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L'Indice dei libri del mese - A.03 (1986) n.07, luglio

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(1)

Testi di Goffredo Fofi, Danilo Manera, Luca RasteUo

Ho servito il re d'Inghilterra

di Bohumil Hrabal

Cesare Cases: Primo Levi ripensa l'assurdo

Carlo Dionisotti: Un pentito del *500

(2)

I I H I B I f f l ' M i l l P I M • H

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Sommario

4

Il Libro del Mese

Bohumil Hrabal: "Ho servito il re d'Inghilterra"

Testi di Goffredo Fofi, Danilo Manera, Luca Rastello

14

L'Intervista

"Rifare la mia vita, scrìvendo".

Henry Roth risponde a Mario Materassi

22

La Traduzione

Guido Paduano: Severino cerca Eschilo

24

Libri di Testo

27

Sommario delle Schede

43

Riletture

Carlo Dionisottt: Un pentito del '500

4 4

Intervento

Claudio Pavone: Il mandante non fa storia

L'Autore risponde

Luciano Canfora: Fuori tutti i documenti

62

Lettere

63

Libri economici

R E C E N S O R E A U T O R E TITOLO

6

Cesare Cases

Primo Levi I sommersi e i salvati

Luca Rastello

Bohumil Hrabal Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare

8

Vittorio Foa

Natalia Ginzburg Opere raccolte e ordinate dall'Autore

Francesco Spera

Renato Nicolini

Stefano Benni Comici spaventati guerrieri

10

Domenico Starnone

Marco Lodoli Diario di un millenio che fugge

Claudio Piersanti Charles Enrico Palandri Le pietre e il sale

11

Dario Puccini

Carlos Fuentes II gringo vecchio

Marcello Carmagnani

12

Giuseppe Sertoli

Graham Swift II paese dell'acqua

Gino Scatasta

Vieri Razzini Giro di voci

Guido Fink

Henry Roth Chiamalo sonno

15

Ferdinando Taviani

Alessandro Gebbia Città teatrale

16

Mario Barenghi

Italo Calvino Sotto il sole giaguaro

Giovanni Giudici

Marco Forti In Versilia e nel tempo

2 0

Gian Franco Gianotti

Sebastiano Timpanaro La genesi del metodo del Lachmann

Giuliano Gliozzi

Paul Thiry d'Holbach II buon senso

(3)

N. 7

L'INDICE

• D E I L I B R I D E L

M E S E I I

pag. 3

Congresso Internazionale

MARCO MINGHETTI E LA CULTURA POLITICA EUROPEA

Sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica

Relazione introduttiva:

Nicola Matteucci (Università di Bologna)

RELAZIONI:

Il liberalismo e Lproblemi di trasformazione dello Stato

Edgard J. Feuchtwanger (University of Southampton) Wolfgang J. Mommsen (Università di Dusseldorf) Fulvio Tessitore (Università di Napoli)

Presiede: Feliciano Benvenuti (Università di Venezia)

I rapporti Stato-Chiesa

Jean Marie Mayeur (Università di Parigi-Sorbona)

Richard T. Shannon (University College of Swansea) 1

Francesco Traniello (Università di Torino)

Presiede: Emilia Morelli (Università di Roma "La Sapienza")

II liberalismo e le trasformazioni dell'economia e della società

Maurice Agulhon (Università di Parigi-Sorbona) David Blackbourn (University of London) Pasquale Villani (Università di Napoli)

Presiede: Valerio Castronovo (Università di Torino)

SEMINARI:

Le autonomie locali Coordinatori:

John P. Dunbabin (St. Edmund Hall, Oxford) Roberto Ruffilli (Università di Bologna) Intervengono:

Emil Brix, Jean Louis Mestre, Hartmut Pogge von Strandmann, Ga-briele Ranzato.

I problemi della cultura politica liberale Coordinatori:

Innocenzo Cervelli (Università di Venezia) Raffaella Gherardi (Università di Bologna) Intervengono:

Wilhelm Brauneder, Michael Doumoulin, Luisa Mangoni, Maria Lui-sa PeLui-sante.

Marco Minghetti e i problemi dell'economia e della finanza italiana Coordinatori:

Giuseppe Are (Università di Pisa) Riccardo Faucci (Università di Pisa) Intervengono:

Guido Balandi, Romano Coppini, Rolando Nieri, Giampaolo Pisu.

Bologna, 7-10 ottobre 1986 Teoria del partito e organizzazioni politiche

Coordinatori:

Edgard J. Feuchtwanger (University of Southampton) Paolo Pombeni (Università di Bologna)

Intervengono:

Valerie Cromwell, Richard Evans, Silvio Lanaro, Gilbo Le Begnec.

Marco Minghetti uomo politico

Coordinatori-Aldo Berselli (Università di Bologna) Umberto Marcelli (Università di Bologna) Intervengono:

ri3TC° D e l l a Peruta> Emil>* Morelli, Romano Ugolini, Hartmut

Ull-Per informazioni:

Segreteria organizzativa

(4)

Il Libro del Mese

La firma nascosta

BOHUMIL HRABAL, HO servito il

re d'Inghilterra, e/o, Roma 1986,

ed. orig. 1982, trad. dal ceco e postfazione di Giuseppe Dierna, pp. 238, Lit. 22.000.

Bohumil Hrabal (nato a Brno, in Moravia, nel 1914) ha attirato in passato l'attenzione di due grandi boemisti italiani: A.M. Ripellino, che presentò i suoi racconti al pub-blico italiano ancor prima della pri-mavera praghese, e più recentemen-te S. Corduas, che ha avviato la defi-nitiva scoperta da noi di questo ecce-zionale scrittore, traducendo Treni

strettamente sorvegliati (e/o, 1982),

la prima, celebre incursione hraba-liana nel territorio delle forme nar-rative lunghe, e unendovi un saggio e un'intervista fondamentali. Ora, sempre dalle edizioni e/o, ci viene proposto, grazie all'ottima cura di Giuseppe Dierna, il romanzo Ho

ser-vito il re d'Inghilterra (scritto nel

1971, ma pubblicato solo nel 1982 in un'edizione dalla circolazione assai limitata), ed è un avvenimento im-portante e piacevole. E imim-portante perché consente un primo incontro con l'opera maggiore di Hrabal, au-tore che ha scelto di vivere in Ceco-slovacchia, tra la gente per cui e di cui scrive, nonostante tutte le diffi-coltà, e che ha dato il meglio di sé nella tarda maturità, forse proprio per lasciare una traccia, per non soc-combere al gelo zittito, alle incaro-gnite censure, alle presse da macero dell'oblio individuale e collettivo, anche al lento affievolirsi con la vec-chiaia di una straordinaria vitalità. Ed è piacevole perché il libro è in sé così straordinariamente variopinto e avvincente, che non è difficile pro-nosticargli una meritata fortuna di pubblico, fatto raro e incoraggiante per opere avventurosamente filtrate da poco frequentate letterature.

Nel romanzo il protagonista, di cui si sa solo il cognome Dite (cioè "bambino"), narra la propria vita da quando, adolescente, si presenta co-me apprendista caco-meriere all'alber-go di provincia Praga d'oro, frequen-tato da stravaganti commessi viag-giatori, viene iniziato alle delizie del-l'amore in un paradisiaco bordello e individua il mezzo magico per una rapida scalata sociale e l'innalzamen-to della propria ridotta statura, i sol-di. Si propone pertanto di diventare milionario e passa all'albergo

Ticho-ta, appartata villa dove si danno

con-vegno per sfrenate baldorie i potenti della Praga anni '30, presidente della Repubblica compreso. Qui incontra un amico nel maitre Zdenék, che spende generosamente tutto quello che guadagna.

