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CAPITOLO 2 Contro il “mito” dei Nativi Digitali, confutazioni della loro esistenza

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CAPITOLO 2

Contro il “mito” dei Nativi Digitali, confutazioni della loro esistenza

2.1 Le maggiori critiche

A partire dagli anni Novanta, ossia con l’affermazione, sempre più forte, delle nuove tecnologie, una nutrita schiera di studiosi e accademici si è adoperata per alimentare e sostenere le tesi sull’esistenza della nuova generazione di Nativi, portatrice di tutte quelle caratteristiche viste nel capitolo precedente.

Di contro e parallelamente, si è affermata anche la presenza di coloro che sostengono idee diametralmente opposte, affermando sostanzialmente che non esiste nessuna nuova specie.

Appellandosi soprattutto a una mancanza di evidenze scientifiche suffragate da ricerche e indagini su larga scala che riescano a dimostrare l’effettiva esistenza della frattura generazionale, studiosi come Bullen, Bennett, Selwyn, Bukingham, Livingstone e Jenkins, solo per citarne alcuni, sostengono che l’idea del Nativo, così come presentata, non corrisponda che a una mitologia, se non addirittura a una leggenda metropolitana, se non fosse che, devono comunque riconoscere, effettivamente molti degli utenti più giovani di Internet vi abbiano una discreta dimestichezza.

Ma questa resta una concessione.

Le altre caratteristiche usate per rappresentare il fenomeno Nativi non sono per loro da considerarsi, né più né meno, alla stregua di supposizioni, essendo esse frutto di semplici osservazioni, suscettibili, al pari di semplici “storielle”, di essere eventualmente arricchite di particolari, quando non interamente basate su aneddoti e meri principi d’autorità, richiamandosi, come evidenziato da più autori, al “padre” stesso dei Nativi, Prensky.

Non esisterebbe affatto, pertanto, una simile generazione Native dotata di tutta quella serie di “super-poteri” con la quale molti studiosi si ostinano a dipingerla, designando, nella prospettiva di un imminente futuro sotto la loro egida, un mondo migliore in cui i “poveri” Immigrati sono costretti a piegarsi di fronte all’evidenza della sconfitta o, nei migliori dei casi, a tentare di andar loro incontro.

Il punto centrale è che giovani del nuovo millennio, immersi certamente nei bit come voleva Tapscott (1998), crescono verosimilmente in un ambiente favorevole allo sviluppo di capacità “tecnologiche”, ma non è assolutamente detto che questa sia una

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realtà assoluta e valida per tutti e che gli adulti non siano capaci di eguagliare, se non superare, le loro presunte, fantastiche capacità.

Osservando più nel dettaglio quali sono i presupposti su cui si basano le obiezioni dei detrattori del mito dei Nativi, è possibile notare che tra le maggiori critiche mosse contro i sostenitori di tale fenomeno, efficacemente riassunte dal “Net-Gen scettico” Mark Bullen in numerosi commenti postati tra il 2008 e il 2013 presenti sul suo blog1, si evidenzia un’eccessiva e troppo rigida “categorizzazione”, che spesso si manifesta attraverso altisonanti e roboanti etichette generazionali tramite cui si cerca di dare una veste scientifica alle affermazioni loro riguardanti, nel tentativo, presumibilmente, di affascinare, persuadere e irretire il pubblico (Bullen 2008) e sviarlo dal fatto che manchino, evidentemente, prove concrete e dati scientifici a sostegno delle tesi enunciate.

Le (poche) testimonianze a favore dei Nativi, poi, essendo relative allo studio di un panorama prevalentemente nordamericano o anglosassone (Bullen 2009, 2010, 2011), non possono essere generalizzabili e occorrono pertanto dati provenienti da altri Paesi se si vuole provare l’esistenza di essi.

Questi, tuttavia, non sembrano esserci o, se ci sono, si basano soprattutto su osservazioni e valutazioni personali e dunque discutibili.

Nella maggior parte dei casi, inoltre, qualora vengano forniti tali dati, il ventaglio di variabili prese in considerazione per la loro raccolta risulta essere alquanto limitato (Bullen 2010).

Oltre a ciò si aggiunge ancora il fatto che non è sufficiente guardare le differenze tra gli utenti e i non utenti come spesso ci si è limitati a fare; è anche essenziale riconoscere che esistono modelli di utilizzo diversi tra chi è collegato e chi non lo è, e che questo può contribuire alla disuguaglianza sociale (van Dijk 2005, DiMaggio et al. 2004, Hargittai 2008, Selwin 2004, Warschauer 2002, Chen e Wellman 2005, cit. in Hargittai 2010).

Seguendo questa linea di pensiero e partendo dal fatto che le rivendicazioni popolari circa l'impatto delle nuove tecnologie su questa generazione, avvolta totalmente dalla tecnologia digitale, possono essere risultate particolarmente attraenti, Bullen, Morgan e Qayyum pongono innanzitutto in rilievo il fatto che fino a oggi non vi è stata un convincente corpus di prove a sostegno di tali affermazioni.

Analizzando gli autori principali e più popolari che trattano il fenomeno, essi dichiarano che il lavoro di Tapscott, ad esempio, ha innegabilmente la base empirica più forte, ma

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presenta comunque numerosi punti critici in virtù dei quali non lo si può considerare uno studio affidabile per l’analisi del fenomeno dei Millennials da lui inquadrato.

La sua ricerca del 1998, infatti, basata su discussioni condotte con circa 300 bambini di età compresa tra i 4 e i 20 anni, risulta equilibrata in termini di genere, contempla un’area geograficamente significativa, e tiene di conto dello status socio-economico, ma non vengono forniti dettagli su come questi partecipanti siano stati reclutati, né se il campione possa considerarsi rappresentativo o meno.

Inoltre, tutte le discussioni si sono svolte in un forum on-line, predisponendo in qualche modo i partecipanti a un certo tipo di comunicazione.

Tapscott (2008) continua a sostenere l'idea che questa è una generazione unica e dichiara che le sue affermazioni del 1998 sono state ampiamente dimostrate, perciò egli si dice perfettamente in grado di arrivare all’enunciazione delle sue famose otto norme2, tuttavia, ancora una volta, le informazioni metodologiche limitate che egli fornisce non permettono né di giudicare l’attendibilità di esse, né il valore dell’intero lavoro.

