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CAPITOLO 1
DRAGAGGI PORTUALI: PROBLEMATICHE E
NORMATIVA
Tutte le infrastrutture portuali sono caratterizzate da precisi valori di profondità di progetto che devono essere presenti, in virtù delle funzioni che il porto assolve e delle categorie dimensionali di imbarcazioni che possono accedervi, per garantire in qualsiasi condizione meteomarina la loro navigazione in sicurezza e per mantenere la funzionalità e operatività del porto stesso a livelli ottimali. Infatti, per la corretta navigabilità dei porti è necessario assicurare che ciascuna darsena e ciascun corridoio di navigazione possano disporre, anche in condizioni di bassa marea, di un tirante idrico pari al massimo pescaggio delle imbarcazioni che possono accedervi aumentato di un margine di sicurezza dell’ordine del metro: profondità minori implicherebbero che le imbarcazioni più grandi fra quelle che il porto dovrebbe essere in grado di ospitare restino escluse dall’utilizzo dell’infrastruttura (e, viceversa, che il porto perda una potenziale fetta di utenza ed il flusso di attività ad essa connesso).
Tuttavia, i fondali marini non sono statici ma in perenne cambiamento per effetto del trasporto idrodinamico dei sedimenti di cui sono costituiti e per l’apporto di materiale solido da terra, così come anche nel tempo aumentano le dimensioni massime delle navi (soprattutto commerciali) e, di conseguenza, le profondità portuali richieste. Pertanto in ambito portuale marino non è infrequente la necessità di ricorrere a interventi di dragaggio: sono operazioni che consistono nell’approfondire artificialmente un bacino idrico asportando, secondo diverse modalità possibili, un certo quantitativo dei sedimenti che ne costituiscono lo strato superficiale fino a raggiungere le quote batimetriche richieste. Solitamente i dragaggi riguardano solo gli specchi idrici interni alla infrastruttura portuale ma talvolta si rendono necessari anche in prossimità delle opere foranee esterne lungo i corridoi di navigazione in avvicinamento e allontanamento dal porto.
I dragaggi e le movimentazioni di sedimenti ad essi associate sono interventi complessi che hanno impatti economici, sociali ed ambientali molto elevati. Negli ultimi anni il tentativo di individuare e indicare delle linee guida precise per l’esecuzione dei dragaggi portuali è stato oggetto di numerosi dibattici tecnici, in parte recepiti dalla normativa di settore e in parte ancora no, ed in particolare è la fase di gestione dei sedimenti dragati che costituisce l’aspetto più cruciale di tali attività per via dei potenziali rischi ambientali connessi. Proprio a questo aspetto si sta oggi rivolgendo un’attenzione sempre maggiore e l’attuale panorama delle possibili opzioni di gestione percorribili risulta molto
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ampliato rispetto a solo pochi anni fa, anche se tuttora rimane un tema in continuo sviluppo e per il quale alcuni aspetti tecnici e amministrativi non hanno raggiunto un grado soddisfacente di approfondimento.
1.1 Fasi degli interventi di dragaggio e normativa di settore
Ogni intervento di dragaggio può essere suddiviso in tre fasi distinte:- Indagini preliminari per la caratterizzazione del sito e dei sedimenti; - Esecuzione degli scavi di dragaggio;
- Gestione del materiale estratto (sedimenti di risulta delle attività di dragaggio). La fase di esecuzione degli scavi di dragaggio, nonostante sia in un certo senso la fase principale in quanto è quella che produce i voluti effetti di approfondimento dei fondali, è al tempo stesso anche quella caratterizzata da modalità operative più consolidate. Infatti, si tratta di operazioni che richiedono particolare attenzione e che prevedono investimenti notevoli in termini di tempi e costi, ma ciò è legato essenzialmente alla natura estensiva di tali operazioni, mentre la scelta delle modalità secondo cui eseguirle generalmente non necessita di prendere in considerazione variabili o complessità particolari. La fase di caratterizzazione preliminare del sito consiste in un insieme di indagini finalizzate ad acquisire una conoscenza approfondita della natura e delle particolarità del sito da dragare e, soprattutto, delle caratteristiche chimiche, fisiche e biologiche dei sedimenti in base alle quali valutare correttamente i possibili impatti ambientali legati alla movimentazione degli stessi e quindi programmare al meglio le fasi successive del dragaggio. Ad una fase di campionamento dei sedimenti segue l’esecuzione delle analisi sui campioni secondo un quadro minimo di parametri da acquisire. Il risultato finale di questa fase è la classificazione qualitativa del sedimento. Il documento di riferimento per le modalità di esecuzione della caratterizzazione dei sedimenti da dragare è il Manuale per la movimentazione dei sedimenti marini (ICRAM, 2007), i cui contenuti di interesse sono riassunti al paragrafo 1.2.1.1.
La gestione dei sedimenti di risulta derivanti dal dragaggio è spesso la fase più problematica e proprio su questo aspetto si focalizza l’attenzione del presente lavoro di tesi. Dopo l’esecuzione degli scavi infatti i sedimenti prelevati dai fondali necessitano di essere movimentati, trattati e collocati in una sede finale secondo modalità in accordo con le normative vigenti, con gli obiettivi ambientali fissati e con le risorse economiche disponibili. Le recenti novità introdotte dalla normativa sulla gestione dei sedimenti di dragaggio hanno reso il quadro conoscitivo ed operativo su questo tema notevolmente più articolato,
3 col duplice scopo di preservare gli ecosistemi marini dalla movimentazione indisciplinata di materiale potenzialmente contaminato e dannoso e, al tempo stesso, cercare di sfruttare le potenzialità di reimpiego benefico dei sedimenti quando questi presentino caratteristiche idonee al riutilizzo. Se da un lato il percorso tecnico e normativo intrapreso è quello più corretto in ottica di una più virtuosa gestione del problema, al tempo stesso ha comportato l’introduzione di notevoli complessità, al punto che individuare la soluzione di gestione dei sedimenti dragati che costituisca il compromesso tecnico-economico ottimale è spesso non banale vista la moltitudine di opzioni e variabili presenti.
Le procedure per la caratterizzazione preliminare del sito e dei sedimenti e le possibili modalità di trattamento e gestione dei sedimenti di risulta sono (o dovrebbero essere) descritte nella normativa tecnica di settore. Nel paragrafo 1.1.2 viene fornito un quadro sintetico dell’attuale regolamentazione della gestione dei sedimenti, mentre nel capitolo 3 è presentata una panoramica delle possibili tecniche di decontaminazione che possono essere impiegate sui sedimenti contaminati.
1.1.1: Tecniche di dragaggio
A seconda del principio di funzionamento dell’estrazione dei sedimenti, i dragaggi possono essere classificati in dragaggi meccanici o dragaggi idraulici.
Nel dragaggio meccanico le draghe impiegate utilizzano forze meccaniche per disgregare, scavare e sollevare i sedimenti, con una quantità minima di acqua rimossa insieme al sedimento. Esse sono solitamente utilizzate in accoppiamento con bette d’appoggio per la raccolta ed il trasporto del materiale.
I vantaggi di questa tecnica sono la relativa semplicità di esecuzione ed il fatto che il materiale prelevato presenta una densità prossima a quella del sedimento in situ, con percentuali di peso secco nell’ordine del 40% e, quindi, un volume ridotto. Lo svantaggio principale invece è che, durante la risalita, il sedimento dragato attraversa tutta la colonna d’acqua sovrastante con il rischio di disperdere e riportare in soluzione eventuali contaminanti presenti. I dragaggi di tipo meccanico possono essere impiegati in presenza di fondali di ogni tipo, eccetto che quelli costituiti da rocce compatte. Le tipologie convenzionali di draghe appartenenti a questa categoria sono le draghe a secchia, le draghe a benna e le draghe a benna mordente o a grappo (Fratini M., 2008).
