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COMMENTO AI PRINCIPALI FENOMENI IN KING DORK “

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COMMENTO AI PRINCIPALI FENOMENI IN KING DORK

“All usage is relative. (…) language is governed by situation it occurs”

National Council of Teachers of English, 1952

In questo secondo capitolo si analizzeranno gli elementi di maggiore importanza riscontrati nella traduzione e nell’analisi dei capitoli scelti in King Dork e le relative problematiche. Riporto a seguire i fenomeni più rilevanti, fornendo alcuni esempi tratti dalla mia proposta di traduzione, e proseguo analizzando i vari casi, sia nel ruolo che ciascuno assume nel contesto generale della YA fiction, sia in quello specifico del romanzo.

In Swearing in English. Bad Language, Purity and Power from 1586 to the

Present, Tony McEnery conduce un’interessante esplorazione attraverso i

corpora di volgarità e termini osceni vagliati sulla base di almeno tre fattori: sesso, età e classe sociale. Lo studioso ne individua inoltre un quarto che deriva dalla combinazione di questi tre fattori. Dall’analisi emergono differenze significative nel modo in cui si impiega il turpiloquio, sulla base di genere femminile vs maschile, di frequenza d’uso tra parlanti tra i 15-25-35-40 anni (con picchi nella fascia dei 25) e di appartenenza a una determinata posizione sociale e del livello d’istruzione (2006: 34-57).

Questioni di censura sorgono in conseguenza del fatto che da sempre gli scopi letterari ed estetici della letteratura vanno di pari passo con quelli pedagogici ed educativi. Come si è visto nel capitolo precedente, infatti, lo scarto tra la letteratura per adulti e quella per ragazzi risiede anche nel maggiore o minore grado di censura. Lo evidenzia Lee A. Talley nel saggio “Young Adult”, definendo i giovani lettori come:

… innocents in need of further shelter or last-minute instructions, or are readers who need to “face the facts” about the world, ideally becoming more enlightened, democratic world citizens (2011: 232).

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Sulla censura nei libri per ragazzi si esprime anche Cavagnoli in La voce e il

Testo, sottolineando che il linguaggio scurrile è senz’altro uno scoglio da

superare; molti editori infatti chiedono espressamente di eliminare le parolacce per edulcorare il testo (2012: 122). Ciò è dovuto al fatto che le scuole selezionano testi specifici che tendono a escludere il turpiloquio per trasmettere una buona educazione al ragazzo.

In un altro saggio a opera di Giorgia Carta, “Theory and Practice of Translation. The Case of Children’s Literature”, si afferma inoltre:

Consequently, a great variety of people and institutions have always been involved in the creation, control and direction of literature. Furthermore, it has become an increasingly profitable sector of the publishing scene, leading to a heightened interest in it as a distinct market. Each part concerned with it not only looks at it from its own very specific prospect but also brings and seeks to impose its own set of norms within the system. The study of norms, therefore, is pertinent to every stage of research on children’s literature, and polysystem theory is very beneficial in this sense (Carta, 2008: 38).

1. Il turpiloquio

La nozione di “parlare bene” è legata generalmente a bisogni sociali di uniformità, conformità e al desiderio di proseguire una certa tradizione. In uno studio su volgarità e oscenità infatti Elisa Mattiello sostiene che l’uso del turpiloquio è fortemente diffuso tra gli adolescenti che pronunciano la parolaccia, la bestemmia o altri tabù come prova di forza, potere e virilità (nel caso dei maschi). In generale, sostiene la studiosa, volgarità e oscenità si usano “to boast with their peers, and to show that, when parents or teachers are not there, they are free to go to excesses in their language (2008: 218).

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Il turpiloquio inoltre riguarda correttezza grammaticale, semplicità retorica, libertà da regionalismi e influenze straniere. Ne parla Edwin L. Battistella nel volume Bad Language: Are some words better than others?, in cui afferma:

The concepts of good and bad language also reflect relationships among different groups, especially between a perceived mainstream and various others. Examining the social interpretation of language yields such distinctions as polite versus coarse, correct versus incorrect, native versus foreign, pedantic versus colloquial (Battistella, 2005: 11).

In un altro paragrafo del suo discorso Battistella fornisce una chiara definizione di linguaggio offensivo, inteso come la somma di almeno quattro categorie: “epithets, profanity, vulgarity and obscenity” (2005: 72).

Per quanto riguarda gli epiteti, di solito si usano per riferirsi a questioni di sessualità, genere, razza ed etnia ma anche aspetto fisico, disabilità o altre caratteristiche. Un linguaggio profano è invece una forma di insulto religioso (da riferimenti neutri al cielo o all’inferno fino alla vera e propria imprecazione contro tutto ciò che è sacro). Volgarità e oscenità infine si riferiscono a parole o espressioni che riguardano l’anatomia sessuale o alle funzioni sessuali ed escretorie in maniera cruda e diretta, come i termini shit e fuck.

Su quest’ultimo, si legga la considerazione di Pavesi e Malinverno, in “Usi del turpiloquio nella traduzione filmica”, riguardo la tendenza di traduzioni italiane sempre meno “castigate” (2000: 78), o ancora gli studi di Nobili in Insulti e

Pregiudizi nel caso specifico del film Lenny (2007: 1-23).

Quest’ultima in particolare indaga le motivazioni psicologiche di turpiloquio e insulti. Ritiene infatti che censurare le parolacce sia conseguenza di un pregiudizio errato; essendo legate a un nostro modo di essere non sono necessariamente fenomeni negativi da estirpare, dunque: “non essendo cancellabili le nostre emozioni, neanche le espressioni linguistiche più intimamente ad esse legate saranno facili da eliminare” (2007: 73).

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Battistella afferma che tuttavia ancora oggi si tende ad adottare un atteggiamento censorio, nel parlato e nello scritto, come forma di decoro pubblico soprattutto nei confronti di alcuni tipi di ascoltatori, ovvero donne e bambini. Ritiene però che sia uno stereotipo pensare che solo loro abbiano bisogno di protezione. Questo accade sia per una questione di ciò che è proprio o improprio dire, sia per questioni legate a effetti, intenzioni, diritti di coloro che vogliono deliberatamente essere volgari e desiderio di affermare la propria identità (2005: 71-72). Lo studioso sostiene:

What is evident from the various objections to coarse language and epithets is the idea that certain words are not used in polite speech – that public language should be suitable for all possible groups of listeners, from one’s children and grandparents to worldly adults and working folks. Language falling outside this range is often characterized as impolite, inappropriate, disruptive, disrespectful, immoral, injurious, or dangerous, and as such is constrained by etiquette, workplace rules, and law (Battistella, 2005: 75).

Per quanto riguarda il riferimento specifico al sesso, invece, Julia Eccleshare nel saggio “Teenage Fiction” riconosce che anche questo tipo di tabù è sempre più presente nel genere YA. Ciò ha inevitabilmente sollevato questioni di

parental control; se in principio le tematiche amorose tra giovani riguardavano

strettamente love/romance stories, oggi il riferimento al sesso in questo tipo di testi è sempre più esplicito:

Admitting that sex among teenagers does take place was an important breakthrough for both writers and readers. For the first time, writers were beginning to acknowledge fully the reality of teenage relationships and to recognise the pressures that teenagers are under and the choices they have to make. As with their romantic predecessors, experiences were predominantly retold from the girl’s point of view. Boys’ feelings about sex and relationships were rarely explored except as a shadowy foil to whatever the girl at the centre of the story was thinking. The knowledge that girls are the prime readers of romances and the expectation that

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therefore the stories should be told from their point of view survives today, and most teenage romances are still told from the girl’s angle (2004: 545).

Poco più avanti, la studiosa si concentra su un altro tabù sociale, quello legato al consumo di droghe tra i giovani, argomento a suo avviso meno accettabile nella vita reale rispetto a quello sessuale, in quanto:

Its illegality remains a restriction on how it can be written about but, in the interests of authenticity, the use of drugs by disaffected teenagers is sometimes at least accepted in fiction (2004: 548).