Tutto quello che si riesce a evincere è che i dati sono stati raccolti da un campione di 7.685 utenti Internet, che questi ultimi sono stati selezionati in modo casuale e stratificato per evitare pregiudizi di genere o socio-economici, che le interviste sono state condotte utilizzando un questionario on-line, che è stato utilizzato un gruppo Facebook per raccogliere più di 200 storie e che sono state analizzate le discussioni condotte su una rete globale on-line, TakingITGlobal.

Gli autori affermano criticamente che, essendo il campione grande e le fonti varie, ed essendo state intervistate solo le persone che utilizzavano già le tecnologie digitali, l’impressione è che esso sia distorto.

Oltre a ciò, se uno degli obiettivi principali della ricerca era stato quello di determinare quanto questa generazione fosse impegnata con la tecnologia digitale e se ci fossero differenze generazionali, un campione che comprendesse anche non-utenti della tecnologia sarebbe stato sicuramente più appropriato.

Prensky (2001a, 2001b) viene criticato per non aver fornito alcun supporto empirico alla maggior parte delle sue affermazioni.

Certo, esistono alcune prove per sostenere l'idea che l'uso della tecnologia influisce sulla struttura fisica del cervello, ma gli effetti specifici dell'uso pervasivo delle tecnologie digitali sulla capacità di multitasking, sul bisogno di gratificazione immediata

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e sulla preferenza per l'accesso casuale e per la grafica al testo convenzionale non sono affatto supportati.

Palfrey e Gasser nel loro lavoro (2008) forniscono alcuni dettagli metodologici; essi li descrivono in due paragrafi dicendo di aver condotto la ricerca originale su «una serie di focus group e tramite interviste» e che parlano «in dettaglio per i giovani di tutto il mondo» (Palfrey e Gasser 2008, p. 13, cit. in Bullen, Morgan e Qayyum 2011).

Cercando di ottenere maggiori particolari dagli autori, tuttavia, i ricercatori dicono di essere stati rimandati a un articolo pubblicato successivamente in un libro che ha trattato dei giovani e del loro atteggiamento nei confronti di diritti d'autore (Palfrey, Gasser, Simun e Barnes 2009, cit. in Bullen, Morgan e Qayyum 2011).

Lo studio in questione, basato su un’analisi condotta su 69 studenti dell’area di Boston e intende fornire dei risultati universalmente validi per un’intera generazione, ma in molti casi risulta difficile collegare rivendicazioni specifiche per i dati che vengono presentati, poiché, così come per Tapscott (2009), non è chiaro come questi riescano a supportare la loro ricerca loro.

Inoltre, si dice all’interno dell’ “invettiva”, le affermazioni di Palfrey e Gasser sono contraddette da uno studio britannico3, il quale ha scoperto che i giovani utenti di Internet non sono esperti nella ricerca delle informazioni i e non sono capaci di valutare criticamente quelle che riescono a recuperare (Bullen, Morgan e Qayyum 2011).

Congiuntamente alla critica rivolta a certi autori, le cui ricerche sono state supportate da aziende piuttosto che da organizzazioni a fine di lucro, Bullen, Morgan e Qayyum evidenziano che le caratteristiche personali della Net-Generation, così come le affermazioni circa l'impatto dell'uso dell'ICT, non sono ben coadiuvate da un tipo di ricerca spesso finanziata da proprietari che intendono supportare rivendicazioni utili per loro scopi (economici4) precisi; per questa ragione né gli autori di esse hanno l'obbligo di rilasciare i dettagli metodologici, né gli studi in questione sono sottoposti a un processo di revisione accademica normale.

Proseguendo nell’analizzare la letteratura sulla Net-Generation, si riscontra che uno dei riferimenti più ampiamente citati a sostegno delle affermazioni circa le loro

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Lo studio di cui si parla è quello condotto dall’University College di Londra nel 2008.

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Già Buckingham (2009) aveva sollevato questo aspetto, individuando la causa principale di una così fortunata diffusione della propagandistica pro-Native, motivazioni di tipo economico e politico.

Per l’autore, infatti, le aziende commerciali vendono apparecchi tecnologici nelle scuole, affiancati dai responsabili politici in cerca di una rapida soluzione altrettanto tecnologica a ciò che essi percepiscono come i problemi della scuola.

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caratteristiche distintive è l’opera di Howe e Strauss, che individua nei Millennials la prossima grande generazione (2000).

Essi sostengono infatti che nel prossimo decennio la nuova generazione in questione rivoluzionerà l’ immagine dei giovani (americani), che si trasformeranno da alienati a ottimisti e impegnati, tuttavia solo due indagini5 costituiscono la base empirica per le loro affermazioni, fornendo, peraltro - ed è proprio in questo che si individua la carenza nello studio -, dati raccolti da una popolazione relativa a un’area molto limitata geograficamente.

Nonostante ciò, gli autori si ostinano a dichiarare che questi vadano bene per definire un’intera generazione, alla quale apparterrebbe, indiscriminatamente, una vasta gamma di abitudini sociali positive, tra cui una nuova attenzione per il lavoro di squadra e al successo, la modestia e la buona condotta.

Oblinger e Oblinger (2005) hanno probabilmente fatto di più per legittimare l'idea che questa generazione ha caratteristiche comportamentali uniche, poiché il loro libro, pubblicato dall’organizzazione EDUCAUSE, è reso disponibile come download gratuito.

Il volume, tuttavia, è composto da 14 capitoli che sono, per la maggior parte, basati su una miscela di speculazioni e di rapporti aneddotici, che sembrano riecheggiare molte delle affermazioni di Howe e Strauss (2000), di Prensky (2001a, 2001b) e di Tapscott (1998).

Oltre a ciò, il capitolo di Kvavik (2005), in cui si discute circa l’uso delle tecnologie nella didattica, risulta essere l'unico a essersi ispirato a uno studio originale e a una ricerca condotta con un qualche criterio scientificamente soddisfacente, ma contraddice molte delle affermazioni che il resto del libro sostiene (Bullen, Morgan e Qayyum 2011 ). Tale punto di vista si è certamente ispirato a quello che si può osservare nella ricerca di Sue Bennet, Karl Maton e Lisa Kervin (2008), nella quale è possibile individuare una delle più importanti tra quelle effettuate contro le tesi relative ai Nativi, nonché una delle fonti espressamente citate dallo stesso Bullen per condurre la sua6.

