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PADOVA COMUNITÀ METROPOLITANA Città Territorio Economia QUADERNO n. 0

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Academic year: 2022

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COMUNITÀ METROPOLITANA

Città Territorio Economia

QUADERNO n. 0

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CLEUP sc

“Coop. Libraria Editrice Università di Padova”

Via G. Belzoni, 118/3 – Padova (Tel. 049/650261) www.cleup.it

Copertina di Franca Cecchinato

© Copyright 2005

Università degli Studi di Padova

Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.

Comune di Padova

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7 Introduzione Giuseppe Zaccaria Ivo Rossi

13 Profili giuridici delle aree metropolitane Vittorio Domenichelli

Paola Santinello

23 Città metropolitana e problema della governance Maurizio Mistri

43 Padova città metropolitana – Ipotesi di studio preliminare Vittorio Pollini, Pasqualino Boschetto,

Nuccio Bucceri, Alessandro Bove

61 Forme di collaborazione tra i Comuni dell’area urbana estesa:

il caso dell’Ente di Bacino Padova 2 Amedeo Levorato

83 Accordo di costitutzione della Conferenza Metropolitana di Padova

91 Regolamento sul funzionamento della Conferenza Metropolitana di Padova

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È almeno dagli inizi degli anni Novanta – in significativa corrispon- denza con la Legge 8 giugno 1990, n.142 – che il tema dell’integrazione urbanistica, amministrativa ed economico-sociale nelle grandi aree ur- bane si è imposto nel nostro paese all’attenzione del dibattito relativo alle istituzioni e alla governance del territorio.

Un dibattito tanto ampio quanto confuso, non solo per la complessi- tà dei profili (organizzativi, giuridici, sociali ed economici) che ne ven- gono coinvolti, ma anche per la difficoltà di uscire concretamente dalle secche di una logica burocratica e di un’eccessiva complicazione proce- durale con cui fu previsto dal legislatore di istituire le ‘città metropolita- ne’, senza peraltro risolvere il problema dei loro rapporti con gli altri enti territoriali.

E tuttavia, nonostante la sterilità e la pochezza dei risultati concreti, frutto anche di una legislazione astratta e impraticabile, il tema della città metropolitana è divenuto negli ultimi anni anche nella realtà del nostro territorio un’esigenza ineludibile.

È infatti la stessa spontaneità dei processi che si sono determinati nell’economia e nel territorio a richiedere sempre di più un coordina- mento ed un’integrazione delle politiche locali (in tema di mobilità, di servizi, di governo dell’ambiente e del territorio).

Nel corso dell’appassionato dibattito sulla Grande Padova, cui mol- ti di noi parteciparono, emerse con chiarezza, nonostante le comprensibili resistenze dei Comuni minori, quanto fossero ineludibili ed ampiamen- te condivise le esigenze di procedere in tempi brevi ad una maggiore integrazione del nostro territorio. Ma emerse con altrettanta chiarezza l’impossibilità di offrire una risposta istituzionalmente efficace a tali esi- genze con gli strumenti normativi della legge n.142 del 1990 e più am- piamente in un’ottica di centralismo che inevitabilmente concepisce i confini comunali in modo artificioso e burocratico. Nel frattempo tutti

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i fattori di “crisi” (dalla viabilità all’ambiente, dalla congestione del ter- ritorio alla gestione dei rifiuti, alla costosità dei servizi) si sono aggravati e moltiplicati, rendendo sempre più inevitabile una collaborazione o meglio una concertazione tra enti locali, che tra l’altro vedono sempre più ridotte le loro risorse economiche a causa della progressiva riduzio- ne dei trasferimenti statali. Le resistenze sono ancora significative sia per una questione non certo trascurabile e ben comprensibile di sovra- nità territoriale dei singoli Comuni, sia per un persistente processo di rivendicazione corporativa dei Comuni minori nei riguardi del Comune maggiore, ma le richieste di una maggiore efficienza organizzativa e di una migliore economicità di gestione si impongono come esigenze autoevidenti: senza aggiungere che per dialogare e contare nei rapporti con altri soggetti nazionali ed internazionali diviene precondizione es- senziale il fatto di disporre di una dimensione più ampia, capace di rap- presentare meglio gli interessi e lo sviluppo della comunità urbana.

Sono questi i motivi che si trovano alla base dell’istituzione della Conferenza Metropolitana di Padova, luogo di discussione e di concertazione permanente tra i Sindaci del territorio padovano, istitui- ta nel 2003 e che, nonostante immaginabili difficoltà, prosegue la sua vita ispirandosi ad una logica di consenso e di programmazione. Ma analoghe istanze sono all’origine del Gruppo di Studio sulla Città me- tropolitana istituito dal nostro Ateneo d’intesa con il Comune di Pado- va, con l’obiettivo di fornire maggiori elementi di conoscenza dei pro- cessi di fondo e delle dinamiche interne all’area metropolitana di Pado- va. Mettere a disposizione le articolate competenze di ricerca presenti nella nostra Università e impegnarle in un lavoro comune con gli ammi- nistratori locali per promuovere una crescita dell’intera comunità terri- toriale: è una sfida ambiziosa che abbiamo raccolto con entusiasmo e che in questo primo numero della nuova collana di Quaderni della città metropolitana vede una prima, significativa realizzazione.

Giuseppe Zaccaria Pro Rettore Vicario Coordinatore del Gruppo di Studio sulla Città metropolitana Università di Padova

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In una stagione di competizione globale, come quella che stiamo vivendo, un posto di assoluto rilievo è occupato dalla sfida fra sistemi urbani, che affianca e supporta la tradizionale competizione tra imprese e sistemi di imprese. Decisori politici, studiosi e operatori economici si trovano, in questo contesto, a fare i conti con una città da ripensare, dovendo anzi scommettere sul suo futuro in termini di sistema città, che non può più permettersi il lusso di essere solo locale e neppure regionale.

Anche se può apparire una semplificazione eccessiva, bisogna dire che le città, o alcune di esse, si trovano oggi ad un bivio. Da una parte sembrano avviate ad imboccare un possibile declino, figlio di un pigra conservazione di equilibri fondati sulle rendite di posizione. Dall’altra, vivono il (non scontato) successo generato dalla scommessa legata alla capacità di innovare e di offrire nuove opportunità. In questa dinamica, un ruolo essenziale è giocato dalle istituzioni politiche, culturali, scien- tifiche ed economiche. Insieme, esse sono chiamate ad offrire risposte ai complessi problemi dell’intero sistema.

Il tema del governo del sistema città e del suo rapporto con la rete globale appare essenziale soprattutto nelle aree in cui la vitalità econo- mica e sociale ha coinciso con la dinamicità dei singoli operatori. È pro- prio il caso del Veneto, in cui il ruolo della parte pubblica si è spesso limitata ad assecondare i processi in atto. Non è solo un problema di leadership politica, quanto piuttosto di condivisione della leadership fra i diversi attori sociali che, in virtù dei processi di radicamento e di coe- sione, sono in grado di favorire l’orientamento dei percorsi individuali.

Ma, oggi, la vera sfida è fra aree urbane e sistemi di città, non più fra singoli operatori. Ed anche Padova si ritrova a vivere questa scommes- sa: concretizzare le sue ambizioni su scenari nazionali ed europei o con- tinuare a godere della sua rendita di posizione quale naturale crocevia del nord est. Status dignitoso, quest’ultimo, eredità romana di una civitas praecipua venetorum. Ma, aggiornabile. È una sfida che ha sempre attra-

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versato la storia della città. Nell’ultimo quarto del secolo scorso, ha as- sunto il nome di questione metropolitana.

La cartografia dei primi anni del ‘900 disegna una città che ha appe- na avviato il suo processo di crescita urbana. L’arrivo della ferrovia e i primi insediamenti industriali determinano i primi sconfinamenti al- l’esterno del secolare confine delle mura cinquecentesche. Sono gli anni che segnano in profondità il territorio, delineando le direttici su cui sono avvenuti i successivi processi – fino ai giorni nostri – di crescita edilizia e manifatturiera. Ma, già attorno agli anni ’20, si avvertono i primi pro- blemi legati alla ridotta dimensione del territorio comunale. Attorno al 1927, la città comincia ad interrogarsi sul proprio futuro e a fare i conti con la questione dei limiti posti alle sue ambizioni. Cui non può bastare una superficie comunale che, a malapena, supera i 92 chilometri quadrati.