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Le draghe a secchie sono dotate di una catenaria lungo la quale sono montate delle secchie dentate che quando raggiungono il fondo penetrano nel fondale riempiendosi di materiale che viene poi portato in alto dallo scorrere della catenaria e, raggiunta la sommità, la secchia si capovolge sversando il sedimento in uno scivolo e da lì ad una betta affiancata alla draga. Ormai le draghe a secchie sono quasi del tutto obsolete e raramente impiegate (fig 1.1).
Le draghe a benna sono costituite da un convenzionale Figura 1.1: draga a secchie
escavatore idraulico montato su un pontone semovente. La benna dell’escavatore si immerge, scava nel fondale riempiendosi di sedimenti che poi vengono sollevati dal braccio dell’escavatore e sversati in un pozzo di carico sulla stessa draga o su una betta semovente di appoggio affiancata alla draga (fig.1.2). Le draghe a benna sono usate principalmente in presenza di fondali ghiaiosi o sabbiosi. La draga a benna mordente, anche detta a grappo, è simile
alla precedente, con la differenza che invece di una benna Figura 1.2: draga a benna
semplice il pontone viene dotato di una gru a benna mordente (fig. 1.3). L’impiego della benna mordente consente, rispetto alla benna semplice, una minore dispersione del materiale dragato durante la risalita. Quando vengono impiegate draghe meccaniche, ci sarà necessariamente una movimentazione via terra dei sedimenti che prevede un loro stoccaggio intermedio sulle banchine portuali, in attesa di movimentarli nuovamente su
camion per il loro deposito definitivo. Anche queste fasi di Figura 1.3: draga a grappo
movimentazione intermedia devono essere svolte applicando tutti gli accorgimenti atti ad evitare, o comunque rendere minime, la dispersioni dei sedimenti nell’ambiente circostante.
Nel dragaggio idraulico invece, il materiale smosso (miscela di sedimento e acqua) viene sollevato e allontanato tramite pompe idrauliche centrifughe utilizzando draghe aspiranti (fig. 1.4) che
5 possono o meno prevedere alla fine della condotta aspirante la presenza di un disgregatore per favorire la frantumazione e l’estrazione dei fondali più compatti. Le draghe idrauliche navigano a bassa velocità nell’area sopra il sito di scavo trascinandosi dietro la condotta di aspirazione tramite la quale vengono estratti i sedimenti. La miscela di acqua e sedimenti aspirata è avviata poi direttamente al sito di scarico tramite un’ulteriore condotta idraulica.
Figura 1.4:draga idraulica con testa Figura 1.5: sversamento dei sedimenti in vasca
disgregatrice. Tratto da Italdraghe di colmata tramite dragaggio idraulico
Il dragaggio idraulico viene utilizzato principalmente per fondali costituiti da sedimenti argillo-limosi debolmente compatti. Il principale vantaggio nell’impiego di questa tecnica è che la dispersione di materiale solido nell’ambiente acquatico circostante risulta minimo, dato che i sedimenti dragati vengono sollevati all’interno delle condotte di aspirazione e quindi non entrano in contatto diretto con la colonna d’acqua sovrastante. Però insieme ai sedimenti viene aspirata una notevole quantità di acqua, quindi il materiale dragato si ritrova in forma di fango, con un considerevole aumento del volume di materiale da gestire, al punto che l’unica forma di movimentazione possibile consiste nello sversare la miscela aspirata direttamente in vasche di colmata (fig 1.5).
La movimentazione di sedimenti connessa al dragaggio dei fondali ha sempre effetti negativi di vario genere sull’ecosistema marino circostante. Anche quando i sedimenti movimentati non siano contaminati, la loro movimentazione ha comunque una serie di effetti negativi sia sul comparto marino abiotico che su quello biotico. Tra questi effetti vi sono l’aumento della torbidità, la temporanea diminuzione della quantità di ossigeno disciolto e la variazione della concentrazione dei nutrienti presenti nella colonna idrica, danni sugli organismi viventi direttamente connessi alla presenza di particolato solido in sospensione (danni all’apparato respiratorio; abrasione dei tessuti; disturbo alle aree di nursery; etc.), possibili alterazioni qualitative delle biocenosi sensibili dovute all’aumento di torbidità, danni alle biocenosi sensibili alla riduzione di attività fotosintetica a causa della minore penetrazione luminosa per via della torbidità (Giaime et al., 2009).
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Se i sedimenti sono contaminati da sostanze pericolose o tossiche, il pericolo associato alla movimentazione dei fondali aumenta esponenzialmente perché implica il rischio di volatilizzare e risospendere tali sostanze diffondendole nell’ambiente acquatico. Molte sostanze tossiche vengono accumulate nei tessuti degli esseri viventi marini e, attraverso fenomeni di bioaccumulo e biomagnificazione, la contaminazione presente nel sedimento può raggiungere i vertici della catena trofica compreso naturalmente l’uomo.
Le tecniche di dragaggio sopra elencate negli ultimi anni sono state oggetto di sforzi mirati a modificare le strumentazioni classiche impiegate per ottenere una mitigazione degli effetti negativi sull’ambiente e realizzare così i lavori di dragaggio in modo più eco-compatibile. Ciò ha portato a introdurre il concetto dei cosiddetti “dragaggi ambientali”, intendendo con tale notazione l’impiego di mezzi draganti dotati di accorgimenti per minimizzare la dispersione indesiderata di materiale durante l’esecuzione dello scavo, il sollevamento e il trasporto a terra e per migliorare la precisione di esecuzione dello scavo stesso.
A tutte le tipologie di dragaggio è poi possibile accoppiare l’utilizzo di panne antitorbidità. Si tratta di barriere fisiche e impermeabili che possono
essere collocate in modo temporaneo per circoscrivere un piccolo volume marino intorno al punto in cui si esegue lo scavo e che consentono di isolarlo in modo da impedire sia la diffusione della nube di torbida causata dall’escavazione del fondale, sia le potenziali interazioni chimiche acqua-sedimento, grazie alla riduzione del volume di interazione. Le barriere vengono mantenute in posizione fino al risedimentarsi della torbidità (fig 1.6).
Figura 1.6: panne antitorbidità. (tratto da: Gaime et al. 2009)
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1.1.2: Caratterizzazione e gestione dei sedimenti
Le modalità di caratterizzazione dei sedimenti e le possibili opzioni di gestione degli stessi sono rintracciabili (o dovrebbero esserlo) nella relativa normativa tecnica. Ai fini della tutela dell’ambiente dai possibili effetti dannosi legati alla movimentazione dei sedimenti marini, è infatti importante che non vi sia alcuna fase degli interventi di dragaggio che resti scoperta da “buchi” normativi, o che sia solo indicata da linee guide di carattere generale prive di cogenza, perché ciò equivarrebbe a lasciare la gestione di questi aspetti alla discrezionalità di chi esegue ed approva gli interventi.
Fino alla fine degli anni ’90 non esisteva una normativa specifica sui dragaggi e le uniche indicazioni in merito erano contenute nell’art. 5 della legge 84/1994 “Riordino della legislazione in materia portuale”: in pratica la gestione dei sedimenti era piuttosto permissiva e la prassi seguita consisteva quasi sempre nello sversare i sedimenti di risulta da dragaggio in mare aperto, pur osservando precauzioni di salvaguardia dell’ambiente.