In King Dork si affrontano molti di questi tabù, quali morte, abuso di droghe, alcol e fumo, ma soprattutto tabù sessuali e invettive autoreferenziali o dirette ad altri. Non mi soffermerò su questi punti in quanto propongo un approfondimento nell’ultimo capitolo, svolto in collaborazione con il professore Alessandro Lenci. Tuttavia ci sono casi degni di essere trattati a questo livello, soprattutto alla luce dei problemi traduttologici che sono sorti nel corso della mia analisi. In linea generale non assumo un atteggiamento totalmente censorio alla luce del pubblico di riferimento, ormai alle soglie della fase adulta; mi limito tuttalpiù a normalizzare termini ed espressioni per avvicinarle alla lingua target. Consideriamo alcuni esempi.

1. Slut Heaven: Nel ST, l’espressione si basa sul gioco fonico e di parole tra Salthaven/Slut Heaven, la prima in riferimento alla città d’origine del personaggio di Fiona, la seconda relativa all’ambito volgare dell’inglese americano, dove slut sta per “donnaccia”, “sgualdrina”. Si trova a p. 72:

“’How. Are. Things. In. Slut. Heaven?’ It took me a beat, but I realized: she must be from Salthaven, or possibly Salthaven Vista, not Clearview Heights. Duh. I’d never heard that name for Salthaven, but it was a pretty good one…”. Traduco: “’Dimmi. Com’è. Slut. Heaven.?’ Mici era voluto un po’, ma poi avevo capito: lei doveva venire da Salthaven, o forse da Salthaven Vista, non da Clearview

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Heights. Chiaro. Non l’avevo mai sentito chiamare Slut Heaven, il troiaio, ma come nome non era male…”

La mia prima scelta traduttiva in effetti era stata “porco demonio”, ho poi però optato per “troiaio”, che è molto più naturale e mantiene un livello di volgarità simile allo slang americano. In italiano si perde l’ambiguità, ma si mantiene il colore del turpiloquio e il riferimento semantico a una dimensione extra-terrena, con inversione di polo positivo > negativo (Heaven/demonio). Perché si comprenda il gioco dell’originale tuttavia adotto una strategia di spiegazione e affianco alla parola inglese la sua traduzione italiana: Slut Heaven, il troiaio. 2. Nel capitolo in cui avviene l’incontro amoroso tra i due giovani, a p. 71, un altro

gioco di parole è quello che si crea tra Hellmont (storpiatura sarcastica della scuola Hillmont) e diabolical, nel passaggio: “’How are things in Hellmont?’ And that’s why I said, in response, ‘Diabolical.’”, che rendo: “’Come vanno le cose a Hellmont?’ Ed è per questo che avevo risposto: ‘Un inferno’”.

Fiona sta cercando di conoscere Tom, e gli rivolge una serie di domande personali, tra cui come si trova a scuola; vuole capire se è brutta quanto la sua. Sebbene il gioco in traduzione tenda a perdersi, cerco tuttavia di recuperare il riferimento attraverso il termine “inferno”.

3. Un altro interessante esempio di turpiloquio è il termine hand-jive che ritroviamo nello stesso passo. La conversazione tra i due ragazzi procede; Fiona ha una scollatura molto profonda su cui a Tom cade l’occhio, quindi lei lo rimprovera: “Getting a good look, hand-jive?” che rendo con: “Stai dando una bell’occhiata, mezzasega?”. Trattandosi dell’atto di masturbazione sessuale maschile, ma con una specifica accezione negativa in quanto mal riuscita, traduco con un’immagine di altrettanto effetto in italiano – “mezzasega” – che per estensione rimanda a una persona incapace e inetta, quale è Tom. Si mantiene così il tono offensivo e derogatorio anche nel TT.

4. Knob-heads è stato un altro grande “scoglio” per il gioco di parole che si crea nel ST. Lo troviamo a p. 161:

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“So I invented a series of clubs I was supposed to be in, plausible ones like (…), and sometimes crazy ones I would make up for my own amusement, like the Caulking and Stripping Club, or the Doorknob Appreciators Society, otherwise known as the Knob-heads”.

“Perciò mi ero inventato che facevo parte di vari club, alcuni con nomi plausibili come (…) e ne avevo inventati altrettanti con nomi assurdi per mio unico diletto, come il Club di Guarnizioni e Rivestimenti o la Società degli Amanti del fai-da-te, anche conosciuta come I Segaioli”.

Letteralmente il termine è usato con forte connotazione e massimo grado di

offensiveness in inglese americano. L’equivalente italiano (non letterale)

corrisponde a “teste di cazzo”. In sede di traduzione, il problema più grande è stato inserirlo coerentemente nel discorso: siamo di fronte a un ragazzo che tenta di giustificare ai genitori perché sta così tanto tempo fuori casa. Tom non vuole ferirli confessando che il motivo sono loro, quindi comincia ad elencare una serie di presunti nomi di club scolastici a cui dice di partecipare. Come si può notare, alcuni sono plausibili, altri decisamente meno. Per mantenere infatti il gioco di parole dell’originale (doorknob/knob-head), traduco “Fai-da-te/segaiolo” che rimane in linea coi riferimenti al bricolage e all’edilizia e conserva i toni ambigui e volgari del ST.1

2. Slang americano

Dare una definizione esaustiva di slang, con ogni sua implicazione relativa al target YA, può risultare complesso. R. Stolt nel saggio The Translation of Slang spiega che per comprendere a fondo il concetto bisogna studiarne funzioni e usi.

1 Dalla Treccani: segaiòlo s. m. [der. di sega], volg. – 1. Onanista, individuo dedito alla

masturbazione; anche, uomo che dimostra una timidezza o diffidenza eccessiva nei confronti delle donne. 2. fig. Persona inconcludente, inetta; perditempo. In inglese knob-heads, teste di cazzo, è riprodotto attraverso un termine che non alza né abbassa l’intensità del turpiloquio, soprattutto se usato in senso denigratorio. Se inoltre si considera la seconda voce della Treccani, la coerenza con Tom, l’inetto per eccellenza, è a mio avviso ancora più evidente.

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One of the main features of slang is that it serves as a linguistic variant that is group-marked. The usage of slang as a group language indicates demarcation, defiance to the standard and at the same time it works as a group-cohesive force (2010: 3).

Un’altra definizione del termine è fornita da James Sleed nel saggio On Not

Teaching English Usage, in cui scrive:

Typically, slang is a para-code, a system of substitutes or statusful expressions which are used by people who lack conventional status and do not conduct the important affairs of established communities. Slang flourishes in the semantic areas of sex, drinking, narcotics, racing, athletics, popular music, and other crime – a “liberal” language of things done as ends in themselves by gentlemen who are not gentlemen and dislike gentility (1965: 699).

Chi utilizza lo slang è da sempre soggetto a critiche. Si pensa appartenga solo a strati bassi della popolazione e che si parli tra persone di media o scarsa istruzione, che manifestano comportamenti sociali sconvenienti e dissoluti rispetto ai parlanti dello standard, a danno della precisione verbale richiesta dalla norma (Battistella, 2005: 89). Molto più spesso però lo slang è associato ad adolescenti e liceali, o comunque a gruppi “making the transition into adulthood and thus negotiating new roles and identities (2005: 86).

Se, di contro, la questione è analizzata da una prospettiva non normativa ma descrittiva del linguaggio, un uso consapevole dello slang è percepito come affermazione d’identità. Lo sostiene ancora Battistella:

On this view, speakers and writers need the background and experience to decide when jocularity, familiarity, inventiveness, and local color are useful and when they are an impediment (2005: 89-90).

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Dumas e Lightner, nell’articolo “Is Slang a word for Linguists?, analizzano il fenomeno e riportano varie definizioni sviluppate nel corso dei secoli a partire da Whitman, Hodges, Foerster e Steadman, Genung. Quest’ultimo in particolare paragonava lo slang a un’epidemia che colpisce il corpo e lo annienta; l’impiego di registri più bassi colpirebbe il linguaggio nello stesso modo (1978: 5-17). Gli studiosi riducono a quattro le caratteristiche principali dello slang: 1. la capacità di abbassare la serietà del discorso scritto o parlato;

2. l’alto tasso di familiarità tra i parlanti che lo usano come forma di disprezzo verso convenzioni linguistiche stabilite;

3. la stigmatizzazione del termine quando utilizzato nel discorso ordinario tra persone appartenenti a un alto status sociale come forma di ribellione; 4. il suo utilizzo al posto di un sinonimo convenzionale per proteggere il

parlante da “a) the discomfort caused by the conventional item or b) to protect the user from the discomfort or annoyance of further elaboration” (Dumas, Lightner, 1978: 11-15).