Sospettato ingiustamente d'un tentativo di furto, Dite si trasferisce all'Hotel Paris della capitale, dove trova il proprio maestro nella perso-na del maitre Skrivanek, che gli sve-la gli arcani del mestiere, spiegando sempre la propria scienza col fatto d'aver servito il re d'Inghilterra. An-che lui ha la sua investitura al ban-chetto in onore dell'imperatore d'E-tiopia, che per la sua solerzia lo sce-glie a porgergli vino e cibo e lo deco-ra. Ma l'incanto di questa picaresca ascesa all'olimpo camerieresco, co-stellata di divertentissimi episodi, si rompe quando l'impermeabilità agli eventi politici, i complessi derivati dalla statura e l'incontro con Liza, una ragazza filotedesca insegnante di ginnastica nei territori cechi annessi dalla Germania hitleriana, lo spingo-no poco a poco ad adattarsi all'av-vento del nazismo. Sputacchiato dai

colleghi cechi e cacciato dal Paris, la-vora in una stazione termale dove viene selezionata la razza ariana tra-mite coiti controllati, poi in un al-bergo per militari in partenza per il fronte. Si sottopone all'esame del se-me per verificare se è degno di spo-sare Liza, ufficiale crocerossina, che gli sforna un pargolo subnormale,

di Danilo Manera

Con l'instaurarsi del regime socia-lista, difende caparbio la patente di milionario tanto faticosamente con-quistata, esigendo d'essere internato con gli altri capitalisti in un balzano centro di confino e rieducazione, ma nemmeno in quel frangente rie-sce a farsi accettare dai milionari co-me un loro pari. Fa ancora

l'espe-tiche, turpi o delicate, schizzi espres-sionistici, ritmate riprese erotiche, fantasticherie surreali, scenette co-miche, istantanee colte come per ca-so dagli occhi del protagonista-nar-ratore per il quale "ogni cosa è ugua-le e quindi ogni cosa è preziosa". Come cameriere, si trova infatti fin dall'inizio programmaticamente

Ho incontrato

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il re d'Inghilterra

di Luca Rastello

Hrabal siede su una panca verde al tavolo di un'osteria della città vecchia; mangia panini unti, tirati fuori da un sacchetto portato da ca-sa, e beve due litri di birra in venti minuti.

"Ognuno deve alimentare come può la sua leg-genda" dice una voce autorevole. E invece no: si siede al mio tavolo e mi spiega che a lui non fa bene bere così ogni sera, ma deve venire in quell'osteria ad aspettare un giornalista stranie-ro che gli aveva pstranie-romesso di portargli la tradu-zione di un recensione dei suoi libri e poi per un mese non si è più fatto vedere e quella è un'oste-ria dove non si può stare senza boccale di birra perché arriva il cameriere e te ne porta uno

an-che senza an-che tu lo abbia chiamato. E io an-che mi trovo in quel locale per caso, attratto da un'in-segna ammaliante con la promessa di birra di Krusovice, che forse è più buona anche di quella famosa di Velke Popovice che Svejk prometteva

allo zappatore Vodicka per dopo la guerra, guardo le mani di Hrabal che estrae dallo stesso sacchetto dei panini una vecchia copia de

"L'Espresso" per mostrarmi una sua fotografia scattata di recente, mani nodosissime perché lui ha fatto centocinquanta mestieri — come sa chiunque abbia frequentato anche solo i risvolti di copertina dei suoi libri — e tra i molti salta subito all'occhio quello di custode alla società editrice nazionale dove il suo compito era man-dare al macero i libri sgraditi tra cui più di una sua opera; ma siccome lui era giovane ed era un fior di surrealista, pensava bene di raccogliere cocci e brandelli di quei tesori a perdere e por-tarli a Jiri Kolar, messaggero della musa sur-realista a Praga, perché ne facesse collages, co-sicché oggi chi trova in una biblioteca un vec-chio libretto di Einaudi in cui sono raccolti al-cuni di quei celebri collages può assistere ad un teatrino di grandi possibilità abortite, accozzate insieme.

La mia fortuna è di possedere una penna e di averla in mano proprio nel momento in cui quel vecchietto al tavolo vicino — sono tutti uguali i boemi: guarda quello lì come assomi-glia a Hrabal — si accorge che la sua non scrive

più e si guarda attorno alla ricerca di un 'altra penna; gliela porgo e lui, dopo averla usata,

vie-ne a sedersi al mio tavolo e mi fa vedere un suo vecchio libro, corredato di una foto che lo ritrae trentenne, su cui ha scritto una lunga dedica per un avventore dell'osteria che oggi compie gli anni. E così "l'incredibile è divenuto realtà", ma non abbastanza perché, accidenti, oggi non è il mio compleanno.

Hrabal ride sornione e ogni tanto si sposta da un tavolo ad un altro per rimediare una ti-rata di tabacco o una battuta scherzosa: a pro-posito dei suoi libri si è parlato in più occasioni

di scrittura d'istinto, di flusso di coscienza e lui, ogni volta che ne vien messo al corrente, si com-piace di tirare in ballo la parlata da osteria, il

linguaggio delle bettole, quell'impasto semiger-gale, croce dei traduttori, che corre nei suoi li-bri; a Hrabal piace dire che le sue opere sono per lo più registrazioni fedeli di vite e linguaggi al-trui, pescate in tane e gargotte di mezza Boe-mia. Ma confonde volutamente le acque, perché, se di ciarle si tratta son ciarle orchestrate da un maestro di enigmistica, uno che nasconde sotto un velo di loquacità popolaresca un'abilità ar-chitettonica impressionante, geometrica, che si rivela non solo nella ciclicità più o meno mime-tizzata di temi portanti, ma anche nel ricor-rere di trucchi, trappole, indovinelli che im-pegnano il lettore fino all'ultima pagina, co-stringendolo a porre attenzione ad ogni mini-ma variazione in un motivo ricorrente, all'uso di maiuscole in luogo di minuscole, di diminu-tivi, all'interpunzione, perché tutto ha significa-to; lievi modifiche hanno la funzione di accenti narrativi, segnano la cadenza secondo cui è be-ne che si svolga la lettura, la prima almeno; in una selva di virgole o di consunzioni è celato un tratto determinante, un'immagine decisiva, un contrasto che varrà poi a decidere della so-stanza stessa del racconto; sciarade, giochi e trappole si mostrano come spigoli e facce di un rigoroso cristallo periodico, gli ammiccamenti

wagnerianamente battezzato Sieg-fried, ma capace solo di martellare instancabile ed ebete chiodi su chio-di. La moglie muore sotto un bom-bardamento, lasciandogli una vali-getta piena di preziosi francobolli razziati agli ebrei. Lui salva involon-tariamente Zdenék, che fa parte del-la resistenza cdel-landestina, ben con-tento di farsi poi rompere i denti in carcere al suo posto per riabilitarsi in vista della fine della guerra. Se la cava infatti con sei mesi come colla-borazionista e appena libero realizza il sogno della sua vita comprando, coi soldi dei francobolli, una cava abbandonata e costruendovi un fan-tastico albergo, dove ospita persino Maurice Chevalier e Steinbeck.

rienza delle brigate di lavoro accan-to a un intellettuale e finisce da ulti-mo cantoniere in una sperduta baita montana, a riattare costantemente un tratto di strada dove non passa mai nessuno, rimasto solo con un cane, una capra, un cavallo, il frac e l'onorificenza ricevuta da Hailé Se-lassié, a specchiarsi nella propria vita che si sfalda e fronteggiare il pensie-ro della morte mediante l'impulso a scrivere la propria storia.

Ma la trama che abbiamo tratteg-giato non è che l'impalcatura princi-pale d'una narrazione che si fa di ca-pitolo in caca-pitolo più densa fino a saturarsi di temi, senza cessare di de-viare e disperdersi in cento piccole storielle caricaturali o

melodramma-Si®

nella condizione di chi "non vede e non sente nulla, eppure vede e sente ogni cosa", di chi "anche se non ha niente da fare, deve lo stesso fare continuamente qualcosa". Ed è l'es-senza della scrittura hrabaliana que-sta fame onnivora di tutto registra-re, nella certezza che alla fine il

col-lage cui ogni giorno s'appiccica un

ritaglio di per sé insulso o sconclu-sionato vorrà dire qualcosa o alme-no vorrà dire che il ritratto più fede-degno della vita umana è questa in-compiuta confusione.