L’attuale assetto normativo italiano recepisce le linee guida fornite a livello internazionale. Il problema ambientale legato alla gestione dei sedimenti dragati è stato portato all’attenzione per la prima volta nell’ambito delle convenzioni internazionali fra gli anni ’70 e ’90, tra le quali le più importanti sul tema specifico della gestione dei sedimenti sono state la Convenzione di Londra del 1972 e la Convenzione OSPAR del 1992. In seguito a queste convenzioni è stata impedita la prassi di sversare indistintamente tutti i materiali di risulta dei dragaggi in mare aperto, evidenziando che il fondo del mare possiede capacità di assimilazione e smaltimento limitate ed è stato introdotto il concetto di non considerare più a priori i sedimenti dragati come un rifiuto, bensì di contemplarne il possibile riutilizzo come risorsa utile da recuperare (e, anzi, preferire tale alternativa quando sia possibile).
Le Convenzioni Internazionali hanno inoltre introdotto i seguenti principi fondamentali da utilizzare come linee guida per le normative nazionali sul tema dei dragaggi e dei sedimenti:
Il principio precauzionale: solo in seguito alla caratterizzazione dei sedimenti e alle ipotesi d’impatto conseguenti al loro sversamento è possibile procedere a scaricare i sedimenti in mare aperto;
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il principio di “chi inquina paga”: è necessario imporre ai soggetti che introducono sostanze inquinanti nell’ambiente la responsabilità di sostenere i costi per le misure di riduzione dell’inquinamento prodotto;
il Principio di gestione integrata delle zone costiere: i tratti marino costieri vanno intesi come compartimenti ambientali unici e ogni intervento in questa fascia di territorio va contestualizzato nell’ambito di una gestione integrata che contempli tutti gli aspetti socio-economici oltre che quelli prettamente ambientali.
Per effetto di queste linee guida, il processo logico decisionale sulla gestione dei sedimenti di dragaggio, assume la forma riassunta nel grafico riportato di seguito in figura 1.7:
9 A livello comunitario non è presente una specifica Direttiva Europea sul tema, in parte anche a causa della difficoltà di definire limiti e standard oggettivi univoci per la classificazione dei sedimenti per tutti i Paesi. Nella Water Framework Directive 2000/60/CE e nella successiva Direttiva 2008/7105/CE, si afferma esplicitamente l’importanza della qualità dei sedimenti per la definizione dello stato qualitativo generale dei corpi idrici, ma si affida agli Stati membri il compito di decidere singolarmente quale approccio utilizzare per fissare i limiti qualitativi relativi a tale matrice ambientale e dotare le proprie normative nazionali di strumenti appropriati.
Coerentemente con le linee guida internazionali sopra riportate, in Italia la logica decisionale alla base della gestione dei sedimenti dragati è la seguente: prelevare un certo numero di campioni di sedimenti dall’area da dragare e analizzarli; sulla base dei risultati della caratterizzazione classificare il sedimento tra un numero limitato di possibili classi qualitative e valutare quale opzione di gestione adottare tra quelle compatibili con la classe qualitativa in cui il sedimento rientra (fig. 1.8).
Materiali di dragaggio contaminati e pericolosi (anche in seguito ad eventuali trattamenti)
→ Sono rifiuti e vanno trattati come tali (conferimento in discariche controllate a terra)
Materiali di dragaggio contaminati ma non pericolosi (tal quali o in seguito a trattamenti)
→
Non sono rifiuti e le disposizioni normative
contemplano possibili gestioni alternative. Possono essere collocati in via definitiva in strutture di contenimento conterminate
Materiali di dragaggio non contaminati (o che presentano caratteristiche idonee rispetto al sito di destinazione)
→
Non sono rifiuti se gestiti in maniera conforme alle disposizioni normative. Possono essere rimessi in mare o sono contemplati riutilizzi utili (es. ripascimento degli arenili)
Figura 1.8: schema delle opzioni di gestione dei sedimenti in funzione delle caratteristiche rilevate
I possibili reimpieghi utili contemplati per i sedimenti non pericolosi sono molteplici:
- se hanno caratteristiche qualitative favorevoli, su autorizzazione delle Regioni o delle Provincie di competenza si possono utilizzare per i ripascimenti costieri, per la realizzazione di moli o terrapieni in ambito portuale o per altre applicazioni alternative, ad esempio come inerti nel confezionamento di calcestruzzo (esclusa la frazione pelitica);
- se presentano livelli intermedi di contaminazione ma non sono pericolosi, su autorizzazione dei Ministeri delle Infrastrutture e dell’Ambiente possono essere refluiti in vasche di colmata o altre strutture di contenimento per realizzare terrapieni utili per le previsioni di sviluppo portuali, o come materiale inerte di riempimento per opere a terra, ad esempio come sottofondo stradale;
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- se non comportano rischi di impatto ambientale e sia comprovata l’impossibilità tecnica o economica di utilizzarli secondo uno degli impieghi sopracitati, è possibile immetterli in mare aperto, previa autorizzazione delle Regioni e del Ministero dell’Ambiente.
Se i sedimenti all’origine hanno caratteristiche non idonee a questi tipi di gestione, si può ancora valutare la possibilità di applicare dei trattamenti per migliorarne le caratteristiche e farli rientrare in una delle classi qualitative riutilizzabili o si può anche eseguirne una cernita granulometrica per recuperare la frazione ghiaioso-sabbiosa, più facilmente riutilizzabile. Solo come ultima possibilità, nel caso in cui non sia percorribile nessuna delle precedenti opzioni perché i sedimenti presentano concentrazioni di inquinanti tali da renderli contaminati o tossici e la loro bonifica risulti tecnicamente o economicamente sconveniente, i sedimenti sono considerati come rifiuti e devono essere quindi gestiti come tali e assoggettati alla relativa disciplina, come previsto dalla parte IV del D.Lgs. 152/2006, venendo smaltiti in discarica dopo essere stati assoggettati a trattamenti per ridurne il volume.
In Italia negli ultimi 20 anni circa, il tema dei dragaggi, della gestione dei sedimenti di risulta e dei successivi monitoraggi dei siti dragati è stato sfiorato in numerosi decreti e provvedimenti di legge, spesso a margine di testi che avevano come oggetto principale altri temi ambientali, ma fino a poco tempo fa mai in maniera esaustiva. I riferimenti normativi relativi ai siti portuali ordinari sono il già citato articolo 5 della l. 84/1994, il “Testo Unico Ambientale” d.lgs.152/2006 (aggiornato dal d.lgs. 205/2010) e il recente decreto del Ministero dell’Ambiente 173 del 2016; per i dragaggi e la gestione dei sedimenti provenienti da Siti di Interesse Nazionale si fa invece riferimento al D.M. 7.11.08 “Disciplina delle operazioni di dragaggio nei siti di bonifica di interesse nazionale” e al recente decreto 172 del 2016. Prima dei D.M. 172 e 173 del 2016, da nessuna parte nella normativa erano specificate le corrette modalità secondo cui caratterizzare i sedimenti, né i valori limite delle concentrazioni di inquinanti compatibili con le varie opzioni di gestione. In mancanza di tali indicazioni, una prassi spesso usata è stata quella di utilizzare i valori di concentrazione soglia di contaminazione dei suoli come valori limite per stabilire se i sedimenti fossero da considerarsi rifiuti o risorsa riutilizzabile, come riportato nella tabella 1 dell'allegato 5 alla parte IV del Decreto 152. Tuttavia, poiché queste concentrazioni soglia di contaminazione sono state calibrate per garantire la protezione dell’uomo a fronte di una potenziale esposizione a suoli contaminati, “la prassi di trasferire questi limiti anche ai sedimenti non è sempre ed automaticamente adeguata a garantire analoga protezione poiché i livelli di esposizione e le interazioni
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uomo-sedimenti sono differenti che rispetto ai suoli” [cit. ISPRA; Standard di qualità di sedimenti fluviali e lacuali].
