1 G. De Francesco, “Diritto penale, i fondamenti” pagg. 425-453

2 A. Roiati, “Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale”

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di errore inescusabile o dinanzi alla mancanza delle cognizioni della scienza medica, perché si riteneva che le scelte professionali fossero ritenute discrezionali e nelle aule di tribunale si riteneva esistente l’insindacabilità giudiziale sulle scelte professionali da parte del giudice.

Questa impostazione fu facilmente contestata sotto due profili: si introduceva in ambito sanitario un criterio di condotta colposa diverso dall’agente modello, e si avallavano condotte superficiali o non improntate al rigore scientifico. 3

Gli anni ’60 furono caratterizzati dall’estensione in ambito penale dell’art.2236 cc che ha sempre riguardato la responsabilità del prestatore d’opera sancendo: “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave.”

La giurisprudenza4 riteneva che l’articolo fosse in grado di abbracciare tutte le ipotesi di colpa generica, basandosi sulla necessità di trovare un equilibrio per non mortificare il professionista nelle sue scelte, per paura di rappresaglie da parte dei clienti nei casi di insuccesso; per cui solo la colpa

grossolana, derivante dall’errore inescusabile o

dall’ignoranza dei principi basilari dell’attività, era

3 O. Longo, “L’evoluzione giurisprudenziale in materia di colpa medica” tratto da

www.filodiritto.com

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meritevole di essere considerata penalmente rilevante. Ciò fu sostenuto anche nella Relazione del Guardasigilli al codice civile n° 917.5

La dottrina contestò l’applicazione dell’art. 2236 cc in campo penale, perché riteneva che il medico, che si trovava ad affrontare problemi tecnici di particolare difficoltà, adottasse un minor grado di diligenza o prudenza; però questo poteva far legittimare una valutazione più indulgente quando, invece, si doveva richiedere una diligenza ed una prudenza maggiori. L’autore Crespi affermava: “se i problemi tecnici sono particolarmente difficili occorreranno invero maggior prudenza e maggior attenzione, di intensità proporzionale alla gravità di quei problemi, non già una diligenza o una prudenza attenuate limitando la

responsabilità al solo caso di colpa grave.”6

A fronte di tutto questo, si fece strada una soluzione compromissoria definita dal Crespi “colpa dal punto di vista

tecnico”7, secondo cui l’art. 2236 cc era applicabile al settore

penale, ma la responsabilità medica doveva limitarsi al profilo della perizia per non restringere il campo della discrezionalità del medico in situazioni complesse.

5“… trovare un punto di equilibrio fra due opposte esigenze: quella di non mortificare

l’iniziativa del professionista, col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso, e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista”.

6 Opinione citata da A. Crespi In “Medico-chirurgico” pag.592 7 A. Crespi, Op. cit. p. 592

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Gli autori che seguirono questa impostazione asserirono la necessità di una visione unitaria dell’antigiuridicità: una condotta che una norma dell’ordinamento civile dichiara lecita, non potrebbe essere considerata antigiuridica in sede penale.

L’Autore Manna8 esplicò questo concetto analizzando il rapporto tra il giudizio penale e il profilo risarcitorio, sostenendo come l’inapplicabilità dell’art. 2236 cc in ambito penale comporterebbe una conseguenza non facilmente accettabile, perché si avrebbe soltanto un’ipotesi per imperizia penalmente rilevante; in questo caso non sarebbe possibile ottenere il risarcimento dei danni, in contrasto con l’art. 185 cp.9

Gli anni ’70 furono caratterizzati dall’accoglimento di quest’ultimo indirizzo interpretativo da parte della giurisprudenza. La sent. Corte Costituzionale n. 166/1973 si espresse sulla questione di legittimità costituzionale degli articoli 42 e 589 cp in relazione all’art. 3 Cost, dichiarando la stessa non fondata e sostenendo che: “la particolare disciplina in tema di responsabilità penale, desumibile dagli articoli 42 e 589 cp, in relazione all’art. 2236 cc, per l’esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, è il riflesso di una normativa dettata a

8 In “Profili penalistici del trattamento medico-chirurgico” pag. 140

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fronte di due opposte esigenze: quella di non mortificare troppo l’iniziativa del professionista e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso. Ne consegue che la limitazione di responsabilità alle ipotesi di dolo o colpa grave non conduce a dover ammettere che, accanto al minimo di perizia richiesto, basti un minimo di prudenza o diligenza. Anzi, c’è da riconoscere che, mentre nella prima l’indulgenza del giudizio del magistrato è direttamente proporzionale alle difficoltà del compito, per le altre due forme di colpa ogni giudizio non può che essere improntato

a criteri di formale severità.”10

In questi anni, parallelamente, cominciano a svilupparsi le linee guida accompagnate dai protocolli, standards, percorsi e regole deontologiche come espressione del processo di formalizzazione di regole cautelari, direttamente da parte delle categorie professionali mediche, anche se i primi dibattiti a livello giuridico non avvennero subito, ma negli anni ’90, per cui saranno analizzati nei prossimi paragrafi.

Oltre oceano, nello specifico negli Stati Uniti d’America, si era già sviluppato un altro fenomeno che in Italia arriverà dopo qualche decennio: la “medicina difensiva”.

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Essa nacque dal numeroso contenzioso che riguardava l’attività medica e che spingeva, e spinge tutt’ora i medici ad adottare misure di auto-tutela per paura di non poter garantire ai pazienti il miglior soddisfacimento possibile. Anche questo argomento sarà approfondito più avanti.

Negli anni ’80, sulla scia delle indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale, la giurisprudenza si preoccupò soprattutto di individuare e circoscrivere le ipotesi di imperizia grave penalmente rilevanti, che furono individuate in due tipologie di comportamenti:

- Insufficiente preparazione ed inettitudine di una professione che si verificava quando il medico trascurava le regole tecniche dettate dall’arte medica;

- Deficienza delle minime abilità richieste per l’uso di mezzi manuali sperimentali.

In dottrina11 invece si evidenziò l’eccezionalità dell’art. 2236 cc: la norma introduceva una deroga espressa ai principi generali vigenti in tema di responsabilità civile, non essendo così suscettibile di applicazione analogica nell’ambito penale.

Fu rilevato infatti che la colpa penale non poteva essere determinata in base ai criteri civilistici ma in base

11 In particolare gli autori P. Avecone, “La responsabilità penale del medico”; G.

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all’art. 43 cp, considerando, anche, che la graduazione della colpa entrava in gioco per la commisurazione della pena e non era presa in esame per stabilire se esisteva o meno la colpa.