Nelle ultime pagine del romanzo, che assumono un carattere di medi-tazione sul vivere e sullo scrivere, c'è un passo significativo in cui al protagonista viene per la prima

vol-ta nella vivol-ta voglia di canvol-tare. Si met-te a gridare una sua ipomet-tesi di canzo-ne ed ha la sensaziocanzo-ne di sputare, si sente una tubatura che viene sciac-quata, una stanza cui vengono strap-pati strati di tappezzeria, gli sembra di rovesciare fuori di sé con quel canto "scatole e cassetti pieni di cambiali scadute e di lettere e carto-line inutili", di disperdere dalle lab-bra "lab-brandelli di vecchi manifesti mezzo strappati e incollati l'uno sul-l'altro, che vanno a creare testi as-surdi, mescolando l'annuncio di par-tite di pallone con quello di concer-ti, manifesti di mostre con quelli di bande di paese, il tutto sedimentato nell'uomo come il fumo e la nicoti-na nei polmoni d'un fumatore". L'u-nica possibilità per ricostruirsi un'i-dentità è la parola: di qui l'inarresta-bile monologare di Dite, il linguag-gio come unico sfogo delle potenzia-lità spirituali schiacciate e irrealizza-te, come unico mezzo per riflettere su di sé, capire, sopravvivere.

I commentatori di Hrabal hanno segnalato come egli si ponga alla convergenza di due linee centrali dell'immaginario praghese, quella metafisica e metaforica di Kafka e quella loquace e pleblea di Hasek, ma non poche cose sono cambiate. Da un lato il buon soldato Svejka capiva e giudicava ancora la storia, esercitando a suo modo un'ironia critica, mentre molti personaggi hrabaliani sono sopravvissuti a tutti i disastri convivendo con una storia che non li interessa, dormono accan-to al mostro senza curarsene, salvo poi rimaner vittime di sbuffi e colpi di coda; il loro mondo interno (fatto magari solo di tic, cocciute inge-nuità, sensi spalancati a tutti i mes-saggi) ha una forza d'attrazione su-periore a quello esterno. D'altro la-to l'angosciosità della parabola è me-no categorica di quella kafkiana, l'inquietudine è più umanamente possibile: l'ispirazione hrabaliana, per quanto inevitabilmente autobio-grafica, attinge volentieri all'immen-so materiale accumulato dall'espe-rienza di questo scrittore istintuale, atipico, in costante e diretta osmosi con il suo popolo e la sua lingua.

Hrabal, un po' per modestia, un po' per credo artistico, sottolinea volentieri questo tratto e si definisce un cronista che annota e rimonta aneddoti e vicende, considera i pro-pri personaggi "co-autori", è pronto a dire a che tavolo della taverna Alla

tigre d'oro stavano seduti alquanto

brilli snocciolandogli il loro mirabo-lante destino di uomini assoluta-mente ordinari.

Non c'è spazio qui per parlare delle virtù espressive di Hrabal, che lo apparentano ai migliori funambo-li del corrosivo e visionario umori-smo poetico slavo ma soprattutto lo collocano nel cuore d'una avventura letteraria di prim'ordine quale è quella del novecento ceco. Speriamo che il successo di Kundera e quello che auguriamo a Hrabal facciano da volano per una maggiore conoscen-za anche di altri scrittori cechi loro congeniali e raccomandiamo questo capolavoro in attesa delle altre opere maestre hrabaliane: la vibrante e profonda confessione di Una

solitu-dine troppo rumorosa (1976), che

Corduas sta preparando, e la trilogia romanzesca ambientata nella cittadi-na di Nymburk tra la famiglia dello scrittore (La tonsura, 1970; La

citta-dina dove il tempo si è fermato, 1973; I milioni di Arlecchino, 1979) che le

edizioni e/o ci promettono.

(5)

M M M H M H ^ M N . 7 L'INDICE MKMMMMMMMMM

• I D E I LIBRI D E L M E S E ^ I

7/ ak/ Mug

"Fate attenzione a quel che vi racconto"

"Fate attenzione a quello che ora

vi racconto" è il modo in cui il pro-tagonista di Ho servito il re

d'Inghil-terra dà avvio alla sua incontenibile

voglia di parlare a un suo immagina-rio uditoimmagina-rio nei cinque capitoli che compongono il libro. Ognuno dei quali conclude: "Vi basta? Con que-sto per oggi termino".

Dobbiamo all'editore e ai tradut-tori ma anche a Milan Kundera, di-rettore della collana "praghese" in cui sono stati pubblicati questo ro-manzo e in precedenza Treni

stretta-mente sorvegliati, la conoscenza di

uno scrittore straordinario. E se per i primi il compito era, come essi ren-dono esplicito, insieme un dovere e un piacere, dell'ultimo va apprezza-to il coraggio: poiché Hrabal, grazie in particolare a Ho servito il re

d'In-ghilterra, è destinato a oltrepassare

Kundera nella nostra stima e atten-zione, e a rimanere forse più di lui come simbolo e vertice della storia letteraria da cui provengono.

Hrabal ci era stato introdotto in passato, proprio nel '68, anno della morte della primavera praghese sot-to il tallone sovietico, da Angelo Maria Ripellino, massimo divulgato-re tra noi del "mito di Praga", con la traduzione di Einaudi dei racconti

Inserzione per una casa in cui non vo-glio più abitare, e da un film di Jiri

Menzel tratto da Treni strettamente

sorvegliati, premio Oscar al miglior

film straniero del '66. Ma alcuni di noi avevano anche visto, all'occasio-ne di più festival, altri film tratti da Hrabal o da lui sceneggiati, per esempio la raccolta di racconti

Perli-ne sul fondo, un "omaggio" del '65

all'inventiva hrabaliana reso in pelli-cola da più registi — Chytilova, Ji-res, Schorm, Nemec, Passer, Men-zel, cioè tutti i nomi importanti del-la rinascita del cinema cèco. E come se in Hrabal si fosse identificata una generazione che ancora oggi, dalle sue opere, trae insieme alle successi-ve un nutrimento e in cui identifica — emigrati Kundera e Forman, e al-tri dai destini più incerti — una resi-stenza. E anche, come diceva, in orizzonti "occidentali", Peter Weiss, una "estetica della resistenza".

Il '68 è stato una svolta per tanti, e certo anche per Hrabal, che era giunto tardi, dopo aver esercitato i mestieri più vari e più strambi, alla scrittura, o almeno alla pubblicazio-ne (pubblicazio-nel '63) ed era stato autore prima del '68, con l'eccezione dei Treni che è infine un racconto lungo, solo di racconti. Negli anni del risveglio, gli era probabilmente più immediata e pressante l'esigenza del racconto, dei racconti: una forma attiva e tempe-stiva, un modo di essere presenti. Il romanzo, certifica Dierna, è stato per lui una scoperta tarda, per l'esi-genza di ragionare sulla Storia con la esse maiuscola, nell'abbandono della "presa diretta" sull'oggi per rivisita-re il passato e per collocarivisita-re l'oggi in una sequenza. E non ci pare possibi-le sbagliare: la conclusione cui giun-ge il protagonista di Ho servito il re

d'Inghilterra non è una fuga dalla

storia, ma sì una polemica con la storia attuale del suo paese, con i suoi blocchi e con le sue censure. Non è un caso, ovviamente, che questo romanzo scritto nel 1971 sia stato pubblicato in patria nell'82 "come materiale ad uso interno del-l'Associazione jazzistica cèca!".

Il protagonista è un cameriere. Una figura di cui conosciamo prece-denti un po' lagnosi (per es. quello russo di Smelev, o anche il "morto di sonno" di un racconto romano di Moravia) o pamphlettistici (la

came-riera di Mirbeau, di cui si sono servi-ti in cinema Renoir e Bunuel). Una vittima, o un arrivista, e sempre un occhio scrutante, dal basso, usi e co-stumi dei ricchi, dei borghesi, dei potenti. Dal basso guarda anche Di-te, l'eroe di Hrabal^ e già Dite vuol dire "piccolo", e Dite è basso di sta-tura, molto basso (Hrabal usa Dite,

bambino, per alludere alla condizio-ne di inferiorità e alla bassa statura del protagonista). Ma Dife ha proge-nitori più illustri, debitamente ricor-dati da Hrabal nelle sue rare intervi-ste: Svejk e Charlot, Louis-Ferdi-nand Céline e l'agrimensore K. Co-me Svejk e Ferdinand è un logorroi-co impenitente, che sembra attirare le disgrazie; come Svejk e Charlot ci passa attraverso, per un tempo, so-vranamente; come K. aspira a entra-re nel "castello". Come K. attraversa la pace, come Svejk la guerra, come Charlot e Ferdinand la pace e la guerra. Sono in partenza uomini

co-"qualunque", ma Svejk e J-harlot hanno da confrontarsi con la necessità e attraversarla;

Ferdi-di Goffredo Fofi

nand con il male del mondo, K. coi suoi sensi di colpa. Dife si confronta con tutte queste cose insieme, in progressione.