Nel tentativo di rimediare a tale carenza, nel 2007 il Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare ha incaricato I.S.P.R.A. e A.P.A.T. di redigere un documento contenente una sintesi delle azioni da intraprendersi per una gestione ecosostenibile della movimentazione dei sedimenti in ambito marino-costiero: il Manuale per la movimentazione dei sedimenti marini. Pur senza valore di legge questo Manuale è stato di fatto il riferimento principale per i problemi relativi alla gestione dei sedimenti di dragaggio per cui si ritiene utile riportarne brevemente le principali indicazioni operative nel prossimo paragrafo.
I due D.M. 172 e 173 del 2016 sopra citati hanno recepito in gran parte i contenuti del Manuale ICRAM del 2007 operando solo piccole modifiche nella calibrazione dei valori chimici limite e dell’interpretazione dei saggi eco-tossicologici, dando finalmente una maggiore completezza e organicità alla normativa italiana sul tema dei dragaggi.
1.1.2.1: Manuale per la movimentazione di sedimenti marini
Il Manuale suggerisce anzitutto l’introduzione obbligatoria della “Scheda di Bacino Portuale” come strumento di riferimento per agevolare la gestione nell’ambito portuale. La presenza di questa Scheda semplificherebbe notevolmente il reperimento delle informazioni relative alle caratteristiche del bacino idrico portuale necessarie nel momento in cui si debba eseguire un dragaggio, rendendo così molto più veloci e semplici gli iter relativi alla presentazione dei progetti di dragaggio; anche il monitoraggio e la programmazione della manutenzione del bacino portuale diverrebbero più semplici e gestibili, rendendo meno giustificabile il sistematico ricorso alle “procedure d’urgenza”. Il Manuale suggerisce che la Scheda di Bacino Portuale venga predisposta e aggiornata ogni due anni e contenga l’inquadramento generale dell’infrastruttura portuale e un piano di gestione dei sedimenti portuali.Viene poi descritto come eseguire correttamente la caratterizzazione dei sedimenti da sottoporre a dragaggio, a partire dai criteri di campionamento. Tale campionamento deve permettere una rappresentazione significativa dell’intera superficie e del volume di materiale da movimentare, tenendo conto della variabilità batimetrica e dell’articolazione strutturale interna dei porti. Lo schema di campionamento prevede di suddividere l’area con una griglia a maglie quadrate di grandezza opportuna e impiegare poi un unico punto di campionamento per ogni maglia. Sono previste tre tipologie di aree unitarie:
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- tipologia 1: lungo la perimetrazione interna caratterizzata dalla presenza di manufatti quali pontili e banchine da sottoporre a dragaggio deve essere sottoposta una griglia a maglia quadrata 50x50 m;
- tipologia 2: nelle zone interne del bacino portuale da dragare a distanza superiore a 50 m dai manufatti, si utilizza una griglia a maglia quadrata 100x100 m da porre in contiguità con le eventuali aree unitarie di tipo “1” e “3” (fig1.9);
- tipologia 3: nell’ambito delle imboccature portuali e delle zone esterne al porto ad esso adiacenti da sottoporre a dragaggio deve essere sovrapposta una griglia a maglia quadrata di 200x200 m in contiguità con le eventuali aree unitarie di tipo “1” e “2” (fig 1.10).
Figura 1.9: schema di campionamento secondo Figura 1.10: schema di campionamento secondo
griglie a maglie unitarie tipo “1” e “2” griglie a maglie unitarie tipo “1”, “2” e “3”
I campioni devono essere di tipo indisturbato e prelevati con la tecnica del carotaggio. Le carote prelevate devono essere almeno pari allo spessore del materiale che si intende dragare nel punto di campionamento. Da ciascuna carota devono essere prelevate sezioni di 50 cm: se la carota ha una lunghezza fino a 2 m deve essere suddivisa in sezioni di 50 cm a partire dalla sommità, prelevando un numero di sezioni da 1 a 4, tralasciando la sezione più profonda qualora sia inferiore a 25 cm; se la carota presenta una lunghezza superiore a 2 m deve essere sezionata come la precedente, in più è previsto di prelevare una sezione di 50 cm rappresentativa di ogni successivo intervallo di 2 m. Qualora sia accertato il raggiungimento del substrato geologico naturale, per il quale si possa escludere qualsiasi contaminazione antropica, allora è sufficiente un prelievo di una sezione di lunghezza 50 cm, rappresentativa dell’intero strato di base.
13 Dopo il campionamento si deve procedere con le analisi dei campioni che permetteranno la classificazione qualitativa dei sedimenti, per la quale è stato proposto un approccio tabellare che mette a confronto i valori chimico-fisici ed ecotossicologici riscontrati con valori stabiliti, permettendo di individuare cinque possibili classi qualitative.
Le analisi dovrebbero essere condotte da Enti e/o Istituti Pubblici oppure da laboratori privati accreditati e i risultati sono validi per un anno al massimo.
I parametri base da analizzare sono riportati di seguito nella Tabella 1.1, ma comunque la lista di parametri può essere estesa qualora si reputi necessario verificare la presenza di qualche inquinante specifico.
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Oltre alla caratterizzazione chimico-fisica, il Manuale prescrive di completare la caratterizzazione dei sedimenti conducendo delle analisi ecotossicologiche che concorrono alla definizione della qualità del materiale da dragare. Devono essere fatte analisi su almeno tre diverse specie-test, ciascuna appartenente a un diverso gruppo tassonomico fra quelli riportati in tabella 1.2 e di cui almeno un’analisi da applicare alla fase solida del sedimento e almeno una alla fase liquida (elutriato).
Tabella 1.2: specie su cui eseguire i test eco -tossicologici (tratto da: Manuale Icram, 2007)
Per quanto riguarda i valori da assumere come limiti discriminanti per l’assegnazione alle diverse classi qualitative, i valori presi in considerazione sono definiti nel seguente modo:
Esito dei saggi eco-tossicologici, secondo la casistica riportata in tabella 1.3;
Livello Chimico di Base (LCB): rappresenta una situazione “media” del contesto nazionale, non contemplando tipologie di sedimenti provenienti da aree con arricchimenti naturali evidenti (tabella 1.4, colonna sinistra). Per gli elementi in tracce vengono forniti due diversi valori di LCB in funzione della percentuale di pelite. Sarebbe comunque opportuna una determinazione specifica di un valore di riferimento locale (LCBloc), che tenga conto delle caratteristiche geochimiche ed eco-tossicologiche presenti negli specifici tratti di costa in cui il sito da dragare è incluso;
Livello Chimico Limite (LCL), i cui valori sono riportati nella colonna destra della tabella 1.4, rappresenta la concentrazione superata la quale si può ritenere la zona contaminata, anche se non è un dato sufficiente per affermare che la zona sia a rischio di tossicità;
15 Integrando i risultati dei due tipi di analisi eseguiti sui campioni di sedimenti raccolti è poi possibile procedere alla loro classificazione: in base alla combinazione dei risultati chimici ed ecotossicologici i sedimenti possono ricadere in 10 casi possibili (tabella 1.5), riconducibili alle 5 classi di qualità riportate in tabella 1.6. Nella stessa tabella 1.6 sono inoltre riportate le opzioni di gestione contemplate per ciascuna delle cinque classi qualitative.