La questione dei limiti è ben sintetizzata nel primo studio per «l’aggre- gazione a Padova di Comuni attigui», realizzato in applicazione del Regio Decreto Legge 17 marzo 1927, n. 383. A fondamento della necessità di accorpare al capoluogo altri comuni contermini (fino ad arrivare a Teolo, evidentemente appetito per la sua aria più fresca e salubre), si punta sui servizi: acquedotto e tram. Come si può leggere nel rapporto, steso dal segretario comunale Alfredo Canalini e controfirmato dal Podestà Fran- cesco Giusti, il dibattito non approderà agli esiti auspicati dal regio decre- to e dalla parte più innovativa della classe dirigente dei diversi comuni. Fa eccezione il Consiglio Comunale di Noventa Padovana che, peraltro, già nel 1921, aveva manifestato l’interesse a fondersi con Padova.

Dovranno passare parecchi decenni, dagli anni della ricostruzione a quelli del boom economico, per ritrovare un rinnovato interesse attor- no al tema che oggi definiamo Città Metropolitana. L’importanza di una pianificazione coordinata degli insediamenti si avverte proprio durante la stagione del boom economico ed edilizio. È della seconda metà degli anni sessanta il tentativo di dar vita al primo Piano Urbanistico Regolatore Generale Intercomunale (PURGI), lodevole e lungimirante espressione di una corretta visione urbanistica. Purtroppo la materialità degli inte- ressi in gioco nei vari comuni avrà la meglio sull’esigenza di dar vita ad una nuova forma di città. Il dibattito vedrà trascorrere inutilmente qua- si vent’anni prima che la fiammella della forma urbis metropolitana ri-

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prenda vigore e cioè verso la seconda metà degli anni ’80, quando la città comincia a cogliere i limiti e i problemi generati dalla frantumazio- ne amministrativa e dalla concorrenzialità delle politiche urbane. Si tratta di una discussione, alimentata anche dall’interesse nazionale attorno al governo delle grandi aree urbane, che assume orizzonti a … geometria variabile. È in gioco (gioco anche linguistico: PaTreVe), infatti, la leadership in ambito metropolitano delle tre province del Veneto cen- trale: Padova, Treviso, Venezia. Senza considerare che Venezia vorreb- be giocare da sola. L’approvazione della legge 142/90 e il successivo dibattito sul ruolo del capoluogo regionale come area metropolitana ha dilatato all’infinito il tempo delle scelte. E a Padova, un confronto paral- lelo fa riemergere antiche questioni irrisolte: da un lato, viene avvertito il fascino di un’area metropolitana comprendente ben tre province, dall’al- tro, si preferisce pensare ad un ambito più ristretto ma più omogeneo dal punto di vista territoriale. Sullo sfondo, forti riserve trasversali all’idea di una Regione Metropolitana, piuttosto che una città metropolitana.

Saranno i primi anni ’90 ad imprimere una forte accelerazione al tema metropolitano che, nella semplificazione giornalistica, diventa il tema della cosiddetta Grande Padova, con una sottolineatura eccessiva del concetto di “grande”, che spaventa i comuni di cintura ed una ap- prossimazione divulgativa che non ha certo fatto bene al dibattito. In ogni caso, il progetto intende salvaguardare assolutamente alcune auto- nomie locali, pur dichiarando esplicitamente la necessità di dar vita ad un unico ente. Ma deve tenere nel dovuto conto anche le resistenze. È interessante notare come, a fronte di un diffuso consenso manifestato da quasi tutti i soggetti rappresentativi del mondo economico e cultura- le, le resistenze delle amministrazioni pubbliche della cintura (salvo qualche lodevole eccezione) ed alcune timidezze del capoluogo, non abbiano consentito il decollo di una proposta che sembrava possedere i requisiti per rispondere alle esigenze di governo. In particolare, sul de- licato terreno dei servizi e della pianificazione territoriale.

Il limite della proposta del ’27, così come quella dell’ultimo decennio del secolo scorso, va ricercato nelle diffidenze dei comuni minori e nella difficoltà di costruire un confronto positivo fra tutte le amministrazioni.

D’altra parte, la radicalità dell’obiettivo finale (la scomparsa per

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inglobamento delle amministrazioni minori), appare ancor oggi un limite insuperabile, che ha fortemente condizionato lo sviluppo del confronto.

Si trattava, dunque, di ripensare il modo in cui affrontare la questio- ne metropolitana. Improponibili i dirigismi centralistici viziati da trop- pi limiti, meglio dar vita ad un processo graduale, certamente più lento e magari più rischioso. Il 2003 è l’anno della svolta. I limiti delle prece- denti proposte vengono superati con l’avvio di un processo di concertazione permanente fra i comuni appartenenti alla comunità me- tropolitana. Il nuovo strumento è la Conferenza Metropolitana di Pado- va, luogo deliberativo in cui si condividono proposte e si assumono de- cisioni relative all’intero territorio. Per la prima volta si trovano d’accor- do tutti i consigli comunali e non solo i sindaci. Si tratta di un’esperien- za che, pur possedendo i limiti dovuti alla volontarietà della partecipa- zione e al mantenimento dell’autonomia delle singole amministrazioni, consente di immetterle tutte in un circuito decisionale che obbliga a considerare i problemi nella loro complessità, e non da un altrettanto improponibile punto di vista periferico.

In questo nuovo contesto, si situa anche il rapporto fra città, o me- glio, fra la comunità metropolitana e l’Università. La Conferenza, infat- ti, ha messo subito in evidenza i limiti dovuti alla scarsa conoscenza delle dinamiche interne all’area, al buco nero rappresentato da una ri- cerca mai sufficientemente approfondita. Di più: si avverte come un’Uni- versità così fortemente inserita nel tessuto urbano e allo stesso tempo così immersa nelle dinamiche globali, possa diventare uno strumento di crescita dell’intera comunità.

È con questo spirito che Padova e la sua Università hanno inteso dar vita ad una collana di Quaderni della città metropolitana, per poter offri- re nuovi e aggiornati strumenti di riflessione sulle scelte che faranno la differenza fra le città che si sono adagiate in ruoli precedenti e quelle che, invece, hanno accettato la sfida della complessità e si sono dotate di strumenti innovativi per vincerla.

Ivo Rossi Assessore alla Città Metropolitana Comune di Padova

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PROFILI GIURIDICI DELLE AREE METROPOLITANE

Premessa

Il quadro normativo

La legge di riforma dell’ordinamento delle autonomie locali

Nel 1946 Massimo Severo Giannini sosteneva che «sotto il profilo dell’organizzazione e delle dimensioni deve considerarsi che il comune oggi è diventato un organismo o troppo piccolo o troppo grande (aree metropolitane)…» (Lo Stato repubblicano, in Bollettino di studi sociali- sti, n. 7, p. 5).

Il problema delle aree metropolitane è un problema di governo delle città: dimensione è organizzazione perché l’organizzazione delle struttu- re semplici non può essere la stessa delle strutture complesse. Governa- re Milano non è la stessa cosa che governare Masi. Eppure: il dato stori- co è stato quello dell’assoluta omogeneità delle strutture organizzative comunali. I Testi Unici del 1915 e del 1934 prevedevano quali organi rappresentativi il sindaco, la giunta comunale e il consiglio comunale, ma anche la struttura burocratica era omogenea (segretario comunale, uffici - tecnico, di ragioneria, ecc.). La l. 142 del 1990, di riforma delle autonomie locali, ha poi rotto questa omogeneità riconoscendo innanzitutto autonomia statutaria a comuni e province e introducendo, in particolare, le aree metropolitane, dopo il lungo dibattito degli anni

’70 e lo studio delle molte esperienze straniere (Londra, Barcellona, Parigi, Lione, Francoforte, Lille, Lisbona, Strasburgo, ecc.). La l. 142 ha individuato d’autorità come aree metropolitane le zone compren- denti i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e gli altri comuni che abbiano con essi «rapporti di stretta integrazione territoriale e in ordine alle attività economiche, ai

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servizi essenziali, alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali e alle caratteristiche territoriali».

La l. 142 aveva affidato alle Regioni, che acquisivano così un ruolo centrale, il compito di procedere alla concreta delimitazione territoriale di ciascuna area metropolitana, sentiti i comuni e le province interessati.