Anche questo lavoro affronta tale tema costruendo la sua critica principalmente sul fatto che non esistano solide basi empiriche che giustifichino i risultati che si ritiene di aver ottenuto e anche qui gli autori non si limitano a mettere in discussione le affermazioni, per esempio, di Prensky e di Tapscott, i quali, descrivendo le particolarità

5 La prima di tali indagini è relativa a un sondaggio condotto tra 200 insegnanti di scuole

elementari, medie e superiori a Fairfax County in Virginia, mentre la seconda coinvolge 660 studenti delle scuole superiori nella stessa contea (Bullen, Morgan e Qayyum 2011 ).

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dei Nativi (o della Net-Gen, usando la terminologia di Tapscott), li avevano rappresentati non solo come immersi, ma anche (ed essenzialmente) come dipendenti dalla tecnologia, o puntando semplicemente il dito contro Howe e Strauss, contro gli Oblinger e contro Frand che, definendo in vari modi questa generazione dalle caratteristiche quasi “sovraumane”, si ostinano ad affermare che essi saranno certamente capaci di guidare il futuro (Bennet, Maton e Kervin 2008), ma si dimostrano al contrario profondamente scettici rispetto a questo tipo di affermazioni, nonché rispetto alla presenza effettiva dei Nativi.

Una delle domande fondamentali che pongono nel loro saggio, infatti, riguarda il fatto che questi ultimi esistano veramente.

Per rispondere a tale interrogativo gli autori prendono in esame, così come fanno Bullen, Morgan e Qayyum (2011), la letteratura in circolazione notando che sono due le principali ipotesi sui Nativi, comuni praticamente a tutte le pubblicazioni considerate. La prima di esse sottolinea il fatto che coloro che appartengono a questa generazione sono indubbiamente in possesso di conoscenze sofisticate e di abilità legate alla tecnologia dell’informazione.

Il secondo assunto da loro menzionato, invece, evidenzia ancora una volta che nella letteratura seminale riguardante i Nativi Digitali certe affermazioni riferite al fatto che «come risultato della loro educazione ed esperienza con la tecnologia, essi hanno preferenze di apprendimento particolari o stili che differiscono dalle precedenti generazioni di studenti» (Bennet, Maton e Kervin 2008), sono presentate con limitata evidenza empirica da autori del calibro di Tapscott (1998) o supportati da aneddoti e da appelli al senso e alle credenze comuni (come fa Prensky nei suoi studi del 2001). Ma non si tratta solamente di questo; anche per Bennet, Maton e Kervin il punto cruciale del ragionamento consiste nell’essersi riferiti costantemente a queste fonti, le quali, ritenute autorevoli, hanno portato anche a rivolgervisi in maniera acritica, cosicché le numerosissime pubblicazioni successive si sono limitate a riportare posizioni precedenti, supportate da prove “poco scientifiche” e, dunque, poco attendibili.

Studiosi come Gaston, Gos, Long, McHale e Skiba, cedendo al fascino dei profeti dei Nativi, oltre che a quello dei Nativi stessi, hanno certamente commesso l’errore di non indagare maggiormente sull’argomento, tuttavia, notano gli autori, non tutto è perduto, poiché sta emergendo un nuovo tipo di ricerca che sta rivelando alcune delle complessità legate all’uso e alle competenze dei giovani in materia di tecnologia e ciò

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lascerebbe ben sperare, se non fosse che questo tipo di approfondimento è, nel 2008, ancora allo stato embrionale.

Un altro noto autore che dubita dell’effettiva realtà dei Nativi Digitali così come sono stati dipinti da numerosi studiosi a partire da Prensky, e critica il fatto che non ci siano, in sostanza, prove fondate sull’esistenza di questa nuova, rivoluzionaria generazione è Neil Selwin.

Egli riibadisce ancora una volta che troppo spesso per sostenere l’ipotesi della loro unicità, dato il peculiarissimo rapporto con le nuove tecnologie, gli autori che hanno affrontato l’argomento si sono basati su aneddoti e osservazioni informali, perciò

⦋…⦌ nella migliore letteratura a cui si può fare riferimento si tende a far ricorso a una nozione legalistica anziché scientifico-sociale di “prove” in termini di contributo alla creazione di un caso particolare o di un punto di vista indipendentemente dai risultati contraddittori (Gorard 2002, cit. in Selwin 2009, p. 371).

Ma non finisce qui.

Selwin ritiene che molte (se non tutte) le caratteristiche riscontrate dai sostenitori del mito dei Nativi hanno guadagnato credito principalmente per la loro associazione con più ampi dibattiti morali e ideologici inerenti ai giovani e al loro rapporto con la tecnologia digitale, anziché essere state prese in considerazione per una loro reale sostanza empirica.

Si può osservare, inoltre, che gran parte della letteratura riguardante il caso dei Nativi si collega con il tema della società e, in modo più specifico, vi si fa ricorso per sollevare «domande circa il tipo di società che vogliamo e il tipo di ragazzi che cerchiamo di far crescere» (Keen 2007, cit. in Selwin 2009, p.371).

Per l’autore, se si intende in questo modo la nozione di Nativo Digitale, è necessario che la si consideri «come un dispositivo discorsivo più che descrittivo, impiegato da coloro che cercano di esercitare una qualche forma di potere e di controllo sulla formazione del (prossimo) futuro digitale» (Selwin 2009, p. 371).

In aggiunta a ciò, Selwin nota che è necessario andare oltre, superare quella sorta di panico morale individuato anche da Bennet, Maton e Kervin (2008) che dichiara di agire nell’interesse dei giovani e della società futura, ma che potrebbe celare una motivazione a sostenere gli interessi del sistema (Livingstone 2009, cit. in Selwin 2009) e sradicare la convinzione che i ragazzi e i bambini siano naturalmente più “evoluti” in ambito tecnologico degli adulti, ignorando così il fatto che abbia molta influenza, tra le altre cose, la diversità esistente tra due tipi d’infanzia e di maturità vissuti da differenti generazioni (Buckingham 1998).

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Risiederebbe dunque, per questi e per altri autori, nella letteratura non scientifica la più importante fonte da cui sono scaturite le principali rivendicazioni relative alla Net-Generation, ed è quindi dall’analisi di quest’ultima, come si è visto, che Bullen, Morgan e Qayyum intendono procedere per scardinare il fittizio impianto pseudo-scientifico su cui si basa la mitologia che li riguarda.

Se alcune di tali affermazioni vengono individuate da essi nella stampa popolare, altre si trovano in ricerche finanziate da imprese private, o far capolino da dissertazioni e speculazioni accademiche che, pur presentandosi con una veste pomposamente scientifica, non hanno, in realtà, alcun fondamento empirico.