16 Parametro LCB (pelite<25%) LCB (pelite>25%) LCL Elementi in tracce [mg/kg] p.s. As 17 23 32 Cd 0.2 0.35 0.8 Cr 50 100 360 Cu 15 35 52 Hg 0.2 0.4 0.8 Ni 32 60 75 Pb 25 37 70 Zn 50 100 170 Contaminanti organici [mg/kg] p.s. Organostannici 4.5 72 Σ PCB 5 189 Σ DDD 1.2 7.8 Σ DDE 2.1 3.7 Σ DDT 1.2 4.8 Clordano 2.3 4.8 Dieldrin 0.7 4.3 Endrin 2.7 62 γ-HCH 0.3 1 Eptacloro epossido 0.6 2.7 Σ IPA 900 4000 Acenaftene 7 89 Antracene 47 245 Benzo[a]antracene 75 693 Benzo[a]pirene 80 763 Crisene 108 846 Dibenz[a,h]antracene 6 135 fenantrene 87 544 fluorene 21 144 fluorantene 113 1494 naftalene 35 391 pirene 153 1398
Tabella 1.4: concentrazioni di inquinanti nei sedimenti corrispondenti al Livello Chimico di Base (colonna
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1.5: casistica dei possibili risultati chimici ed ecotossicologici e conseguenti classi qualitative assegnate (tratto
da Manuale ICRAM, 2007)
Tabella 1.6: le 5 classi qualitative di sedimenti e le opzioni di gestione corrispondenti (tratto
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A seguito di interventi di pretrattamento e/o trattamento e delle successive controverifiche fisico-chimiche ed ecotossicologiche, il sedimento potrebbe presentare caratteristiche tali da appartenere ad una classe di qualità migliore di quella di partenza.
Il Manuale al capitolo 3 riporta anche le specifiche modalità di conservazione dei campioni e di esecuzione delle analisi di laboratorio.
Il Manuale al capitolo 4 fornisce indicazioni sulle modalità di esecuzione dei dragaggi, indicando la necessità di eseguirli in modo tale da minimizzare il disturbo per l’ambiente circostante al fine di dragare in sicurezza e con precisione, minimizzare le quantità d’acqua presenti nei materiali rimossi, rendere minime le quantità di materiale disperso, limitare la torbidità e la mobilizzazione di inquinanti indotta dalle operazioni di dragaggio.
1.2: Tipologie di dragaggi e fabbisogno di interventi nei porti
italiani
A seconda della finalità per cui vengono realizzati, i dragaggi si possono classificare in: Dragaggio Manutentivo (Maintenance dredging), Dragaggio Infrastrutturale (Capital dredging) e Dragaggio di bonifica (Environmental dredging).
I dragaggi manutentivi vengono effettuati per mantenere mediamente costante la profondità dei bacini portuali contrastando i progressivi e continui fenomeni di insabbiamento e interrimento che si verificano nelle darsene portuali. Lungo la costa infatti le particelle di sedimento che costituiscono i fondali sono costantemente soggette a trasporto solido sul fondo e in sospensione in seno alla massa idrica a causa della risultante delle forzanti idrodinamiche (maree, correnti marine e moto ondoso). In un periodo temporale abbastanza lungo l’effetto complessivo è la presenza di un trasporto solido netto non nullo di materiale che viene sospinto all’interno del porto dove incontra condizioni di relativa calma che fanno venir meno le forzanti idrodinamiche e che quindi si sedimenta sotto l’effetto della gravità iniziando ad accumularsi poco a poco. I fenomeni di maggiore accumulo di sedimenti si osservano in corrispondenza delle imboccature portuali. Fenomeni di insabbiamento in genere più modesti si osservano anche in prossimità dei moli di ormeggio, dovuti in questo caso all’apporto di materiale solido dalle banchine portuali che viene dilavato dall’azione degli agenti atmosferici.
È difficile individuare una quantificazione del fabbisogno annuo di dragaggi manutentivi. L’insabbiamento in ambito portuale è un processo lento e costante che causa il progressivo venir meno delle condizioni di profondità operative per la navigazione. Il tasso di insabbiamento annuo varia anche
19 di diversi ordini di grandezza da località a località dato che dipende principalmente dalla granulometria dei sedimenti nel tratto litoraneo vicino al porto, dall’esposizione dell’imboccatura portuale al settore di traversia principale e alla direzione delle correnti marine prevalenti, dalla profondità del fondale in corrispondenza dell’imboccatura del porto e dalle condizioni meteo-marine medie.
Teoricamente le autorità portuali dovrebbero avviare i dragaggi manutentivi non appena le profondità massime scendono al di sotto della profondità compatibile con la navigazione delle imbarcazioni più grandi che possono accedere ai vari porti. Tuttavia non esiste una profondità minima raggiunta la quale i dragaggi manutentivi debbano essere obbligatoriamente eseguiti, per cui è a discrezione delle autorità portuali decidere quanto lasciare procedere il fenomeno di insabbiamento prima di provvedere alla manutenzione dei bacini portuali. In pratica, nei porti di piccoli dimensioni gli oneri per l’esecuzione dei dragaggi di manutenzione superano di gran lunga il dover rinunciare ai flussi economici prodotti dalle imbarcazioni più grandi e allora capita spesso che lo stato di insabbiamento venga lasciato proseguire anche per decenni, talvolta fino quasi al raggiungimento della totale ostruzione dell’imboccatura portuale. Al contrario, nei grandi porti commerciali le attività portuali sono massimamente concentrate proprio sui flussi economici prodotti dalle navi più grandi: sarebbe impensabile rinunciarvi per la temporanea impossibilità di farle accedere in porto e pertanto i dragaggi manutentivi vengono eseguiti in modo molto più regolare con cadenza di pochi anni fra un intervento e l’altro.
I dragaggi infrastrutturali vengono effettuati quando si vuole realizzare una zona portuale navigabile del tutto nuova o quando si vuole portare la quota massima di una darsena esistente a valori maggiori in modo da renderla idonea alla navigazione di imbarcazioni di pescaggio e dimensioni superiori. Quando si esegue questo genere di lavori deve essere quindi asportato uno strato di sedimenti di altezza pari alla differenza tra la quota finale alla quale si desidera portale lo specchio idrico e la quota ivi presente prima dei lavori (la quota della vecchia banchina o del fondale naturale). Le previsioni di dragaggi infrastrutturali sono inserite nei contenuti dei Piani Regolatori Portuali, per cui è possibile reperire su questi documenti il fabbisogno di interventi di questo tipo. Limitando la rassegna ai soli porti italiani che hanno un ruolo principale nella attività civili e commerciali del paese, emerge che nei prossimi anni sono previsti interventi infrastrutturali eccezionalmente alti (tabella 1.7).
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Tabella 1.7: fabbisogno di dragaggi infrastrutturali previsti nei PRP dei principali porti italiani (Tratto da: Iniziativa di studio sulla
portualità italiana, 2014)
Le ragioni di questa constatazione si possono così riassumere: per continuare a mantenere un ruolo primario all’interno del sistema di transhipment commerciale del bacino mediterraneo, è necessario possedere una dotazione di infrastrutture portuali in grado di svolgere ruolo di hubs nella logica integrata del sistema di trasporto merci e, quindi, di movimentare al loro interno le navi portacontainers di ultima generazione (ULCV, Post-Panamax). Nei decenni le dimensioni delle navi portacontainers sono progressivamente aumentate, perché massimizzare le capacità di carico dei singoli vettori di trasporto consente di ottimizzare le economie di scala delle compagnie di trasporto, ma di fatto la necessità di impiegare le navi in entrambi gli oceani e quindi di renderle compatibili con l’attraversamento del canale di Panama, aveva portato ad una limitazione e standardizzazione delle dimensioni delle grandi portacontainers nella classe delle cosiddette Panamax che per decenni hanno dominato lo scenario del trasporto merci via mare. Le principali infrastrutture portuali italiane sono caratterizzate da profondità massime minori rispetto alle principali concorrenti europee ma erano comunque sufficienti alla movimentazione delle Panamax (Fig.1.11) e quindi in passato non sono stati necessari grandi adeguamenti infrastrutturali riguardanti le profondità delle darsene.