A riprova di ciò furono analizzate le norme del codice penale: l’art. 43, nel definire il delitto colposo, richiede solo la non volontarietà dell’evento, causato dall’inosservanza del dovere oggettivo di diligenza. Il grado della colpa è contenuto nelle norme del codice penale che si occupano della commisurazione in concreto della pena – ex art. 133 – e all’interno delle circostanze aggravanti ex art. 61.

Fu sottolineato12 come in alcuni casi concreti non fosse facile distinguere tra imprudenza ed imperizia, tanto che questi concetti venivano a sovrapporsi e non si giustificava la diversità di trattamento; la giurisprudenza infatti finì per accorpare il concetto dell’imperizia con quello della prudenza o comune diligenza.

Alcuni autori13 mostrarono che l’abbassamento del grado della perizia esigibile nell’esercizio dell’attività medica era in contrasto con l’art. 3 Cost, poiché, circoscrivere un criterio di imputazione ad un settore

12 In particolare gli autori G. Fiandaca-E. Musco, “Diritto Penale”; D. Castronuovo,

“Le definizioni legali del reato colposo”

13 G. Iadecola, “Colpa medica e causalità omissiva: nuovi criteri di accertamento”;

M. Donini, “La causalità omissiva e l’imputazione per “aumento del rischio”. Significato storico e pratico delle tendenze attuali in tema di accertamento eziologico probabilistico e decorsi causali atipici”

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professionale, significava operare una scelta di politica criminale arbitraria che il giudice non era legittimato a fare in virtù della separazione dei poteri.

Seguì un importante mutamento della giurisprudenza che finì per sostenere l’assoluta autonomia ed impermeabilità del sistema penale e la necessità di accertare la colpa professionale medica secondo le norme penali e non più civilistiche.

A completamento di questa tesi la dottrina14 ritenne che la colpa del sanitario doveva discendere dall’individuazione di differenziate figure di agente modello, proprie di ciascuna tipologia di sanitario.

III. Colpa medica: l’elaborazione negli anni 1990 - 2008

Con gli anni ’90 si sono avuti molti cambiamenti che hanno mutato lo scenario della responsabilità medica.

Come primo elemento di rilievo vi è l’ingresso del consenso informato all’operato del medico.

Dottrina e giurisprudenza erano concordi nel sostenere che il medico aveva, ed ha tutt’oggi, un preciso dovere di acquisire preliminarmente il consenso al trattamento e non effettuare il cosiddetto trattamento arbitrario.

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Questo era fondato su importanti norme tra cui, l’art. 32 2°c Cost, l’art. 5 1°c della Convenzione di Oviedo sulla biomedicina del 1997 e l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che sanciscono l’importanza fondamentale del consenso prima e durante un trattamento terapeutico.15

Da queste norme i medici che effettuavano un iter terapeutico senza il consenso, rimanevano impuniti ed era necessario individuare le sanzioni a cui sottoporre coloro che effettuavano un trattamento arbitrario.

La prima sentenza che si occupò di questo tema fu la sentenza Massimo16: la Suprema Corte confermò la scelta della Corte di Assise di Firenze che condannava il chirurgo Massimo per il reato di omicidio preterintenzionale per aver proceduto all’asportazione totale addominoperineale del retto di una anziana paziente, deceduta a seguito di complicanze legate al trattamento eseguito, sebbene la donna avesse dato il consenso per un intervento meno invasivo di asportazione transanale di un adenoma villoso.

La Cassazione espresse il suo accordo con i giudici di merito, per la corretta configurazione dell’antigiuridicità della condotta del chirurgo che contraddistingue la lesività dolosa, ricordando il carattere generico che connota

15 A. Valsecchi, “Sulla responsabilità penale del medico per trattamento arbitrario

nella giurisprudenza di legittimità” tratto da www.penalecontemporaneo.it

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l’elemento psichico del reato di lesioni volontarie – non viene richiesto che il soggetto agisca per uno scolpo o un motivo illeciti.

Nel caso di specie il medico, operando, era consapevole che stava ledendo l’altrui integrità personale senza averne diritto e senza che ve ne fosse necessità, cagionando una lesione da cui era derivata una malattia: un

processo patologico che aveva determinato una

menomazione funzionale grave.

La dottrina ricostruì il processo logico dei giudici: il presupposto da cui partire era costituito dalla nozione di malattia, ai sensi delle norme in tema di lesioni personali, che costituisce il reato base dell’omicidio preterintenzionale. La malattia era intesa come qualsiasi menomazione funzionale anche non permanente nell’organismo del paziente, indipendentemente dall’esito finale: fausto o infausto.

Solo seguendo questo ragionamento, i giudici furono in grado di ravvisare il dolo diretto delle lesioni personali in capo al medico che, sicuramente, cercava e voleva l’esito fausto, ma al tempo stesso era consapevole che si sarebbe verificata una malattia, come conseguenza inevitabile del trattamento stesso.

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Negli anni successivi questo orientamento fu oggetto di molte rivisitazioni: nel 2001, nella sentenza Barese,17 il medico fu condannato non per omicidio preterintenzionale, ma per omicidio colposo per aver operato in maniera imperita una paziente che aveva dato il consenso per un’asportazione di cisti ovariche e deceduta a seguito di complicanze dovute all’intervento, durante il quale il medico, accortosi della presenza di una massa tumorale, la asportò con l’intero utero.

La Cassazione si trovò concorde con i giudici di merito e precisò che il fatto non poteva essere considerato all’interno della fattispecie di omicidio preterintenzionale, perché mancava la “direzione” degli atti a cagionare il delitto base delle percosse o lesioni: il medico, durante l’operazione, non voleva cagionare una lesione alla paziente, quindi la morte era imputabile solo a titolo colposo.

La dottrina si rese portavoce della nozione di malattia adottata dai giudici, che valutò diversa dal caso precedente, proprio per l’esclusione dell’omicidio preterintenzionale: si aveva malattia solo al verificarsi di conseguenze infauste per il paziente e di conseguenza non pienamente volute dal medico.