Per una maggiore comprensione, gli autori forniscono una serie di esempi, inserendo ciascun termine analizzato dentro una o più di queste categorie. A seguire riporto l’esempio, a mio avviso, più significativo. Nella frase “His uncle croaked”, il termine croak è classificato secondo i criteri 1 e 4a. Essendo un verbo informale, croaked contribuisce infatti ad abbassare i toni seri del discorso (criterio 1) e contemporaneamente risparmia al parlante l’imbarazzo o il disagio di pronunciare il sinonimo convenzionale del verbo “morire” nel contesto serio (criterio 4a).

In passato allo slang si attribuiva un’accezione quasi interamente negativa. Questo perché da sempre il suo vocabolario è ricco di parolacce e oscenità connesse al sesso, a espressioni blasfeme e alle escrezioni (Mattiello, 2008: 48). Tuttavia oggi non è più sentito come un pericolo nel suo status di regionalismo, dialetto o deviazione dalla lingua standard. Se valutato infatti da un’ottica di

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utilità contestuale, è una fonte produttiva di neologismi, di vitalità stilistica e identità (Battistella, 2005: 85-89).

Riporto a seguire gli esempi più significativi all’interno del romanzo.

- Vocaboli derivati da fenomeni di composizione e suffissazione, frequenti e produttivi nello slang, e di alta informalità quali oddball, devil-head, preppie, che traduco rispettivamente “strambo”, “maledetto”, “figlia di papà”; - uso estensivo del colloquialismo like in strutture tipiche dell’oralità,

socialmente stigmatizzate. L’esempio più significativo è a p. 12: “I’ve been forced to read it like three hundred times, and don’t tell anyone but I think it sucks”, che traduco “Mi hanno costretto a leggerlo tipo trecento volte e non ditelo a nessuno ma penso che fa schifo”. Mantengo la colloquialità del discorso optando per il tempo indicativo piuttosto del congiuntivo “penso che fa schifo”;

- strutture informali che deviano dallo standard, quali le costruzioni sort of o

kind of + Agg, N, V o con gerundio, o il costrutto “it’s pretty much + N o

V”. L’esempio non-standard più rilevante tuttavia è a p. 322:

“That oughta confuse the hell out of them, I thought with incalculable satisfaction”, che traduco: “Questo li avrebbe confusi proprio da morire, ho pensato con immensa soddisfazione”.

Oughta è la contrazione di ought to, forma condizionale di dovere, ed è molto

comune nel linguaggio slang. Rimane in una sfera di colloquialità, coerente con la costruzione successiva the hell out of. In traduzione, riproduco la stessa colloquialità con l’intensificatore “proprio”.

- Clippings, quali homo e prof, e forme elise tipiche dello slang. Di queste ultime, la più significativa è a p. 13:

“The Catcher cult sets ‘em up, and psychotic normal people knock ‘em right back down”, che traduco: “Il culto Holden li abbindola e i normali psicotici li riportano bruscamente coi piedi per terra”.

La frase fa riferimento al modo in cui le insegnanti a scuola, ossessionate dal romanzo di Salinger, costringono gli studenti a leggerlo, e premiano chi

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meglio lo studia e imita Holden (“The most Holden-y kid wins”). Ma il mondo reale, quello dei normali psicotici, li riporta violentemente coi piedi per terra. Utilizzo i verbi “abbindolare” e “riportare coi piedi per terra” affinché si conservi anche in italiano la colloquialità che nel ST è data dal verbo knock down e dall’elisione ‘em.

Di grande rilevanza nella traduzione inoltre sono alcuni tipici appellativi di colloquialità, i pronomi di cortesia, i vocativi e le allocuzioni che aiutano il lettore a comprendere il grado di vicinanza o distanza sociale ed emotiva tra gli interlocutori. Tale comprensione, ad esempio, è facilitata in un testo filmico mediante tutta una serie di codici acustici e visivi, di prossemica, gestualità e tono di voce che specificano il grado di maggiore o minore confidenza e solidarietà dei personaggi (Bruti, 2013: 92-96).

1. Nel romanzo ne sono esempi: “too late, man”, “I needed some help, man” o “you’ll never get out of this one, boy”. Traduco quest’ultimo: “stavolta non la passi liscia, ciccio” (p, 157), semplificando il tempo verbale e optando per una frase idiomatica molto più naturale nello slang italiano. Modifico anche l’addressee sostituendolo con un appellativo più colloquiale e naturale a un orecchio italiano e che mantiene un lieve accento di insolenza, o ancora “you’re not going to like this, chief” (p. 162), per il quale scelgo di operare una traduzione letterale: “Questo non ti piacerà, capo”.

2. Altra interessante espressione si trova a p. 79: “why had Fiona decided to kiss on me and everything, when no previous girl I’d ever come in contact with would have been caught dead in that situation?”, che traduco: “perché Fiona aveva deciso di baciarmi e tutto il resto, mentre invece nessun’altra ragazza in quella situazione manco morta ci sarebbe stata con me?”.

Mantengo lo stesso grado di colloquialità e il giusto livello di slang con “manco morta”, sostituendo alla forma standard “neanche” il più familiare “manco”. Inoltre conservo l’informalità del verbo to be caught dead con “ci sarebbe stata con me” e cambio l’end-focus anticipando il complemento di luogo rispetto

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all’originale e spostando il verbo a fine frase, in modo da facilitare al lettore italiano la comprensione del disagio di Tom.

3. Un verbo altrettanto colloquiale si trova a p. 158: “The notion of these teen drug ‘experiments’ always cracked me up”. Traduco innanzitutto: “La nozione di ‘esperienza’ di queste droghe giovanili mi fa sempre piegare in due dalle risate”, sostituendo con un’espressione altrettanto idiomatica in italiano che conserva lo stesso grado di colloquialità. Uso ‘esperienza’ per mantenermi in linea con il verbo “sperimentare” che pronuncia la madre poco prima (A lot of kids your age are experimenting drugs > Molti ragazzi della tua età sperimentano le droghe). Per quanto il termine formale risulti dissonante in un contesto più informale, ritengo infatti rispetti le intenzioni dell’autore che lo usa ben altre due volte nel passaggio (experimenting, experiments > sperimentare, esperienza). L’espressione della madre Carol, personaggio costantemente impacciato e incompreso, è intenzionalmente antiquata perché deve creare comicità; il fatto che Tom ci tenga a sottolineare il punto della questione ripetendo proprio quei termini è funzionale a esaltarne l’effetto comico. Lo mantengo per questo in traduzione.

4. Ultimo esempio rilevante è What’s the Buzz (Call a Knight!), a p. 209. Si sta parlando di un libretto scolastico che riunisce i contatti telefonici di ogni studente della Hillmont High School. La resa italiana crea qualche problema legato alla colloquialità dei termini; Buzz è il ronzio delle api ma di fatto, per estensione, può indicare rumori, dicerie, o nello slang americano significa “dare un colpo di telefono, fare uno squillo”, che nel contesto evoca l’espressione “What’s up” oggi tanto nota per l’applicazione della messaggistica istantanea Whatsapp. Con “knight” invece si “gioca” sull’omofonia con “night”, ambiguità che inevitabilmente si perde in italiano. Decido pertanto di riformulare cambiando i riferimenti e traduco “Sputa il rospo (Chiama un principe!). L’anfibio, infatti, nel suo gracchiare rievoca un suono onomatopeico e l’espressione, nell’insieme, mantiene un certo livello di colloquialità e ambiguità semantica attraverso l’uso della forma idiomatica e il riferimento intertestuale “fiabesco”.