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Figura 1.11: Profondità massime delle darsene dei principali porti italiani ed europei
(tratto da: Banca d’Italia; Le infrastrutture in Italia: dotazione, programmazione, realizzazione; 2011)
Nel 2009 però, sono iniziati i lavori (conclusi nel Giugno 2016) di nuove e più grandi chiuse nel canale di Panama in parallelo a quelle preesistenti. Ciò ha comportato l’incremento delle massime dimensioni compatibili ad attraversare il canale di Panama (fig. 1.12) e la nascita di una nuova categoria di navi
portacontainers, le New-Panamax dotate di pescaggio e capa- cità di carico superiori, non compatibili con gli attuali bacini portuali italiani ad eccezione di Gioia Tauro e Trieste.
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Le principali compagnie di trasporto mondiali si sono dotate o si stanno dotando di navi appartenenti a questa nuova categoria spostando conseguentemente parte dei loro approdi in Europa dall’Italia verso altre destinazioni in grado di ospitarle e ciò ha comportato una progressiva perdita della quota di mercato italiana sul transhipment mediterraneo (passando dal 28% al 16% tra il 2007 e il 2011). L’esigenza di adeguarsi alle nuove profondità massime ha spinto le Autorità Portuali di quasi tutti i principali porti commerciali italiani ad inserire nei loro piano triennali la previsione di realizzare le imponenti opere di dragaggio infrastrutturale precedentemente riportate in tabella 1.7.
Va comunque sottolineato che il trend negativo italiano nel trasporto merci è un fenomeno molto complesso le cui cause non possono essere ridotte alla sola carenza di profondità darsenali. Uno studio effettuato dalla Banca Mondiale (Doing Business, 2014) ha individuato come concause principali i maggiori tempi e costi complessivi necessari per il transito di un container nei nostri porti rispetto alle rivali europee e nordafricane (tab. 1.8).
Tabella 1.8: Confronto dei tempi e costi medi necessari per i processi di transito di container nei porti del bacino Mediterraneo
(Tratto da: DIPE; Iniziativa di studio sulla portualità italiana, 2014)
I dragaggi di bonifica sono interventi nei quali lo scopo precipuo non è ottenere l’approfondimento del bacino idrico, bensì decontaminare un ambiente acquatico in cui è presente uno stato di contaminazione diffuso, elevato e potenzialmente pericoloso: dragando lo strato superficiale di
23 sedimenti si estraggono anche i contaminanti in essi presenti adsorbiti al particolato solido, riducendo così fortemente il carico di inquinamento che grava sul sito. I dragaggi di bonifica interessano essenzialmente i Siti di Interesse Nazionale. Con l’intento di affrontare il disinquinamento di alcune aree industriali affette da massicci ed accertati rischi ambientali, i SIN sono stati definiti per la prima volta con li D.Lgs. 22 del 1997 introducendo come criteri per l’individuazione dei medesimi, le informazioni basate sulle caratteristiche dei siti, sulle quantità e pericolosità degli inquinanti presenti e sul rilievo dei possibili impatti sull’ambiente circostante di tali siti in termini di rischio sanitario ed ecologico. Successivamente la Legge 426/98
“Nuovi interventi in campo ambientale” ha individuato una serie di aree industriali a elevato rischio ambientale e con successivi Decreti Ministeriali sono state definite nel dettaglio le perimetrazioni dei Siti di Interesse Nazionale, fornendo quindi un limite territoriale concreto alle aree oggetto di studio. Nel D.M. 471/99 viene invece indicato, tra l’altro, l’iter per le procedure di bonifica dei S.I.N. che passa, innanzitutto, per la caratterizzazione dell’area da decontaminare e la presentazione di un progetto di intervento.
Durante l’esecuzione dei dragaggi di bonifica portuale, dovendo movimentare sedimenti contaminati, esiste il rischio di diffondere involontariamente le sostanze inquinanti in essi presenti nell’ambiente circostante, per cui è fondamentale adottare tutti gli accorgimenti indicati nel D.M. del Ministero dell’Ambiente 172/2016 per evitare o rendere minimi tali effetti indesiderati.
Le operazioni di bonifica dei siti portuali possono essere condotte contestualmente allo svolgimento delle normali attività portuali o all’esecuzione di dragaggi mirati alla manutenzione o modifica infrastrutturale del bacino portuale.
I siti portuali italiani inseriti nell’elenco dei Siti di Interesse Nazionale include la quasi totalità dei porti di maggiore rilevanza nazionale e internazionale. Nella Tabella 1.9 è indicato l’elenco dei SIN le cui perimetrazioni includono aree a mare, con l’indicazione dei provvedimenti normativi con i quali sono stati dichiarati siti da bonificare e l’estensione delle aree a mare.
In alcuni siti i progetti di bonifica sono stati già approvati e gli interventi sono in corso di realizzazione, mentre in altri non è ancora stato valutato il quantitativo esatto di sedimenti da bonificare (Gheraldini, 2005).
Per fornire alcuni dati che diano un’idea dell’ordine di grandezza dei volumi di materiale da movimentare e bonificare nei prossimi anni, si riporta che in base ai progetti di bonifica già presentati al Ministero dell’Ambiente, il fabbisogno di dragaggio di sedimenti a scopo di bonifica nel porto di
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Marghera è stato stimato in circa 6.000.000 di m3, nel porto di Napoli Orientale in 4.479.220 di m3, nella rada di Augusta (Priolo) in 13.304.183 di m3, nel porto di Pitelli (La Spezia) in 6.099.000 di m3, nel porto di Piombino in 1.003.207 di m3 e nel porto di Livorno in 2.250.000 m3 di sedimenti.
Tabella 1.13: elenco dei Siti di Interesse Nazionale che includono parte della perimetrazione a mare (Tratto da: Geraldini, 2005)
La somma complessiva delle aree a mare da bonificare incluse nei SIN è di circa 85.000 ettari e una stima di massima dei volumi complessivi di sedimenti che necessiterebbero di essere bonificati includendo anche i siti sui quali non si dispone ancora di una quantificazione più precisa, è di circa 130.000.000 di metri cubi.
1.3: I sedimenti marini
I sedimenti sono costituiti da una moltitudine di particelle solide di varia grandezza, fra di loro sciolte o debolmente legate, che, originatesi in punti diversi della superficie terrestre per effetto di processi naturali avvenuti nell’atmosfera, nell’idrosfera e nella biosfera, finiscono per accumularsi in uno stesso sito sotto l’azione della gravità e degli agenti atmosferici. I bacini marini costituiscono la destinazione finale per eccellenza di tutte le particelle sedimentarie.
25 I sedimenti sono “una parte fondamentale degli ecosistemi dei corpi idrici superficiali in quanto offrono una varietà di habitat diversi per molte specie acquatiche ed i processi microbici che avvengono al loro interno provocano la rigenerazione dei nutrienti dando vita a delle condizioni favorevoli per garantire la biodiversità marina” (ISPRA, Standard di qualità di sedimenti fluviali e lacuali, 2011).