La grandezza di questo personag-gio e l'interesse del libro sta nell'affi-dare alla verbosità, alla curiosità e al-la vanità, alal-la paroal-la incontinente, alla stolidità soddisfatta del

"picco-lo" bambino il fronteggiamento di situazioni che nella prima metà della vicenda procede per divagazioni eminentemente orali e spesso straor-dinariamente comiche (si ride mol-to, leggendole; anzi leggendosele co-me ad alta voce, coco-me recitandose-le); e nel procedere poi, attraverso il negativo della Storia e l'assunzione di un ruolo negativo nella Storia motivata dalla volontà di un'affer-mazione e di una "crescita", fino a una ancora paradossale, ancora spes-so comica caduta che apre al prota-gonista lo spazio interiore, un'illu-minazione intima che trova riscon-tro in un rapporto, adesso, con degli animali più che con degli uomini, nella neve di una casa cantoniera

iso-lata dal mondo.

Le stazioni dello jedermann Dife sono narrate e commentate per diva-gazioni, aneddoti e flashback in pri-ma persona. Dappripri-ma con tono svejkiano (o cabarettistico, alla Jan Werich degli anni trenta di cui sap-piamo dai libri e da qualche film la capacità di intrattenitore) di

inven-zioni comiche trascinanti — la galle-ria di personaggi di personale e ospi-ti degli alberghi Praghe d'oro, com-messi viaggiatori e poeti bizzarri, prostitute e gran borghesi, e in cre-scendo uomini politici come Masa-ryk e capi di stato stranieri come il Negus — che si accumulano in una sorta di esaltante sintesi di temi e motivi di tutta una cultura e una tra-dizione e che via via ci fanno venire in mente perfino gli schnorrer di Zangwill, o Totò e Peppino, o San-cho Panza, o certo Dickens, certo ci-nema muto weimariano o di comi-che, oltre ai canonici riferimenti praghesi, e in cui la realtà si colora di surrealtà, si spinge quasi da sé, per forza di parola e associazioni, verso

l'assurdo. In essi si insinuano spesso accenti al limite del blasfemo e sen-z'altro blasfemi, quasi a metter le mani avanti per una miglior lettura della parte finale.

L'esperienza "ingenua" del tradi-mento nazionale (Dite sposa una te-desca, e per un tempo ama i tedeschi e vive dalla loro parte), e poi quella più lucida della guerra, e della pater-nità con quell'altra rumorosa e ag-ghiacciante invenzione del figlio ri-tardato che gode solo nel piantar metodicamente chiodi a martellate dove che può, e degli orrori che la Storia gli sbatte sul naso travolgen-dolo come tutti, non fanno perdere a Dife l'ambizione al successo. Di-venterà milionario, grazie ai franco-bolli trafugati qua e là dalla moglie nazi alle vittime ebree; diventerà proprietario del più bello e originale albergo del mondo, frequentato da John Steinbeck e Maurice

Cheva-lier; e per la sua ansia di essere rico-nosciuto come milionario finirà in una prigione di ricchi.

È questa la parte vera di svolta, che andrebbe meglio analizzata, do-ve si incrociano egoismo e altrui-smo, comico e tragico, e l'ossessivo gioco dei doppi — altro tema cano-nico praghese e fantastico — si disin-castra con fatica, con la sostituzione dell'ambiente (il convento al posto dell'albergo, ma quasi come un al-bergo, e non a caso un convento), si prepara la finale trasformazione. La caduta di Dife diviene insieme ascesa e quasi ascesi, in un doppio movi-mento ben noto, e la sua vicenda si depura, Dife si "specchia" davvero in sé, e nelle ultime stazioni è come un piccolo, piccolissimo padre Ser-gio che non va in giro a predicare, ma che della sua Tebaide obbligata fa il punto di arrivo di una vera sco-perta del mondo. Con la compagnia di quattro bestie — la capra, il caval-lo, la gatta e il cane lupo che i mon-tanari gli uccidono perché ritorni tra loro — e, una volta, con le oc-chiate a distanza scambiate con Zde-neck, altro cameriere, altro doppio, che è passato attraverso la guerra al-la scelta delal-la politica, e del potere. "L'incredibile è divenuto realtà" ora per davvero, nel confronto con lo specchio che è l'annuncio della pro-pria morte ma anche la scelta e ne-cessità di raccontarsi, di scrivere, di trasferire ad altri, nonostante tutto, il molto che si è vissuto e il poco o molto che si è capito. Colui che ha servito l'imperatore di Etiopia ha pur diritto a raccontare la sua atea e comune via crucis, comica come co-mica è, a osservarla bene, la vita del-l'uomo.

Dice Hrabal, nell'intervista posta in appendice a Treni strettamente

sorvegliati: "l'autoconoscenza con la

quale la soggettività supera se stessa è l'ironia"; grazie a essa "l'estraneità e l'inimicizia del mondo interno ed esterno non viene abolita, ma cono-sciuta come necessaria: essa costrin-ge il sogcostrin-getto che osserva e crea ad applicare la conoscenza del mondo a se stesso e a prendere se stesso e le proprie creazioni come un libero oggetto di una libera ironia... L'iro-nia come abolizione di una soggetti-vità che è giunta fino in fondo è la più alta libertà possibile nel mondo senza dio...". Parla dell'ironia "pra-ghese", ma il suo romanzo ci ricor-da, in tempi in cui, da noi, l'ironia non ha grande corso a vantaggio del consolatorio patetico o del volgar-mente "moderno", che è forse pro-prio l'ironia lo strumento più aguz-zo per ragionare sulla Storia e tener testa alla Storia.

dell'enigmista sono segnali, istruzioni per il let-tore che si vuole accorto e divertito. Hrabal in parte dissimula, ma si rivela quando avverte di fare attenzione ai nomi dei suoi personaggi che sono significativi, e soprattutto quando chiama a modelli Rabelais, Ritma — che si definiva "lu-dibrionista "—e Hasek.

Anche per Hasek si sono spesi volentieri in Italia aggettivi come "popolare" e "picaresco", e si parla spesso più di Svejk che non del suo auto-re, dimenticando sovente la lezione stilistica, di tecnica narrativa — a proposito della quale si può ben parlare di "avanguardia nel senso più proprio — che emerge dalle pagane del romanzo

del "Buon soldato Svejk".

E certo un po'di familiarità con la letteratu-ra in lingua cèca, maltletteratu-rattata dall'editoria, metterebbe in maggiore evidenza il valore di

H o servito il re d'Inghilterra, dove l'eredità di

Hasek è coniugata alla tensione di una trama che impiega tutti gli espedienti dei best seller che inchiodano il lettore; qui Hrabal celebra un matrimonio alchemico fra Hasek e l'era televi-siva, tra la Praga dei miti — e miti sono le sto-rielle di Svejk — e le strategie dello spettacolo e della fiction occidentale. E sotto la sapiente "metrica della prosa" — tanto cercata, con alter-ne fortualter-ne, dai simbolisti russi e tanto semplice-mente esibita nel "parlato continuo" di Hrabal — di cui è vestita la narrazione, si manifesta l'epoca, in nulla addolcita dall'allegria della composizione, e con essa quel balletto da citrulli che già vorticava intorno al faccione di Svejk, la danza feroce di luoghi comuni e massime mo-rali che imbellettano con una patina dorata il "secolo delle ecatombi". Ma non si tratta di Sto-ria, per carità, semmai di storia — che scrivere Storia è un lusso da tedeschi, non da Cèchi, da gente che la storia la pensa, non la subisce — e, per non concederle troppo sussiego la si

introdu-ce nella coscienza del lettore attraverso una por-ta di servizio, la si tratpor-ta con il dispor-tacco clinico con cui si tratta un cliente, oggetto e non sogget-to — come forse vorrebbe credere — di un'arte sopraffina e del tutto fine a se stessa esercitata dal maitre.