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3. Idioletto

All’interno degli studi sulla traduzione, ne parla J. C. Catford nell’opera

Linguistic Theory of Translation, descrivendolo come parte di una varietà

linguistica intesa come sottocategoria di caratteristiche formali e/o sostanziali correlate a una particolare situazione socio-linguistica in cui rientrano dialetti (sociali, geografici), registro, stile, modo (1965: 84). Ritiene inoltre che sia legato all’identità personale di un unico performer:

An idiolect is the language variety used by a particular individual. The markers of an idiolect may include idiosyncratic statistical features, such as a tendency to exceptionally frequent use of particular lexical items. A person’s idiolect may change in detail from day to day (e.g. by the adoption of ‘new pronunciations’, the acquisition of new lexical items, etc.), and may change extensively in a life-time. For most purposes, however, we may regard an adult’s idiolect as relatively static. It is not always necessary to attempt to translate idiolects: i.e. the personal identity of the performer is not always an important feature of the situation. It may happen, however, that the performer’s identity is relevant. For instance, in a novel, idiolectal features in the dialogue of one character may be worked into the plot; other characters may remark on these, and they may partly serve to identify the character. In such a case the translator may provide the same character in his translation with an ‘equivalent’ idiolectal feature (Catford, 1965: 86).

Spesso i pensieri e i commenti del giovane Tom sono riportati attraverso un vivace free direct thought con cui il lettore viene introdotto nella sua testa, seguendo i fili intricati del suo ragionamento e spiando dentro il suo microcosmo. Tra le frasi ed espressioni tipiche di Henderson troviamo: “Let me put it another way”; “just for my own personal information”; “Kind of an improvement, if you ask me”; “Devil-head”; “Boy, did I ever feel like an idiot”, in cui il controllo verbale diminuisce e il personaggio crea una sorta d’interazione con il lettore. Alcune esclamazioni creano umorismo, se pensiamo che vengono pronunciate da un quattordicenne, come in “What a world we’ve

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got here” (p. 158) che traduco: “In che mondo siamo capitati!”, o in battute come “I’m not even exaggerating all that much. I swear to God” (p. 5) che traduco: “E non sto esagerando più di tanto. Lo giuro su Dio”; “I swear to God this is exactly what happened” (p. 73) ovvero “Giuro su Dio che è successo proprio così”; “maybe you’ll have to trust me on that” (p. 160) che rendo con “Vi conviene credermi”.

L’affidabilità delle sue parole è certamente discutibile ma il lettore le prende per buone perché in fondo a Tom – come era stato per Holden – ci si affeziona e gli si vuole credere. Altre espressioni tipiche sono quelle con cui si rivolge ai genitori: “my folks”, “my parents are more hippie than not” o “my poor inept parental units”, che traduco rispettivamente con “i miei”; “i miei sono più hippie che no”; i miei poveri inetti genitori”. Ancora più comico è l’impiego di nomi propri, vezzeggiativi e abbreviazioni (Carol, LBT, Little Big Tom) che usa per chiamarli con presunto tono serio. Li mantengo tutti come nell’originale.

Comicità, ironia ma soprattutto autoironia appaiono inoltre nella descrizione delle manie del protagonista, della madre, di Sam. Insicurezze, dubbi costanti, scelte su cui torna sempre, perché nulla è mai definitivo nella sua testa, le ossessioni, il sentirsi incompreso (“My brilliant humor, once again wasted”) e la sua stessa inettitudine – della quale si autocelebra Re – divertono, non disturbano il lettore, piuttosto lo intrattengono durante tutta storia. Ne sono prova i ben 25 titoli che dà alla band, fino a quella (forse) definitiva nel capitolo di chiusura, “We Have Eaten All the Cake”, che produce un evidente effetto comico proprio perché contrasta con la serietà intesa dal protagonista.

Un’altra sua grande peculiarità, a livello di discorso, è l’utilizzo di termini ampollosi e aulici che inserisce in maniera inaspettata nei vari ragionamenti. Per un lettore che si approccia al testo con determinate aspettative essi possono risultare dissonanti. Sono chiari esempi parole come preposterous, cacophony,

concuspiscent, elucidate, quibble. Nulla che debba sconvolgere però; già dalle

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altisonante, troppo spesso ipercorretto ai vari livelli sintattico, grammaticale, lessicale.

Siamo di fronte a un ragazzino di quattordici anni; il modo di esprimersi è sempre condizionato dal contesto e dal tipo di interazione sociale in cui è coinvolto. Se infatti il registro si mantiene alto e ampolloso nei monologhi, nei discorsi indiretti liberi ma soprattutto in dialoghi con adulti, si abbassa invece (fino a scadere in turpiloquio e invettive religiose) quando parla con i coetanei, quando è richiesta cioè una certa colloquialità. Riporto a seguire alcuni esempi: 1. “And what the hell was up with Sam Hellerman anyway?” a p. 113, che traduco “che diavolo aveva in mente Sam…”. L’imprecazione the hell accentua la funzione di invettiva e di informalità a cui segue coerentemente il frasale to be

up with. In un primo momento, avevo tradotto “che diavolo gli prendeva a

Sam…”, ma il pronome in posizione enfatica prima del nome e la scelta stessa del tempo verbale rischiavano di allungare e appesantire la frase. Alla fine utilizzo l’espressione “aveva in mente”, nonostante forse meno naturale, proprio per un effetto di maggiore leggerezza.

La scelta di hell/diavolo, piuttosto di hell/cavolo, è giustificabile perché conseguenza di una maggiore accettazione in italiano degli atti a sfondo religioso-spirituale. Pertanto le traduzioni letterali come “che diavolo” o “maledetto” perdono d’intensità e valenza aggressiva rispetto all’originale, anche considerato il fatto che il riferimento alla religione è più spesso interdetto nella cultura anglosassone che nell’italiana, dove la bestemmia non è un fenomeno così raro. Lo sostengono Maria Pavesi e Anna Lisa Malinverno nel saggio “Usi del turpiloquio nella traduzione filmica”:

La maledizione e l'imprecazione con riferimento a divinità o al diavolo – anche per metonimia tramite l'inferno (per es. goddamn, hell, bloody hell) – appaiono soggette a interdizione nella cultura anglosassone più intensamente di quanto accada in quella italiana (2000 :76).

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2. Sulla stessa linea e dagli stessi toni: “Dear God. What now?” e poco dopo “What on earth was wrong?”, che traduco: “Dio santo, e ora?”, “che diavolo stava succedendo?”, e le comuni interiezioni offensive “For Christ’s sake” e “… their own goddam phone”, che traduco rispettivamente: “per l’amor del cielo” e “stramaledetto numero personale”.

Tom gestisce il discorso anticipando notizie che saranno più chiare nel corso della storia. Si esprime ad esempio con abbreviazioni o con sigle; se deve ribadire un concetto, un termine, un’intera espressione che ha già menzionato nel discorso, li riporta in sigla. Questo, a mio avviso, conferisce comicità e vivacità non solo ai singoli passaggi ma a tutto romanzo, che a volte può risultare pesante per via delle tematiche e i vari tabù sociali affrontati. L’ironia e l’autoironia, in effetti, sono elementi funzionali in King Dork, sono ciò che motiva il giovane nella lettura e che ha reso il libro stesso un caso editoriale nel 2006.

L’ironia, sostiene in effetti P. Newmark in More Paragraphs on Translation, in traduzione si perde se non la si percepisce e non si comprende (1998: 24). Pertanto crede che l’assenza di ironia in un testo sia “the glory of little children, who always believe what you say and possibly the handicap of speakers of languages who have little contact with other languages (1998: 25).

Un’ultima caratteristica predominante in Tom Henderson è il costante richiamo a Holden Caulfield, sia nel modo di parlare che nel modo di agire. Ma è più educato del personaggio di Salinger, usa meno slang e meno parolacce. Dà l’impressione che di lui ci si possa fidare. È onesto fino all’eccesso, fino a insultarsi e commiserarsi, perché ha una visione distorta, critica, non obiettiva di sé. Si confessa così: “I’m a bad detective, though, really. I let my emotions and prejudices dictate what I choose to investigate, rather than trying to look at the whole picture with an objective eye” (p. 113), che traduco: “Sono un pessimo detective, lo so. Permetto alle mie emozioni e ai miei pregiudizi di condizionare le mie scelte nelle indagini, invece di provare a considerare l’intera questione con occhio obiettivo”.

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Tuttavia il parallelismo con Holden rimane forte: ne sono esempi tangibili quelli di p. 95 e p. 210. Nel primo caso Tom descrive la sorellina Amanda e i suoi modi di fare, e la paragona alla sorellina di Holden che gli si gettava addosso, avvolgendolo in un abbraccio infantile ma caloroso.