Tuttavia, i sedimenti costituiscono anche il sito preferenziale di accumulo per molte sostanze inquinanti a causa della forte affinità che esse presentano con la fase particolata rispetto a quella acquosa per cui, quando queste sostanze vengono introdotte nei corpi idrici, solo una piccola aliquota resta presente (e biodisponibile) in forma disciolta o in sospensione nella soluzione acquosa mentre per la maggior parte finiscono con l’adsorbirsi sul particolato in sospensione e accumularsi poi sul fondo attraverso il deposito di tale materiale. Da un lato questo fenomeno è positivo perché gran parte dei contaminanti presenti in un ambiente idrico è compartimentata e immobilizzata sul fondale insieme ai sedimenti e scarsamente biodisponibile; al tempo stesso però “la contaminazione dei sedimenti provoca non soltanto un peggioramento della qualità delle acque ma comporta anche un rischio continuo e a lungo termine per gli ecosistemi e la salute umana a causa del possibile rilascio degli inquinanti in essi presenti che può perdurare anche al cessare della sorgente di contaminazione tramite meccanismi di diffusione nell’acqua interstiziale e nella colonna idrica sovrastante e di risospensione dei sedimenti in caso di perturbazioni naturali (correnti, moto ondoso, eventi alluvionali) ed antropiche (navigazione, pesca, lavori, dragaggi)” [cit. Standard di qualità di sedimenti fluviali e lacuali, ISPRA, 2011).
Una buona qualità dei sedimenti risulta essenziale per la salute di tutti quegli organismi che, pur non vivendo perennemente a contatto col sedimento, nutrendosi del benthos possono accumulare nei loro tessuti sostanze chimiche tossiche attraverso fenomeni di bioaccumulo e biomagnificazione.
Dal punto di vista fisico-chimico, il sedimento comprende quattro componenti principali: - l’acqua interstiziale, che costituisce circa il 50% in volume dei sedimenti superficiali; - la fase inorganica;
- il materiale organico di origine naturale; - le sostanze inquinanti:
a) sostanza organica di origine antropica (per esempio liquami); b) nutrienti (responsabili dei fenomeni di eutrofizzazione); c) microinquinanti inorganici (metalli e composti);
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La classificazione dei sedimenti e delle singole particelle solide non è univoca, ma possono essere considerati diversi metodi di classificazione a seconda del parametro preso in esame.
Una prima possibile classificazione è quella granulometrica, che prende in considerazione come parametro discriminante le dimensioni dei granuli presenti nella matrice di sedimento considerata. Le classificazioni dimensionali più usate per le applicazioni relative ai sedimenti e ai terreni sono la classificazione AGI e la scala di Wentworth.
In base alla classificazione AGI le singole particelle rientrano in una delle seguenti classi granulometriche: argilla (diametro della particella <0,002 mm); limo (diametro della particella compreso tra 0,002 e 0,06 mm); sabbia (diametro della particella compreso tra 0,06 e 2 mm) e ghiaia (diametro della particella >2 mm).
La classificazione secondo la scala di Wentworth invece, prevede ancora quattro classi granulometriche ma con nomenclature e valori dimensionali limite leggermente diversi: lutite (diametro <0,0039 mm); siltite (diametro compreso tra 0,0039 e 0,0625); arenite (diametro compreso tra 0,0625 e 2 mm) e rudite (diametro superiore ai 2 mm). Dato che è impossibile distinguere ad occhio nudo la differenza tra granuli siltitici e lutitici, queste due classi sono accorpate nella classe dei sedimenti pelitici.
In base alla composizione chimica è invece possibile suddividere i sedimenti in: s. carbonatici (ad esempio calcari e dolomie) costituiti prevalentemente da carbonati di calcio e magnesio, precipitati direttamente dall’acqua o derivanti da resti di organismi viventi; s. evaporitici (ad esempio cloruri, solfati e carbonati) che derivano dalla precipitazione diretta dei sali contenuti nelle acque marine; s. silicei (come le radiolariti, diatomiti e diaspri) composti prevalentemente da silice amorfa idratata derivanti dai resti di organismi a scheletro o guscio siliceo; s. alluminiferi (ad esempio bauxite e laterite) che provengono dalla degradazione chimica subaerea delle argille; s. ferro-manganesiferi (tra cui ad esempio ankeriti e sideriti) derivanti da precipitazioni chimiche e biochimiche; s. fosfatici (esempio depositi di guano) costituiti da fosfati di calcio, di origine organica o biochimica, come scheletri e parti dure di alcuni organismi o resti di deiezioni organiche; s. carboniosi (ad esempio antracite e torba) derivanti da degradazione di resti vegetali continentali; s. bituminosi ovvero rocce sedimentarie clastiche con concentrazione piuttosto elevata di materia organica derivante da resti di organismi vegetali, animali o planctonici.
Per i sedimenti in ambito portuale è possibile una ulteriore classificazione che prende in considerazione l’origine dei sedimenti stessi e comprende tre classi: sedimenti terrigeni, biogeni e residuali di attività antropiche.
27 I sedimenti terrigeni sono frutto del deposito e del trasporto di materiale eroso dai continenti e che giunge in mare grazie a fiumi, vento e ghiacciai.
I sedimenti biogeni sono composti essenzialmente da gusci, piante e animali planctonici unicellulari. I gusci, di dimensioni inferiori ai 0,005mm, sono composti essenzialmente da carbonato di calcio o da silice che conferiscono tali composizioni chimiche ai sedimenti stessi.
I sedimenti residuali di attività antropiche sono i sedimenti maggiormente influenzati dalle attività antropiche industriali e civili. Alla loro formazione partecipano, infatti, tutte le attività antropiche presenti e passate svolte direttamente nel distretto portuale o sulla terraferma alla quale il porto fa da hinterland, tra le quali scarichi di varia natura, la cui composizione può essere anche notevolmente tossica e la cui quantità dipende dalla densità di popolazione residente nei pressi del porto e delle attività locali.
La qualità chimica dei sedimenti di porto è fortemente dipendente dalla tipologia, quantità e distribuzione dei processi e delle attività inquinanti di routine portuale sia attuale che storica, nonché dalle dinamiche di trasporto solido esterne e interne al bacino portuale. La qualità dei sedimenti di porto non è uniforme, ma varia sia su scala temporale che spaziale: inizialmente gli inquinanti vengono inglobati in grosse quantità ed elevate concentrazioni all’interno dei sedimenti nei pressi della fonte di immissione degli inquinanti ma successivamente i sedimenti stessi per effetto delle correnti e dei cicli di sedimentazione e sospensione si spostano, distribuendo se stessi e il loro carico di contaminanti nello spazio e nel frattempo gli inquinanti stessi possono subire trasformazioni o degradazioni e venire parzialmente trasferiti in soluzione alla colonna d’acqua sovrastante, dato che le concentrazioni presenti nella fase acquosa e nella matrice solida sono costantemente in equilibrio chimico fra di loro. L’elevato rischio ambientale associato alla possibilità di rilasciare gli inquinanti immobilizzati nei sedimenti nell’ambiente circostante in conseguenza delle attività di dragaggio è il motivo per cui la caratterizzazione qualitativa preliminare dei sedimenti e la loro gestione successiva al dragaggio sono così importanti in questo tipo di interventi.
1.3.1: Alcuni microinquinanti presenti nei sedimenti e loro effetti
I sedimenti costituiscono il recettore finale delle sostanze di natura antropica introdotte nei bacini portuali. Anche quando le sostanze inquinanti sono presenti nei sedimenti in concentrazioni elevate, all’interfaccia acqua/sedimento lo scambio di tali sostanze fra i due comparti è regolato da equilibri dinamici che sono molto sfavorevoli al loro rilascio nella soluzione acquosa. Man mano che il sedimento28
viene seppellito e aumenta di profondità, comprimendosi e riducendo il suo contenuto d’acqua, la mobilità dei contaminanti ad esso adsorbiti si riduce ulteriormente, rendendoli in un certo senso intrappolati nel sedimento stesso.