Ogni notizia che si ha dei cambiamenti — dalla prima repubblica al protettorato nazista, a Stalin — nella cornice storica della vicenda filtra attraverso le conversazioni e le traversie

dei personaggi, oppure attraverso le fanfare

del-le diverse propagande. Non c'è critica o rifdel-lessio- riflessio-ne palese: è la strategia di Hrabal periflessio-netrare riflessio-nel senso comune, assecondarne le linee per farlo esplodere dall'interno, perché lo spunto ironico è affidato ai fatti molto più che ai pensieri, alla storia che accade molto più che alla Storia medi-tata. Frantumazione e storielle, dunque, orrore e comicità in un romanzo dove c'è tutto ciò che si può chiedere ad un libro avvincente (avven-tura, denaro maledetto, sesso, spettri, la storia — o la Storia — , persino il mito classico, con Pigmalione e la sua statua di cioccolata) e molto di quello che si può chiedere ad un frammento indimenticabile di grande letteratura. L'acco-stamento dei materiali è malefico e divertente, e fa sorgere spontanea la domanda sul motivo

della scelta di una tale forma "a storielle" per trattare una sostanza serissima e persino tragi-ca. La risposta Hrabal la fornisce proprio nel romanzo: "il divertimento come bisogno meta-fisico (...Jper far sì che divertimento per noi

fos-se la poesia, le cofos-se e gli avvenimenti belli, perché la bellezza, lei ha sempre un impatto,

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I D E I LIBRI DEL M E S E I

Levi ripensa l'assurdo

Domenico Corradini

L'economia

politica al plurale

Dall'economia schiavistica all'uomo di Robinson, dal

pauperismo a Marx: due concezioni dell'economia politica a confronto. "Biblioteca minima" Lire 5.000

Nicolas Tertulian

Lukàcs

La rinascita dell'ontologia

Nell'opera postuma del filosofo ungherese la

sintesi della sua riflessione sull'identità filosofica e storica dell'uomo. "Biblioteca minima" Lire 7.500

Autori vari

Fare storia della

letteratura

a cura di Ottavio Cecchi e Enrico Ghidetti Dieci specialisti di vario orientamento affrontano temi, significato e compiti

della storiografia letteraria. "Universale letteratura"

Autori vari

La mura e gli

archi

Valorizzazione del patrimonio storico-artistico e nuovo modello di sviluppo Interventi, proposte e critiche di autorevoli esperti sulla sorte di una

ricchezza culturale e materiale, parte integrante

e inscindibile del nostro ambiente.

"Universale scienze sociali" Lire 12.000

Roberto Maragliano

Benedetto Vertecchi

Leggere scrivere

far di conto

Una formula classica per reinterpretare i problemi

della scuola di oggi.

"Paideia" Lire 11.000

Pier Giovanni Donini

I paesi arabi

Dall'impero ottomano agli Stati attuali. La questione

palestinese.

"Libri di base" Lire 8.500

Ennio Peres

Giochi matematici

Trucchi, formule e magie per capire la matematica.

"Libri di base" Lire 8.500

di Cesare Cases

PRIMO LEVI, I sommersi e i

salva-ti, Einaudi, Torino 1986, pp.

167, Lit. 10.000.

Quarantanni dopo Se questo è un

uomo Primo Levi torna a parlarci

dei problemi che lo assillano da quando ha avuto la terribile espe-rienza ivi consegnata. Quarant'anni sono tanti e Levi non ha mai cessato di riflettere, di leggere, di confronta-re. Jean Améry, un altro

soprawis-u

suto, cui è dedicato un capitolo di questo libro e con cui l'autore aveva un rapporto evidentemente non fa-cile, lo chiamava "il perdonatore". Non sembra una definizione azzec-cata. Levi ha qui delle pagine molto belle sulla memoria e l'oblio. Chi come lui non dimentica l'offesa e si adopra affinché non venga dimenti-cata; chi continua ad arrovellarsi su-gli aspetti incomprensibili e irrazio-nali di ciò che gli è capitato, a "non

Pàbitelé

capire" i tedeschi (di allora, beninte-so), a frequentarli e a provocare le loro lettere nella speranza che gli servano allo scopo, costui non è cer-to un "perdonacer-tore". È vero che egli stesso si definisce uno che non sa ri-spondere al colpo. È il tipo che giun-to alla porta del suo aguzzino forse non suona il campanello e torna in-dietro. Ma questo non significa che gli perdoni, altrimenti non avrebbe fatto tanta fatica per scovarlo.

di Luca Rastello

BOHUMIL HRABAL, Inserzione per una casa in

cui non voglio più abitare, Einaudi, Torino

1986, ed. orig. 1965, trad. dal ceco di Eia Ri-petono, con nota di Angelo Maria Ripellino, pp. 143, Lit. 10.000.

Che cos'è un pàbitel? Un povero diavolo presuntuoso, un bullo di periferia — ma a Pra-ga, miracolo, i bulli di periferia si trovano al centro del centro — uno smargiasso loquace, un "mitomane imbevuto di albagia distrettuale, e con pretese di dozzinale cultura" (Ripellino), maestro di espedienti da cento lire la decina. Di questi tipi da che mondo è mondo, cioè da quando fu combattuta e persa la battaglia della Montagna Bianca è piena la Boemia, come ogni provincia dell'universo. Da quattro secoli, fra le maglie di regimi che si succedono senza trop-po mutare della loro sostanza oppressiva e de-pressiva, poliziotti di vario genere, pàbitelé con divisa e bottoni, vegliano sul bene di qual-cuno — corona o popolo che sia — e altri sbruf-foni in borghese illustrano all'osteria cento

mo-di per eluderli.

Dopo una bella fetta di vita fra i pabitele al-le acciaierie La Bella Poldi di Kladno, Bohumil Hrabal, primo portavoce di questa razza mar-ginale, mise un'inserzione per una casa in cui non voleva più abitare, e così ingannò una vol-ta di più un mucchio di gente, perché la casa non era poi quella che tutti pensavano e che lui non lasciò. Da allora cambiò modo di scrivere, abbandonò i racconti brevi per costruzioni di più vasto respiro dove poteva occultare i suoi

enigmi e i suoi esperimenti: i pàbitelé trovaro-no dimore più grandi per le loro gesta. Ma in-tanto rimaneva l'inserzione, a mò di chiosa per un periodo che finiva, sì, ma avrebbe lasciato i decenni successivi ben ingombri del suo

ciarpa-me. Hrabal lo sapeva e di cataste di rifiuti colo-rati e contorti riempì questi racconti, dove le cianfrusaglie si ammassano e sono accurata-mente nominate in lunghi elenchi alla Gargan-tua e Pantagruele, che segnano il ritmo della narrazione e ne celano, per chi ha voglia di ro-vistare nel mucchio, le ragioni.

Ripellino, che curò l'edizione italiana del li-bro (1968: tempestiva come di rado), paragona ogni brano di questa raccolta ad una specie di

Novellino pieno di aneddoti e di balle che

sup-pliscono ai miti caduti (ultimo, in ordine di tempo, il monumento a Stalin sulla Letnà); in ogni pagina si affastellano decine di spunti au-tonomi giustapposti (tra l'altro, di straforo, compaiono titoli di romanzi successivi di Hra-bal e, nel Tamburo sfondato, più di una nota che suggerisce il motivo di H o servito il re

d'Inghilterra,),- rottami che invadono Praga

straccivendola (a proposito: chi parte per Praga abbia cuore di leggere almeno quattro volte

Kafkeria, il racconto che apre la raccolta) e i

ca-pannoni della Bella Poldi. Qui Hrabal, che si sapeva un fusto e leggeva Jack London, elaboro quello straordinario impasto comico a mille re-gistri che informa la sua scrittura, in pieno sta-linismo, in mezzo a personaggi sradicati dalle bizze della storia recente e proiettati m un am-biente in cui i titoli, i nomi e i mestieri della vi-ta di prima hanno vi-tanto più senso e Unto più valgono ad identificare persone e cose quanto più hanno perduto ogni funzione: un bagnino che ora lavora agli altiforni sarà, senza residui, Il Bagnino; Stalin - chissà se lo sapeva - aveva ripristinato il miracolo del verbo che nomina, proprio alla acciaieria La Bella Poldi di

Klad-no.

interessante solo il suo simile. Oltre che nel tedesco francesizzato Améry (anagramma di Mayer) questo atteg-giamento mi sembra disastrosamen-te presendisastrosamen-te nel libro di ricordi su Bu-chenwald di Jorge Semprun (Il lungo

viaggio, Einaudi 1964), anche qui

per influsso dello spirito corporati-vo dell'intellighenzia francese.