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Nello stesso anno però, con la sentenza Firenzani18 fu ripreso l’orientamento della sentenza Massimo: i giudici confermarono la sentenza di secondo grado che aveva condannato il chirurgo Firenzani per lesioni colpose, per aver effettuato un intervento di artroscopia diagnostica su una paziente affetta da gonalgia al ginocchio sinistro ed erroneamente operata al ginocchio destro in cui il medico asportò il menisco. Secondo i giudici, il medico che effettua un trattamento senza il consenso del paziente realizza sotto il profilo oggettivo il delitto di lesioni personali, perché qualsiasi intervento, anche se eseguito a scopo di cura e con esito fausto, implica il compimento di atti che nella loro materialità ledono l’altrui integrità fisica. Fu sottolineato che il reato di lesioni si verifica anche quando il trattamento eseguito abbia esito favorevole e la condotta del medico sia immune da colpa, “non potendo ignorare il diritto di ognuno

di privilegiare il proprio stato di salute”.19

La condanna per colpa fu dovuta all’errore del medico nell’aver operato un ginocchio diverso da quello che era stato oggetto di consenso della paziente: emergerebbe quindi l’applicazione da parte dei giudici della disciplina della “causa di giustificazione putativa” contenuta nell’articolo 59 u.c. cp.

18 Cass. Pen. Sez. IV, 35822/2001 19 Op. cit. Sent. Massimo

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Nel 2002 con la sentenza Volterrani20 si assistette ad un nuovo cambio di pensiero: i giudici della Suprema Corte confermarono la sentenza della Corte d’Assise di Appello di Torino che assolse dall’accusa di omicidio preterintenzionale il chirurgo Volterrani che, ottenuto il consenso del paziente per la rimozione chirurgica di un’ernia ombelicale, durante l’intervento procedette all’asportazione di una massa tumorale, da cui conseguì la morte del paziente.

I giudici infatti, a prescindere dall’esito infausto dell’intervento, esclusero che il trattamento effettuato senza consenso del paziente andava a ledere il bene dell’integrità fisica e quindi, non era applicabile il reato di lesioni personali dolose o di omicidio preterintenzionale a seconda dell’esito finale.

Per la Cassazione il medico che esegue correttamente un trattamento senza il consenso del paziente non lede l’integrità fisica perché pone in essere un’attività che corrisponde alla tutela del diritto alla salute previsto dall’art. 32 Cost: l’attività è disciplinata, protetta ed autorizzata dallo Stato attraverso l’organizzazione della sanità e quindi quando il giudice riconosce la presenza di tutti questi requisiti, deve ritenere l’intervento eseguito con l’osservanza delle regole proprie della scienza ed escludere ogni responsabilità penale dell’imputato a cui è stato addebitato il fallimento dell’opera. Il consenso del paziente quindi,

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sembrerebbe non avere rilevanza giuridico-penale se non in caso di espresso dissenso del paziente a sottoporsi ad un trattamento: il medico che si fosse ostinato ad intervenire risponderebbe a titolo di violenza privata e non per lesioni personali dolose.

Questo orientamento però non trovò seguito presso la giurisprudenza delle sezioni penali della Cassazione.

a. L’intervento delle Sezioni Unite (2008)

Nel 2008 si arrivò, dopo altri interventi contrastanti, ad una pronuncia delle Sezioni Unite.

Il primo intervento si è avuto con la sentenza Huscher21 in cui la Suprema Corte richiamò il precedente “Barese”: alcuni medici di un ospedale romano furono accusati di aver cagionato lesioni volontarie ad alcuni

pazienti eseguendo trattamenti non indicati, o

particolarmente invasivi, in cui vi era la possibilità di applicare alternative terapeutiche più lievi, senza informarli dell’esistenza di tali trattamenti.

Alcuni tra questi medici furono anche accusati di omicidio preterintenzionale perché dei pazienti erano deceduti a seguito degli interventi subiti.

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I giudici presero in esame l’impostazione del caso Barese in cui si escludeva la responsabilità del medico per lesioni personali dolose e in caso di morte, per omicidio

preterintenzionale, se il medico avesse deciso

unilateralmente di praticare un trattamento non consentito dal paziente e dall’esito infausto; infatti se l’esito infausto fosse stato da attribuire a scelte terapeutiche colposamente errate, il medico sarebbe stato chiamato a rispondere di lesioni colpose e omicidio colposo, mentre nel caso di esito infausto previsto e voluto, il medico sarebbe stato chiamato a rispondere a titolo doloso.

I giudici adottarono una nozione di malattia idonea a ricomprendere solo gli esiti infausti non voluti dal medico, senza che il consenso giocasse alcun ruolo nella qualificazione giuridica del fatto posto in essere dal medico; gli stessi giudici infatti ricordarono che la responsabilità per colpa in caso di esito infausto non era esclusa dal consenso del paziente.

Nel secondo intervento22 la Corte si trovò ad affrontare il caso di un medico accusato di aver somministrato ad una paziente affetta da obesità, un farmaco utilizzato per la cura dell’epilessia, ma usato in via sperimentale anche per la cura dell’obesità grazie agli effetti anoressizzanti. La paziente però fu soggetta ad altri effetti collaterali di cui non era stata informata e dovuti alle dosi

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massicce del farmaco che prendeva: il medico in primo grado fu condannato per il reato di lesioni personali aggravate dolose, mentre i giudici dell’appello derubricarono il fatto a lesioni personali colpose perché non riscontrarono il dolo, evidenziando l’imprudenza nella scelta del farmaco e la negligenza nella determinazione del dosaggio.

I giudici della Suprema Corte si trovarono d’accordo con i giudici di secondo grado e sancirono che: il consenso del paziente è un “presupposto di liceità del trattamento” tanto che il medico non può intervenire senza il consenso del paziente ed esclusero che “dall’intervento effettuato in assenza del consenso o con un consenso prestato in modo invalido possa farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie o di omicidio preterintenzionale in caso di esito letale. Ciò in quanto il sanitario […] si trova ad agire, magari erroneamente, ma pur sempre con una finalità curativa, che è concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni.”

Il punto importante che si registra in questa sentenza è l’obbligo, in capo al medico, di acquisire il consenso, la cui inosservanza non rileva per il diritto penale.

Nel terzo intervento della Cassazione23 i giudici confermarono la condanna per il reato di lesioni personali colpose, già pronunciata dai giudici di merito, perché il

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medico, nel rimuovere un’ernia discale, aveva cagionato al paziente una lesione permanente dovuta a complicanze operatorie legate alla sindrome della “cauda equina” (di cui già soffriva il paziente), previste dal medico ma non illustrate al paziente prima dell’operazione.