L’area metropolitana impatta sulla realtà amministrativa esistente, per cui il legislatore si era preoccupato di risolvere eventuali contrasti tra l’area metropolitana e la provincia, configurando quest’ultima come

“autorità metropolitana” (denominata «città metropolitana»). In caso di non coincidenza dell’area metropolitana con il territorio della pro- vincia si procedeva a nuove delimitazioni e/o nuove province. La proce- dura prevista dal legislatore del 1990 era molto complessa (artt. 17-21):

essa comportava una legge regionale per la delimitazione dell’area me- tropolitana e per la ripartizione delle funzioni fra città metropolitana e comuni e si concludeva con l’emissione di decreti legislativi per la costi- tuzione della città metropolitana.

Prime esperienze

Gli atti e i procedimenti posti in essere dopo la l. 142/1990 non sono stati molti e comunque privi di seguito. La l.r. Veneto n. 36 del 1993 di delimitazione dell’area metropolitana di Venezia aveva individuato, ol- tre al comune capoluogo, solo quattro comuni rientranti nel territorio dell’area, ovvero Marcon, Mira, Spinea, Quarto d’Altino, salva la possi- bilità per altri comuni di richiedere l’inclusione nell’area con delibera- zione comunale. La legge veneta aveva individuato, tra le numerose fun- zioni della città metropolitana di ambito sovracomunale, in materia di pianificazione territoriale: l’adozione del piano territoriale di coordina- mento provinciale; nelle materie della viabilità, traffico e trasporti: la partecipazione alla formazione del piano regionale dei trasporti, la realiz- zazione e gestione delle reti e dei servizi di trasporto di interesse metropo- litano, la realizzazione della grande viabilità; in tema di tutela e valorizzazione dei beni culturali e dell’ambiente: il censimento, la catalo- gazione, il recupero, la conservazione del patrimonio storico, artistico, archeologico, ambientale di rilievo metropolitano; ancora, funzioni in materia di difesa del suolo, di tutela idrogeologica, smaltimento dei rifiuti.

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Diversamente dalla Regione Veneto, la Regione Liguria, che con la l.r. n. 12 del 1991 aveva delimitato il territorio dell’area metropolitana di Genova in trentotto comuni più il capoluogo, aveva rimandato ad una legge successiva la individuazione delle funzioni in attuazione dell’art.

19 della l. 142.

Ancora, il processo di costituzione dell’area metropolitana di Bolo- gna era iniziato con l’atto deliberativo della Giunta n. 194 del 4 febbraio 1992 che proponeva la costituzione di un “tavolo istituzionale” per trat- tare la questione relativa alla città metropolitana. Nel 1993 venne sigla- to un progetto di città metropolitana tra provincia e comune di Bologna che prevedeva tre fasi: l’elaborazione di un Accordo per la città metro- politana, poi sottoscritto da trentasei comuni su sessanta, la predisposizione di un progetto di legge regionale di iniziativa della Giunta regionale, di intesa con le stesse autonomie locali interessate, volto a definire poteri ed ambito della città metropolitana (venne approvato nel 1995), la progressiva trasformazione delle circoscrizioni del comune di Bologna in comuni metropolitani.

Relativamente alle funzioni, il coordinamento avrebbe dovuto avere ad oggetto la definizione di comuni programmi di intervento, con riferi- mento alle materie della pianificazione territoriale e ambientale, delle politiche del lavoro e dello sviluppo economico, della migliore distribu- zione e del potenziamento dei servizi alle persone, della semplificazione dell’attività amministrativa e finanziaria.

Inoltre, l’accordo prevedeva alcuni progetti finalizzati al migliora- mento della qualità della vita; il servizio ferroviario di bacino, l’ubicazione dei servizi ospedalieri e scolastici e la semplificazione dell’attività ammi- nistrativa rivolta ai cittadini anche mediante l’estensione progressiva degli sportelli automatici per le certificazioni.

Riguardo la struttura organizzativa, l’Accordo per la città metropoli- tana prevedeva l’istituzione della Conferenza metropolitana bolognese composta da tutti i sindaci dei comuni e dal presidente della provincia con il compito di fissare le linee comuni di comportamento e la costitu- zione di uffici e strutture comuni articolati in tre aree (economico-terri- toriale, socio-culturale, amministrativo-finanziaria).

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L’Accordo per la città metropolitana di Bologna sembrava capovol- gere concettualmente l’impostazione della legge 142/90 focalizzando prima l’attenzione sulle funzioni sovracomunali da svolgere su area va- sta e solo successivamente delimitando territorialmente l’area e proce- dendo con un metodo partecipativo, ciò nella convinzione che in tale processo di riordino istituzionale gli enti locali dovessero necessaria- mente svolgere un ruolo primario. L’art. 2 della l.r. n. 33 del 1995 affer- mava infatti che la ripartizione delle funzioni amministrative fra i comu- ni e la città metropolitana, ad opera della legislazione regionale, si ispi- rasse ai principi di cooperazione delle amministrazione interessate, di sussidiarietà, di semplificazione dell’azione amministrativa, di progres- sività nel trasferimento delle funzioni attribuite e di corrispondenza tra queste e le risorse assegnate.

La Regione Sicilia con tre decreti presidenziali del 1995 aveva indi- viduato e delimitato le aree metropolitane di Palermo, Catania e Mes- sina fissando al 31 dicembre 1995 il termine per il completo svolgi- mento di tutti gli adempimenti. La concreta realizzazione aveva però incontrato notevoli difficoltà e i tempi si dilatarono. Bisogna sottoli- neare la diversa prospettiva adottata da questa Regione (rispetto a quella dell’Emilia Romagna); aveva infatti delimitato le aree metropo- litane autoritativamente e nel merito solo le tre province indicate ave- vano dato parere positivo. La delimitazione effettuata dalla Regione con deliberazione della giunta nel marzo 1995 si poneva in una posi- zione intermedia tra un’ipotesi ristretta che considerava il comune capoluogo ed i soli comuni limitrofi, ed una ampia praticamente coin- cidente con il territorio delle province: le aree individuate interessa- vano infatti mediamente il 75% della popolazione ed il 25% del terri- torio delle singole province.

Sviluppi successivi

Il Capo VI della l. n. 142 del 1990 è stato in seguito sostituito dalla l.

n. 265 del 1999 e le innovazioni normative sono così confluite nel d.lgs.

267 del 2000, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali.

Il Tuel ha confermato l’originario modello strutturale di governo me-

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tropolitano, ma ha mutato la procedura per la costituzione delle aree metropolitane: sono gli enti locali interessati, ora, che propongono alla Regione di procedere alla concreta delimitazione territoriale dell’area metropolitana (art. 22). Nell’area metropolitana il comune capoluogo e gli altri comuni ad esso uniti da contiguità territoriale e da rapporti di stretta integrazione di ordine economico, ambientale, sociale, culturale,

«possono costituirsi in città metropolitane ad ordinamento differenzia- to» (art. 23, 1° comma). L’Assemblea dei rappresentanti degli enti locali interessati - convocata dal sindaco del comune capoluogo e dal presi- dente della provincia – adotta, su conforme deliberazione dei consigli comunali, una proposta di statuto della città metropolitana che ne indi- chi il territorio, l’organizzazione, l’articolazione interna e le funzioni (art.

23, 2° comma). La proposta di istituzione della città metropolitana vie- ne dunque sottoposta a referendum, e se riceve il voto favorevole della maggioranza degli aventi diritto al voto, espressa nella metà più uno dei comuni partecipanti, viene presentata dalla Regione ad una delle due Camere per l’approvazione con legge (art. 23, 3° comma). La città me- tropolitana, ente di governo dell’area metropolitana, sostituisce la pro- vincia, salvaguardando l’identità delle originarie collettività locali.

Nella procedura di istituzione della città metropolitana c’è anche una fase di esercizio coordinato delle funzioni (art. 24) in ambiti sovracomunali definiti dalla Regione, previa intesa con gli enti locali interessati, mediante forme associative e di cooperazione ma anche accordi amministrativi (v. l’art. 15 della l. 241 del 1990). Le materie sono stabilite dal Tuel: dalla pianificazione territoriale alla tutela e valorizzazione dell’ambiente, dai piani di traffico intercomunali allo smaltimento dei rifiuti, ecc. Che cos’è? Una prova generale? Un gra- duale avvio all’integrazione metropolitana? Un esperimento? Può es- sere, forse, uno strumento utile per evitare la complessa procedura sopra descritta, per sollecitare la costituzione di accordi organizzativi tra gli enti locali interessati. Ma come si fa? Con legge regionale, con delibera della Giunta regionale? Come sono definite queste disposi- zioni regionali?