L'inumanità non è tale perché uc-cide la cultura, ma perché ucuc-cide gli uomini. Tutto, ma non i gobelins!: il titolo ironico di una poesia di Karl Kraus esprime bene questa posizio-ne per cui ci si accorge dei misfatti solo quando ne va di mezzo la cultu-ra. Invece a Levi i classici servono solo per illustrare certe costanti dell'animo umano. Il

Sonderkom-mando incaricato di sgomberare i

ca-daveri dalla camera a gas resta per-plesso di fronte al caso di una ragaz-za rimasta miracolosamente viva. "Come non ricordare — aggiunge Levi — T'insolito rispetto' e l'esita-zione del 'turpe monatto' davanti al caso singolo, davanti alla bambina Cecilia morta di peste che, nei

Pro-messi Sposi, la madre rifiuta di lasciar

buttare sul carro confusa tra gli altri morti?" Auschwitz come la peste, e in entrambi i casi la constatazione che l'uomo non è mai monolitico, che ci sono attimi di umanità anche in chi è diventato un esecutore mec-canico del male, e sempre quando il meccanismo s'inceppa e dietro la sua spietata astrattezza spunta il volto dell'individuo.

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Per lo stesso Jean Améry, che con-siderava "intellettuali" solo gli uma-nisti, Levi non apparteneva alla cate-goria, che ad Auschwitz non era cer-to privilegiata. Levi protesta sia perché a ragione non è d'accordo che si debba escluderne chi ha una formazione scientifica, sia perché anche prima di saltare il fosso e di abbandonare la chimica per la lette-ratura egli considerava essenziale per se stesso la formazione umanisti-ca. Per quanto abbia compilato an-che un'antologia delle sue letture preferite, tale formazione anche in questo libro si rivela soprattutto sco-lastica: Omero, Dante, Manzoni e Leopardi. Levi è una pubblicità vi-vente per il vecchio liceo classico. Proprio la scolasticità della cultura che ha profondamente assorbito gli impedisce per sua fortuna di essere un intellettuale nel senso di Améry, cui egli rimprovera di disinteresse per gli uomini, così diversi e multi-formi, che popolavano Auschwitz senza appartenere a quella categoria. Il guaio dell'intellettuale è che trova

La cultura umanistica e quella scientifica sono alla base di quel mi-scuglio di comprensione e di legitti-ma incomprensione che ha permes-so a Levi di scrivere i suoi libri mi-gliori, tra cui questo si situa a buon diritto. La formazione scientifica è quella che esce più frustrata. E vero che in un capitolo di Se questo è un

uomo Levi si serve del canto di

Ulis-se per ricordare in mezzo all'orrore che l'uomo deve seguire "virtute e canoscenza", ma per lo più i classici, come nell'evocazione dell'episodio scolastico di Cecilia, confermano le contraddizioni dell'animo umano che rendono vagamente plausibile quell'orrore, e del resto l'esortazio-ne di Ulisse coincide con l'esigenza di sapere che è propria del chimico Levi. La teoria e la pratica scientifica gli avevano conferito una fiducia nella sostanziale razionalità del reale e perfettibilità dell'uomo che Au-schwitz mette a dura prova. Ma lo stupore e insieme l'implacabile cu-riosità che questa smentita provoca in Levi creano il rango delle sue pa-gine. Che cosa avrebbero potuto di-re su Auschwitz Ceronetti o Cioran se non: Sapevamcelo? Forse avreb-bero avuto una parte di ragione, ma noi su Auschwitz non avremmo ap-preso nulla. Se gli uomini fossero tutti una massa damnationis non esi-sterebbe quella "zona grigia" in cui il bene e il male non si possono separa-re col coltello e cui Levi applica le sue grandi capacità analitiche. È una zona "al di la del bene e del male", non perché il bene e il male non ci siano, ma perché la situazione di ne-cessità li fa sfumare uno nell'altro e

(7)

N L'INDICE

HIB DEI LIBRI DEL ME SE

li rende meno rilevanti per un giudi-zio globale. Al museo del ghetto di Praga si legge l'appunto di un inter-nato di Theresienstadt che dichiara di aver finalmente capito perché nel-le rappresentazioni medievali i mar-tiri avevano quell'aria indifferente o addirittura ilare mentre li decollava-no o arrostivadecollava-no: perché decollava-non c'era niente da fare.

La situazione di necessità non si-gnifica affatto che sotto il tallone di ferro i vermi umani si comportino nello stesso modo. Tutt'altro, solo significa che non si può prescindere da quel condizionamento. Levi rim-provera agli psicoanalisti di applica-re al mondo dei Lager (anche quan-do ci sono stati come Bettelheim) nozioni semplificate desunte dal mondo "al di fuori". E ha una visibi-le insofferenza per il discorso dell'"incomunicabilità". Non solo perché appartiene alla categoria dei testimoni che vogliono raccontare, ma perché ha vissuto un'esperienza per cui la capacità di comunicare era fin dall'inizio una questione di vita o di morte e in cui la rinuncia volon-taria alla comunicazione era l'avvisa-glia della prossima fine. L'irritazio-ne per la mistica del silenzio e dell'inadeguatezza della parola sarà unilaterale, ma è bene che ogni tan-to i luoghi comuni, per fondati che siano, vengano spazzati via da chi ha il diritto di infischiarsene di Beckett e di Wittgenstein. Levi ha perfino il coraggio di non sopportare Nietz-sche e di fiutare un certo rapporto tra lui e i campi di concentramento. Aveva ragione Améry di non classi-ficarlo tra gli intellettuali. Se non avesse attenuanti troppo grosse per poter essere ignorate, costoro lo cro-cifiggerebbero, riparando ai peccati di omissione dell'SS.

Levi tende a considerare il

feno-meno dei campi di annientamento come sostanzialmente irripetibile. Credo che abbia ragione, almeno per quanto riguarda il tipo di orga-nizzazione delle fabbriche della morte, e che sottolinei in modo con-vicente anche le differenze con i campi sovietici e altri mostri genera-li dal totagenera-litarismo. Il pathos della memoria deve servire a ricostruire quest'esperienza per coloro che non la conoscono neanche per sentito di-re, e sarebbe bene che il libro rag-giungesse i giovani che, senza aver letto Faurisson, dubitano della realtà di queste cose semplicemente perché i mass media li hanno educati a pensare che tutto può essere fanta-smagoria, con gli stessi attori che passano da Holocaust a una storia del re Artù. Levi racconta la storia insie-me deliziosa e terrificante del ragaz-zino di una scuola in cui aveva parla-to dei campi, che gli aveva spiegaparla-to in tutta serietà come avrebbe dovuto fare per scappare, esortandolo a non dimenticarsi queste regole se gli si fosse ripresentata l'occasione.

Ma il distacco del mondo concen-trazionario da quello comune talvol-ta rompe i fili che pur li collegano. C'è sempre in fondo all'animo di Levi — in questo libro per ovvie ra-gioni molto meno che nella Chiave a

stella o nei racconti fantascientifici

— il convincimento che, superata l'intrusione dell'irrazionale, il razio-nalismo scientifico riuscirà a rimet-tere in carreggiata se stesso e il mon-do. Ciò che non gli va giù è che l'onorata ditta Topf di Wiesbaden, che produceva crematori per uso ci-vile, abbia fornito le attrezzature di Auschwitz e poi sia ritornata come niente fosse all'attività precedente senza nemmeno pensare a cambiare la propria ragione sociale. Forse questo e il segreto della "grande fol-lia del Terzo Reich" che Levi cerca-va incerca-vano di scoprire in Se questo è

un uomo, ma allora è un segreto

uni-versale. La scienza, la tecnica, la ra-gione sono passate dalla parte

dell'ir-ratio senza cambiare ragione sociale.

Levi lo sa benissimo, ma vuol sem-pre distinguere.