La motivazione dei giudici si incentrò sulla negligenza del medico che aveva scelto un trattamento non indicato per i pazienti affetti da quella patologia, ma il percorso argomentativo fu diverso dalle sentenze precedenti; la mancanza o invalidità del consenso rilevava ai fini penali perché il trattamento fu effettuato in violazione della sfera del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi sul proprio corpo.

Alla fine dell’anno le Sezioni Unite della Cassazione furono chiamate a dirimere il caso Giulini24: i giudici di primo e secondo grado condannarono il medico per il delitto di violenza privata per aver operato una donna che aveva prestato il consenso per un intervento di laparoscopia operativa, durante il quale fu effettuata una salpingectomia che determinò l’asportazione della tuba sinistra.

Si notò subito che, rispetto ai precedenti, in questo caso la conseguenza demolitoria fu corretta ed obbligatoria, effettuata nel rispetto delle leges artis; ma per l’accusa, senza il consenso prestato validamente dalla paziente.

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La sezione V della Cassazione evidenziò delle divergenze di pensiero e rimise la decisione alle Sezioni Unite, ritenendo pregiudiziale la soluzione di due quesiti:

1. Il consenso ha rilevanza penale o no?

2. In caso di risposta affermativa, quale ipotesi delittuosa si può configurare al medico che ha operato senza il consenso, ma in modo corretto e con esito fausto?

Quanto al primo quesito la sezione V registrò l’esistenza di due orientamenti: il primo riteneva il consenso come presupposto di liceità del trattamento medico, la cui mancanza rileverebbe ai fini penali, tranne nelle ipotesi di stato di necessità o di trattamento sanitario obbligatorio previsto da disposizioni legislative. Il secondo orientamento riteneva rilevante il consenso solo se espresso in forma negativa, poiché il medico è legittimato a sottoporre il paziente a lui affidato al trattamento che ritiene più idoneo per la salvaguardia della salute.

Anche con riferimento al secondo quesito, la sezione rimettente evidenziò varie interpretazioni: secondo la prima il medico, operando senza consenso, risponde di lesioni volontarie anche in caso di esito favorevole, poiché sono posti in essere degli atti che nella loro materialità integrano il concetto di malattia prevista dall’art. 582 c.p., mettendo in luce che il criterio soggettivo dovrà essere colposo quando il sanitario agisca nella convinzione, per negligenza o

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imprudenza, dell’esistenza del consenso. Il secondo indirizzo riteneva che il trattamento arbitrario rilevava come attentato alla libertà individuale del paziente, configurando solo il delitto di violenza privata.

Le Sezioni Unite, con riguardo al primo quesito, aderirono all’orientamento che riteneva il consenso come il presupposto di liceità del trattamento da non identificare con l’art. 50 cp25 e, contemporaneamente, sancirono che sul piano penale rilevava solo il dissenso del paziente a sottoporsi ad un determinato trattamento.

Al secondo quesito risposero sostenendo che il trattamento arbitrario con esito fausto non potesse integrare la fattispecie di lesioni personali.

Secondo i giudici, in questa materia, il presupposto è dato dal consenso del paziente, come sua espressione del diritto alla salute (scelta consapevole di come, se e quando sottoporsi ad un trattamento), perciò il medico, che opera in assenza del consenso non sempre è perseguibile penalmente, al contrario di colui che opera contro la volontà del paziente.

Il delitto di violenza privata, che era stato prospettato nella sentenza Giulini, fu escluso perché mancava, a detta dei giudici, sia l’elemento della violenza, sia quello della minaccia; mentre nel vagliare l’ipotesi della rilevanza del

25 Articolo che sancisce: “Non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col

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trattamento arbitrario nel delitto di lesioni personali, analizzarono il fatto tipico attraverso il concetto di malattia intesa come “un’alterazione da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o una compromissione, anche non definitiva ma significativa delle

funzioni dell’organismo”26. Il giudice deve guardare alla fine

del decorso postoperatorio perché è questo il momento in cui si vede se si è verificata o meno una malattia; eliminando un’interpretazione dottrinale che sottolineava che il concetto di salute non si potesse esaurire nella valutazione clinica dell’assenza di patologie, ma si dovesse considerare la percezione del paziente del proprio stato di salute.

Con riguardo al trattamento arbitrario con esito infausto, i giudici ritennero che la finalità terapeutica perseguita dal medico non poteva far rientrare l’evento nel dolo delle lesioni personali. Questa scelta interpretativa ha lasciato dei dubbi perché il fine perseguito dal medico è incompatibile col dolo delle lesioni personali ma non col dolo eventuale, anch’esso prospettabile all’interno della fattispecie in esame.

b. Questioni rimaste irrisolte nonostante l’intervento delle Sezioni Unite.

L’intervento delle Sezioni Unite non fu in grado di risolvere tutte le problematiche e negli anni che seguirono la

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giurisprudenza e la dottrina ritornarono a dibattere sulle stesse questioni.

L’unico punto fermo che emerge è la definizione funzionalistica di malattia che è stata individuata dai giudici, da cui consegue che la mera alterazione anatomica dell’organismo non comporta la configurazione del reato di lesioni personali.

Ci si è chiesti27 allora se gli esiti di un qualsiasi intervento che comporta una qualche invasività possano essere qualificati come “malattia”. Un esempio su tutti: in caso di un’operazione al cuore, eseguita senza pecche tecniche, il paziente è sottoposto – anche per poco tempo – ad una menomazione funzionale dell’organismo.

Il medico durante il trattamento conosce e “vuole” (con l’intensità del dolo diretto) gli effetti che vengono provocati al paziente e, in caso di mancanza del valido consenso, si potrebbe fondare una responsabilità penale per lesioni personali dolose.

La giurisprudenza di legittimità è intervenuta per risolvere l’apparente incongruenza del medico che, “durante la cura in modo corretto di un paziente, cagiona una malattia” e ha distinto due ipotesi: quella del trattamento che ha un esito fausto e quella del trattamento con esito infausto qualificando come malattia solo quest’ultima.

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Nel sancire che gli effetti collaterali “normali” che derivano da un trattamento non sono segni di una malattia, i giudici hanno distinto che:

 Nelle ipotesi di trattamento arbitrario con esito fausto non si potrà mai configurare la responsabilità penale per il delitto di lesioni personali, poiché non si verifica la malattia; sarebbe configurabile tutt’al più il reato di violenza privata quando il trattamento non voluto dal paziente è effettuato con la forza dal medico, al di fuori delle ipotesi previste dalla legge: trattamenti

sanitari obbligatori, stato di necessità e/o

adempimento di un dovere.