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Prospettive future

Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, con la l.c. 18 otto- bre 2001, n. 3, la città metropolitana è diventata un nuovo ente autono- mo, con propri statuto, poteri e funzioni secondo i principi costituzio- nali (art. 114). Ma questa nuova disciplina supera la precedente, conte- nuta nel Tuel?

La l. “La Loggia” 5 giugno 2003, n. 131, contenente norme per la prima attuazione della l.c. 3/2001, ha delegato il Governo a riformare il Tuel per adeguarlo alle nuove disposizioni costituzionali che, con ri- guardo all’ordinamento degli enti locali, riservano alla legislazione esclu- siva dello Stato solo la disciplina degli organi di governo, delle funzioni fondamentali e del sistema elettorale [art. 117, 2° comma, lett. b)].

Si attende pertanto anche un adeguamento dei procedimenti di istituzione della città metropolitana al nuovo art. 114 Cost., fermo restando - come enunciato dall’art. 2, 4° comma, lett. h) della l. “La Loggia” - il principio di “partecipazione degli enti e delle popolazioni interessati”, sotteso agli artt. 132 e 133 Cost. Il legislatore delegato, in particolare, dovrà individuare e disciplinare gli organi di governo del- le città metropolitane e il relativo sistema elettorale [art. 2, 4° comma, lett. i)], definire la disciplina dei casi di ineleggibilità, di incompatibi- lità e di incandidabilità alle cariche elettive [art. 2, 4° comma, lett. l)], nonché le funzioni fondamentali ai sensi dell’art. 117, 2° comma, lett.

p) Cost. (art. 2, 1° comma). Insoluti rimangono tuttavia, nella l. 131, alcuni problemi: quello della dimensione territoriale e demografica dei nuovi enti, ad esempio (problema affrontato invero nei primi pro- getti di legge sulla riforma degli enti locali e in particolare nel c.d.

Progetto Pavia del 1976); e, ancor più delicato, quello del concreto inserimento delle città metropolitane nel sistema complessivo e dei loro rapporti con gli altri enti territoriali, stante la necessità di evitare la moltiplicazione dei livelli di governo: sarà possibile che le città me- tropolitane si sostituiscano integralmente alle province ovvero ai co- muni? [F. Pizzetti, Le deleghe relative agli enti locali (commento all’art.

2), in Falcon G., (a cura di) Stato, Regioni ed enti locali nella legge 5 giugno 2003, n. 131, Il Mulino 2003, p. 60].

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Numerosi, insomma, sono i temi aperti: l’attuazione costituzionale, in primis, ma anche la revisione degli statuti regionali e la delimitazione delle nuove competenze legislative regionali in tema di enti locali.

Ci si chiede se l’attuale disciplina normativa sia sufficiente a garanti- re l’integrazione urbanistica ed economico-sociale nelle grandi aree ur- bane e dunque effettività all’esercizio delle funzioni amministrative e dei servizi in tali territori. Forse è meglio organizzare le competenze degli enti locali senza pensare alla città metropolitana? In quali ambiti?

In quali materie?

Si deve prendere atto che le “città metropolitane” esistono già nella realtà del nostro territorio – a prescindere da una dimensione istituzio- nale e da definiti confini amministrativi – ed impongono lo sviluppo di più efficaci politiche di governo del territorio, inteso in senso lato, attra- verso strumenti diversi da quelli utilizzati fino ad ora, che ricerchino soprattutto rapporti interattivi e non contrapposizioni, in aderenza alle situazioni concrete.

Il notevole sviluppo – sotto l’aspetto demografico, economico, urba- nistico – dei comuni che, con Padova, vanno a costituire l’“area urbana padovana” è ormai una realtà che costringe a ripensare il governo del territorio di una, ormai, “grande città”, ovvero di una città che ha acqui- stato nel tempo indiscutibili caratteristiche “metropolitane”, sebbene non riconosciute espressamente dalla legge. Come ha ben rilevato Mau- rizio Mistri (nel suo Economia di Padova tra vincoli e possibilità, Cedam, 2001) la vigente disciplina italiana in materia di aree e città metropolita- ne appare infatti «dirigista, burocratica», là dove definisce una volta per tutte le realtà urbane metropolitane «ignorando i processi spontanei che avvengono nell’economia e nel territorio». Come si diceva, proprio tali processi spontanei hanno invero determinato notevoli mutamenti nell’area padovana, tali da richiedere un coordinamento delle prioritarie ed urgenti politiche locali (della mobilità, della riqualificazione ambien- tale, dei servizi) ed insieme una loro integrazione con la pianificazione del territorio, ed in generale il governo del territorio «che comprende, in linea di principio, tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla

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localizzazione di impianti o attività» (Corte cost. 7 ottobre 2003, n. 307).

La rigidità della legislazione italiana in materia non consente di adot- tare la soluzione “istituzionale” di città metropolitana. Occorre pertan- to cercare forme diverse di integrazione di compiti e ruoli, in una di- mensione di area vasta, nei settori fondamentali dell’amministrazione locale, superando la frammentazione politico-istituzionale quale fonte di debolezza. In questa direzione si sono mossi i comuni di Padova e cintura, nonché la provincia, che nel maggio 2003 hanno stipulato un accordo di costituzione della Conferenza metropolitana di Padova configurata come «tavolo di concertazione» avente il compito di «svol- gere azioni ed iniziative al fine di costituire una comune base di accordi organizzativi e funzionali» nelle aree economico-territoriale, socio-cul- turale, amministrativo-finanziaria.

L’individuazione delle forme di cooperazione intercomunale dipen- de comunque dalle scelte del legislatore, statale e regionale. Il principio di cooperazione tra comuni e province fra loro e con la Regione è enun- ciato espressamente «al fine di realizzare un efficiente sistema delle au- tonomie locali al servizio dello sviluppo economico, sociale e civile»

(art. 4, 4° comma, Tuel) e alle Regioni è demandato il compito di stabi- lire le «forme e modi della partecipazione degli enti locali» alla forma- zione non soltanto dei piani e programmi regionali, ma altresì degli «al- tri provvedimenti della Regione» (art. 5, 3° comma, Tuel). Detto princi- pio di cooperazione – in un’ottica di «procedimentalizzazione» delle scelte mirate al conferimento di funzioni – è stato ulteriormente poten- ziato dalla l. 59/1997, là dove ha stabilito che le Regioni provvedano al conferimento delle funzioni «sentite le rappresentanze degli enti loca- li», con la facoltà anche di ascoltare «gli organi rappresentativi delle autonomie locali, ove costituiti» (art. 4, 1° comma). Ancora, il d.lgs.

112/1998, allo scopo di consentire appunto, nel rispetto delle proprie competenze, l’azione coordinata fra i vari livelli di governo substatali, ha disposto che le Regioni, nell’ambito della propria autonomia legisla- tiva prevedano «strumenti e procedure di raccordo e concertazione, anche permanenti, che diano luogo a forme di cooperazione strutturali e funzionali» (art. 4, 5° comma, Tuel).

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Se, sul fronte ora considerato, dopo la l. 142/1990 si era assistito, a parte qualche eccezione, ad una sorta di “immobilismo” regionale, dopo le “leggi Bassanini” si è registrato un rapido sviluppo del c.d. «sistema delle Conferenze», quale risposta, di carattere strutturale, alle esigenze di raccordo sopra evidenziate.

Il sostanziale fallimento del tentativo innovatore avviato con la legge del 1990 non ha impedito dunque di avviare “pragmaticamente” politi- che metropolitane (v. Roma, Bologna, Firenze) su molteplici questioni:

dalla pianificazione territoriale alla tutela ambientale, dai rifiuti ai servi- zi energetici, dalla mobilità alle grandi infrastrutture, impiegando stru- menti quali gli “accordi” o “patti” metropolitani, nonché nuove sedi di concertazione e di elaborazione comune come le già citate “conferenze metropolitane” dei sindaci (L. Vandelli, Ordinamento delle autonomie locali. 1990-2000. Dieci anni di riforme, Maggioli 2000, p. 385 s.). La sperimentazione di un modello di governance metropolitana, ispirato a criteri di flessibilità e di cooperazione, può fondarsi inoltre su altre for- me associative previste dal legislatore, come ad esempio lo strumento della convenzione - di cui all’art. 30 del d.lgs. 267/2000 - anche al fine di costituire «uffici comuni», operanti con «personale distaccato» degli enti partecipanti, per l’esercizio delle funzioni pubbliche ma anche in particolare per la predisposizione e l’espletamento di tutte le attività di studio e di indagine propedeutiche all’esercizio del potere programmatorio degli enti partecipanti all’accordo. Emblematiche a tal proposito sono le Agenzie-Autorità recentemente istituite per la mobi- lità metropolitana.

