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ANTOLOGIA. Giovanni Verga. Libertà

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Academic year: 2022

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ANT OL OGIA

Giovanni Verga

Libertà

Novelle rusticane, 11

La novella si ispira a un episodio storico. Nei primi giorni dell’agosto del 1860, a Bronte, un paesino alle falde dell’Etna, i contadini si sollevarono contro i galantuomini, compiendo atti di inaudita violenza. A rivolta conclusasi, Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, raggiunse il paese, proclamò lo stato di guerra e al termine di un processo sommario fece giustiziare cin- que degli insorti.

Sciorinarono1 dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo2, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!».

Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casi- no3 dei galantuomini4, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradic- ciuola.

«A te prima, barone! che hai fatto nerbare5la gente dai tuoi campieri!6». Innan- zi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie.

«A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima!» «A te, ricco epulone7, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero!» «A te, sbir- ro!8che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente!» «A te, guardaboschi!

che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì9al giorno!»

E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto ros- so di sangue! «Ai galantuomini! Ai cappelli!10 Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!».

Don Antonio11sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece casca- re colla faccia insanguinata contro il marciapiede. «Perché? perché mi ammazza- te?» «Anche tu! al diavolo!» Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. «Abbasso i cappelli! Viva la libertà!» «Te’!12 tu pure!» Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. «Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale!» La gnà13Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota14e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrindellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché15capita affamato in una mandra, non pensa a riem- pirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. Il figliuolo della Signora, che era accorso per

1. Sciorinarono:‘misero esposto’.

2. a stormo:‘a martello’, cioè con rintocchi rapidi, per chiamare a raccolta la popolazione.

3. casino:‘circolo’.

4. galantuomini:‘proprietari terrieri’.

5. nerbare:‘battere con un nerbo’.

6. campieri:‘sorveglianti armati delle tenute agricole’.

7. epulone:‘ghiottone’, ‘goloso’; qui Verga si riferisce esplicitamente alla parabola del ricco epulone, nel Vangelo di Luca, XVI, 20.

8. sbirro:‘guardia’.

9. tarì:moneta del Regno di Napoli.

10. cappelli:sineddoche, ‘galantuomini’, che indossavano i cappelli, mentre i contadini i ber- retti.

11. Don Antonio:è un proprietario terriero, come indica il «don» che ne precede il nome.

12. Te’:‘Tieni’.

13. gnà:‘signora’

14. Ruota:congegno girevole collocato solita- mente nell’apertura di un muro conventuale, al cui interno venivano abbandonati i neonati.

15. allorché:‘quando’.

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vedere cosa fosse – lo speziale16, nel mentre chiudeva in fretta e in furia – don Pao- lo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in grop- pa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricama- to tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. «Paolo! Paolo!». Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attac- cava col braccio sanguinante al martello17.

Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rial- zato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: «Ned- du! Neddu!». Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani.

Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; strappava il cuo- re! Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, qua- si avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia.

Un altro gridò: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!».

Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava ver- sare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! Non era più la fame, le bastonate, le soper- chierie18 che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando d’ira in falsetto19, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. «Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta!» «Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente!» «Te’!

Te’!» Nelle case, su per le scale, dentro le alcove20, lacerando la seta e la tela fine.

Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!

La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti pie- ne, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La fol- la chinava il capo alle schioppettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima21 c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. «Viva la libertà!» E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulle gradinate, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i cam- pieri. «I campieri dopo!» Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici22e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scar- migliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora col- le carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando:

«Mamà! mamà!». Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo calpestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel bal- cone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, qua- si avesse avute cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, 30

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16. speziale:‘farmacista’.

17. martello:‘battente della porta’.

18. le soperchierie:‘i soprusi subiti’.

19. in falsetto:‘con voce acuta’.

20. alcove:‘camere da letto’.

21. Prima:negli anni del regime borbonico.

22. fatte di pernici:‘nutrite con sola carne di pernici’; le pernici sono uccelli che hanno una carne molto pregiata e cara.

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sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bam- bino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addenta- to una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non poteva- no colpire nel mucchio e luccicavano in aria.

E in quel carnevale23 furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi24 della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sban- darsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Pri- ma di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti25, con un rosic- chiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalanca- ti i portoni e le finestre delle case deserte.

Aggiornava26; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che comincia- rono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripen- sando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in mol- ti, si diedero a mormorare. Senza messa non potevano starci, un giorno di domeni- ca, come i cani! Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove anda- re a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sem- pre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.

E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato27, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra di sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino.»

«Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti!» «Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli!» «Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa!» «E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo biso- gna tornare a spartire da capo?» «Ladro tu e ladro io.» «Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini!»

«Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.

Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale28, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camìce rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arruggi- nito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.

Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della trom-

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23. carnevale:qui per ‘caos’.

24. briachi:‘ubriachi’.

25. canti:‘angoli delle strade’.

26. Aggiornava:‘iniziava a fare giorno’.

27. E come... sagrato:‘e come si avvicinava il mezzogiorno’.

28. il generale:si tratta, nella realtà storica, di Nino Bixio (Genova, 1821-Banda Atjeh, 1873), luogotenente di Garibaldi.

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ba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando29come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizza- nello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strappa- rono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schiopettate in fila come i mortaletti della festa30.

Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arram- picati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo men- tre interrogavano gli accusati nel refettorio31del convento, seduti di fianco sulla scranna32, e dicendo ahi! ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherella- to da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltan- to il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti dive- nivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri gior- ni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minac- ciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo33costava due soldi; il pane bianco si man- giava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatria- rono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella cit- tà e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace.

L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie34, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: «Sta’ tranquilla che non ne esce più». Ormai nessuno ci pen- sava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi ver- so la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tran- quillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci.

Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole.

Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li con- ducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal vil- laggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia35– ché capponi davvero si diventava là den-

29. sacramentando:‘dicendo bestemmie’.

30. mortaletti della festa:‘piccoli fuochi d’ar- tificio’.

31. refettorio:‘mensa’.

32. scranna:‘panca’.

33. stallazzo: ‘stalla di locande e alberghi, destinata ai cavalli degli ospiti’.

34. ubbie:‘timori’, ‘paure’.

35. capponaia: metafora, ‘la gabbia degli imputati’.

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tro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio36quello dello speziale, che s’era impa- rentato a tradimento con lui!

Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. «Voi come vi chiamate?» E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeg- giavano fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti37, e si scalmanavano, face- vano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini38, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano39fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galan- tuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cer- cavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rien- trarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: «Sul mio onore e sulla mia coscienza!40».

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: «Dove mi con- ducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se ave- vano detto che c’era la libertà!...».

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36. mostaccio:‘viso’; letteralmente, i mostac- ci sono i baffi.

37. larghi maniconi pendenti:sono le mani-

che della toga.

38. Di faccia... galantuomini:la giuria.

39. ciangottavano:‘chiacchieravano a bassa voce’.

40. «Sul mio... coscienza!»:è la formula che introduce il verdetto della giuria.

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L ettura guidata

UNA NOVELLA IN TRE ATTI La narrazione si arti- cola in tre parti principali. La prima è incentrata sulla rivolta popolare, descritta con uno stile vio- lento ed incisivo. Di «quel carnevale furibondo del mese di luglio» (r. 78) l’autore mette in evidenza sia lo svolgimento complessivo, sia i singoli atti di ferocia compiuti dalla folla, indugiando sui detta- gli: la folla imbestialita colpisce indistintamente;

per questa ragione la sommossa, che nasce da chia- re ragioni sociali, finisce per diventare una carne- ficina. La violenza popolare è resa con uno stile espressionista, che accentua la drammaticità dei fatti narrati: attraverso frasi concise, periodi nomi- nali ed ellissi, la folla viene immortalata in tutta la sua prorompente furia; anche le immagini naturali che ne descrivono le azioni (la folla è ora un mare in tempesta, «Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava [...] un mare di berret- te bianche», rr. 3-5, ora un torrente che rompe gli argini e travolge tutto ciò che incontra, «Lo rove- sciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio

come suo padre; il torrente gli passò di sopra», rr.

41-42) ne accentuano l’irrefrenabile brutalità. In questa prima sezione sono frequenti anche le ana- fore, le esclamazioni e i frammenti di discorso diretto: in questo modo Verga rende il continuo crescendo della furia omicida della folla. Quando poi, a sera, la carneficina si conclude, la folla si sbanda, si disperde ed entrano in scena i singoli con le loro angosce: ognuno ritorna alla propria casa prostrato, «fuggendo il compagno» (r. 81), in preda alla paura e all’incertezza: un radicale cam- biamento, questo, che Verga rende con un ritmo più disteso della narrazione.

La seconda parte della novella è incentrata sulla giustizia sommaria che «il generale, quello che fa- ceva tremare la gente» (r. 107), fa in paese. Alcuni tra i rivoltosi vengono presi e giustiziati: sono «i pri- mi che capitarono», uccisi senza processo per ordi- ne del generale, qui descritto come un uomo picco- lo e sempre solo («quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo», r. 113), de- ciso ed inflessibile («Il generale [...] mise a dormi- re i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima

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dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei», rr. 114-117).

Nell’ultima parte, che si apre con il capoverso

«Dopo arrivarono i giudici» (r. 123), si raccontano l’arrivo in paese dei giudici e i primi interrogatori, il trasferimento degli imputati a Catania e la vita che là in città le loro donne sono costrette a fare, il processo e il suo esito. Dopo tre anni di dibatti- mento, tutti gli imputati vengono condannati. Al paese, intanto, il vecchio ordine sociale era stato

ripristinato: «Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima» (rr. 143-144). I rapporti tra i galantuomini e la povera gente erano stati ristabiliti poiché gli uni continuavano ad ave- re bisogno degli altri: «I galantuomini non poteva- no lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuo- mini. Fecero la pace» (rr. 144-145). Ed è questa un’espressione, «Fecero la pace», carica di amaro umorismo: essa condensa in una battuta l’inutilità della rivolta, sancendo l’impossibilità di mutare le regole, i rapporti di forza e i ruoli sociali.

comprensione

1. Suddividi la novella in sequenze. Per ciascuna indica un titolo appropriato e scrivi una breve sintesi.

2. A quali fatti storici si ispira la novella?

analisi

3. Come viene descritta la folla? Come agisce?

4. In che modo viene descritto il generale? Scrivine un breve ritratto.

5. Verga dedica un’attenzione particolare alla descrizio- ne dei giudici: dopo aver rintracciato nel testo le frasi più significative, spiega la ragione di questa insistenza.

6. Come cambia il registro stilistico al variare delle situazioni narrate?

interpretazione

7. «Libertà» e «giustizia» sono le due parole-chiave di questa novella: quale significato attribuiscono loro i rivoltosi? Quale, invece, i giudici? Rispondi alla doman- da per iscritto, argomentandola attraverso puntuali riferimenti al testo.

8. Quale idea di storia è implicitamente espressa in questa novella? Rifletti sulla conclusione delle vicende narrate: essa dimostra che è possibile un cambiamen- to radicale della società oppure che ogni infrazione del- l’ordine precostituito è destinata a concludersi con un ritorno alle condizioni iniziali? Raccogli le tue riflessioni in un breve saggio.

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