La perturbazione e movimentazione dei sedimenti rischiano però di rompere questo equilibrio e provocare la dispersione in sospensione di un gran quantitativo di agenti contaminanti.
Esistono svariate sostanze contaminanti di origine antropica che possono essere presenti nei sedimenti marini e, tra di esse, alcune possono essere considerate più pericolose perché i loro effetti tossici si manifestano già a concentrazioni bassissime: si tratta dei cosiddetti microinquinanti.
I microinquinanti organici possono essere suddivisi in due sottofamiglie: quelli che si formano come effetto indesiderato durante processi di produzione e attività antropiche di altro genere (come gli IPA e le diossine) e quelli prodotti appositamente dall’industria chimica come i policlorobifenili (PCB) e i polibromodifenileteri (PBDE) [fonte: ARPAT; Microinquinanti organici, 2013].
Tutti i succitati microinquinanti organici sono accumunati dal fatto di essere stati definiti “inquinanti organici persistenti” (POP=persistent organic pollutants) in occasione della Convenzione di Stoccolma del 2001, per via della loro scarsa degradabilità e, conseguentemente, della loro tendenza ad accumularsi nell’ambiente. Questa caratteristica rende questa classe di inquinanti ancora più pericolosi e, pertanto, oggetto di maggiore attenzione.
Gli Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) sono una classe di composti organici costituiti da due o più anelli benzenici uniti tra di loro. Gli IPA si formano in seguito alla combustione incompleta o alla pirolisi di materiale organico contenente. Sono prodotti in una grande varietà di attività umane industriali il che li rende ubiquitari e in minima parte anche alcuni fenomeni naturali, come incendi boschivi ed eruzioni vulcaniche, possono essere fonte di produzione di IPA. Gli IPA sono lipofili e solubili nella maggioranza dei solventi organici. Tendono ad accumularsi nei sedimenti e questo fa sì che gli organismi bentonici vengano a contatto con tali contaminanti. Tuttavia, se i sedimenti non subiscono movimentazioni, gli IPA tendono a permanere adsorbiti alla matrice solida e ad essere scarsamente biodisponibili, diminuendone la potenziale tossicità. Molti di questi composti sono stati classificati dall’Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro come “probably carcinogenic to humans” o “possibly carcinogenic to humans”. Gli IPA non sono cancerogeni di per se, ma possono innescare varie reazioni metaboliche che avvengono nell’organismo umano che li trasforma in intermedi (epossidi e diol epossidi) e successivamente in carbocationi responsabili dell’attacco al DNA e delle conseguenti alterazioni genetiche che portano alla produzione di cellule cancerogene. Il Benzo[a]Pirene ad esempio,
29 è chimicamente inerte ma diviene cancerogeno tramite bioattivazione. [fonte: Istituto Superiore di Sanità, sito internet)
Le diossine sono una classe di contaminanti costituita da due diverse famiglie di composti chimici con caratteristiche molto simili: le policlorodibenzodiossine (PCDD) e i policlorodibenzofurani (PCDF). Queste sostanze sono sottoprodotti indesiderati frutto di attività umane o naturali (sono state trovate tracce di diossine dovute a combustioni naturali anche in reperti antichi), tuttavia a partire dagli anni Quaranta con lo sviluppo della chimica del cloro e altre attività umane quali l’incenerimento dei rifiuti, la presenza di diossine nell’ambiente è aumentata rapidamente e in modo allarmante. Chimicamente questi composti sono costituiti da due anelli aromatici clorurati legati da un anello centrale su cui sono presenti uno (furani) o due (diossine) atomi di ossigeno. Tutte le diossine hanno una bassa tensione di vapore, un alto punto di fusione, una notevole resistenza ai processi di degradazione e lunga persistenza nell’ambiente. Queste proprietà rendono PCDD e PCDF contaminanti organici persistenti e possono arrivare a minacciare la salute dell’uomo tramite la catena alimentare [fonte: Istituto Superiore della Sanità, sito internet]. Solo pochi congeneri del gruppo delle diossine sono stati identificati dall’IARC come cancerogeni per l’uomo e catalizzatori di possibili effetti sulla riproduzione e sul sistema immunitario. Studi su animali da laboratorio hanno dimostrato una serie di effetti tossici delle diossine, tra cui effetti sullo sviluppo neurocomportamentale, sul sistema immunitario e sul sistema endocrino.
I policlorobifenili (PCB) sono una classe che comprende 209 composti aromatici costituiti da molecole di bifenile variamente clorurate, la cui formula bruta è C12H10-XClX. Sono composti chimici
molto stabili, resistenti ad acidi, alcani e alla fotodegradazione, non sono ossidabili, non attaccano i metalli, sono poco solubili in acqua, ma lo sono nei grassi e nei solventi organici, non sono infiammabili, evaporano a temperature superiori a 300° C, si decompongono solo oltre 800 – 1000 °C e sono scarsamente biodegradabili. I PCB sono stati largamente utilizzati in svariati processi industriali a partire dagli anni ‘30 e nel 1985 vennero vietati a causa della loro tossicità nei confronti dell’uomo e dell’ambiente e della loro tendenza a bioaccumularsi. La Convenzione di Stoccolma del 2001 li ha classificati POP (Persistent Organic Polluttants) e la loro produzione ne è stata definitivamente vietata, ma viste le loro caratteristiche di persistenza è ancora possibile trovarli nell’ambiente, dove vi sono giunti a causa di perdite, scarichi illeciti, smaltimenti inadeguati, evaporazione ecc. I PCB possono essere assorbiti dagli organismi viventi sotto forma di vapori attraverso l’apparato respiratorio o per contatto attraverso la cute. Gli effetti sulla salute dell’uomo sono la cloracne e le eruzioni cutanee e si sospettano
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correlazioni con danni al fegato. Nel 2013 l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha stabilito una correlazione certa tra esposizione ai PCB e cancro [Fonte: Istituto Superiore della Sanità, sito internet].
Oltre ai microinquinanti organici, anche i metalli pesanti si ritrovano spesso nei sedimenti marini, soprattutto nei bacini portuali di porti commerciali e industriali di una certa importanza. Anche i metalli pesanti sono una classe di inquinanti che manifestano i loro effetti tossici già a concentrazioni molto basse (alcuni in particolar modo, come mercurio e cadmio).
L’introduzione nell’ambiente di metalli pesanti si verifica tramite una quantità di attività umane di tipo industriale, militare e agricolo e anche tramite lo sversamento dei reflui (Duffus, 2002). I principali metalli pesanti che finiscono per contaminare l’ambiente come frutto delle attività umane sono As, Cd, Cr, Cu, Hg, Ni, Pb, V e Zn. Annualmente vengono generate circa 2,4 milioni di tonnellate di questi metalli dalle industrie petrolifere, 1,4 milioni di t da processi agricoli, lo scarico dei rifiuti di vario genere comporta un contributo di ulteriori 0,72 milioni di tonnellate e i processi siderurgici e manufatturieri contribuiscono con ulteriori 0,4 e 0,24 milioni di tonnellate annue rispettivamente (Nriagu e Pacyna 1988).
I metalli pesanti sono introdotti nell’ambiente sia in forma ionica che legati ad altri composti, ma una volta finiti in ambiente idrico tendono ad essere debolmente presenti in soluzione acquosa, precipitare e legarsi con la matrice solida dei sedimenti in maniera variabile con le condizioni di pH e temperatura e possono avere gravi effetti sull’ambiente e sulla salute umana (Brower et al, 1997).
[Banca mondiale, doing business 2012 – commercio internazionale; Washington, 2011] ASSOPORTI, Relazione sulla portualità italiana nel 2009