Nel secondo dichiara esplicitamente: “Holden Caulfield, when calling his various preppie girlfriends, would always say he planned to hang up if the parents answered”, che traduco: “Holden Caulfield, quando chiamava le varie fidanzate, figlie di papà, diceva sempre che avrebbe riagganciato in caso avessero risposto i genitori”, tanto che lui a breve si comporterà nello stesso identico modo.

Espressioni di Tom che rievocano il peculiare idioletto “alla Holden” sono infine “…to kiss me and everything, “with a phone number and everything”, “I kid you not”, che traduco rispettivamente “… di baciarmi e tutto il resto”, “con numero di telefono e tutto” e “Non sto scherzando”. Il parallelismo più diretto è tuttavia quello a p. 210: “In the fifties, no one had their own goddam phone and all, as HC2 would have put it”, che rendo con “Negli anni Cinquanta nessuno aveva il proprio stramaledetto numero personale e via dicendo, come avrebbe detto HC”.

4. Cultura

Il fattore culturale rientra in un’area particolarmente controversa, sia per la definizione di cultura in sé che per le sue implicazioni in sede di traduzione. Un interessante studio è offerto da David Katan, nel saggio Translation as

Intercultural Communication, in cui somma le principali teorie sul tema.

Definisce il cultural filter come quel filtro basato su modelli con cui interpretiamo, semplifichiamo e diamo un senso alla realtà, di cui il traduttore assume l’importante ruolo di mediatore. Sostiene che:

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Cultural filters are one of the four particular, but related, ways in which groups organize their shared (limited, distorted and stereotypical) perception of the world (Katan, 2009: 75).

Per comprendere quanto il fattore culturale condizioni le scelte del traduttore, apporto dalla mia traduzione alcuni esempi significativi di espressioni idiomatiche e colloquiali, phrasal verbs e culturemi, fornendo per ciascun fenomeno una breve spiegazione introduttiva e le mie soluzioni di traduzione. Classifico questi fenomeni in base a: espressioni idiomatiche, culturemi, neologismi, giochi di parole, trattamento dei nomi.

4.1 Espressioni idiomatiche

Il problema dell’equivalenza culturale è affrontato, tra gli altri, da Susan Bassnett nell’opera Translation Studies. Quando in particolare discute degli idioms, sostiene che la loro traduzione non riguarda solo la resa del significato di una data espressione, poiché “idioms, like puns, are culture bound” (Bassnett, 1980: 32). Poco dopo prosegue:

Translation involves far more than replacement of lexical and grammatical items between languages and, as can be seen in the translation of idioms and metaphors, the process may involve discarding the basic linguistic elements of the SL text so as to achieve Popovič’s goal of ‘expressive identity’ between the SL and TL texts. But once the translator moves away from close linguistic equivalence, the problems of determining the exact nature of the level of equivalence aimed for begin to emerge (1980: 34).

Non sempre è possibile tradurli letteralmente, soprattutto se si tratta di espressioni obsolete ormai in disuso, a meno che non abbiano un perfetto equivalente nella lingua d’arrivo. Si possono tuttalpiù sostituire con una metafora simile ma a rischio di alterarne o ridurne il senso (Newmark, 1998:

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40,73-74). Tra le espressioni idiomatiche più rilevanti in King Dork ne seleziono e ne analizzo solo alcune.

1. “To open (up) a can of worms”. La ritroviamo nell’introduzione, nella frase “…and which ended up opening the craziest can of worms”. La mia proposta di traduzione è: “… e che ha finito per aprire il più assurdo vaso di Pandora...” Tom in questo passo si presenta e anticipa la storia incasinata del suo ultimo anno di scuola, nella maniera caotica che caratterizza pienamente il suo personaggio. Il significato di questa espressione è quello di creare una situazione che comporta delle conseguenze e i cui risultati non sono piacevoli.

L’uso di questo cliché oggi si ritrova soprattutto in contesto giornalistico e letterario. Si ritiene che l’espressione idiomatica risalga ai primi anni Cinquanta. È la versione americanizzata della più nota “opening Pandora’s Box”, in origine una jar, ma l’abitudine di traduzioni sbagliate ha portato a un cambio del referente. Il riferimento ai vermi nascerebbe invece da una pratica comune tra i pescatori americani. I vermi, che dovevano fungere da esca, venivano conservati dentro barattoli di latta sigillati e non nei contenitori di plastica o polistirolo che si usano oggi. Durante la pesca, questi barattoli rimanevano aperti per lungo tempo. Ancora vivi, pertanto i vermi strisciavano via lasciando a mani vuote i poveri pescatori.3

Oltre a un lieve cambio di articolo determinativo/indeterminativo dall’inglese all’italiano, la differenza più sostanziale è un passaggio di referente. Questo in conseguenza del fatto che in inglese can of worms trae origine dalla pratica della pesca mentre l’italiano, fedele alla tradizione, mantiene il riferimento al mito greco. “Aprire un vaso di Pandora” è dunque il traducente più vicino al ST. Altre possibili traduzioni, che però si allontanano dall’intento e dai toni informali dell’originale, sono “combinare un disastro/grave errore” e “incasinare” (una situazione). Pur mantenendo entrambi un certo grado di colloquialità, producono

3 Riferimenti in: Matt Soniak (2012, June 28). How Did the Term “Open a Can of Worms”

Originate?. Mental Floss. Retrieved from: http://mentalfloss.com/ e Matt Blitz (2014, January 22). The Origin of the Expression “To Open a can of Worms”. Today I Found Out. Retrieved from: http://www.todayifoundout.com/.

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effetti di appiattimento e neutralizzazione dell’idiomaticità originale. Non sarebbero altrettanto valide.

2. “To keep oneself’s mind open”, si ritrova a p. 50, nella frase: “I made what felt like a physical effort to keep my mind open” che traduco: “Avevo fatto quello che mi era sembrato uno sforzo fisico per tenere la mente libera da pregiudizi.” Le possibilità di tradurre la frase idiomatica erano: mentalità aperta o mente libera/sgombra da pregiudizi. Opto per quest’ultima in quanto il protagonista sta contrattando il ruolo del libro nella sua vita al fine di scoprire informazioni sul padre. Pur odiando Holden, deve essere infatti disposto a leggerlo e indagare all’interno, liberandosi appunto da ogni preconcetto che ha su quel libro.

3. “To swallow oneself’s pride” si trova a p. 115 nella frase: “I even swallowed a bit of my pride and phoned Sam Hellerman to see if he had any ideas”, che traduco: “Avevo anche messo da parte un po’ d’orgoglio e avevo telefonato a Sam Hellerman per vedere se lui aveva qualche idea”.

Tom è così disperato a indagare sulla morte del padre da chiamare in aiuto Sam Hellerman, nonostante il loro allontanamento. La traduzione dell’espressione idiomatica che propongo subisce un lieve cambio d’azione: non ingoiare l’orgoglio bensì metterlo da parte.

4.2 Culturemi e riferimenti vari alla cultura americana

Primi interessanti esempi sono i termini jitterbug, head-shop roach clip e mod. Con essi ci troviamo di fronte a culturemi; fenomeni formalizzati con implicazioni sociali e giuridiche che esistono sotto una particolare forma e funzione solamente in una delle due culture comparate.4 Rientrano in un discorso più generale legato all’intraducibilità nei Translation Studies, per la cui definizione e trattamento rimando agli studi legati alla untranslatability di J. C. Catford nell’opera Linguistic Theory of Translation:

4 Riferimento in Katan. D. (2009). Translation as Intercultural Communication. In Jeremy

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Translation fails – or untranslatability occurs – when it is impossible to build functionally relevant features of the situation into the contextual meaning of the T L text. Broadly speaking, the cases where this happens fall into two categories. Those where the difficulty is linguistic, and those where it is cultural (1965: 94).

Se però la mancanza di equivalenze della prima è dovuta sostanzialmente a diversità formali e linguistiche tra SL e TL, con la seconda siamo di fronte a un riferimento o situazione della cultura d’origine che risulta assente o totalmente inesistente in quella d’arrivo (1965: 98-99).

Sul caso specifico dei culturemi sono stati condotti numerosi studi a partire dagli anni Quaranta e Cinquanta con Nida e successivamente Newmark, Vlakhov, Florin, Vermer e Nord. La definizione più recente del termine è data però a Lucía Martínez Molina, nell’opera El Otoño del pingüino: análisis

descriptivo de la traducción de los culturemas, per la quale culturema è:

un elemento verbal o paraverbal que posee una carga específica en una cultura y que al entrar en contacto con otra cultura a través de la traducción puede provocar un problema de índole entre los textos de origen y meta (Molina, 2006: 79).

