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L’ACQUISIZIONE DEL CONSENSO È INDISPENSABILE PER UNA SICURA ATTIVITÀ PROFESSIONALE

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L’ACQUISIZIONE DEL CONSENSO È INDISPENSABILE PER UNA SICURA ATTIVITÀ PROFESSIONALE

Avv. Lorenzo D’Urso*

1. Il dovere d'informativa, che impone al medico di fornire al proprio assistito tutte le notizie inerenti la cura del caso prima di intraprendere qualsiasi intervento, ha caratteristiche di extragiuridicità, rappresentando, insieme a quelli della correttezza, della colleganza, della riservatezza e del disinteresse, uno dei principi comuni alle professioni liberali riconosciuti ed osservati dai consociati siccome emanati dagli Ordini Professionali nell'esercizio della potestà disciplinare. Nasce, pertanto, come dovere deontologico normalmente irrilevante sul piano del diritto, anche se una non recente decisione della Corte di Cassazione a Sez. Unite (09.03.1965 n. 357) ritiene che tale dovere, pur nascendo da esigenze di natura disciplinare, possa valere quale criterio integrativo di valutazione dell'esatto adempimento del medico e, sul piano civilistico, il riferimento ai principi deontologici è previsto fra le norme generali di correttezza e diligenza in tema di adempimento delle obbligazioni.

Anche sotto l'aspetto penale le varie tesi poste a fondamento della liceità del trattamento medico-chirurgico, pongono sempre come condizione necessaria, se non sufficiente, il consenso del paziente, tanto che, nel caso di mancanza o insufficienza del detto consenso, ed escluse le ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori o di grave ed imminente pericolo per la salute o per la vita del paziente (quali il rifiuto di emotrasfusioni da parte dei testimoni di Geova o lo sciopero della fame), l'intervento del medico senza il preventivo consenso del paziente, può comportare responsabilità penale a titolo di dolo.

La necessità del consenso è dunque indispensabile per una sicura attività professionale che non deve mai attentare al diritto della persona a "rimanere

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malata" e ad esercitare preventivamente, dopo adeguata informazione dei rischi e delle conseguenze dell'intervento, la facoltà di autodeterminarsi e di voler continuare a convivere con la malattia, lasciando che la natura segua il suo corso.

Il vigente codice di deontologia medica detta in proposito disposizioni di carattere generale che sembrano esulare dagli stretti limiti di natura disciplinare per assurgere a criteri generali di comportamento nell'adempimento delle obbligazioni connesse all'esercizio dell'attività professionale. Infatti all'art. 18 esige che il medico, nel rilasciare le prescrizioni terapeutiche, debba fornire in termini comprensibili tutte le idonee informazioni e, per quanto possibile, verificarne la corretta esecuzione e agli artt. 21, 31 si richiama alla necessità della “più serena e idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e della mancata terapia…”, stabilendo che “le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti, senza escludere mai elementi di speranza”.

Eccetto i casi di trattamenti sanitari obbligatori (malattie mentali, infettive, tossicodipendenze), che possono praticarsi addirittura in assenza di consenso, la legge non regola le varie ipotesi in cui il consenso debba essere richiesto e le relative modalità, limitandosi a richiedere la forma scritta per casi particolari (interruzione di gravidanza, trasfusione di sangue, accertamenti per HIV, sperimentazione di farmaci).

Pertanto anche se il richiamo alle norme deontologiche può costituire un utile riferimento, restano privi di espressa regolamentazione molti casi di rifiuto o incapacità a prestare il consenso, di soccorso in imminente pericolo di vita, nei quali il rispetto dei diritti del malato, costituzionalmente garantiti, può determinare situazioni di rischio per il medico, esposto a possibili rivendicazioni del paziente o dei familiari.

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Poiché il consenso è ovviamente subordinato ad una preventiva illustrazione al paziente del caso clinico e dei rischi connessi, occorre che il professionista provveda alla raccolta di completa documentazione delle situazioni di fatto, delle informazioni fornite e del consenso ricevuto.

Siamo del parere che la prassi frequente della preventiva sottoscrizione di moduli prestampati, di generica adesione alle cure che saranno praticate, non può esaurire l'obbligo del medico, per cui occorre invece approntare una modulistica che dovrà essere sottoscritta dal paziente o da chi legalmente lo rappresenti e possa adattarsi con opportuni riferimenti al caso personale, specificando in particolare la diagnosi, il tipo di intervento, il tipo di anestesia, i relativi rischi, la prognosi e il programma terapeutico, pur avendo riguardo - come si esprime l’art. 29 del codice di deontologia medica –“a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire e accettare, evitando superflue precisazioni di dati inerenti gli aspetti scientifici”.

Ulteriori quesiti nascono dalla problematica del consenso, quali ad esempio:

• l'identificazione del soggetto cui incombe l'obbligo dell'informazione nelle strutture di ricovero o ambulatoriali.

