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contatto. I fedeli non potevano toccare con la mano il pane consacrato o il calice. Si è tanto stilizzato il pane eucaristico che non sembra più

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Academic year: 2022

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TOCCARE

L’uomo non è solo spirito, ma anche corpo, e il corpo manifesta, comunica e realizza i sentimenti umani più profondi. Attraverso il tatto sperimentiamo concretamente la realtà, ci avviciniamo e facciamo riferimento alle persone e alle cose. Anche in liturgia il linguaggio del “toccare” è essenziale per esprimere il mistero che celebriamo.

Se esaminiamo le nostre celebrazioni nella prospettiva del tatto, il linguaggio del “toccare” è presente in tutte. Attraverso il contatto fisico si esprime la comunicazione della grazia:

imposizione delle mani, contatto con l’acqua, unzioni, baci, abbraccio di pace, imposizione delle ceneri, mangiare e bere, battersi il petto, lavanda dei piedi, consegna di simboli (es.

l’anello per gli sposi).

Gesù non ha offerto la salvezza di Dio solo con le Parole, ma anche con il gesto del contatto fisico: benediceva e abbracciava i bambini (Mc 10,13.16), guariva i malati molte volte toccandoli con la sua mano (Mt 8,3) o toccando loro le orecchie e la lingua (Mc 7,33).

Gesù non ci ha rivelato soltanto l’amore di Dio, ma ha guarito gli infermi. Non ci ha comandato solo di amarci gli uni gli altri, ma ci ha insegnato a lavare i piedi come gesto di fraternità. Il “toccare” di Gesù ha un profondo significato: è la mano di Dio, apparsa in quella di Gesù, che guarisce, benedice, protegge, comunica vita, perdona, dà sicurezza

Purtroppo, l’impressione è che, col passare del tempo, abbiamo ridotto le nostre celebrazioni a uno o due sensi:

l’ascoltare e il vedere, ma senza movimento o vicinanza di

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contatto. I fedeli non potevano “toccare” con la mano il pane consacrato o il calice. Si è tanto stilizzato il pane eucaristico che non sembra più pane. Si è sfigurato il significato dell’unzione al punto che si tocca appena il corpo, ben diversamente dai vari e continui “massaggi” usati nella vita umana.

È necessario riscoprire il linguaggio del contatto come simbolo del fatto che Dio raggiunge ciascuno di noi con la sua grazia, nel tempo e nello spazio, e che noi accogliamo il suo dono con tutto il nostro essere.

Come l’amore di Dio − invisibile − si è manifestato a noi nell’umanità concreta e corporea di Cristo Gesù, così nei sacramenti della Chiesa la sua grazia − invisibile − s’incarna nel linguaggio di segni concreti, che ci raggiungono anche corporalmente: toccare, bagnare, ungere, mangiare, bere…

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MANI ALZATE E STESE

Nella vita sociale tutti riusciamo a capire la “grammatica”

delle mani che si tendono per chiedere, che minacciano, che salutano… le mani sono come il prolungamento della parte più intima dell’essere umano. Per questo stesso motivo le mani vengono valorizzate anche nella preghiera liturgica:

mani che si alzano al cielo o si tendono verso il fratello, mani giunte, mani che battono il petto… Il linguaggio delle mani è l’espressione visibile di sentimenti e atteggiamenti interiori di coloro che vivono un momento intenso di comunione fraterna fra loro e filiale con Dio.

La posizione per eccellenza dell’uomo in preghiera, come ce la consegna l’antica tradizione cristiana, è in piedi con le mani alzate e stese. Esse sono il simbolo di uno spirito rivolto verso l’alto, della persona protesa verso Dio: «Così ti benedirò finché io viva, nel tuo nome alzerò le mie mani» (Sal 62,5);

«Come incenso salga a Te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 140,2).

Nella seconda Preghiera Eucaristica si dice: «Per compiere la tua volontà e acquistarti un popolo santo, Egli stese le braccia sulla croce… ».

La preghiera a mani alzate riflette quell’atteggiamento che esprime intercessione (come Mosè che pregò per il suo popolo con le braccia alzate; Es 17,9-14) e sembra raccogliere tutti in un abbraccio.

È, questo, l’atteggiamento suggerito dallo stesso Messale (OGMR 152) per la recita del PADRE NOSTRO sia da parte di

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colui che presiede sia da parte dei fedeli, nella preghiera liturgica e persino in quella privata.

Gli storici della liturgia ci ricordano che, nell’antichità cristiana, i fedeli, mentre il vescovo o il prete recitava le preghiere con le braccia alzate, imitavano abitualmente il gesto, rivolti verso oriente. È solo verso la fine del Medioevo, in relazione alla progressiva perdita della originaria dimensione comunitaria della Messa, per diventare sempre più una devozione privata, che l’atteggiamento delle braccia allargate da parte dei fedeli purtroppo cede il passo a quello delle mani giunte. «La preghiera non è fatta di parole per aria:

perciò il cristiano è colui che prega con le braccia a forma di croce il Dio che non ama le braccia incrociate» (R. Etchegaray).