È evidente, insomma, che il modello «cooperativo» pensato con ri- guardo fondamentalmente ai rapporti Stato-Regioni – e sviluppatosi nei rapporti tra queste ultime e gli enti territoriali minori, nelle materie di comune competenza – è destinato a trovare applicazione anche nei rap- porti tra gli enti locali. Leale collaborazione, dunque – attraverso istanze di partecipazione, di intesa, di accordo o più semplicemente di coordi- namento – da non vedere più come un “mito” (F. Merloni, in Le Regioni 1997, p. 825). E a questo punto c’è da chiedersi se sia da ripensare radi-

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calmente la scelta legislativa di risolvere i problemi sovracomunali attra- verso un modello strutturale forte di governo metropolitano, anziché, appunto, privilegiare una coesione di tipo funzionale, che ha peraltro il pregio di produrre un minor impatto sulla rappresentanza politica delle collettività amministrate e di non incidere sulle circoscrizioni elettorali.

L’obiettivo di dare un “governo” alla crescita e alla vita delle aree metropolitane non passa necessariamente per l’istituzione di nuove au- torità (v. la Germania), ma richiede un graduale intervento che nel suo avvio non può che essere di carattere funzionale (M. Cammelli, in Reg.

e gov. loc. 1990, p. 15).

Vittorio Domenichelli Docente di Diritto Amministrativo Università di Padova Paola Santinello Docente di Diritto Amministrativo Università di Padova

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CITTÀ METROPOLITANA E PROBLEMA DELLA GOVERNANCE

Premessa

In Italia la vicenda della governance delle grandi aree urbane sta or- mai volgendo verso il suo declinante epilogo, a dimostrazione che l’ap- parato legislativo che era stato creato si è dimostrato di fatto incapace di offrire un sistema di regole con le quali costruire delle vere e proprie

“comunità metropolitane”.

In questo intervento la questione della creazione, in Italia, delle città metropolitane viene inquadrata all’interno di un fenomeno che certa- mente non è solo italiano ma che, anzi, in Italia si è cercato di inquadra- re normativamente solo in tempi abbastanza recenti, senza peraltro riu- scirvi in modo adeguato. Ne deriva che al centro dell’analisi qui condot- ta sta la valutazione critica della normativa italiana in materia di “città metropolitane”; si tratta di una valutazione che viene condotta secondo un’ottica funzionale. In altri termini, in primo luogo occorre compren- dere se il nostro legislatore sia partito da una valutazione corretta della realtà delle città metropolitane italiane e, in secondo luogo, se sia in grado di offrire alle aree dove si collocano le città metropolitane uno strumento adeguato per la governance dei loro territori, comprendendo in modo adeguato la natura delle problematiche che oggi toccano le diverse realtà metropolitane del Paese ed anche la natura delle strategie che le aree metropolitane dovrebbero affrontare.

Città moderna e città metropolitana

La letteratura scientifica relativa alla funzione della città certamente è molto vasta e sarebbe fuori dalla dimensione di questo lavoro fare puntuali e completi riferimenti bibliografici. Tra l’altro, il fenomeno

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urbano va studiato nella sua multidimensionalità, dal momento che su di esso influiscono le ragioni dell’economia, quelle della sociologia, quelle della politologia e quelle del diritto, tanto per stare nel solco delle disci- pline più strettamente sociali.

Nella sfera della complessa attività politica la città sembra vissuta come un “accidente” di cui governare i processi evolutivi più in termini di repressione degli stessi che non in termini di valorizzazione delle loro potenzialità. Di quelle potenzialità che sono espressione di una creativi- tà auto-organizzativa del rapporto “abitare/lavorare” che la città è in grado di esprimere. La città, quindi, si qualifica per la sua capacità di organizzare nel territorio le diverse attività umane e può essere vista come uno spazio di relazioni (Camagni,1993,p.27). Si tratta di relazioni che traggono la loro forma anche dall’estensione e dalla densità delle reti connettive che nella città si formano. Nel contempo l’estensione di tali reti rende possibili specializzazioni funzionali che altrimenti non sa- rebbero possibili.

Non tutte le città possono esercitare le medesime funzioni, per cui esse si ordinano nel territorio secondo forme logiche di gerarchizzazione. Al vertice si trovano le “città globali”, dove sono concentrate le funzioni di controllo del sistema finanziario mondiale (Vicari Haddock, 2004, p.9).

In particolare, ciò che caratterizza la città globale, secondo Sassen (2003,p.8), è una funzione dei networks transnazionali, nel senso che le città globali sono dei nodi primari all’interno di un reticolo di città che svolgono funzioni avanzate. La crescita di ruolo delle città globali ha sicuramente accentuato le distanze di tipo funzionale tra tali città e le città che globali non sono. Se le città globali sono necessariamente città di tipo metropolitano, purtuttavia non tutte le città di tipo metropolita- no hanno le caratteristiche di città globali.

È evidente che la moderna economia globale accentua la gerarchizzazione delle città fra di loro, assegnando comunque un ruolo significativo alle città metropolitane, anche se non globali. Tuttavia, si tratta di ruoli che le città debbono conquistarsi e che possono mantene- re solo competendo l’una contro le altre per l’acquisizione nel proprio

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territorio di assets strategici, come particolari infrastrutture e/o insediamenti, che diano loro un vantaggio competitivo rispetto alle città concorrenti. Il concetto di competizione tra aree urbane presenta punti di somiglianza con quello, interpretabile estensivamente, di competi- zione tra imprese, se per competizione si intende “il rafforzamento del- la capacità di generare risorse sempre migliori e trasformarle in compe- tenze distintive (Caroli, 1999, p.30).

In modo particolare, come annota Lever (2002), la capacità competitiva di una città è, in larga misura, funzione della “conoscenza”

che è in essa concentrata. Naturalmente, perché la città abbia la capaci- tà di essere un luogo di produzione di innovazione, sia tecnologica che culturale, divenendo quindi un milieu innovateur (Camagni, 1994), e cioè un luogo nel quale strutture diverse orientate alla innovazione si integrino tra di loro, è necessario che in essa siano create infrastrutture di tipo avanzato e che vi si insedino attività produttive decisamente innovative. Strutture di ricerca, parchi tecnologici, istituzioni universi- tarie, istituzioni culturali, editoria e media fanno di una città un luogo capace di produrre conoscenza e di attrarre persone ad elevata qualifi- cazione professionale, nonché imprese capaci di produrre beni ad ele- vato contenuto tecnologico, società di servizi avanzati.

Questi assets di norma si trovano tutti assieme in città di rilevanti dimensioni perché tendono a collocarsi contiguamente l’uno agli altri, in quanto la vicinanza fisica è una delle condizioni per la creazione di efficaci economie esterne. Insomma, le grandi città si qualificano come milieux capaci di produrre innovazione.

La visione strategica della città metropolitana. problemi

La città di tipo metropolitano è in grado di assicurare la presenza di simili assets o, per lo meno, è in grado di creare le condizioni affinché essi si incardino nell’area metropolitana che si considera. In generale si può osservare che, per assicurare tali condizioni, è necessario che ci sia

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una pre-condizione e cioè che la città abbia uno spazio fisico sufficien- temente ampio per potervi allocare tutti i necessari tipi di funzione. Al- trimenti la città non può far altro che allocare funzioni di tipo primario, o elementari, abbandonando quelle di tipo superiore. In altri termini, perché una città possa svolgere funzioni di tipo metropolitano è neces- sario che abbia una estensione di tipo metropolitano.