In relazione a questo, essi ritengono che la comunità educativa, una delle attrici principali della disputa, non abbia saputo distinguere correttamente fra le diverse tipologie di pubblicazione, né queste, pertanto, abbiano subito un adeguato esame critico.

Per quanto riguarda, nello specifico, la letteratura esistente sull’argomento, Bullen, Morgan e Qayyum, affermano che si possono trovare tre tipi di affermazioni, le quali si riferiscono:

1) all'uso delle ITC

2) all'impatto dell'uso dell'ITC (in particolare in materia di apprendimento)

3) alle caratteristiche personali e comportamentali distintive di questa generazione

Il primo tipo di asserzioni, quelle circa l'uso delle ITC, rappresenta quelle che sono considerate le meno controverse, poiché implicano la semplice osservazione del livello fino al quale le tecnologie digitali sono utilizzate da persone di ogni età.

A sostegno di queste osservazioni, numerosi sondaggi hanno confermato che l'uso della tecnologia digitale è in crescita e che i più giovani tendono a fruirne maggiormente rispetto alle persone più anziane (Jones e Fox 2009, cit. in Bullen, Morgan e Qayyum 2011).

Le affermazioni riguardanti l'impatto dell'uso della tecnologia digitale sono più dibattute, sia perché risultano più audaci, sia perché le prove a loro sostegno sono spesso assenti o di dubbia qualità.

Prensky (2001a, 2001b, 2005), Tapscott (1998, 2009) e, in misura minore, Palfrey e Gasser (2008) hanno sostenuto che l'ubiquità e l’ uso intensivo delle tecnologie digitali stanno influenzando il modo di pensare, di interagire e la stessa visione del mondo della Net-Generation (Bullen, Morgan e Qayyum 2011).

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Se è vero che molti critici utilizzano come punto di partenza l’obiezione, appena vista, al “principio d’autorità”, altri, come Henry Jenkins, sembrano focalizzare la loro attenzione innanzitutto sulla troppa “categorizzazione” utilizzata e non sul fatto che i Nativi esistano o meno.

Jenkins, infatti, mostra delle riserve nei confronti sia del termine “Nativo Digitale”, sia delle varie etichette generazionali a esso correlato, ma afferma tuttavia di essere, in un certo senso, costretto a utilizzarle, non essendo ancora riuscito a trovare, al pari di altri e come dichiara la migliore letteratura al riguardo, un’espressione che descriva in maniera più soddisfacente il fenomeno osservato.

Il Digital Natives Project di Harvard infatti si trova sulla stessa lunghezza d’onda dell’autore, pertanto giustifica il suo continuo uso di tale etichetta:

I giovani sono tutti Nativi Digitali? In poche parole, no.

Anche se inquadriamo i Nativi Digitali come una generazione "Born Digital", non tutti i giovani lo sono.

I Nativi Digitali condividono una cultura comune a livello mondiale, che non è definita rigorosamente dall’età, ma da certi attributi ed esperienze relative a come interagiscono con le tecnologie dell'informazione, con l'informazione con le altre persone e le istituzioni. Coloro che non sono "Nati Digitali" possono essere altrettanto collegati, se non di più, rispetto ai loro colleghi più giovani.

E non tutti coloro che sono nati dal, diciamo, 1982, sembrano essere Nativi Digitali. Parte della sfida di questa ricerca è quella di comprendere le dinamiche di chi è esattamente, e chi non lo è, un Nativo Digitale, e che cosa significa ⦋…⦌(cit. in Jenkins 2007a).

Per quanto riguarda l’opposizione tra i termini “Nativo Digitale” e “Immigrato Digitale”, Jenkins dice che se essi aiutano a comprendere chiaramente alcuni aspetti del mondo, ne mascherano altri e, in molti casi, distorcono dei lati di ciò che vogliono descrivere (2007b).

Una simile terminologia, infatti, ha innegabilmente riscosso molto successo negli ultimi anni, risultando essere molto utile nel fornire alle persone una traduzione valida del fenomeno che stavano vivendo - fenomeno consistente in una sorta di passaggio generazionale evidente nei modi in cui si rapportano i giovani e gli adulti con le tecnologie emergenti -, ma è opportuno comunque attuare un processo selettivo, affinché non si perdano di vista tre importanti distorsioni.

Analizzando la prima di esse, si evidenzia che i termini in questione sono astorici, perciò fanno pensare, erroneamente, che questa sia la prima generazione in cui i bambini siano più istruiti sulla tecnologia rispetto ai loro genitori.

In secondo luogo si rileva che tutti i giovani sembrano essere compresi in maniera indiscriminata in una cosiddetta generazione digitale, pertanto non si contempla

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l’ipotesi del divario digitale riferito al loro accesso alle tecnologie, né quello di partecipazione inerente alle abilità sociali e alle competenze necessarie per far parte pienamente della cultura digitale emergente .

Infine, si ignora il livello di potenza raggiunto, ad esempio, dai blogger e dai giocatori on-line che, attraverso la nuova cultura partecipativa sviluppatasi in spazi comuni multimediali, si trovano coinvolti in un’interazione giovane/adulto affrontata in termini del tutto nuovi.

Questi spazi di affinità7 (Gee 2005, cit. in Jenkins 2007b) non riuniscono i ragazzi e gli adulti legati da relazioni gerarchiche (come può essere quella bambini/genitori), ma permettono l’instaurarsi di un rapporto basato su interessi comuni.

Ma se è vero, nota Jenkins, che le nuove culture partecipative sono costruite con uno sforzo congiunto di giovani e di adulti, distinguere tra Nativi e Immigrati finirà con l’esagerare le differenze tra di essi, dipingendo i secondi come individui che armeggiano e si dibattono irrimediabilmente nell’oceano tecnologico e come “disadattati” che vivono ormai completamente fuori dal mondo (Jenkins 2007b).

In conseguenza a ciò, poi, la gioventù contemporanea viene percepita come selvatica, poco (se non per niente) influenzabile dai “grandi”, i quali non hanno nulla di significativo da dire ai loro figli.

Gli Immigrati continuano a essere visti in negativo come coloro che impongono antiquati standard agli abitanti di un mondo nuovo, ma si dovrebbe doverosamente riconoscere che molto di quanto essi portano con sé dal “vecchio mondo” è ancora valido nel nuovo, piuttosto che semplicemente concentrarsi sui loro “deficit” e sulle loro inadeguatezze.