 Nelle ipotesi di trattamento arbitrario con esito infausto con morte del paziente, si esclude la

configurabilità del delitto di omicidio

preterintenzionale perché la malattia da cui consegue la morte, non è coperta dal dolo diretto o intenzionale che richiede l’articolo 584 cp: il medico sa che dal trattamento può derivare un esito infausto ma né lo “vuole” (nel senso del dolo intenzionale), né si rappresenta come certa la sua verificazione (nel senso del dolo diretto).

Alcuni autori28 non ritenevano esaustiva questa distinzione, perché rimanevano senza tutela giuridica le

28 In particolare Viganò, “Profili penali del trattamento chirurgico eseguito senza il

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ipotesi di un intervento posto in essere senza il consenso, dal quale discendeva un esito infausto ma non mortale. In queste ipotesi, il medico era chiamato a rispondere per il delitto di lesioni personali cagionate con dolo eventuale: egli infatti è consapevole che, per quanta abilità metta nell’esecuzione dell’intervento, vi è sempre una percentuale di rischio dovuta alla non conoscenza di come può rispondere l’organismo alla terapia.

La Corte di Cassazione ha escluso la rimproverabilità del medico per lesioni personali dolose perché non vi era compatibilità tra il dolo delle lesioni e la finalità terapeutica

perseguita dal medico; emergerebbe quindi una

responsabilità per lesioni personali colpose ove il medico versi in errore – colposo – circa il sussistere del consenso del paziente all’esecuzione del trattamento (art. 59 4° c. cp), ovvero effettui per errore – colposo – un trattamento più invasivo di quello per cui il paziente aveva prestato il consenso (art. 55 cp).

La soluzione della Corte di Cassazione però non convince, perché gli articoli 55 e 59 4°c cp si occupano di escludere il dolo in situazioni in cui l’agente ha cagionato volontariamente l’evento, ma il dolo è stato escluso dalla Corte stessa per l’incompatibilità con la finalità terapeutica.

“Vi sono quindi solo due soluzioni possibili: o il trattamento medico arbitrario con esito infausto integra il reato di lesioni personali dolose, e allora l’errore colposo

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sul consenso del paziente fa ‘degradare’ la responsabilità da dolosa a colposa per effetto delle norme di cui agli artt. 55 e 59; oppure il trattamento medico arbitrario con esito infausto non può mai integrare il reato di lesioni personali dolose stante l’incompatibilità del dolo con la finalità terapeutica perseguita dal medico, e allora il richiamo agli artt. 55 e 59 è del tutto superfluo, mentre sarebbe piuttosto necessario indicare quale norma cautelare sia stata violata (non essendo certamente qualificabile come norma cautelare quella che impone al medico di acquisire il consenso del

paziente).”29

Alla luce della sentenza delle Sezioni Unite rimane scoperta l’ipotesi in cui il medico volontariamente non abbia acquisito il consenso del paziente: gli articoli richiamati in precedenza (articoli 55 e 59 4° c cp) non possono essere utilizzati perché non siamo in situazioni di errore del medico sulla causa di giustificazione. Non vi sono spazi per individuare una responsabilità per lesioni personali colpose perché: il medico ha operato in modo corretto e l’esito infausto è imputabile a cause non evitabili dal medico stesso, e perché non sono state violate alcune norme cautelari, né sono ravvisabili profili di negligenza.

29 A. Valsecchi “UNA NUOVA PRONUNCIA DELLA S.C. IN TEMA DI RESPONSABILITÀ

DEL MEDICO PER TRATTAMENTO CHIRURGICO IN ASSENZA DI VALIDO CONSENSO DEL PAZIENTE” pag. 5 tratto da www.penalecontemporaneo.it

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Se invece si ammettesse che il trattamento arbitrario con esito infausto integri il reato di lesioni personali dolose perché il medico ha agito nella consapevolezza dei rischi connessi all’esecuzione del trattamento invasivo, e nella consapevolezza che il rispetto delle leggi dell’arte medica non sarebbe bastato a eliminare in modo certo il rischio di un esito infausto, si eliminerebbero tutti i punti controversi perché è ravvisabile in capo al medico il delitto di lesioni personali con dolo eventuale, al di fuori dell’operato degli articoli 55 e 59 4° c cp quando il medico era in errore sull’acquisizione del consenso.

La Cassazione, però, esclude questa soluzione proprio per l’incompatibilità fra il dolo delle lesioni personali e la finalità terapeutica ed effettua un’operazione particolare: affermando l’incompatibilità, la fattispecie delle lesioni personali dolose pretende il dolo specifico e non è più sufficiente il dolo generico. Diventa di fondamentale importanza il fine perseguito dall’agente: solo se il fine perseguito dal medico non è terapeutico si potrà configurare la fattispecie prevista dall’art. 582 cp.

Qualche anno più tardi la Cassazione tornò di nuovo a pronunciarsi sul tema delle conseguenze penali del trattamento arbitrario con esito infausto effettuato con il dissenso del paziente.

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Nella prima sentenza30 la Corte si trovò ad affrontare il caso di un medico a cui era stato contestato il reato di lesioni personali dolose per aver effettuato, senza il consenso del paziente, un intervento agli occhi con la tecnica PRK da cui conseguì un indebolimento permanente della vista dell’uomo. In particolare: il medico non effettuò gli esami preliminari indicati per la chirurgia con laser ad eccimeri, necessari sia per l’intervento Lasik che PRK, non valutando le possibili controindicazioni all’operazione chirurgica, cagionando al paziente alterazioni corneali centrali cicatriziali. In aggiunta a ciò, durante il giudizio di merito, emerse che l’intervento con il metodo PRK fu posto in essere dopo aver carpito fraudolentemente il consenso del paziente, perché gli fu prospettata l’esecuzione di un trattamento da effettuare con modalità Lasik e non PRK e infine, avvenne in un ospedale che non era attrezzato ad effettuare tale trattamento.

Il PM chiese la condanna per il delitto di lesioni personali dolose aggravate, ma il GUP, a seguito dell’introduzione del giudizio abbreviato, riqualificò la fattispecie nel reato di lesioni personali colpose gravi seguendo il ragionamento seguito dalle Sezioni Unite: il sanitario agisce sempre con una finalità terapeutica o curativa che è incompatibile con il dolo delle lesioni.