È indubbio che le tradizionali politiche di pianificazione urbanistica si limitano a governare in qualche modo i processi che avvengono nel territorio, ma che sono incapaci di “creare i processi” (Chesire, 1999) concependo il territorio come una risorsa destinabile ad utilizzi alterna- tivi. Appare evidente che le diverse destinazioni non sono indifferenti le une rispetto alle altre in rapporto sia ai processi di sviluppo economico che alla acquisizione di ruoli di tipo “metropolitano”. Un modo per migliorare la capacità di acquisire tali ruoli è certamente il marketing territoriale. Indubbiamente, ci sono specificità che differenziano il marketing territoriale da quello aziendale, anche perché il marketing ter- ritoriale ha a che fare con una conflittualità di obiettivi che corrisponde ad una sostanziale conflittualità di interessi tra gruppi sociali ed econo- mici che operano all’interno di un’area metropolitana. Emerge, allora, il problema della titolarità della funzione di definizione delle strategie di marketing territoriale. Accanto a tale problema si colloca quello, di non piccola rilevanza, relativo alla disponibilità di aree che possono servire ai fini di una determinata strategia di marketing territoriale. Si tratta di un problema rilevante soprattutto nel caso in cui le aree teoricamente interessate a progetti di marketing territoriale appartengono, dal punto di vista amministrativo, a Comuni diversi tra di loro, con obiettivi stra- tegici non sempre coincidenti. La soluzione del problema non è certa- mente facile perché esso diviene la sommatoria di due ordini di proble- mi. Uno di questi è dato dalla possibilità di mettere assieme i diversi soggetti ed attori sociali che operano all’interno di ogni Comune; l’altro è dato dalla possibilità di mettere d’accordo i diversi Comuni, rappre- sentati dalle loro istituzioni politiche. Se è certamente difficile “fare marketing territoriale” in una realtà urbana che è sotto il controllo am- ministrativo di un unico Comune, è ancor più difficile farlo quando al realtà urbana è sotto il controllo di più Comuni.

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La città metropolitana come alleanza tra città di dimensioni limitate In molti casi è ormai accaduto che la crescita di un Comune avvenga per linee esterne al territorio del Comune stesso, coinvolgendo Comuni di quella che si può definire la sua “cintura”. Una crescita di questo tipo modifica la geografia urbana dei Comuni della cintura e nello stesso tempo rende difficile al Comune centrale sviluppare una pianificazione dell’area che sia pensata in termini strategici, e cioè volta ad ottenere assets che assicurino all’area stessa vantaggi competitivi di tipo metro- politano. Anzi, non poche volte nei Comuni della cintura si sviluppano comportamenti di tipo opportunistico, nel senso che essi sono portati ad approfittare della crescita qualitativa del Comune centrale, ad esem- pio, per “rubargli” popolazione. Dal momento che ormai una parte si- gnificativa di entrate fiscali dei Comuni sono determinate dalle imposte sulle residenze è evidente che si instaura tra i Comuni della cintura ed il Comune centrale una competizione per l’acquisizione di entrate;

acquisizione di entrate che, a sua volta, è una pre-condizione per assicu- rare adeguati livelli ai servizi pubblici che i Comuni stessi debbono for- nire ai loro cittadini.

Ad esempio, il Comune centrale ed un Comune ad esso contiguo potrebbero essere chiamati a valutare se fare un parco pubblico oppure abitazioni in aree che essi hanno confinanti tra loro. Nel caso in cui decidesse di costruire un parco il Comune dovrà sostenere dei costi di avviamento e di manutenzione. Ne deriva che è economicamente con- veniente per entrambi i Comuni porsi in competizione sul piano della politica abitativa, sacrificando aree verdi che potrebbero essere utili ad entrambe le comunità. Che soluzione sarebbe altrimenti possibile? Una soluzione possibile, ma astratta, starebbe in un accordo fra i due Comu- ni in virtù del quale il Comune che concede licenze edilizie nel proprio territorio assegni, vita natural durante, una parte delle entrate derivanti dalla fiscalità sulle abitazioni costruite nel proprio terreno all’altro Co- mune, a quello che costruisce un parco pubblico, in modo da coprire il costo che tale Comune deve sostenere per la gestione del parco. Insom- ma, il costo del parco di un Comune verrebbe finanziato con le costru- zioni dell’altro Comune. Questo, grosso modo, è quanto può accadere

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in una città unitaria dal punto di vista amministrativo, nella quale il Sindaco abbia a cuore l’equilibrio di bilancio.

Ci si rende conto che una forma di perequazione di questo tipo tra Comuni amministrativamente separati appare alquanto difficile da rag- giungere, per cui è difficile che i due Comuni mettano in atto strategie cooperative. Un’altra soluzione potrebbe essere rappresentata da un ac- cordo fra i due Comuni per destinare ciascuno una parte delle aree in questione a verde pubblico e l’altra parte ad abitazioni. Anche questa può considerarsi una strategia cooperativa, comunque un po’ diversa da quella prospettata in precedenza, ma più facile da perseguire.

Purtuttavia, le ragioni perché una molteplicità di centri contigui pos- sano cercare di coordinare le loro strategie permangono, soprattutto se si ragiona in termini di allocazione strategica del territorio. Di fatto, la sommatoria di 20 Comuni di 30.000 abitanti ciascuno, connessi l’uno all’altro, non rappresenta un’area di tipo metropolitano; non la rappre- senta soprattutto se ciascun Comune alloca il territorio secondo una visione comunocentrica. Si è detto che una città metropolitana è tale se riesce a richiamare attività di ordine superiore. Se i 20 Comuni soprad- detti vanno in ordine sparso è pensabile che non riusciranno ad offrire infrastrutture capaci di attirare attività di tipo superiore. Rimarranno un insieme di piccoli centri. Perché questo insieme diventi un’area di tipo metropolitano occorre che vi sia un disegno condiviso e che certi obiettivi da raggiungere mediante opportune allocazioni del territorio sia raggiungibili attraverso intese di tipo programmatico. Ebbene, si immagini che uno dei 20 suddetti Comuni possieda una Università e che abbia creato una struttura di ricerca in un Comune a lui vicino.

Tutta l’area potrebbe trarre vantaggio dalla creazione presso il centro di ricerca di un parco tecnologico tematico, legato ai programmi di ricerca del centro scientifico. Perché ciò avvenga occorre che il Comune che ospita il centro di ricerca conceda il terreno per la creazione del parco tecnologico, da destinare ad imprese high tech che vengono da fuori, sem- mai da paesi stranieri. Se, invece, il Sindaco di tale Comune ritenesse di avere un interesse, elettorale e localistico, a collocare in tale terreno un’area artigianale, il progetto di richiamare imprese high tech fallirebbe e l’intera area rimarrebbe un semplice insieme di piccoli centri arretrati.

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È evidente come gli interessi di breve periodo, a connotazione elettoralistica, possano far aggio su visioni strategiche più ampie e que- sto spiega, come si vedrà, perché di fatto emerga, malgrado le difficoltà, l’esigenza di trovare formule di coordinamento tra diversi Comuni con- tigui. Spesso si guarda alle questione del traffico come a quelle più rile- vanti. Anche su questo terreno le soluzioni cooperative sono difficile da raggiungere, soprattutto se ciascun Comune considera i flussi di traffico come un problema a se stante e non come espressione di dinamiche più ampie il cui governo dipende proprio dalla capacità cooperativa dei di- versi Comuni. In realtà per trovare soluzioni condivise, e cooperative, ai problemi minori bisognerebbe guardare alle grandi questioni dello svi- luppo e della evoluzione più moderna delle società locali. È su questo terreno che si gioca il destino delle future generazioni ed è su questo terreno che si misura la capacità progettuale di un’area che vuole essere

“metropolitana”. La grande difficoltà che si può incontrare nel mettere assieme un certo numero di Comuni contigui sta nel fatto che l’elettore sovrastima il suo interesse di breve periodo del vivere in una piccola comunità senza grandi ambizioni e sottostima i vantaggi di lungo perio- do del vivere in una grande comunità con molte ambizioni. Il problema è cognitivo e, ad un tempo, culturale e pone interrogativi seri alle elites politiche che governano i diversi Comuni.

Il fatto che esistano degli interessi che meglio potrebbero essere per- seguiti attraverso strategie cooperative dei soggetti coinvolgibili non as- sicura, comunque, che tali soggetti vogliano adottare una strategia coo- perativa, soprattutto se il gruppo è sufficientemente grande. Probabil- mente atteggiamenti cooperativi possono emergere quando il gruppo è sufficientemente piccolo (Olson, 1983); tuttavia, come annota Olson (cit.), tale condizione preliminare spesso deve essere accompagnata da una qualche forma di coercizione o a qualche strategia volta spingere i diversi soggetti ad agire nel loro proprio interesse. Di fatto, è possibile ottenere l’adozione di comportamenti cooperativi quando esistono del- le forze coercitive oppure degli incentivi. Possibili incentivi sono rap- presentati dalla quota di benefici, o del costo, che ogni membro del gruppo potrà ritagliarsi. Tuttavia, nota Olson (cit., p.15), nella riparti- zione del costo degli sforzi volti a conseguire un obiettivo comune vie è

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nei piccoli gruppi una sorprendente tendenza allo “sfruttamento” delle risorse del grande da parte dei piccoli. Alla base di tale meccanismo ci possono essere fattori cognitivi che possono portare un soggetto a rite- nere peggiorata la propria posizione, anche in presenza dell’acquisizione di un vantaggio assoluto, qualora il partner acquisisse un vantaggio rela- tivo. Questo risultato sminuisce certamente la portata di una statuizione largamente condivisa nella teoria dei giochi ripetuti (Axelrod, 1984) secondo cui la cooperazione si manifesta quando i soggetti coinvolti stimano che il valore attuale dei guadagni futuri superi una certa soglia.