Attraverso questo processo che pone agli antipodi due categorie rigidamente distinte e tra le quali non sembra profilarsi la possibilità un punto d’incontro, secondo l’autore, si arriva a indebolire gli adulti, incoraggiando la loro percezione a sentirsi sempre più impotenti, e giustificando inoltre la loro decisione di non volersi curare di cosa accade ai ragazzi che si muovono nella Rete.

Jenkins prosegue la sua riflessione affermando che, riferendosi a forme di manifestazione che vengono spesso associate esclusivamente ai Nativi, come i videogiochi o alcuni tipi di cultura fan8, bisogna rendersi conto che, in realtà, si sta parlando di forme di espressione culturale che coinvolgono entrambe le categorie; gli

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Per Gee gli spazi di affinità sono rappresentati dalle culture di apprendimento informale. Essi si sviluppano attraverso processi di appropriazione “tra pari” e sono fondati su esperienze vissute in prima persona, in contesti e spazi pubblici e condivisi (Wikipedia).

8 Jenkins dice che l’età di un giocatore medio è compresa tra i venti ei trent'anni, mentre fa

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spazi virtuali che si creano sono luoghi in cui queste interagiscono tra loro, come si è detto, indipendentemente da gerarchie generazionali collegate con la scuola, la chiesa, o la famiglia e dove possono, almeno a volte, avvicinarsi tra loro da pari, imparare gli uni dagli altri e comunicare in termini nuovi, anche se, nota l’autore, c'è una tendenza crescente a patologizzare qualsiasi contatto on-line che avvenga tra di essi al di fuori di strutture familiari.

Il problema maggiore, dunque, è che finché si continua a separare così nettamente il mondo dei Nativi da quello degli Immigrati, non ci sarà l’opportunità di fare affermazioni significative circa le tipologie di condivisione che si verificano tra adulti e bambini, per i quali, comunque, non sarà possibile immaginare nessun tipo di questo genere d’interazione, date le differenze culturali.

Ancora riguardo all’argomento “etichette generazionali”, David Buckingham, muovendo dalla sua volontà di lottare contro l’idea che la visione deterministica della tecnologia propugna, ovvero quella che essa abbia, in sé e per sé, un potere mutante rispetto alla società e che, da sola, essa riesca a produrre un cambiamento generazionale, egli prospetta una serie di problematiche legate alla figura e alla fenomenologia dei Nativi, soprattutto perché, tipicamente, si sovrastimano le differenze tra le generazioni e si sottovalutano le diversità “intrinseche”, come le differenze di età all’interno delle stesse e le forme di disuguaglianza sociale (Buckingham 2009).

Molti dei Nativi Digitali, infatti, sono considerati utenti più intensivi dei media digitali rispetto agli Immigrati, ma essi non sono affatto così tecnologicamente abili e non necessariamente hanno le capacità, la competenza o la naturale fluidità che spesso si sono attribuite loro, nei confronti dei quali, nota l’autore, vi è una sorta di sentimentalismo misto alla paura di quello che potrebbero portare.

I concetti di generazione e di differenza generazionale, molto cari a Buckingham, utilizzati sia nel dibattito pubblico sia nella vita di tutti i giorni, in riferimento all’argomento “tecnologia”, devono essere considerati tenendo conto che queste (le generazioni) vengano costruite anche a livello micro, nelle interazioni quotidiane. È qui che entra in gioco il processo di generationing, ossia l'idea, valida sia per i giovani sia per gli adulti, consistente nel fatto che l’individuo definisce se stesso come membro di una generazione attraverso una performance sempre mutevole di identità, la quale si modella a contatto con le altre e le rimodella a sua volta (Buckingham 2006).

Questa reciproca “costruzione” può essere un processo piuttosto complesso e ambivalente, inoltre le differenze tra le generazioni possono risultare più o meno

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marcate e avere più a che fare con gli scopi per cui le persone utilizzano particolari tecnologie, piuttosto che con i mezzi attuali o la tecnologia in sé per sé.

Allo stesso modo, dice l’autore,

⦋…⦌ non esiste una semplice dicotomia tra livello “alto” e “basso”di cultura, senza una chiara gerarchia di gusto o di valore culturale e sarebbe del tutto inesatto affermare, come Prensky e altri sembrano suggerire, che gli insegnanti e gli studenti (Nativi e Immigrati) vivono in mondi diversi, tecnologici o culturali (Buckingham 2009, p. 8).

I due universi possono non essere così distanti, i Nativi possono non essere così digitali.

La critica di Sonia Livingstone, procede articolandosi attraverso la struttura hegeliana tesi-antitesi-sintesi.

Come tesi si riassume nella frase “i giovani pensano in modo diverso dai loro genitori perché sono nati in un mondo digitale”, il punto di vista dei pro-Nativi, mentre come antitesi si afferma che “i giovani non pensano in modo molto diverso (dagli adulti), dopo tutto” (Livingstone 2009), sintetizzando il pensiero di tutti coloro che, al contrario, sostengono che i bambini, in realtà, non sono più o meno socievoli, distraibili o creativi nei loro processi di apprendimento di coloro che invece bambini lo furono prima di loro, cioè gli attuali adulti, nonostante molti studi abbiano cercato di sostenerlo (Prensky 2001a, cit. in Livingstone 2009).

A tal proposito il professor Usha Goswami psicologo presso l'Università di Cambridge dice che è ormai riconosciuto che i bambini, fin dalla prima infanzia, pensano e ragionano nello stesso modo degli adulti.

I bambini sono tuttavia meno “efficienti” nel ragionare rispetto ai “grandi” perché sono più facilmente indotti in errore nella loro logica, interferendo, per esempio, variabili contestuali, e a causa della loro scarsa capacità di inibire le informazioni irrilevanti. Il grande cambiamento evolutivo nel corso degli anni primari avverrebbe con lo sviluppo di competenze di autoregolamentazione; lo sviluppo cognitivo dipende dall’esperienza e, logicamente, chi è più anziano ha avuto più esperienze rispetto chi è più piccolo (Goswami 2008, cit. in Livingsone 2009).

Livingstone evidenzia che gli argomenti così finora esposti dai pro-Nativi risultano troppo polarizzati, poiché le dicotomie utilizzate sono troppo semplicistiche: alcune cose stanno cambiando negli stili di apprendimento e di agire dei giovani, ma ciò non implica che essi si siano radicalmente trasformati.