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Contro la sentenza fu proposto ricorso immediato per Cassazione rilevando che:

1. Il giudice di merito nell’affermare

l’incompatibilità della finalità terapeutica che muove il medico col dolo delle lesioni, aveva inserito un elemento del dolo specifico (finalità malvagia del medico) in un delitto a dolo generico;

2. Il medico che opera senza il consenso del paziente non effettua un’aggressione al bene della salute in senso ampio, ma aggredisce l’incolumità individuale del paziente.

La Cassazione ha ritenuto che il dolo delle lesioni può essere ravvisato quando, come in questo caso, il medico nell’aver omesso gli esami preparatori e aver acquisito il consenso per un trattamento con la tecnica Lasik, ha tenuto “comportamenti assolutamente anomali e distorti e comunque dissonanti rispetto alla finalità curativa che deve caratterizzare il proprio approccio terapeutico” tali da “esorbitare di gran lunga dai canoni della mera imprudenza, imperizia e negligenza”.

In questo modo è stato espresso il principio secondo cui la condotta del medico che interviene su un paziente senza il suo consenso e da cui consegue l’esito infausto, deve essere qualificata come dolosa e non come colposa. I giudici hanno coniugato l’arbitrarietà del trattamento medico con

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l’accettazione del rischio di un esito infausto, ritenendo irrilevante la finalità terapeutica perseguita per il trattamento.

In questo modo però si potrebbe riaprire la strada ad un ritorno ad eccessi punitivi che sembravano essere stati scongiurati con l’intervento del 2008 delle Sezioni Unite.

Nello stesso anno si è avuta un’altra pronuncia in materia: la Corte31 ha affrontato il caso del medico Huscher che era stato accusato di omicidio preterintenzionale per aver praticato su una paziente di 27 anni un intervento inutilmente demolitivo per l’asportazione di un tumore, sebbene per tale patologia fosse sufficiente una cura farmacologica (circostanza nota al medico); solo per ottenere un maggior rimborso dal Servizio Sanitario Nazionale.

Il giudice di primo grado, trovando accordo anche in

secondo grado, aveva derubricato l’omicidio da

preterintenzionale a colposo basandosi sull’incompatibilità della finalità terapeutica col dolo diretto delle lesioni personali, presupposto dell’omicidio preterintenzionale. Fu proposto ricorso in Cassazione perché, secondo il PM, il medico non fu mosso da finalità terapeutica.

La Suprema Corte accolse il ricorso e stabilì che il medico che agisce arbitrariamente su un paziente (da cui consegue la morte) oppure provoca coscientemente

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un’inutile mutilazione senza una finalità terapeutica (ad esempio per scopi scientifici o di ricerca scientifica, sperimentazione, ecc…), potrà rispondere per omicidio preterintenzionale. Quando invece il medico sottopone il paziente ad un trattamento arbitrario con finalità terapeutica, non potrà essere chiamato a rispondere per omicidio preterintenzionale.

Nel 201132 si è aperta la strada al configurarsi del dolo eventuale (l’accettazione del rischio della verificazione di un evento dannoso) per l’esito avverso verificatosi a seguito di un trattamento arbitrario, grazie, da un lato, al silenzio della legge sul punto, dall’altro ad una compatibilità con la finalità terapeutica.

L’indizio prevalente che ci “apre la via” del dolo è la violazione delle leges artis: il soggetto infatti sa di essere in un’area in cui il rischio della verificazione dell’evento è più elevato perché è fuoriuscito dalle sue competenze33.

Il succedersi di netti contrasti giurisprudenziali è espressione di disagio sia nell’interprete del diritto, che nei medici: a questi ultimi sono imposti mutamenti interpretativi che favoriscono il diffondersi della medicina difensiva.

32 Cass. Pen. Sez. V, 3222/2011

33 P. Piras, “Il dolo eventuale si espande all’attività medica” tratto da

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36 IV. Strumenti per l’accertamento della

responsabilità medica: visione comparatistica.

Da qualche anno in materia sanitaria, così come nelle materie che presentano maggiori margini di rischio, si sta assistendo ad un processo definito di “formalizzazione delle

regole cautelari”34 che hanno come scopo la creazione di

regole cautelari specifiche che non discendono da una volontà normativa superiore, ma dall’attività privata che può essere spontanea o obbligata, quando ad es. si deve redigere un piano di sicurezza per la sicurezza e prevenzione degli infortuni sul lavoro.

Nel nostro campo si sono affermate: linee guida, protocolli, percorsi, standard e regole deontologiche, ma il loro utilizzo è pieno di problematiche, nonostante gli interventi legislativi avvenuti nel 198135 e nel 199636.

Analizziamoli individualmente:

La definizione più accreditata delle linee guida – che supera i limiti nazionali – per le terapie medico – chirurgiche

34 Op. Cit. E. Terrosi Vagnoli in “Linee guida per la pratica clinica: valenze e problemi

medico-legali”

35 D.p.r. Del 13 agosto del 1981 recepiva un accordo collettivo disciplinante il

rapporto di lavoro con i medici e istituiva un gruppo di lavoro per la raccolta delle informazioni necessarie per la definizione di protocolli diagnostici e terapeutici.

36 L’art. 1 comma 28 della legge finanziaria sosteneva che i: “medici abilitati alle

funzioni prescrittive conformano le proprie decisioni a percorsi diagnostici e terapeutici, cooperando in tal modo al rispetto degli obiettivi di spesa. I percorsi diagnostici e terapeutici sono individuati ed adeguati dal Ministro superiore della Sanità. ”

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è quella approvata nel 1992 dall’Institute of Medicine di Washington D.C.: “(linee guida sono) raccomandazioni di comportamento clinico, prodotte attraverso un processo sistematico allo scopo di assistere, medici e pazienti nel decidere quali siano le modalità di assistenza più

appropriate in specifiche circostanze cliniche.”37

I protocolli sono strumenti che non hanno una definizione univoca e vengono confusi con le linee guida, in particolare: per l’autore Giunta38, i protocolli sono più precisi e vincolanti rispetto alle linee guida che invece hanno valore tendenziale.

Secondo altri autori,39 la distinzione tra linee guida e protocolli riguarda il profilo della specificità dei contenuti: le prime definiscono direttive generali relative al compimento di una determinata operazione, o per la conduzione di uno specifico atto diagnostico o terapeutico.