Allora si tratta di individuare un qualche criterio con cui definire i gua- dagni futuri che i Comuni potrebbero ricavare da una politica di coope- razione. Ad esempio, si supponga che il Comune centrale sia soffocato da grandi flussi di traffico di attraversamento per cui avrebbe bisogno di distogliere tali flussi con un raccordo che passi all’esterno ed attraver- si Comuni della cintura. Tale raccordo, per i Comuni della cintura, rap- presenta in parte una servitù, anche se per altri versi può rappresentare una opportunità di collegarsi più rapidamente con l’area centrale me- tropolitana ed anche con gli altri Comuni della cintura. Lo scontro fra gli interessi “locali” e quelli “generali” è evidente, così come è evidente la necessità di trovare delle compensazioni alle servitù che nei Comuni attraversati in qualche modo si generano. Comunque, si tratta di uno scontro che può affievolirsi se aumenta il livello di identificazione negli interessi generali da parte di tutti i componenti dell’area metropolitana.

L’istituzione della città metropolitana in Italia

Va osservato che in tutti i paesi avanzati si è verificata una trasforma- zione strutturale del ruolo, della dimensione e delle articolazioni funzionali delle grandi città, tanto da porre l’esigenza di trovare nuove regole per assicurare la governance di tali aree urbane.

Può sembrare paradossale, ma fino ad un certo punto, un Paese come l’Italia, malgrado la grande tradizione che in esso hanno le città come luoghi di formazione della cultura e del sapere, non è stato in grado di individuare modalità idonee a garantire la nascita delle “nuove super-

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città”, capaci di interpretare in modo aggiornato il rapporto tra forma della città e produzione dell’innovazione.

Come è noto, è con la legge 8 giugno 1990 n.142, nell’ambito della riforma del titolo V della Costituzione, dedicato alle autonomie locali, che si introduce l’istituto delle “aree metropolitane” individuando le competenze delle stesse ed individuandone il numero. Le aree metro- politane dovrebbero essere delimitate dalle Regioni, competenti anche al riordino, all’interno della città, delle circoscrizioni comunali; all’area metropolitana spettano, oltre alle funzioni normalmente spettanti alla Provincia, una serie di funzioni attribuite, nell’ambito delle materie in- dicare dalla stessa 142, dalla legge regionale (Vandelli, 2004, p.28). La normativa, non essendo fondata sulla individuazione delle funzioni del- la moderna città metropolitana, ma solo su logiche di tipo amministrati- vo, non prevede la possibilità che gruppi di Comuni si associno sponta- neamente per dar vita a città metropolitane, ma individua sulla carta quelle che il legislatore ritiene debbano essere, una volta per tutte, le città metropolitane italiane. Vale a dire che il legislatore non prevede che qualcuna di tali città metropolitane cessi di essere tale per declino irreversibile e non prevede che altre realtà urbane possano crescere di- venendo metropolitane a tutti gli effetti. Nella logica burocratica e tota- litaria della normativa vengono individuate dallo Stato le aree metropo- litane che sono Torino, Milano, Venezia,Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Bari. Inoltre si conferisce alle Regioni a Statuto speciale la possibilità di indicare le aree metropolitane. Quindi si aggiungono Trieste, Cagliari, Palermo, Catania e Messina.

Ricerca di una definizione realistica delle aree metropolitane

La normativa sulle aree metropolitane, non rispondendo a logiche di razionalità, finisce per riconoscere lo statuto di metropolitane anche ad aree che metropolitane non sono ed a negare tale statuto ad aree che invece lo sarebbero a pieno titolo, come Padova e Verona, ad esempio.

La logica vorrebbe che ad avere lo statuto di città metropolitane siano quelle aree urbane che effettivamente svolgono una funzione di tipo

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metropolitano. I criteri classificatori, in una materia come questa, han- no sempre una qualche dose di arbitrarietà, dovendo tener conto delle specificità nazionali; tuttavia, essi appaiono gli unici che abbiano un minimo di serietà operativa.

La qualifica di “metropolitana” da assegnare ad un’area urbana di- pende da molti fattori, e cioè dal peso demografico dell’area, dalle fun- zioni economiche che essa riveste, dalle funzioni internazionali che essa svolge, dalla capacità di riorganizzare il territorio attorno ad essa.

In merito alle funzioni internazionali svolte da un’area metropolita- na può essere utile riprendere il lavoro di Bonavero (1997) nel quale sono indicati tre gruppi di città di livello metropolitano in grado di svol- gere funzioni internazionali. Ebbene, il gruppo di primo livello è costi- tuito da Milano e Roma; il gruppo di secondo livello è costituito da Torino, Genova, Napoli, Firenze, Venezia e Bologna. Il gruppo di cen- tri internazionali di terzo livello è costituito da Trieste, Verona, Paler- mo, Bari, Catania, Cagliari e Padova.

Un altro utile criterio di individuazione può essere quello proposto da Dematteis (1997) secondo le interazioni di rete. Ebbene, Dematteis utilizza indicatori relativi alle interazioni di rete: dimensione, struttura della base economica, e grado di internazionalizzazione nelle reti globa- li (cit., p.349 sgg.). Sulla base dei criteri individuati, Dematteis propone 8 classi di sistemi urbani.

La prima classe individua i “grandi sistemi dinamici e aperti”. Tali sistemi hanno una dimensione demografica superiore ai 500.000 abi- tanti e/o dimensione occupazionale superiore ai 150.000 posti di lavo- ro. Presentano una specializzazione terziario/produttiva evoluta ed una gamma di funzioni internazionali completa, o quasi. Comprende sette sistemi urbani, e cioè Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna, Padova e Verona. La seconda classe individua i “grandi sistemi aperti”. Essi hanno una dimensione demografica superiore ai 500.000 abitanti e/o dimensione occupazionale superiore a 125.000 posti di lavoro. Rispetto al primo gruppo presentano una minore differenziazione della base eco- nomica ed una gamma di funzioni internazionali un po’ più ristretta;

comprende sette sistemi urbani, e cioè Napoli, Genova, Palermo, Vene- zia, Catania, Bari e Cagliari.

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Ragionando secondo la logica del legislatore, e cioè individuando sulla carta i grandi sistemi urbani degni di essere chiamati metropolita- ni, dopo aver identificato un criterio funzionale, va da sé che certamen- te i primi sette sistemi urbani meriterebbero la qualifica di città metro- politane; volendo allargarne il numero si potrebbe pensare anche ai se- condi sette.

Una terza classificazione, sempre proposta da Dematteis (cit.), è re- lativo a quello che l’autore chiama il grado di “coesione regionale”, e cioè degli effetti diffusivi che l’area metropolitana esercita sui sistemi urbani limitrofi. In base a tale criterio vengono individuati due sistemi metropolitani. Un primo sistema è costituito dalle aree di Milano, Roma, Firenze, Torino, Bologna, Bari, Napoli, Palermo, Venezia, Cagliari, Ca- tania, Genova. Il secondo sistema è costituito da Padova, Verona, Vicenza, Brescia, Bergamo, Udine, Trieste, Parma e Modena. C’è poi un terzo livello che raccoglie 32 sistemi urbani.

A questo punto può essere utile individuare le aree metropolitane italiane come quelle che si ritrovano in tutti i criteri classificatori ripor- tati, e cioè nell’intersezione delle classi di città metropolitane interna- zionali, delle classi di città metropolitane funzionali e delle classi di città metropolitane a coesione regionale. Si considerano le prime tre classi.