Ritorniamo però a jitterbug, head-shop e mod.

1. Il primo indica vari modi di ballare lo swing e proviene da uno slang americano designante alcolisti affetti da delirium tremens, detto jitters. Non è casuale in

King Dork, dove i riferimenti ad alcol e droga non sono rari, e già compariva ne Il Giovane Holden. Non ha un equivalente italiano né può essere tradotto alla

lettera, pertanto lo mantengo in originale.

2. La seconda espressione fa riferimento a un tipo particolare di sigaretta a cui vengono attaccati accessori quali piume e croci ansate. Si trova nella frase “[She

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was] …holding the smocking stub of a joint in a mall head-shop roach clip” (p. 68) che traduco con: “… e aveva in mano il mozzicone di uno spinello fermato con una pinza che trovi negli head shop al centro commerciale”.

Roach clip è un oggetto poco noto in Italia; è simile a pinzette che utilizza chi

fuma cannabis per evitare il contatto diretto col mozzicone e bruciarsi. Non essendo molto chiaro in italiano, spiego il riferimento aggiungendo “fermato”, inesistente nel ST. Un head-shop invece è un negozio specializzato nella vendita di oggetti legati al consumo di droghe varie, tra cui cannabis ed erbe New Age, stile che influenzò l’arte di controcultura, riviste, musica, abbigliamento e arredamento. Questi negozi non sono molto diffusi in Italia ma è comunque raro trovarli nei centri commerciali, dunque esplicito in traduzione con una relativa: “che trovi in un head-shop al centro commerciale”.

3. L’ultimo è abbreviazione di modernism (coniato per definire i fan del “modern jazz”) e fa riferimento alla subcultura giovanile che si sviluppò a Londra nei tardi anni Cinquanta raggiungendo popolarità massima nel decennio successivo. Non dò soluzioni traduttive alternative ma li mantengo nell’originale, spiegandoli in nota nella mia proposta di traduzione, proprio perché ritengo che le espressioni siano radicate in specifiche realtà extra-italiane.

“Topo da biblioteca” (sull’analisi di bookworm rimando al terzo capitolo del mio lavoro) è una parte del romanzo densa di espressioni e riferimenti culturali radicati nella cultura statunitense, ma non è il solo in King Dork. Analizzo a seguire alcuni dei riferimenti più significativi presenti in altri passaggi:

1. “Nobody expects the Spanish Inquisition”, “Nessuno si aspetta l’Inquisizione spagnola”, è una citazione tratta da Monty Python’s Flying Circus, l’innovativa e fortunata serie comica trasmessa dalla BBC tra il 1969 e il 1974, trampolino di lancio dei suoi autori e interpreti, I Monty Python. Era in origine gruppo comico britannico, attivo tra gli anni Settanta e Ottanta. In Italia invece sono noti principalmente per i film Monty Python - Il senso della vita (The Meaning of

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distribuito in Italia solo nel 1991. Tanta è stata la sua popolarità da aver lasciato un’impronta nel linguaggio colloquiale e da essere ancora citata in vari media popolari a livello internazionale.

2. “… playing ‘base and Scientology’” un’espressione che ritroviamo a p. 10 nella frase “He said he hadn’t decided on a stage name yet, but he wanted to be credited as playing ‘base and Scientology”. Traduco: “Aveva detto che non aveva ancora deciso il suo nome da palcoscenico, ma voleva essere riconosciuto come colui che si fa “trombe e Scientology”.

La pronuncia Sam, in maniera auto-referenziale, al momento di trovarsi un nickname da bassista nella band. Il problema principale è stato rendere base con un’espressione che potesse avere altrettanta potenza in italiano. Ho proceduto innanzitutto partendo dalla sua definizione in una serie di dizionari dello slang americano. Base in American English ha un’accezione molto specifica. Può essere un’abbreviazione di baseball o far riferimento per estensione alle droghe. Dall’Urban Dictionary:

A term heard mostly in northern California, used by all the potheads as slang for smoking pot. It’s short for playing baseball. The marijuana is called baseball. The name could have come about because it’s America’s Favorite Pastime, or because when smoking with a bunch of friends, when your turn comes, it’s called your hit, same as it would be in the sport of baseball.5

Si può usare come aggettivo osceno per indicare una condizione di perversione, tensione sessuale o istinto animalesco (più volgarmente “arrapamento”). In un’altra parte del romanzo in effetti è impiegato con accezione specifica relativa ai vari stadi della conquista di una donna. La metafora del baseball su questo tipo di situazione è profondamente radicata nella cultura US.

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In questo caso ho optato per il riferimento alle droghe in quanto nel romanzo si parla dell’uso abituale di sostanze stupefacenti e di psicofarmaci che Sam riesce a rubare di tanto in tanto alla madre dell’amico. Quindi ho cercato un termine relativo a fumo ed erba che potesse avere lo stesso colore anche in italiano. Ho scelto infine “trombe” alla luce della naturalezza dell’espressione italiana giovanile “farsi una tromba” ovvero fumare una canna. La tromba come strumento musicale rimanda tra l’altro alla musica; mantiene una sottile sfumatura semantica con l’originale “playing” e rimane in linea con la storia della formazione della band.

3. “Samber Waves of Grain” è un verso del celebre inno patriottico statunitense

America the Beautiful del 1910, scritto da Katharine Lee Bates e composto nella

musica da Samuel A. Ward. Si tratta di un riferimento intertestuale in cui l’aggettivo Samber è palese storpiatura dell’originale Amber nel verso “For

amber waves of grain” (“Per le ambrate distese di grano”). Con chiaro intento

ludico, Frank Portman crea un divertente gioco di parole tra il nome di Sam e l’aggettivo, da qui amber/Samber. Compare in maiuscolo perché “Samber” allude chiaramente al nome proprio di Sam Hellerman, definito attraverso lo stesso nickname e il suo ruolo nella band. Inoltre conserva una connessione con la musica e risveglia nella mente del lettore americano un certo spirito nazionale. Il gioco di corrispondenze si mantiene nel TT ma si perde inevitabilmente il sentimento patriottico dell’originale.

4.3 Adattamenti e cambiamenti culturali

Sono soggetti a cambiamenti culturali i seguenti elementi: - Unità di misura (200 pounds > 90 chili);

- Sistema educativo scolastico (1st grade-12th grade > prima elementare-quarta liceo). Decido di eliminarne il riferimento laddove non lo ritengo essenziale per l’economia del passo specifico o per quella globale;

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- Date con l’ordine di giorno e mese invertito tra l’inglese e l’italiano (3/[something]/63 > [qualcosa] /3/ 63).

4.4 Neologismi e giochi di parole

1. Wince-a-thon; si tratta di un termine coniato dall’autore e deriva da marathon. Si trova nel passo che fa riferimento al vezzeggiativo Chi-Mo,6 con cui Tom si autodefinisce, e spiega: “Maybe they notice me wincing when I hear them say it, but I don’t know: there are all sorts of reasons I could be wincing. Life is a wince-a-thon” (p. 6). “Magari notano che faccio una smorfia quando lo sento dire, ma non so: ci sono un sacco di ragioni per cui potrei far smorfie. La vita è una smorfia-tona.”

Wince-a-thon è una forma di blending che si crea dall’unione di due parole

esistenti, e che traduco con “smorfia-tona”. Stefan Th. Gries, nell’articolo “Shouldn’t it be breakfunch? A quantitative analysis of blend structure in English”, descrive il blending come un processo di formazione lessicale molto frequente e produttivo in inglese e spiega che:

Blending involves the coinage of a new lexeme by fusing parts of at least two other source words of which either one is shortened in the fusion and/or where there is some form of phonemic or graphemic overlap of the source words (2014: 639).

Per quanto riguarda la mia proposta, con “smorfia-tona” ho cercato di mantenere il gioco di rimandi originale basato sulla metafora della vita come un difficile percorso a ostacoli, tale è la sensazione che prova il protagonista in quel preciso momento del romanzo.