• la mancanza di consenso o il caso il dissenso manifestato prima, o nella fase di predisposizione dell'intervento, ed infine l'ipotesi di mutamento radicale della cura sorto dopo il consenso.

Sono tutti interrogativi che comportano situazioni di rischio, limitative dei poteri di iniziativa ed autonomia del medico, e che oggi trovano in sede giudiziaria particolare attenzione e soluzioni improntate ad un certo rigore.

2. Anche nell'ambito della colpa medica, l'attuale tendenza giurisprudenziale sembra improntata a particolare rigore.

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È noto infatti che, sino agli anni ottanta, la responsabilità penale del medico era compresa nell'ipotesi della colpa grave di cui all'art. 2236 c.c., mentre successive pronunce hanno ritenuto questa limitazione applicabile soltanto in sede civile, limitatamente alla colpa per imperizia, e non invece nella sede penale per la valutazione dell'elemento psicologico del reato, la cui sussistenza può e deve essere liberamente valutata dal giudice.

Il maggiore o minore grado di colpa può influire, dunque, sulla determinazione della pena, ma non può avere efficacia discriminante.

Per quanto poi riguarda il nesso di causalità in materia di reati omissivi impropri, si è ritenuto consentito al giudice fare ricorso al cosiddetto “modello della sussunzione sotto leggi scientifiche” e in particolare statistiche, le quali si limitano a stabilire la percentuale dei casi in cui il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento.

Conseguentemente nei reati omissivi, dovendosi fare ricorso ad un giudizio ipotetico, il nesso di causa viene valutato con minor rigore ed il giudice può limitarsi a riconoscere la mera probabilità che la condotta dell'agente costituisca una condizione necessaria dell'evento.

In altre parole si ritiene oggi la sussistenza del rapporto causale allorché il tempestivo e corretto intervento sanitario sarebbe stato idoneo a produrre SERIE E APPREZZABILI POSSIBILITA' di successo, per salvare la vita del paziente, anche se manchi di ciò la piena certezza.

In particolare mentre Cass. Sez. IV 12.7.91 ha riconosciuto sussistente un nesso di causalità legato ad un criterio di probabilità del 30% (caso di mancata diagnosi tempestiva di patologie insorte dopo un intervento), la stessa sezione, con la sentenza del 27 settembre 1993, ha ritenuto che il giudizio di probabilità debba essere riscontrato “con un sufficiente grado di certezza, se non assoluta (data la molteplicità dei fattori normalmente presenti) almeno con UN GRADO TALE

DA FONDARE SU BASI SOLIDE UN' AFFERMAZIONE DI

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RESPONSABILITÀ (caso di anestesia praticata con un determinato farmaco, l'Ethrane - e successiva insorgenza di una crisi di mioglobinuria)”.

Il suddetto rigoroso orientamento sembra prevalentemente ispirato da ragioni umanitarie per i casi in cui l'omesso intervento medico avrebbe avuto, anche limitate, probabilità di salvare una vita umana, ma non rispetta, a nostro avviso, il principio fissato dall'art. 40 c.p. che, se pure pone la causalità dell'omissione in termini di equivalenza e non di identità rispetto al “cagionare”, non può determinare un giudizio elaborato in termini probabilistici e condurre a risultati diversi a seconda dei soggetti e dei beni da tutelare.

Sussiste il nesso di causalità - ha stabilito Cass. 7.3.89 Princivalli - quando l'omesso intervento “ANCHE SE NON SAREBBE VALSO CON OGNI CERTEZZA A SALVAGUARDARE LA VITA DEL PAZIENTE, AVREBBE AVUTO NOTEVOLI PROBABILITA' DI RAGGIUNGERE LO SCOPO”.

Conseguentemente invece di decidere “in dubio pro reo”, il Giudice potrebbe limitarsi a stabilire che l'inosservanza della regola di condotta ha determinato un aumento del rischio di verificazione dell'evento e ciò sarebbe sufficiente per un giudizio di responsabilità.

In altre parole l'evento non voluto, seguito all'omissione, determina di per sé il verificarsi di una condizione oggettiva di punibilità non prevista dalla norma.

L'attuale tendenza giurisprudenziale perviene, dunque, a conclusioni inaccettabili, anche perché il medico, in certi casi, posto nell'alternativa di procedere o meno all'intervento, potrebbe essere indotto a privilegiare l'azione anziché l'omissione, in quanto, nel primo caso il nesso di causa con l'evento verrebbe poi valutato secondo i normali criteri di giudizio e, nel secondo, invece, in base a meri calcoli probabilistici. Riteniamo che fra i rischi inerenti l'esercizio professionale, quello cui abbiamo fatto ora cenno, rappresenti un caso particolarmente allarmante.

Lorenzo D'Urso

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