Ebbene, le città che appartengono ad almeno una delle tre classi delle tre categorie sono le seguenti:



 5XROR

LQWHUQD]LRQDOH 5XROR

IXQ]LRQDOH 5XROR

FRHVLYRUHJOH

0LODQR ; ; ;

5RPD ; ; ;

7RULQR ; ; ;

*HQRYD ; ; ;

1DSROL ; ; ;

)LUHQ]H ; ; ;

9HQH]LD ; ; ;

%RORJQD ; ; ;

3DGRYD ; ; ;

3DOHUPR ; ; ;

%DUL ; ; ;

&DWDQLD ; ; ;

&DJOLDUL ; ; ;

9HURQD ; ; ;



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Dalle intersezione tra le tre classi, dunque, è possibile individuare le aree urbane che possiedono tutte e tre le caratteristiche di tipo metro- politano. Esse sono: Milano, Roma, Torino, Genova, Napoli, Firenze, Venezia, Bologna, Padova, Palermo, Bari, Catania, Cagliari, Verona.

Rispetto alle città metropolitane individuate dal legislatore si vede che il legislatore ha trascurato, come si è detto, due realtà metropolitane effettive quali Padova e Verona ed ha inserito due realtà urbane che non hanno i caratteri di aree metropolitane, e cioè Trieste e Messina; que- st’ultima, addirittura, non ne possiede neppure uno.

Volendo tentare una graduatoria ipotizzo di assegnare il peso 6 alla appartenenza al primo livello di ciascuna categoria, il peso 4 alla appar- tenenza al secondo livello ed il peso 2 alla appartenenza al terzo livello.

Il risultato è il seguente:

Le valutazioni quantitative mettono in luce come vi siano delle diffe- renze di composizione, nella valutazione del ruolo metropolitano delle principali città italiane, tra il gruppo definito per legge ed il gruppo definito sulla base di criteri più oggettivi. Nel secondo gruppo, come si è detto, non appaiono né Trieste (a cui manca una dimensione) né Mes- sina (a cui mancano tutte e tre le dimensioni). Per contro vi appaiono Padova e Verona.

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1DSROL    

*HQRYD    

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Le illogiche “logiche” politiche

Per comprendere la ragione per cui la normativa in materia di aree metropolitane, divenute poi “città metropolitane”, è nata male bisogna leggere il bel saggio di Rotelli (1999). Ebbene, dice Rotelli: “intanto erano dichiarate aree metropolitane, oltre alle cinque suddette (e cioè Roma, Milano, Torino, Napoli e Genova; mia nota), altre quattro: da un lato Bologna e Firenze e, dall’altro, Venezia e Bari, oggetto in Parlamen- to di uno scambio politico “tra partiti (DC e PCI), interessati a benefici (invero presunti) del rango metropolitano e, insieme ad una oculata re- visione territoriale dell’amministrazione locale a fini della conservazio- ne degli equilibri elettorali tradizionali del centro storico (Bologna-PCI).

Con siffatto “numero chiuso” allargato, cui erano da aggiungere i capo- luoghi delle due grandi isole regioni speciali (Sicilia e Sardegna), si esclu- deva la successiva estensione di un regime differenziato ad altre aree urbanizzate e si alterava quella scala dimensionale dell’area metropoli- tana che, da almeno un trentennio, costituiva la premessa condivisa del riassetto costituzionale” (cit.,p.316).

Va detto che il dibattito che si è immediatamente aperto in merito alla creazione delle aree metropolitane così individuate, evidenzia una grande incertezza relativamente ai rapporti tra area metropolitana e Regione di appartenenza. In una prima fase, le aree metropolitane sem- brano rivendicare poteri in competizione con le Regioni, a cui spette- rebbe comunque il compito di delimitare le aree metropolitane. Ne de- riva che c’è il rischio che l’area metropolitana si configuri come una mini-Regione in perenne contestazione dei poteri della macro-Regione.

Lo stesso problema si produce se si ritiene che l’area metropolitana debba avere poteri analoghi a quelli della Provincia. Di fatto si creerebbe una nuova Provincia che finirebbe per “uscire” dalla Provincia di apparte- nenza, portando ad una moltiplicazione del numero di Province.

Fondata prevalentemente sulla concezione clientelare dello scambio politico, la normativa sulle aree metropolitane trasmette il suo DNA alla successiva normativa sulle “città metropolitane”, varata nel 1999, mantenendo l’originario impianto autoritario e giacobino. In modo spe- cifico, la legge n. 265 del 1999 cerca di rivedere i percorsi con cui giun-

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gere alla creazione delle città metropolitane, puntando, come osserva Vandelli (2004, p.76), a un governo metropolitano costruito sulla base di scelte compiute, anzitutto, dalla stessa realtà locale interessata.

Secondo la nuova normativa alla Regione spetterebbe ancora il com- pito di delimitare l’area della città metropolitana, ma “su conforme pro- posta degli enti locali interessati”. Di fatto, spetterebbe ai Comuni deci- dere se far parte, oppure no, di una determinata città metropolitana.

Mentre si discute sul “vestito da cucire” per le città metropolitane si affermano, nella realtà, spinte dalla logica del tutto opposta. Ad esem- pio, nessuno può contestare che Monza faccia parte dell’area metropo- litana milanese; eppure Monza ha recentemente ottenuto lo statuto di Provincia, sottraendosi di fatto ad ogni coinvolgimento sulla costruzio- ne della città metropolitana milanese. Lo stesso discorso vale per Prato, relativamente ai suoi rapporti con l’area metropolitana fiorentina.

È mia opinione che il modo con cui le Città metropolitane sono state inserite tra le articolazioni amministrative della nostra Repubblica dalla recente riforma di tipo costituzionale non solo non sia adeguato a risol- vere il problema della governance delle aree metropolitane, così come si è venuto ponendo in Italia, ma che addirittura condanni la Città metro- politana all’impossibilità di funzionare. La ragione di questa impotentia operandi sta nel fatto che si è privilegiata una logica amministrativa ri- spetto ad una logica funzionale. Una critica di fondo che ritengo vada mossa alla impotente legislazione che l’Italia si è data in materia riguar- da, come si è detto, il metodo di individuazione delle città metropolita- ne. Il legislatore, infatti, ha voluto individuare, in modo autoritativo, le città metropolitane, sia che abbiano effettivamente le caratteristiche di città metropolitane, sia che tali caratteristiche non abbiano.

Invece, il legislatore avrebbe dovuto limitarsi ad individuare le ra- gioni per cui aree di rilevante importanza economica e demografica possono darsi istituzioni adatte a governare le complessità di tali aree attraverso accordi fra i Comuni interessati, individuando anche i diritti ed i doveri di tali Comuni. Quindi, avrebbe dovuto lasciare liberi i Co- muni che lo ritengono di aderire, oppure no, al progetto. La normativa del 1999 sembra muoversi in tale direzione, ma è subito in contrasto con l’idea che le città metropolitane possano essere definite sulla carta

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del legislatore. Tra l’altro il legislatore non ha valutato in modo adegua- to quali siano le strade che possano portare ad intese significative i Co- muni che appartengono ad una stessa realtà metropolitana. Soprattut- to, non ha valutato fino in fondo se esiste un qualche sistema di incenti- vi che sia in grado di far superare ai Comuni interessati la remora di rinunciare ad un’ampia sfera della propria autonomia.

Comunque sia, le modalità con cui i Comuni possono accettare di dar vita ad un patto federativo possono essere varie ed esse dipendono in primo luogo dagli obiettivi di tipo funzionale che possono emergere dalla natura stessa del contesto al quale appartengono le diverse aree metropolitane.

Varie forme organizzative

Che esistano della valide ragioni perché alcuni Comuni appartenenti ad un’area che svolge funzioni metropolitane si uniscano in un qualche patto non significa, comunque, che la formula amministrativa che il patto può assumere debba essere unica. Ad esempio, Luigi Bobbio (2003, p.113) ha individuato sette forme di governo metropolitano. Di esse riporto le prime sei.

La forma più forte è certamente quella della “annessione”, in virtù della quale il Comune centrale si espande assorbendo i Comuni minori.

Così fecero New York e Roma nella prima metà del Novecento. In tem- pi più moderni questa strada è stata praticata da Anversa e Toronto.

Una seconda formula organizzativa è quella della “città-stato” o del- la “città-regione”; in tale caso l’area metropolitana viene eretta a stato federato o a regione, con tutti i poteri tipici di quel livello di governo. In Germania tale è il caso di Berlino, Amburgo, Brema; in Austria quello di Vienna; in Belgio quello di Bruxelles; in Spagna quello di Madrid.

Una terza formula è quella del “governo metropolitano di secondo livello direttamente elettivo”. Nell’area metropolitana è istituito un go- verno direttamente elettivo; sopravvivono i governi comunali al suo in- terno, seppure con poteri ridotti. A volte il Comune centrale viene sud-

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