Si veda il capitolo sulla "violenza inutile", in cui si distingue tra vio-lenza razionale, finalizzata allo sco-po anche se questo è lo sterminio, e appunto violenza inutile, destinata solo a degradare l'individuo, un'arte per l'arte in cui i tedeschi eccelleva-no. Anche in questo capitolo si tro-veranno osservazioni finissime, e an-che qui è giusto opporsi alla tenden-za, cui indulgiamo dal '68 in poi, ad equiparare un mese di prigione a un anno di Auschwitz. Ma questa divisione metodologica tra violenza razionale e irrazionale non è un mo-do di salvare la razionalità là mo-dove non è più salvabile? E agli occhi di

aspettando a Plòtzensee l'esecuzione capitale (che poi per miracolo non venne) scrisse una satira della Ger-mania nazista intitolata con un altro acrostico Pln (cioè Postleitnummer, codice di avviamento postale), al centro della quale c'è il personaggio grottesco ma non antipatico di un ministro nazista delle poste, di origi-ne austriaca, che escogita appunto questa mirabile invenzione. Che sa c'è di più razionale di questo co-dice, che come ognun sa ci permet-terà tra altri dieci anni di fare arriva-re le lettearriva-re in un sol giorno da Ao-sta a Caltanissetta, come succedeva nel 1910, purché beninteso compi-liamo la busta secondo il modello prescritto dal computer?

Resta il fatto che uno scrittore che sentiva già al collo il prurito della mannaia ha scelto questa innocua ra-zionalità per giungere al cuore dell'assurdo che ne proviene. E Levi non ha cancellato il numero di ma-tricola incisogli sulla carne a Au-schwitz perché è il ricordo di quella degradazione e di quel senso di ver-gogna per l'umanita che ne è colpe-vole su cui ha scritto pagine bellissi-me. Ha fatto bene, ma se gli mandas-sero a casa il tesserino già previsto in Germania con una banda magnetica su cui è iscritto tutto quello che non va nella nostra vita, dalla bocciatura in prima elementare alla multa per parcheggio irregolare, forse se lo metterebbe in tasca, come, temo,

Tullio Pericoli: Primo Levi

quel Dio che non c'è (non a quelli di Levi o ai miei) la violenza inutile dei tedeschi non potrebbe apparire un residuo barbarico, il comportamen-to del fanciullo che marcomportamen-toria l'ani-male prima di ucciderlo, mentre il massacratore razionale e scientifico lo trasforma subito nella famosa om-bra stampata sul ponte Hiroshima?

La difficoltà di delimitare la zona dell'orrore appare già in quel campo linguistico cne sembra il più neutro ma non lo è affatto, come sa Levi che gli dedica molta attenzione. Del linguaggio dei Lager si dice che era "una variante particolarmente im-barbarita" di quella che uno studio-so, Victor Klemperer, aveva battez-zato Lingua Tertii Imperii, "propo-nendone anzi l'acrostico Lti in ana-logia ironica con i cento altri (Nsdap, Ss, Sa, Sd, Kz, Rkpa, Wvha, Rsha, Bdm ... ) cari alla Germania di allora". Alla Germania di allora e non al mondo di oggi? Le sigle odierne denotano istituzioni più in-nocue? Forse. Però un altro filologo tedesco, comunista, Werner Krauss,

BIBLIOTECA DELL'ECONOMISTA

diretta da

Federico Caffé, Siro Lombardini e Paolo Sylos Labini

ECONOMIA POLITICA

DEL LAVORO

di Ezio Tarantelli

Pagine XXII-550.

quasi tutti noi. C'è un'enorme diffe-renza? Si c'è, però ... Però agli occhi di Dio sono due forme diverse del "mondo amministrato".

Ma Dio non c'è e quindi dobbia-mo barcamenarci da noi tra il ri-schio di distinguere troppo e troppo poco. E confortante in quest'epoca paolotta vedere che l'agnosticismo di Levi ha resistito a Auschwitz e ol-tre, e ciò benché si rendesse conto che la fede, una fede qualsiasi, era uno strumento essenziale di soprav-vivenza (anche a questo proposito egli ha pronto uno dei suoi illumi-nanti aneddoti, quello di un operaio francese che dopo la liberazione si meraviglia che lui avesse disperato della salvezza, perché avrebbe dovu-to sapere che "Joseph était là!", e a Levi ci vuole un po' di tempo per ca-pire che "Joseph" era Stalin). In Se

questo è un uomo c'era quel Cohn

che dopo ogni selezione ringraziava Dio di averlo salvato, e Levi aggiun-geva che se fosse stato Dio avrebbe sputato a terra la sua preghiera. Qui ci confessa che prima di una selezio-ne (certo non dopo) anch'egli era stato tentato di pregare. "Una pre-ghiera in quella condizione sarebbe stata non solo assurda... ma blasfe-ma, oscena, carica della massima em-pietà di cui un non credente sia capa-ce. Cancellai questa tentazione: sa-pevo che altrimenti, se fossi soprav-vissuto, me ne sarei dovuto gnare". E infatti sarebbe stato vergo-gnoso fare la "scommessa" di Pascal solo di fronte a una morte imminen-te, in quel luogo la cui sola esistenza era una smentita definitiva alla teo-dicea e quindi all'esistenza di un Dio che ha si gran braccia da accogliere tutti i pentiti d'oggidì, e Dio sa se so-no molti. h o v i t £ J Virgilio Tosi IL LINGUAGGIO DELLE IMMAGINI IN MOVIMENTO

Teoria e tecnica del cinema e della televisione nella ricerca scientifica, nella

didattica e nella divulgazione pp. 200 L. 18.000 Gerard Metayer LA SOCIETÀ È MALATA DI MASS-MEDIA? pp. 212 L. 18.000 Judy Dunn SORELLE E FRATELLI pp. 200 L. 15.000 Massimo Di Forti LA SOCIETÀ POST-EROTICA

(8)

N . 7 pag. 8 fltìllplsll-' t'I |

• DEI LIBRI DEL MESE I

ADELPHI

Porfirio

L'ANTRO

DELLE NINFE

A cura di Laura Simonini «Classici», pp. 286, L. 40.000

Henry Corbin

CORPO SPIRITUALE

E TERRA CELESTE

Dall'Iran mazdeo all'Iran sciita «Il ramo d'oro», con tre tavole a colori, pp. 336, L. 35.000

Frederic Prokosch

GLI ASIATICI

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losif Brodskij

POESIE

Edizione con testo russo a fronte, a cura di Giovanni Buttafava «Biblioteca Adelphi», pp. 224, L. 22.000

Anna Maria Ortese

L'IGUANA

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LA NASCITA

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Gottfried Benn

CERVELLI

A cura di Maria Fancelli Con un saggio di Roberto Calasso « Piccola Biblioteca Adelphi », pp. 128, L. 9.000

Ristampe:

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MISTERI PAGANI

NEL RINASCIMENTO

Terza edizione riveduta

«Il ramo d'oro», pp. 482, 102 ili. f.t., L. 60.000

Max Stirner

L'UNICO E LA SUA

PROPRIETÀ

Seconda edizione

Con un saggio di Roberto Calasso «Biblioteca Adelphi», pp. 432, L. 25.000

Le Natalie

di Vittorio Foa

Nella primavera del 1983 il parti-to comunista propose a Natalia Ginzburg di diventare deputato alla Camera, presentadosi come "indi-pendente" nelle sue liste. Natalia chiese l'opinione dei suoi figli che le dissero (soprattutto Carlo) di non accettare perché "lei non capiva niente di politica". Lei poi chiese an-che il parere di alcuni amici. Io le dissi: "Proprio perché non capisci niente di politica accetta senza esita-re". Volevo dire che con la sua igno-ranza sulle macchine del potere

Na-talia avrebbe negato la politica come tecnica nell'atto stesso di affermarla come moralità, di rivalutare il rap-porto della politica con l'individuo, con la persona umana, quel rappor-to così derelitrappor-to fra la ragion politica (di Stato o di partito) e le ragioni e i sentimenti della gente, soprattutto della gente comune. E previdi che sarebbe stata un deputato molto bra-vo,

È probabile che in quel mio giudi-zio io abbia rievocato quello che mi ha sempre più colpito nella

creazio-ne letteraria della Ginzburg, il creazio- nes-so, presente in ogni istante, fra con-tinuità e rottura, fra la vita di ogni giórno, nuda e ripetitiva e le sue rot-ture tragiche, e poi ancora il nesso, pure esso ininterrotto, fra interio-rità ed esteriointerio-rità, fra i personaggi e il mondo. Perché non provare nella politica cosiddetta attiva quella acu-ta e sensibilissima capacità di rap-porto, a volte di sintesi, altre volte di conflitto, altre ancora di pacifica coabitazione, fra continuità e rottu-ra, fra la vita privata e le vicende del mondo? Non so se i comunisti, con quella loro proposta, abbiano pensa-to a quespensa-to specifico suo apporpensa-to al-la politica, oppure abbiano cercato, come accade a volte, di illustrare le

Le vie della memoria

di Francesco Spera _ _

NATALIA GINZBURG, Opere raccolte e

ordi-nate dall'Autore, voi. I, prefazione di Cesare

Garboli, Mondadori, Milano 1986, pp. 1355, Lit. 42.000.