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Tali modifiche, oltretutto, si verificano su un orizzonte temporale più lungo, molto più variabile e in modo non uniforme rispetto a quello che di solito viene preso in considerazione.

Nello sviluppo della sintesi, dunque, è opportuno valutare, tra le altre cose, anche i risultati del progetto condotto dall’autrice nel Regno Unito che studia il modo in cui i bambini navigano on-line9.

Per quanto concerne la critica precisa circa le “variabili” (non) considerate dalla maggior parte della letteratura riguardante i Nativi, Hargittai nota che durante il processo d’indagine che essa stessa ha affrontato, si è dovuto tener di conto di alcuni elementi fondamentali, i quali, importantissimi, non devono passare inosservati al fine di garantire la genuinità e la serietà dei criteri con cui è stata condotta l’intera ricerca (Hargittai 2010b).

Gli elementi in questione sono essenzialmente quelli biografici e demografici degli studenti esaminati, le loro abitudini di comunicazione (tra cui l’uso delle ITC), gli elementi attitudinali sulle loro preferenze di studio, la percezione che essi hanno dei coetanei, dei docenti, e i loro programmi.

Hargittai sostiene che, nonostante nel corso degli anni siano state ampiamente documentate molte differenze negli usi di Internet degli americani, si è dato soprattutto importanza a elementi come l’età e l’istruzione, ovvero quei fattori che, se controllati, potrebbero non influire più sul divide.

Ma questa è un’illusione.

Osservando un gruppo di studenti universitari del primo anno alla University of Illinois di Chicago, di cui, dunque, era possibile “controllare” in gran parte le due variabili sopra individuate, Hargittai (2010b) ha notato che queste non sono le uniche coinvolte quando si tratta di definire un divario.

Elementi particolarmente importanti si sono rivelati infatti anche il livello d’istruzione dei genitori (influente per definire lo status socio-economico), la razza e l'origine etnica, il contesto tecnologico (ovvero se e di quanti mezzi tecnologici si è in possesso), le competenze e le motivazioni per l’utilizzo di Internet.

Incrociando i dati ottenuti dalla sua ricerca, la studiosa ha ottenuto dei risultati che indicano chiaramente delle correlazioni tra i vari fattori menzionati, evidenziando che, contrariamente a quanto dichiara la retorica popolare che sostiene che i giovani utenti sono generalmente abili con i media digitali, esiste una notevole variazione anche tra

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I risultati di tale ricerca sono sintetizzati nel libro I bambini e Internet: Grandi speranze e realtà. Sfidare Cambridge ( Livingstone 2009).

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chi utilizza pienamente la tecnologia e dunque un tipo di divide non relativo né alla differenza tra Paesi sviluppati e non, né a generazioni diverse (Hargittai 2010b). In relazione a questo argomento, molto significativa risulta ancora una volta la presa di posizione di Neil Selwin, perché essa implica, così come nel caso di Buckingham (2009), un suo convinto scetticismo nei riguardi di quel determinismo tecnologico focalizzato su un cambiamento societale nel quale si dipingono le tecnologie digitali come impregnate di una serie di intrinseche qualità che poi impattano (positivamente o meno) in maniera consistente sugli utenti più giovani, indipendentemente sia dal contesto che dalle circostanze.

Nella realtà, secondo l’autore, non solo avverrebbero trattative infinite e continui scambi con i contesti sociale, economico, politico e culturale (Selwin 2009), ma addirittura sarebbe possibile, facendo riferimento a una serie di studi di ricerca relativi alle tecnologie digitali10, osservare che le capacità di accesso e di impegno dei giovani si modellano lungo linee tracciate dallo status socio-economico e di classe.

Oltre a questo, naturalmente, è importante tenere in considerazione tra le altre cose il genere e la geografia, come fattori determinanti per poter rilevareare l’effettivo livello di accesso (Golding 2000, cit. in Selwin 2009) e poter studiare i fenomeni di digital divide (Selwin e Facer 2009).

Parlando degli usi effettivi che i giovani fanno delle ITC, Selwin non si limita a notare una predominanza di giochi, di messaggi di testo e di recupero di contenuti on-line (Crook e Harrison 2008, Luckin et al. 2009, Lenhart et al. 2007, cit. in Selwin 2009), ma prosegue dicendo che questi, in realtà, sono ancora abbondantemente “miscelati” con forme più passive di consumo mediatico come la televisione.

L’utilizzo di Internet dei ragazzi sarebbe, quindi, molto più solitario, più sporadico e meno spettacolare di quello che molti autori pensano e, in sostanza, può essere descritto meglio come un tipo di fruizione che implica un consumo passivo di conoscenza, piuttosto che come creazione attiva di contenuti (Selwin 2009).

Tutto questo corrisponde a ciò che Crook definisce come «scambio a bassa ampiezza di banda di informazioni e conoscenza, con qualche illusione di collaborazione, descritta più accuratamente in termini di cooperazione e di coordinamento tra gli individui» (Crook 2008, cit. in Selwin 2009, p. 372), il quale rispecchia, peraltro, il fenomeno, spesso trascurato, per cui all’interno dell’universo dei ragazzi considerato tout court popolato da Nativi Digitali intesi così come fino ad allora descritti, possano

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Gli studi considerati da Selwin, condotti in Europa e nel Nord America, sono quelli di Vanderwater del 2007, di Looker e Thiessen del 2003 e di Rowlands del 2008 (Selwin 2009).

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esserci, in realtà, giovani che, come dice per esempio dana boyd, autoregolamentano il proprio uso di Internet per le più svariate ragioni (boyd 2007).

Alla luce delle considerazione emerse fin’ora, se, in generale, l’argomento risulta complessivamente così problematico e difficile da analizzare sotto molteplici punti di vista, sorge spontaneo chiedersi, così come hanno fatto molti degli autori sopra menzionati, perché si continui a riprodurre tali argomentazioni.

Mentre per Bullen e Buckingham la risposta viene collegata a motivazioni economiche (Bullen 2001) e economico-politiche (Buckingham 2009), Bennet, Maton & Kervin (2008), analizzando la natura del dibattito, le individuano nella nozione di panico morale11 di cui parla Cohen.

Egli nel 1972 affermò che esso si ha quando un determinato gruppo sociale, come può essere una sottocultura giovanile, è ritratto dai media come una minaccia per i valori e per le norme vigenti.

Gli atteggiamenti e le pratiche del gruppo in questione sono sottoposti a un’intensa attenzione da parte dei media che, esprimendosi in un linguaggio sensazionalistico, amplifica l’apparente minaccia.