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MANI GIUNTE, APERTE, STRETTE, MOSSE

Stabilita la priorità della preghiera con le mani alzate e stese, anche il gesto delle mani giunte riunite e aderenti l’una all’altra (a volte con le dita intrecciate) è caro alla pietà cristiana: dice concentrazione, supplica, riverenza, umiltà, dedizione.

È l’atteggiamento del raccoglimento, della meditazione, della pace. Il gesto deriva dai rituali del mondo feudale: il vassallo metteva le sue mani giunte in quelle del Signore e si legava a lui con un giuramento di fedeltà dichiarando di essere un “fedele servitore”.

Un parallelo di questo gesto dell’omaggio è visibile nel rito della ordinazione quando il presbitero appena ordinato mette le mani in quelle del suo vescovo per esprimere la sua promessa di obbedienza. La stessa cosa avviene anche nel rito della professione religiosa. Attraverso il gesto delle mani giunte, quindi, i cristiani esprimono umiltà, dipendenza, fedeltà, l’offerta della vita a Dio e la loro fiducia in lui.

Altro atteggiamento usuale in molte immagini antiche di orante, e praticato normalmente anche oggi, consiste nel tenere le palme della mano rivolte verso l’alto: mani aperte che chiedono, che riconoscono la propria povertà, pronte a ricevere il dono di Dio (questa è anche una delle modalità per ricevere la comunione).

Darsi la mano è un gesto comune di riconciliazione e di pace (la prima Preghiera Eucaristica della Riconciliazione dice: «Con la forza dello Spirito tu agisci nell’intimo dei cuori perché [ … ] gli avversari si stringano la mano»). Così, dopo aver

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dichiarato che «rimettiamo i debiti ai nostri debitori» − cioè perdoniamo di cuore ogni offesa − esprimiamo nel gesto la volontà di stabilire un rapporto di comunione, di amicizia.

Grande rilevanza hanno, infine, i movimenti delle braccia e delle mani di colui che presiede la celebrazione, in particolare durante la Preghiera Eucaristica. Li possiamo riunire in tre gruppi di significato:

- braccia e mani che pregano (braccia allargate, braccia innalzate, mani congiunte);

- braccia e mani che santificano (imposizione delle mani e benedizione delle offerte);

- braccia e mani che mostrano (gesto dell’elevazione dopo le parole di consacrazione e alla dossologia finale).

«Alcuni chiesero ad abbà Macario: «Come dobbiamo pregare?». L’anziano disse loro: «Non c’è bisogno di dire vane parole, ma solo di tendere le mani».

Ogni volta che si è poveri di parole, il corpo da solo è sufficiente ad esprimere la preghiera.

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IMPORRE LE MANI

Appoggiare la mano sulla testa di un bambino è un gesto assai comune: esprime la volontà di non lasciarlo solo, soprattutto nel momento in cui può provare paura. Nella storia della salvezza questo è il gesto fondamentale per esprimere la benedizione di Dio (Gn 48,13-16). È anche il segno con il quale si esprime la scelta di una persona da parte dello Spirito Santo (Dt 3,9). Gesù impone le mani per manifestare la benevolenza di Dio, liberare dal male, ridare la parola ai muti e la vista ai ciechi. Sul suo esempio, gli apostoli e la Chiesa, fin dagli inizi, hanno assunto questo stesso gesto per manifestare la salvezza di Dio e la missione comunicata alla Chiesa e tramandata di generazione in generazione.

Posare le mani su qualcuno è un gesto essenziale e vitale, destinato a comunicargli una forza. Così, nel gesto rituale dell’imposizione delle mani, Dio riempie dei suoi doni la creatura che gli si presenta a mani vuote, in attesa di salvezza.

La creatura ha le palme delle mani vuote rivolte verso l’alto, mentre il celebrante ha le palme delle mani rivolte verso il basso: l’una sta attendendo in una povertà ricca di supplica, l’altro nella sua generosità la sta riempiendo dei doni divini.

È un gesto di benedizione, anzitutto: al termine dell’Eucaristia colui che presiede la celebrazione invia i fedeli a testimoniare attraverso il mondo l’amore trinitario. Per questo le benedizioni solenni chiedono il gesto dello stendere le mani sull’assemblea.

È, poi, un gesto di guarigione: durante il Battesimo si stende la mano mentre si recita la preghiera per liberare dal

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male il futuro battezzato e trasmettergli la forza di Cristo. È anche il gesto tradizionale della visita ai sofferenti e del sacramento dell’unzione degli infermi.

Imporre le mani è, infine, un gesto di consacrazione: tutti ricordiamo quando, durante la Preghiera Eucaristica, i presbiteri stendono le mani sul Pane e sul Vino. Chi ha partecipato ad una Ordinazione Presbiterale ricorda la solennità del gesto compiuto prima dal Vescovo sugli ordinandi presbiteri, e poi da tutti i preti concelebranti, esprimendo in questo modo la loro approvazione e l’unità con il nuovo ordinato.

Anche la missione affidata agli sposi di essere ministri dell’amore di Dio con il loro amore, viene comunicata imponendo su di loro le mani mentre si pronuncia la preghiera di benedizione.

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