6 Da Child Molester, “pedofilo”. È un nomignolo conferitogli dai compagni, in seguito al

risultato di un test attitudinale che prevede per Tom un futuro ecclesiastico. Il perverso vicepreside sig. Teone fraintenderà il senso di Chi-Mo, credendo sia rivelatore delle sue losche attività pornografiche dentro il liceo; sarà proprio questo nome a tradirlo alla fine.

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2. Un altro interessante gioco di parole si trova nella battuta d’entrata di LBT a p. 51, quando scende nello scantinato buio e trova Tom con le mani tra gli scatoloni: “How about a little light on the subject?”, che traduco: “Che ne dici se facciamo un po’ di luce?”.

L’interrogativa retorica non si riferisce solamente alla necessità di accendere l’interruttore, dato che lo scantinato diventa sempre più oscuro con il passare del tempo. Tom infatti non si accorge delle ore trascorse perché troppo occupato nelle ricerche. Il gioco di parole della battuta si costruisce sul significato metaforico dell’espressione, ovvero la necessità di “far luce su qualcosa”, di approfondire, rendere più chiara una questione. È come se anche LBT alla fine riuscisse a cogliere il doppio senso e diventasse complice del figliastro aiutandolo nelle sue indagini.

3. Shenanigans è un termine esente da riferimenti nella cultura d’arrivo, non è tuttavia un neologismo. È attestato anche in italiano ma con effetti di appiattimento tali che si perde il riferimento culturale sotteso. Si pensa che risalga al 1855 e i suoi primi usi si registrano in area californiana. L’etimologia è incerta: secondo alcuni trae origine dalla voce spagnola chanada, forma abbreviata di charranada, che significa “scherzo” o “inganno”. Altri sostengono che derivi da quella tedesca schenigelei, che nel gergo dei venditori ambulanti era usato in luogo di lavoro o negozio; il verbo slang corrispettivo è schinäglen. Per altri ancora risalirebbe invece alla voce irlandese sionnach, ovvero “volpe”.7 Dato lo specifico contesto e i toni più autoritari del termine nel romanzo (il sig. Teone sta spiegando alla classe le regole da seguire nel suo corso) utilizzo un metodo esplicativo e traduco con “buffonate”.

In uno studio di Newmark, questa tipologia è definita “phrasal nouns or adjectives” ed è intraducibile (1998: 88). È una sorta di prestito per cui è mantenuta nel TT e si mette in corsivo. Nel mio caso tuttavia propongo una soluzione differente. Sebbene “buffonate” crei appiattimento e risulti più generico rispetto ai suoi primi traducenti (birbanteria, imbroglio, manovre

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losche), nel passaggio non è usato con riferimento specifico a truffe commerciali: “There will be no speaking out of turn. No Shenanigans. No chewing gum: of any kind” (p. 14). Traduco pertanto: “Parlerete solo se interrogati. Niente buffonate. Gomme da masticare: di nessun tipo”. Utilizzo “buffonate” dunque perché ritengo renda la giusta idea di scherzo o imbroglio. 4. Make-out/Fake-out è un’espressione coniata dal protagonista. Riporto a seguire

il testo originale e la mia proposta di traduzione:

“And gaggles of normal girls, any one of whom might suddenly decide it would be fun to put her arm around you and pretend to be hitting on you to see what would you do, with everyone laughing at you the whole time. That is one of life’s most trying and irritating situations. Sam Hellerman and I have given it a catchy name: The Make-out/Fake-out” (p. 67).

“E stormi di ragazze qualunque, ciascuna delle quali all’improvviso decideva che era divertente metterti il braccio attorno al collo e far finta di provarci per vedere come reagivi, mentre tutti ridevano di te. È una delle situazioni più difficili e seccanti della vita. Io e Sam Hellerman a questo avevamo dato un nome d’effetto: Limona/Bidona”.

Descrive cioè un comportamento comune tra le adolescenti, almeno una certa classe di queste, che trovano piacere a illudere gli inetti della scuola, facendogli credere che “ci stiano” per poi denigrarli pubblicamente. Lo stesso autore, nel glossario delle voci particolari inserito a fine libro, fornisce la seguente spiegazione:

Make.out/Fake-out (MACK-it FACK-it): a public humiliation technique

that owes its power to the reliably universal desire to possess what one is not allowed to touch. Analogous to the game called keep-away, the object of which is to take possession of a ball that is held just beyond one’s grasp, or tantalizingly offered only to be tossed to another player at the last moment (Portman, 2006: 340).

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To make out ha tra le prime accezioni proprio quella di far credere qualcosa a

qualcuno, quasi sinonimica a fake out. Per evitare la ridondanza, prendo l’altra accezione di limonare, pomiciare, amoreggiare. To fake out invece significa letteralmente imbrogliare, fingere, ingannare per estensione e come conseguenza dunque scaricare qualcuno, bidonare. Limona/bidona mantiene a mio avviso una certa colloquialità e un certo tono comico/ironico. Riprende inoltre la Dud Chart, classifica in cui rientrano quegli sfigati illusi, che rendo con “la classifica dei bidoni” perché coerente con il suddetto discorso. Dud/bidone funziona anche in italiano nel duplice riferimento all’oggetto concreto e al significato metaforico di imbroglio, raggiro.

5. L’ultima interessante struttura è l’interrogativa a p. 236: “… would she look at me like I was dumb as a cup of melting ice and say…?”, in cui Portman introduce una similitudine attraverso un’espressione idiomatica che crea ex

novo. Trattandosi di un neologismo, riformulo liberamente come segue “… mi

avrebbe guardato come se fossi uno scemo che scopre l’acqua calda e mi avrebbe detto…?”. Non creo un nuovo idiom ma uso la nota espressione italiana “scoprire l’acqua calda”; sfrutto cioè il riferimento all’elemento dell’acqua riproponendo un termine che rimane nella stessa sfera semantica dell’originale: ice/acqua. Nel romanzo non è insolito l’uso di questi neologismi. Un gioco simile si ritrova infatti qualche pagina dopo in “you’re as dumb as a freeze-dried coffee crystal”, che anche in italiano sortisce a mio avviso il giusto effetto comico, soprattutto per il riferimento culturale al caffè: “sei inutile quanto il caffè solubile”. Al derogatorio dumb questa volta sostituisco “inutile”, che conserva i toni offensivi.

L’autore conia infine parole e strutture servendosi di suffissazioni e composti quali “Me-ness”, “Jimenez Macanally-esque look”, “how I’d have to do some Little Big Tom-style snooping” che traduco riformulando o spiegando rispettivamente con “me-stessaggine”, “sguardo alla Jimenez-Macanally” e “modo in cui avrei dovuto ficcanasare, alla maniera di Little Big Tom”.

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5. Tradurre i nomi

L’argomento crea uno spartiacque tra linguisti e studiosi di traduzione che si muovono su due tendenze principali: mantenere il nome inalterato o tradurlo. Oggi, in un’era sempre più internazionalizzata e multiculturale, generalmente si tende a mantenerlo in originale. Lo sostiene Elvira Cámara Aguilera nell’articolo “The Translation of Proper Names in Children’s Literature”, secondo cui sono almeno due i fattori che condizionano il trattamento dei nomi, soprattutto quelli propri: età e tipologia di testo (2009: 51-54).