Gli studiosi puntualizzano che più che a un panico reale, in questo caso si avrebbe a che fare con la forma stessa che ha assunto il discorso pubblico: il linguaggio drammatico, le proclamazioni di cambiamento, imminente e irreversibile, sono riferibili a una sorta di tale panico in forma accademica.

Il tutto rappresenta una triste conseguenza dell’infelice diffusione della “favola” dei Nativi, ma non si tratta solo di questo.

In stretta connessione a ciò, vi è l’ormai noto fenomeno del divide, che può verificarsi tra una nuova generazione e tutte le altre precedenti o tra chi è tecnicamente abile e chi invece non lo è12, perciò, tramite la celebrazione della nuova generazione di portenti, si arriverebbe a svalutare tutte le problematiche inerenti alle classi colpite dal divario, il quale, come già notato, è probabilmente più consistente entro la stessa generazione dei Nativi, che tra generazioni diverse (Buckingham 2009, Bennet, Maton e Kervin 2008).

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Secondo Thompson il concetto di panico morale è ampiamente utilizzato nelle scienze sociali per spiegare come una questione di interesse pubblico può raggiungere un’importanza tale da superare le prove a sostegno del fenomeno (Thompson 1998, cit. in Bennet, Maton e Kervin 2008).

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Nel testo di Bennet, Maton e Kervin (2008) si fa riferimento, come accade anche per gli altri autori trattati, anche al problema dell’istruzione, perciò si parla anche di un divide tra studenti e insegnanti, incapaci di cambiare e “far evolvere” le proprie pratiche di insegnamento.

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39 2.2 Le prove

Coerentemente con la critica riguardante la scarsità di prove scientifiche considerabili sufficientemente valide per sostenere le tesi circa l’effettiva esistenza dei Nativi, gli autori appena richiamati hanno fatto sfoggio, nel corso degli anni in cui si è svolto il dibattito, di un nutrito corpus di studi, coadiuvato e alimentato da ricerche provenienti da tutto il mondo, il quale è riuscito a dar più o meno ragione, quantomeno su questo punto, ai critici dei Nativi piuttosto che ai loro difensori.

Così come sostiene Bullen, vi è infatti una crescente ricerca proveniente da diverse realtà, come quella australiana (Bullen 2008 e 2011), nordafricana (Bullen 2009), olandese (Bullen 2011) e asiatica (Bullen 2013), oltre a quella inglese (Bullen 2009), importante soprattutto per dimostrare l’esistenza di numerosi fattori fondamentali per definire un contesto di “digitalizzazione” più o meno fertile affinché possano nascere dei Nativi Digitali.

Tra le ricerche considerate di maggior rilievo spiccano quelle di Guo, Dobson, e Petrina (2008, cit. in Bullen, Morgan e Qayyum 2011), Jones e Cross (2009, cit. in Bullen, Morgan e Qayyum 2011), Kennedy et al. (2007 e 2009, cit. in Bullen, Morgan e Qayyum 2011), Margaryan e Littlejohn (2008, cit. in Bullen, Morgan e Qayyum 2011), Pedró (2009, cit. in Bullen, Morgan e Qayyum 2011), Reeves e Oh (2007, cit. in Bullen, Morgan e Qayyum 2011), boyd (2007, cit. in Selwin 2009) e Kvavik, Caruso e Morgan (2004, cit. in Bennet, Maton e Kervin 2008), solo per citarne alcune, oltre a quelle già richiamate (Hargittai 2010a e 2010b, Bullen, Morgan e Qayyum 2011, Bennet, Maton e Kervin 2008) che comunque non mancano di farvi un costante riferimento, nonché quelle di Sonia Livingstone legate all’EU Kids Online e quelle del Pew Internet & American Life Project, le quali evidenziano efficacemente la rilevanza, considerata sempre più importante, delle dimensioni dell’uso e delle competenze digitali.

L’elenco degli studi in questione sarebbe infinito, ma ciò che è importante notare è che i risultati di ciascuno di essi hanno mostrato che i ragazzi reputati Nativi sono portatori di una serie di caratteristiche particolari, associabili certamente a un ambiente tecnologico in cui possono essere cresciuti ma, proprio in virtù della differenza esistente tra vari contesti e delle situazioni e non solo valutando l’ambiente in sé per sé ma anche altri fattori rilevanti che non comprendano la sola discriminante dell’età, è necessario fare stime diverse, suscettibili di tali considerazioni e, eventualmente, riconsiderare l’idea originale di Nativo Digitale.

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La ricerca di Kvavik, Caruso e Morgan riporta in particolare che la maggioranza dei ragazzi intervistati in 13 istituti (4374) è in possesso di personal computer (93,4%) e telefoni cellulari (82%), ma sono pochi coloro che possiedono un PC portatile.

Oltre a ciò, si rileva che l’elaborazione di testi, le e-mail e la navigazione in Rete per il piacere sono le attività svolte maggiormente e, di conseguenza, è stato possibile fare delle stime riguardo al reale livello di competenze dei giovani analizzati.

Queste hanno mostrato che alcuni di loro, in realtà, possedevano livelli più bassi di competenza e abilità rispetto a quelli che ci si sarebbe aspettati per dei Nativi (Kvavik, Caruso e Morgan 2004, cit. in Bennet, Maton e Kervin 2008).

Per quanto riguarda il lavoro di Bennet, Maton e Kervin (2008), essi ne sintetizzano i capisaldi dicendo significativamente che sicuramente la realtà odierna sta mostrando un mondo altamente tecnologizzato, ma non si può escludere che esso sia diventato così attraverso un’evoluzione, piuttosto che una rivoluzione.

Purtroppo al momento sia le prove, sia la messa a fuoco del problema (dei Nativi) sono ancora limitate, ma si può comunque evincere che una percentuale di giovani è molto abile con la tecnologia e fa affidamento su di essa per una serie di attività di informazione e di comunicazione, ma dall’altra parte ci sono anche molti ragazzi che non raggiungono il livello di capacità di accesso o la tecnologia prevista dai difensori dell’idea del Nativo Digitale.

Potrebbe, allora, secondo gli autori, presentarsi un nuovo problema: se si focalizza l’attenzione sugli studenti tecnicamente “adatti”, quelli meno interessati e meno idonei verranno trascurati, così come lo sarà il potenziale impatto dei fattori socio-economico e culturale.