Nel volume dei Meridiani sono raccolte le opere narrative della Ginzburg fino a Lessico

famigliare, più quattro commedie.

Quest'ulti-me testimoniano l'interesse della scrittrice per il teatro, risalente al '66, l'anno di Ti ho sposato

per allegria, che resta la sua commedia più

ce-lebre. Nel teatro tuttavia la Ginzburg finisce col riprendere tematiche e stile che aveva già elaborato e portato a maturazione nella narra-tiva. Questo volume conferma, infatti, la gran-de virtù gran-della scrittrice nel saper raccontare, nella capacità di attrarre il lettore all'ascolto quasi come in un racconto orale, spontaneo e quindi suadente. Questo risultato è raggiunto grazie a una diuturna opera di esercizio stilisti-co, di lucida riflessione intomo agli strumenti del narrare. Si veda la nota conclusiva, che do-vrebbe essere esplicativa ai testi e invece è un vero e proprio racconto, un sintetico romanzo di formazione che spiega l'itinerario artistico, indica autori prediletti e modelli (significativa-mente da Cechov a Ivy Compton Bumett), sve-la gli esperimenti tecnici tentati, indaga l'origi-ne del desiderio di scrivere. Guidati da questa prosa è possibile ripercorrere il lungo arco crea-tivo della scrittrice e verificare come questo de-siderio si sia realizzato precocemente, quando a diciassette anni stende il primo racconto,

Un'assenza, e compiutamente con la

pubblica-zione di La strada che va in città (1942), punto d'arrivo della prima serie di racconti, brevi e lunghi, composti fino ad allora. La Ginzburg individua presto nella scrittura in prima perso-na di un persoperso-naggio femminile il modulo perso- nar-rativo più congeniale. Nasce così la ricca

galle-ria di ritratti di donne, che rappresentano il mondo femminile in tutte la sua sfumata feno-menologia: dal racconto Mio marito ai roman-zi brevi È stato così (1947) e Valentino (1957). Con Tutti i nostri ieri (1952) la scrittrice com-pie un 'ulteriorepasso nella sua sperimentazione narrativa: riesce a costruire un romanzo di am-pie dimensioni e per di più privo di dialoghi, denotando una maestria formale certo non co-mune. Ma la svolta fondamentale arriva per la Ginzburg con Le voci della sera (1961), ro-manzo basato sulla tecnica della rievocazione memoriale: finalmente la ricerca di uno stile apparentemente dimesso e colloquiale, in realtà molto calcolato e raffinato nella sua essenzia-lità, si sposa perfettamente con la voce dell'io narrante che dipana il sottile filo della memo-ria intomo alle alterne vicende dell'esistenza. Scoperta questa via, si spiegano l'esito felice del-la raccolta di prose autobiografiche già edite Le

piccole virtù (1962) e il risultato migliore

rag-giunto con Lessico famigliare (1963). Come di-ce la stessa Ginzburg il desiderio di scrivere nasce dalla nostalgia e quindi dalla memoria, come esemplifica magistralmente quest'opera nel suo trascolorare di toni, dall'ironia leggera dei bozzetti familiari all'elegia malinconica per il passato inesorabilmente lontano.

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M H H H P H H M

loro liste elettorali (e anche il loro gruppo parlamentare) con una pre-senza affermatissima nel mondo let-terario e anche nel consumo lettera-rio di massa. Conoscendo Pajetta penso che vi sia stata una piena con-sapevolezza dell'apporto della Ginz-burg alla politica.

Dico subito che, diversamente dal solito, quella mia previsione si è av-verata. Quando Natalia Ginzburg scrive e parla (per lo più non in pub-blico) di politica, non si limita affat-to ad aggiungere del sentimenaffat-to alla tecnica (piuttosto arida e comunque professionistica) del lavoro parla-mentare: lei introduce elementi che cambiano nella forma e nei contenu-ti i discorsi correncontenu-ti. Quando è mor-to Berlinguer la Ginzburg ha scritmor-to delle parole che non si sono aggiun-te a quello che dicevano o scriveva-no gli altri, ha offerto una lettura della vita e del lavoro del dirigente scomparso che in qualche modo illu-minava di una luce nuova, di uma-nità e non di efficienza o di successo, l'insieme della politica comunista. E sempre Natalia porta la sua attenzio-ne sui più poveri, sugli emarginati e indifesi e prova fastidio per la men-talità del potere, per la superbia dei vincitori. Nelle cose che pensa e scrive, e anche nel modo di dirle, ri-trovo le radici storiche profonde del movimento operaio. Così anche, quando tratta della pace, Natalia non è minimamente interessata agli equilibri fra le forze, al dosaggio de-gli armamenti, e neppure a indivi-duare il nemico della pace cui dichia-rare la guerra, ma pensa solo a com-battere la pratica (e anche l'accetta-zione) della violenza, l'intolleranza, e a combatterle prima di tutto den-tro noi stessi.

Per queste ragioni penso che l'im-pegno parlamentare non sia un epi-sodio marginale, un di più rispetto alle straordinarie vicende, dolorose

L'effetto Benni

di Renato Nicolini

STEFANO BENNI, Comici

spaven-tati guerrieri, Feltrinelli, Milano

1986, pp. 200, Lit. 16.000

Stefano Benni fece letteralmente irruzione nella mia vita nel giugno del 1979, in occasione del primo fe-stival internazionale dei poeti di Ca-stelporziano. Come pseudo-Gin-sberg pubblicò sul "Manifesto" un mantra di Nicolini: tanto credibile che il "Messaggero" lo riprese attri-buendolo Tout court al poeta ameri-cano. Così lo lessero mia madre e mio zio Giorgio: che mi telefonaro-no immediatamente, a breve distan-za l'uno dall'altro, preoccupatissimi per via del verso "Nicolini si buca sovente". Ho raccontato questo aneddoto perché mi sembra rivela-tore di alcune delle caratteristiche di

Benni scrittore. In primo luogo una capacità imitativa estremamente scorrevole, che è esattamente l'op-posto della superficialità in periodi come il nostro, segnati inevitabil-mente dalla convenzionalità dei

mass media. Se il linguaggio è

sem-pre più convenzionale, e inutile ri-cercarne inesistenti profondità: il la-voro di uno scrittore come Benni consisterà piuttosto in un'opera di lievi spostamenti, che spingeranno la euforica allegria della superficia-lità verso imprevisti effetti di stra-niamento, e ai ironia, di tipo surrea-lista. Forse qualcuno ricorderà i rac-conti del primissimo Benni sul "Ma-go", che hanno poi dato origine a

Bar Sport.

Ci separa però da quegli inizi circa un decennio. Ed è non solo Benni a

sentire la necessità di nuove speri-mentazioni: in particolare l'esigenza di misurarsi con una narrativa più complessa, con la dimensione del ro-manzo. In Comici spaventati

guerrie-ri la traccia mi è sembrata essere

ad-dirittura quella, particolarmente im-pegnativa, del Gadda del

Pasticciac-cio brutto di via Merulana. Anche in

questo caso si tratta di un romanzo poliziesco nel corso del quale il tra-dizionale meccanismo del romanzo poliziesco, quello della ricerca e del-la scoperta dell'assassino, perde pro-gressivamente di interesse non tanto per il lettore quanto per l'autore. Come in Gadda risultava evidente la condanna morale del generone ro-mano e del fascismo, cosi in Benni è evidente la condanna degli emergen-ti del Condominio sul Bessico, più

milanese che romano.

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