Terrosi Vagnoli ha testualmente precisato che: “il termine protocollo indica, in senso generale, un predefinito

schema di comportamento diagnostico-terapeutico…

generalmente con questo termine ci si riferisce ad una sequenza di comportamenti assai ben definiti come occorre,

37 Op. cit. C. Brusco in “Linee guida, protocolli e regole deontologiche. Le modifiche

introdotte dal c.d. decreto Balduzzi” tratto da www.penalecontemporaneo.it

38 In “Medico (responsabilità penale del medico)” in Diritto Penale, Milano 2008 39 T. Campana in “La correlazione tra inosservanza e/o applicazione delle “linee

giuda””; Marinucci e Dolcini in “Manuale di diritto penale. Parte generale” Milano 2012

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ad esempio, all’interno di un programma di ricerca

clinica.”40

Di Landro infine, li definisce come “rigidi schemi di comportamento diagnostico e terapeutico, tipici di un programma di ricerca clinica sperimentale elaborato per assicurarne la riproducibilità e quindi l’attendibilità

scientifica.”41

Dal 2001 si è posta l’attenzione su una particolare tipologia di protocolli: le c.d. checklist. Il loro utilizzo si è avuto grazie al medico indiano Atul Gawande che lavora all’interno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che le ha definite come “una corolla di adempimenti necessari e sistematici, ciascuno dei quali va eseguito e “spuntato” dalla lista prima di procedere al compimento del

successivo”42.

Tecnicamente rappresentano sequenze o programmi cautelari in cui alloggiano cautele di natura modale e strumentale, la cui violazione può dar vita ad ipotesi di colpa procedurale.

40 Op. cit. in “Le linee guida per la pratica clinica” pag.194.

41 Op. cit. in “Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa

penale nel settore sanitario – Misura oggettiva e soggettiva della malpractice” pag. 10

42 Op. cit. M. Caputo in ““Filo d’Arianna” o “Flauto magico”? Linee guida e checklist

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Questi strumenti sono importanti perché si è capito che il sapere scientifico, molto spesso, è ingestibile perché il volume delle conoscenze mediche oltrepassa le capacità individuali di curare i pazienti.

Ecco quindi che riconoscere che il medico non è infallibile, permette di aumentare le condizioni di sicurezza del sistema organizzativo eliminando i possibili punti critici all’origine di un incidente.

Col passare degli anni infatti le checklist hanno contribuito a mantenere alti gli standard delle prestazioni basilari e a rendere più efficiente la distribuzione delle risorse per la gestione delle urgenze improvvise, ma le funzioni principali sono due:

- Aiutare gli operatori sanitari nel ricordare le operazioni necessarie ed

obbligatorie per un dato trattamento, poiché la memoria e l’attenzione non sono affidabili soprattutto in caso di situazioni di pericolo;

- Trasmettere una disciplina per le prestazioni più elevate perché, una volta effettuate le “formalità”, consentono all’operatore sanitario di concentrarsi su operazioni più importanti ed impegnative.

Una parte dei medici però, criticano questi strumenti perché sono visti come una limitazione al loro operato.

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Una risposta a questa parte della classe medica è la ricerca – divenuta un caso di scuola – di Peter Pronovost specialista di terapia intensiva, che nel 2001 sperimentò una checklist che affrontava il problema dell’infezione delle c.d. linee centrali: scrisse su un foglio le operazioni da effettuare prima dell’intervento e chiese agli infermieri di osservare per un mese l’operato dei medici, annotando quante volte rispettavano tutte le operazioni da lui descritte. Emerse che più di un terzo dei medici saltava almeno un passaggio.

Convinse l’amministrazione ospedaliera ad

autorizzare gli infermieri a bloccare i medici che non rispettavano la checklist e, osservando i 15 mesi che seguirono, risultò un miglioramento delle cure dei pazienti e un notevole risparmio di spesa. 43

Per il singolo medico le checklist danno una sicurezza a livello cognitivo rassicurandolo di aver agito bene fino a quel momento, mentre nel lavoro di equipe aiutano la comunicazione e l’interazione tra i membri – su quest’ultimo punto ritorneremo più avanti.

I percorsi si distinguono dai precedenti strumenti per una maggiore caratterizzazione in senso multi-disciplinare in relazione al coordinamento delle cure.

Gli standard servono ad indicare i valori massimi e minimi di riferimento (c.d. “valori soglia”).

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Le regole deontologiche infine, sono quelle regole di cui varie categorie professionali si dotano per disciplinare, anche eticamente, l’esercizio dell’attività svolta; non hanno natura cautelare né rilievo esterno rispetto alle categorie interessate.

La deontologia medica, per la specificità della professione diretta alla salvaguardia del paziente, ha portato a smentire che la regola generale e i relativi codici hanno molte norme cautelari che non possono non avere rilevanza esterna. Ad es. nel codice deontologico approvato il 16 dicembre 2006 dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurgici e degli Odontoiatri si prevedono varie regole di natura cautelare, in particolare: l’art. 13 che si occupa degli accertamenti diagnostici e l’art. 14 che si occupa del paziente e prevenzione del rischio clinico.

La formalizzazione delle regole cautelari non è un fenomeno esclusivamente italiano, ma interessa vari Paesi dell’Unione Europea e non solo.

Gli Stati Uniti d’America sono stati protagonisti della nascita del tema delle linee guida: negli anni ’80 le associazioni medico-professionali e i gruppi assicurativi svilupparono questo tema sia per ragioni scientifiche, sia per ragioni economiche e medico – legali.

Gli anni ’90 furono “anni chiave” per due eventi: fu dapprima istituita la banca dati nazionale delle linee guida

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grazie all’Agency for Healthcare Research and Quality in collaborazione con l’American Medical Association e in seguito il presidente Clinton varò un piano di riforma per la responsabilità civile in materia sanitaria, dando un ruolo centrale alle linee guida.

Il primo Stato che cercò di recepire questa iniziativa fu il Maine che inserì una previsione nel suo statuto, in cui prevedeva la non responsabilità per medical malpractice per i sanitari che erano in grado di dimostrare la conformità della loro condotta professionale alle linee guida.

In particolare: si doveva recepire a livello legislativo 20 linee guida cliniche, relative a quattro specializzazioni, così da eliminare il problema di ricostruire lo standard curativo in sede giudiziale.

Affinché i medici partecipassero il più possibile a questa iniziativa, il rispetto delle linee guida diventò una presunzione assoluta di conformità a diligenza in caso di azioni giudiziarie per malpractice; si potevano invocare processualmente le linee guida solo per dimostrare la diligenza dell’imputato, in particolare: il medico era l’unico che poteva introdurre nel quadro probatorio l’esistenza delle linee guida, mentre il paziente poteva solo contestarne l’applicabilità e/o l’effettiva osservanza.