È decisivo tuttavia lo studio di classificazione condotto da Van Coillie nell’opera Children’s literature in translation: Challenges and strategies, in cui annovera 10 tipi di strategie per la traduzione. Li riporto a seguire:

1) Reproduction: Leaving foreign names unchanged;

2) Non translation plus additional explanation: Adding explanations, either in the form of a note or in the text itself;

3) Replacement of personal name by a common noun: Replacing a proper name by a common noun that characterizes the person;

4) Phonetic or morphological adaptation to the target language: Turning to phonetic transcription or morphological adaptation;

5) Exonym: Replacing a name by a counterpart in the target language; 6) Replacement by a more widely known name from the source culture or an internationally known name with the same function: Opting for recognizing ability without abandoning the foreign context;

7) Substitution: Replacing a name by another name from the target language;

8) Translation of names with a particular connotation: Reproducing the connotation in the TL, when names have specific connotations;

9) Replacement by a name with another or additional connotation: Adding or changing the connotation of a name;

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Per quanto riguarda le mie scelte, a volte mantengo l’originale, altre mi limito a riportare le traduzioni ufficiali laddove compaiono titoli di libri, serie TV e film noti anche nel panorama italiano. Adotto in particolare alcune delle strategie sopracitate:

- Nomi e nomignoli: Hender-pig/Hender-fag/Hender-fuck>Porchenderson,

Frocenderson, Merdenderson, Sheepie>Pecorino, Holden-y kid>Holdenoso,

Sam ‘The Matchmacker’ Hellerman>Sam-Cupido-Hellerman (Strategie 4, 8, 9); - Nomi della band e titoli degli album: decido di mantenere inalterati entrambi

Easter Monday, Baby Batter, The Medieval Ages, That Stupid Pope, We Have Eaten All the Cake (Strategia 1);

- Nicknames: a differenza dei nomi della band, decido di tradurli, non solo perché voglio riprodurre lo stesso effetto di comicità immediata dell’originale, ma perché spesso sono utili a comprendere i vari passaggi nella storia. Un esempio è il già analizzato “base and scientology”, funzionale per la caratterizzazione del personaggio Sam, o ancora “the Guitar Guy” che rendo con “il tipo alla chitarra”, con cui si autodefinisce il protagonista che già nelle primissime pagine rivela al lettore la sua comicità e contemporaneamente il suo ruolo nella band. Per ragioni già esposte nella sezione “cultura”, mantengo inalterato unicamente il soprannome di Sam in Samber Waves of Grain (Strategie 1, 4, 8);

- Nomi di luoghi: li mantengo inalterati come nell’originale: Hillmont High

School, Immaculate Heart Academy, Old Mission Hill, Linda’s Pancakes

(Strategia 1);

- Nomi di oggetti e riferimenti vari, che tratto con traduzioni dirette:

Encyclopaedia Britannica/Enciclopedia Britannica, anti-Catcher/anti-Holden

(Strategia 5);

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Nel capitolo “Un pessimo detective” ad esempio si cita un famoso film degli anni ’50, Invasion of the Body Snatchers, di cui è nota la versione italiana,

L’invasione degli ultracorpi, che mantengo nel suo titolo italiano proprio perché

più vicino al pubblico d’arrivo. Alcuni esempi di traduzione ufficiale in King

Dork: il romanzo del 1938 Brighton Rock, conosciuto nella versione italiana La roccia di Brighton a opera di Graham Greene, The Journal of Albion Moonlight

del 1966, noto in Italia con il titolo Il diario di Albione al chiaro di luna, il romanzo del 1954, The Doors of Perception, di Aldous Huxley, di cui è famosa l’edizione italiana Mondadori Le porte della percezione, The Naked and the

Dead (Il Nudo e il morto) primo romanzo di Norman Mailer del 1948, A Separate Peace (1959) Pace separata di John Knowles e Lord of the Flies (1954), Il Signore delle mosche di William Golding. Tra gli esempi cinematografici, si

trova Rosemary’s Baby diretto da Roman Polansky nel 1968. Il titolo è mantenuto anche in italiano pur con l’aggiunta di un doppio titolo, Rosemary’s

Baby - Nastro rosso a New York. In traduzione tuttavia mantengo solo il primo.

Può anche succedere che il titolo in italiano rimanga senza traduzione, come ad esempio avviene con i celebri romanzi La peste di Albert Camus e Siddartha di Herman Hesse. Riporto la mia traduzione di opere citate nel romanzo che non presentano una versione italiana: The Seven Storey Mountain (1948) di Thomas Merton, che rendo con La montagna delle sette balze, e Revolution for the Hell

of It (1968) di Abbie Hoffman che traduco con Rivoluzione solo per il gusto di farla.

Lascio per ultima la considerazione sul titolo dell’ipotesto di questo romanzo, essenziale da esaminare per il dibattito editoriale sorto sulla traduzione dell’originale The Catcher in the Rye e dei processi che hanno portato alla scelta finale de Il Giovane Holden. Le motivazioni di questa scelta risalgono all’analisi del titolo inglese, citazione di una famosa canzone scozzese di Robert Burns storpiata del protagonista Caulfield. Una volta infatti la sente di sfuggita per strada e quando tenta di riprodurla ne sbaglia le parole, dalla strofa originale “coming through the rye”. L’immagine che gli rievoca il verso, reinventato per

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errore, è quello di bambini che giocano in un campo di segale attorno a un dirupo; lui diventa dunque “the catcher in the rye”, colui che li acchiappa (e li salva).

La traduzione del titolo in italiano già nelle prime edizioni aveva creato seri dubbi agli editori; l’acchiappatore nella segale infatti non poteva sortire lo stesso effetto, soprattutto perché catcher e rye rimandano a due elementi fortemente radicati nella SL. Il primo richiama un ruolo specifico nello sport americano per eccellenza, il baseball; il secondo invece ricorda un famoso whisky ottenuto dalla fermentazione della segale. Nella nota alla traduzione dell’editore Einaudi si spiega che, vista l’intraducibilità e dopo varie proposte originarie (tra cui Il

terzino nella grappa o Il prenditore nella segale/whiskey), il titolo è stato

sostituito in maniera arbitraria, facendo perdere ogni allusione culturale e creando un inevitabile ma necessario appiattimento con il solo nome del protagonista, Il Giovane Holden appunto (Einaudi, 2012: 252).

6. Elementi interattivi

Come già analizzato nel primo capitolo, King Dork a volte assume gli aspetti di un giallo, esplicitati attraverso alcuni elementi significativi quali messaggi criptici (pp. 50, 114), gruppi di lettere combinate senza senso in modo da formare parallelogrammi che si dispiegano lungo la pagina (pp. 113, 138-139), liste ed elenchi puntati (p. 232), sulla linea de Il Codice da Vinci. Il romanzo è figurativo e interattivo in molti punti, impersonale in discorsi dove si rivolge a un tu generico che lo segue in ragionamenti deduttivi alla maniera di Poe, ad esempio: “You send this magic parallelogram to somebody…” (p. 114), “Invii questo magico parallelogramma a qualcuno…”

È una forma di intrattenimento e di interazione con il lettore simile a quella della musica per cui, ad esempio, l’autore propone il testo di una canzone inventata da Tom, Thinking of Suicide? (pp. 159-160), che si estende per due pagine. Decido di tradurla, nonostante la difficoltà di mantenere la coerenza semantica dell’originale, la ritmicità delle strofe in rima e l’effetto comico

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LVII

generale. Di fatto, a volte cambio i riferimenti di partenza in modo da preservare i toni e le rime della canzone originale. Ad esempio nel secondo verso della prima strofa, dall’originale “I don’t plan to kill myself today” passo a “Per oggi non mi butto da un cavalcavia”, conservando la ritmicità delle rime baciate del ST, ma in qualche modo preservando anche il riferimento al suicidio. Per questioni di spazio, non la riporto integralmente in questa sezione ma per una sua lettura rimando direttamente alle pp. 33-34-35 della mia proposta di traduzione. A titolo esemplificativo, mi limito a commentare solamente le due strofe di chiusura, come segue:

“And if I’m suddenly gone / Then you’ll know what’s been going on / I’m always thinking/ And I never do anything, But, / Thinking of Suicide? Yeah, that’s right / Thinking of Suicide / with all my might / I have got a history of / Thinking of Suicide when I think about love” (p. 160).

“E se all’improvviso me ne andrò via / Capirai allora che potevi essere mia / Io penserò, ci penserò sempre / Ma non farò, io non farò niente, Ma, / Penso al suicidio? Non me ne volere / Penso al suicidio con ogni potere / E questa è solo una storia di dolore / Penso al suicidio, quando penso all’amore.”

Si tratta di rime baciate che riproduco cercando di rimanere fedele al senso del testo originale, che parla di una storia d’amore finita male e che spinge l’io al suicidio. Modifico alcuni tempi verbali e cambio qualche termine ma l’intervento più consistente lo opero nei due versi finali; se nell’originale si crea una consonanza tra le labiodentali f e v, in “of/love”, io riformulo entrambe le frasi proponendo una rima piena, che rende a mio avviso anche più musicali e poetici i due versi con “dolore/amore”.

Ritorniamo però alla detective story.

1. Degna di analisi è la scelta traduttiva di “Tit bib venerdì”, parte di quei messaggi criptici che Tom trova in un libro del padre durante le ricerche. Si tratta di un appuntamento in codice. L’originale è “Tit lib Friday”; il primo si riferisce al

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