Molto importante, ancora, è il punto di vista di Bullen, Morgan e Qayyum (2011), per i quali è possibile osservare, da un’ottica diversa, l’esistenza di una sorta di divario che avviene a livello globale, tra chi ha la possibilità di venire alla luce come Nativo e chi invece non ce l’ha.

In relazione a ciò, ma nella prospettiva di un panorama decisamente più “micro” e “occidentale”, è importante notare che la letteratura scientifica più generale sull'uso di Internet suggerisce che, anche concesso che gli individui attraversino una fase iniziale di “connettività”, più o meno comune, permangono tra essi numerose differenze, le quali emergono nel momento in cui si studia il modo in cui essi incorporano Internet nella loro vita quotidiana (Barzilai-Nahon 2006, van Dijk 2005, DiMaggio et al. 2004, cit. in Hargittai 2010b).

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Contrariamente a quanto fanno per esempio Oblinger e Oblinger (2005), Bullen, Morgan e Qayyum mostrano i risultati della loro ricerca, condotta scientificamente in un istituto superiore del Canada occidentale, nella quale hanno rilevato che non ci sono differenze significative tra gli studenti appartenenti alla Net-Gen e quelli che non ne fanno parte in termini di uso della tecnologia, nelle loro caratteristiche comportamentali e nelle preferenze di apprendimento.

I risultati ottenuti evidenziano che l'uso degli studenti delle ITC è molto strumentale e legato alle esigenze dei vari programmi d’istruzione che segue ciascuno di loro, inoltre essi si avvalgono di una serie limitata di tecnologie, basate su tre questioni fondamentali, cioè la familiarità, inerente alla notorietà e alla facilità d’uso degli strumenti, che agevola il passaggio da un suo uso sociale e informale a uno più formale, il costo, e l'immediatezza.

Una parte significativa della ricerca è costituita da un sondaggio, il quale è stato costruito a seguito di una revisione globale della letteratura riguardante le caratteristiche della Net-Generation, sintetizzate in: cultura digitale, interconnessione costante con gli amici, capacità di multitasking, preferenza per l'apprendimento esperienziale, per il gruppo o il lavoro di squadra, predilezione per le immagini rispetto al testo, necessità di una struttura per l'apprendimento (riferita al preferire ottenere istruzioni e informazioni chiare prima di provare qualcosa di nuovo), socialità, coinvolgimento in comunità (ovvero all’interno di progetti e di attività importanti per la società), inquadramento ben chiaro di obiettivi da raggiungere ( cioè atteggiamento goal-oriented).

Dopo aver compiuto tale sondaggio, gli autori sottolineano che, durante il processo d’indagine, si è dovuto tenere in considerazione alcuni elementi fondamentali, i quali, importantissimi, non devono passare inosservati al fine di garantire la genuinità e la serietà dei criteri con cui è stata condotta l’intero studio.

Gli elementi in questione sono essenzialmente quelli biografici e demografici degli studenti esaminati, le loro abitudini di comunicazione (tra cui l’uso delle ITC), gli elementi attitudinali sulle loro preferenze di studio, la percezione che essi hanno dei coetanei, dei docenti, e i loro programmi.

Il campione da analizzare è stato diviso in studenti appartenenti e studenti non appartenenti alla Net-Generation (ovvero, rispettivamente, i nati nel 1982 o dopo e coloro che sono nati prima del 1982) e si sono tenuti principalmente in considerazione 11 punti che avevano a che fare con le note caratteristiche attribuite alla Net-Gen, le

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quali sono state analizzate attraverso il T-test13 e il test di Mann Whitney14, per verificare la significatività del ricambio generazionale nelle differenze di comportamento.

Dai risultati ottenuti si è osservato, rispetto alle caratteristiche fatte comunemente corrispondere alla Net-Generation, che in certi casi effettivamente esse erano più frequentemente riscontrabili tra loro (essere collegati, capacità di multitasking, lavoro sociale e di gruppo, predilezione per le immagini rispetto al testo), coerentemente con quanto affermano i sostenitori della mitologia legata a essi, ma in altri casi si è notato che tali qualità, non solo erano presenti tanto nella classe dei Net-Gen quanto in quella dei non-Net-Gen, o che la differenza tra i due livelli calcolati per stimare la presenza di alcune di esse era minima e reputata non significativa (cultura digitale, preferenza per l’apprendimento esperenziale, socialità), ma addirittura per alcuni attributi si è rilevato che i nati prima del 1982 li manifestavano più dei Net-Geners, in maniera più o meno significativa (struttura per l’apprendimento, atteggiamento goal-oriented, coinvolgimento all’interno di progetti e di attività importanti per la società).

Inoltre, gli autori hanno evinto da un’altra parte dello studio che, per quanto riguarda le preferenze di comunicazione, non vi era alcuna differenza rilevante nell’utilizzo delle e-mail tra appartenenti alla Net-Gen e non.

Il fatto di utilizzarle o meno, si è scoperto, è dovuto essenzialmente al contesto in cui si intende comunicare, che può essere più o meno formale, e non al fatto che i Net-Geners lo usino meno rispetto agli studenti più anziani perché, a differenza di questi ultimi, lo reputano un mezzo di comunicazione “da vecchi”, anche se è doveroso sottolineare che essi sono maggiormente propensi ad usare le ITC, soprattutto per le opzioni di comunicazione sincrona, come i testi di messaggistica istantanea.

I risultati raggiunti, si dice, sono coerenti con quelli di altri numerosi (e “seri”) studi condotti in precedenza e già da loro considerati, pertanto l’impianto di ricerca fasulla a cui si è fatto riferimento, può considerarsi scardinato.

13

Il test-t (di Student) viene utilizzato per la verifica d'ipotesi su un valore medio.

Se la varianza della popolazione non è nota, la verifica d'ipotesi sulla media della popolazione si effettua sostituendo alla varianza di universo la sua stima ottenuta a partire dallo stimatore

varianza corretta del campione (Gosset 1908, cit. in Wikipedia, Url:

http://it.wikipedia.org/wiki/Test_t#Il_test_t_di_Student_per_la_verifica_d.27ipotesi_su_un_valor _medio ).

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Il test di Wilcoxon-Mann-Whitney, noto anche come test U di Mann-Whitney o test di Wilcoxon, è uno dei più potenti test non parametrici utilizzato per verificare, in presenza di valori ordinali provenienti da una distribuzione continua, se due campioni statistici provengono dalla stessa popolazione (Whitney 1947, cit. in Wikipedia, Url:

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