Dai risultati della sperimentazione, che durò per circa dieci anni, si ottenne: un miglioramento della qualità delle

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cure, la riduzione della medicina difensiva e un risparmio nei costi del servizio sanitario, che permise di estendere le cure alle fasce di reddito più basso, ma i risultati non furono comunque soddisfacenti perché mancavano dati completi e strumenti appropriati a valutare la riforma sulla riduzione delle pratiche difensive.44

Sulla stessa scia del Maine operò lo Stato del Minnesota che considerò le linee guida come “legal

standard of care” solo in senso difensivo e a livello

processuale si prevedeva, in caso di adeguamento alle linee guida, una presunzione assoluta di diligenza.

In Florida le linee guida erano ammissibili per dimostrare l’innocenza del medico e, solo con riferimento alla procedura del parto cesareo, erano ammesse anche in chiave accusatoria.

Nello Stato del Kentucky si potevano utilizzare le linee guida solo in chiave discolpante, introducendo una presunzione relativa e non assoluta come negli altri Stati.

L’Harvard School of Public Health effettuò il più importante studio sulla frequenza dell’uso delle linee guida con riferimento agli anni 1990-1992.

44 A. Di Landro, “Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa

penale nel settore sanitario – Misura oggettiva e soggettiva della malpractice” pagg. 28-31

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Lo studio evidenziò, attraverso l’analisi delle azioni legali e del comportamento degli avvocati, che: quasi la metà degli avvocati intervistati (399) avevano avuto un caso in cui le linee guida giocavano un ruolo importante.

Le linee guida influenzavano le scelte degli avvocati riguardo alle controversie da portare in giudizio e non avevano ridotto la necessità di ricorrere a consulenti tecnici.

Processualmente le linee guida furono ammesse solo per mezzo dei consulenti tecnici di parte e non in modo autonomo, perché quest’ultimo tipo di prove erano assimilate alle prove indirette – rese inammissibili perché si sottraevano al controesame – anche se le Corti d’Appello confermarono alcune sentenze di grado inferiore che avevano ammesso le linee guida come prova autonoma.45

La Gran Bretagna iniziò ad occuparsi del fenomeno delle linee guida nel 1999: il Governo inglese creò l’Istituto Nazionale per la Salute e l’Eccellenza Clinica (NICE) e l’Health Act che impose un controllo sul contenzioso per innalzare il livello di assistenza sanitaria in modo uniforme.

Le linee guida ricevettero uno status ufficiale quando furono pubblicate sul NICE e furono diffuse all’interno del Servizio Sanitario Nazionale.

45 A. Di Landro, “Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa

penale nel settore sanitario – Misura oggettiva e soggettiva della malpractice” pag. 32-35

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Anche in questo Stato si sono avute indagini sulla portata delle linee guida a livello processuale: la maggior parte dei legali intervistati confermò l’utilizzo delle linee guida all’interno dei processi, lo scopo prevalente del loro utilizzo era accusatorio e non discolpante e venivano introdotte tramite la citazione o la consulenza tecnica.

In Olanda l’utilizzo delle linee guida è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni grazie al Collegio dei Medici Olandesi che, fin dal 1987, è impegnato nella produzione delle linee guida nazionali.

La peculiarità del sistema olandese sta nel fatto che le linee guida non rappresentano norme di legge, ma quasi ogni ospedale o organizzazione sanitaria ne predispone di proprie.

Importante è la considerazione che viene data all’Autorità o all’organizzazione che sviluppa, sponsorizza e diffonde le linee guida perché la loro validità è direttamente proporzionale all’importanza del soggetto emanante: dal 1992 all’Associazione Reale dei Medici Olandesi viene attribuito il ruolo di organizzazione rappresentativa della maggioranza dei professionisti.

In Germania le linee guida sono applicate molto a livello processuale come standard di diligenza nei casi di responsabilità medica: il legislatore le ha recepite come norme statutarie in materia di assicurazione sanitaria o in materia di tassazione e finanziamento del sistema sanitario.

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Nel 1998 il Comitato delle Associazioni Mediche

Tedesche e l’Associazione Nazionale Assicurazioni

Sanitarie istituirono l’“ente per la diffusione delle linee guida cliniche” che aveva il compito di valutare le linee guida in base a criteri prestabiliti sull’esempio di quelli dell’Institute of Medicine americano. Qualche anno più tardi l’Associazione delle Società Medico-Scientifiche Tedesche

cercò di riunire le linee guida per assicurare

l’armonizzazione interdisciplinare.

Anche in Australia infine, nel 1995, fu emanato dal Consiglio Nazionale per la Salute e la Ricerca Medica un

procedimento per lo sviluppo, l’omologazione e

l’approvazione delle linee guida: “Linee guida per lo sviluppo e l’attuazione delle linee guida per la pratica

clinica”.46

a. Caratteristiche delle linee guida.

Le principali caratteristiche delle linee guida si desumono dalla diversità di utilizzo all’interno dei processi sia civili che penali:

1. Elasticità: si deve valorizzare l’autonomia del medico

nelle scelte terapeutiche perché, spesso, l’arte medica

46 A. Di Landro, “Dalle linee guida e dai protocolli all’individualizzazione della colpa

penale nel settore sanitario – Misura oggettiva e soggettiva della malpractice” pag. 39-50

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presenta diverse soluzioni che l’esperienza ha dimostrato efficaci: l’unico in grado di scegliere la più consona in base alle circostanze specifiche è il medico.

La libertà delle scelte terapeutiche è un valore che non può essere compromesso, né può essere disperso per nessun motivo; ma allo stesso tempo la scelta non deve essere affrettata ma deve attenersi sulla base della disamina completa di tutte le circostanze del caso specifico, scegliendo quella più adeguata.

Particolare attenzione ha suscitato la sentenza Grassini47: il paziente fu dimesso dopo nove giorni dopo l’infarto, dopo aver raggiunto la stabilizzazione cardiaca del quadro clinico necessaria per la dimissione – in conformità con le linee guida; il paziente moriva la notte stessa della dimissione per un nuovo attacco cardiaco.

La perizia effettuata durante il giudizio di primo grado evidenziava che al momento della dimissione il paziente era stabilizzato ed erano stati eseguiti tutti i passaggi richiesti dalle linee guida e dai protocolli e nulla faceva presagire la complicanza fatale.

La Corte di Appello di Milano nel 2009 aveva assolto il medico perché il fatto non costituisce reato: si

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