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UNIVERSITA DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTA DI ECONOMIA CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA MARITTIMA E DEI TRASPORTI

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA FACOLTA’ DI ECONOMIA

CORSO DI LAUREA IN ECONOMIA MARITTIMA E DEI TRASPORTI

Inland

terminals, interporti, distriparks come fattori di organico sviluppo decentrato del territorio e dell’economia dei trasporti

Tesi di laurea in Pianificazione Economica Territoriale

Relatore :

Chiar.mo Prof. Enrico MUSSO

Candidato : Emanuele D’AGOSTINO

Anno accademico 1997/98

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INDICE

PRESENTAZIONE

1. CENNI STORICO-EVOLUTIVI

1.1. Il ruolo dei traffici commerciali e dei porti nella storia 1.2. Definizione e funzione di un porto

1.2.1. Il porto-città 1.2.2.Il porto-emporio

1.2.3.Il porto come elemento della catena trasportistica integrata

1.3. I commerci marittimi nel nostro secolo 1.4. La flotta mondiale

1.5. Il gigantismo navale

1.6. La specializzazione dei porti e delle navi 1.7. L’unitizzazione dei carichi

1.8. Navi porta contenitori e spazi portuali 1.9. La nascita del trasporto intermodale 1.10. Il trasporto ferroviario e l’intermodalità

1.10.1.Il ruolo degli interporti

1.11 Porti e sviluppo economico-territoriale

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3

2.

TRASPORTI, ESTERNALITA’ NEGATIVE, IMPRESA

2.1. Crescita economica e sistema dei trasporti in Italia 2.2. I principali impatti ambientali

2.2.1. L’inquinamento atmosferico 2.2.2. L’inquinamento delle acque 2.2.3. L’inquinamento acustico 2.2.4. Le vibrazioni

2.2.5. L’intrusione visiva 2.2.6. L’effetto barriera 2.2.7. L’occupazione del suolo 2.2.8. Il consumo di energia 2.2.9. Gli incidenti

2.2.10. La congestione

2.2.11. Considerazioni conclusive sulle esternalità ambientali 2.3. Le politiche per ridurre le esternalità generate dai trasporti

2.3.1. Il contenimento della domanda 2.3.2. La pianificazione territoriale

2.3.3. La promozione di modi meno intrusivi 2.3.4. La gestione del traffico

2.3.5. Il miglioramento tecnologico 2.4. Le esternalità negative generate dal porto

2.5. Effetti territoriali della fuga dell’industria di base 2.6. Effetti economici della fuga dell’industria di base 2.7. Conseguenze al mutamento delle correnti di traffico

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4

3. ASPETTI GIURIDICI RELATIVI ALL’INTERPORTUALITA’

3.1. La necessità degli interporti

3.2. Lo studio dell’ISTRA e l’aggiornamento del Piano Generale 3.3. La legge n°240 del 4 agosto 1990

3.4. Il piano quinquennale degli interporti 3.5. Rilevanza nazionale degli interporti

3.6. Gli istituti giuridici per l’ammissione ai finanziamenti 3.7. Il finanziamento degli interporti

4. LOGISTICA E INTERPORTI

4.1. Delocalizzazione territoriale e servizi logistici 4.2. La logistica nei terminali interni

4.3. Imprese fornitrici di servizi logistici e interporti 4.4. I servizi logistici negli interporti

4.5. I servizi logistici

4.5.1. Operazioni di trasporto

4.5.2. Operazioni ausiliarie al trasporto 4.5.3. Operazioni di distribuzione fisica

4.5.4. Operazioni di gestione 4.5.5. Operazioni commerciali 4.5.6. Altri servizi

(5)

5

5. GLI INTERPORTI ITALIANI

5.1. Gli interporti italiani

5.2. Le considerazioni di Assointerporti 5.3. L’interporto di Torino Orbassano 5.4. L’interporto di Novara

5.5. L’interporto di Rivalta Scrivia 5.6. L’interporto di Bologna 5.7. L’interporto di Parma 5.8. L’interporto di Livorno 5.9. L’interporto di Padova 5.10. Gli altri centri

5.10.1. Il centro di Rogoredo 5.10.2 Il centro di Pomezia 5.10.3 Il centro di Busto Arsizio 5.10.4 Il centro di Novara

5.11. L’intermodalità nel mezzogiorno d’Italia 5.12. L’interporto di Marcianise

5.13. L’interporto di Nola

5.14. La localizzazione e il numero degli interporti italiani 5.15. Altre Strutture

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6. L’INTERPORTO DI VERONA

6.l. consorzio ZAI

6.2.Principali provvedimenti legislativi riguardanti il consorzio ZAI 6.3. Lo statuto del consorzio ZAI

6.4 La Quadrante Servizi s.r.l 6.5 La struttura interportuale

6.5.1. Il centro direzionale 6.5.2. La zona ferroviaria 6.5.3. La dogana

6.5.4. I servizi ai mezzi 6.5.5. Il centro spedizionieri 6.5.6. Il centro autotrasportatori 6.5.7. I magazzini generali 6.5.8. I centri logistici 6.6. Traffico merci ferroviario

6.7. Punti di forza, di debolezza e sviluppo futuro 6.8. Oltre l’interporto : il Parco Scientifico Tecnologico

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7

7. IL DISTRIPARK

7.1. Premessa

7.2. Il concetto e la nascita dei distriparks 7.3. Zone franche e distriparks

7.4. Localizzazione territoriale dei distriparks 7.5. Le attività svolte e i servizi offerti

7.6. Distriparks e sistema trasportistico reticolare 7.7. I trade and marketing centers

8. CENTRI NODALI, RETI INFRASTRUTTURALI, IMPRESE:

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

8.1. Progetti per una rete transeuropea dei trasporti 8.2. Le freeways ferroviarie

8.3. Gli archi italiani

8.4. La cargo-city di Malpensa 2000

8.5. L’uso dell’informatica a supporto dello sviluppo del sistema dei trasporti 8.6. Cooperazione e coordinamento per la crescita

BIBLIOGRAFIA E FONTI LEGISLATIVE

NOTA REDAZIONALE:

Questa tesi si compone di 286 pagine

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PRESENTAZIONE

Prima di procedere ad una indicazione sommaria del contenuto del presente lavoro, può essere utile, ai fini di una migliore comprensione, spiegarne il titolo, articolato e piuttosto insolito, almeno per una per una tesi di laurea.

Innanzi tutto, mi sembra onesto ammetterlo, penso di poter dire di appartenere alla ristretta élite di coloro che hanno avuto la fortuna di poter approfondire un argomento da loro stessi proposto.

La formulazione del titolo, in realtà, è nata da una facilissima constatazione : il sempre crescente numero di veicoli commerciali circolanti nei centri abitati, sulle strade e sulle autostrade, con i conseguenti disagi per la mobilità stessa e per le popolazioni. Poi, il fatto di non aver mai approfondito personalmente l’argomento dei terminali interni (inland terminals, interporti e distriparks, appunto), unito alla crescente ricorrenza delle tematiche generalmente legate all’ambiente e alla sentita necessità che i nostri sistemi economico-territoriali cerchino di incrementare ulteriormente le proprie condizioni di benessere, hanno fatto sì che proponessi un argomento nei termini di cui si può leggere alla pagina precedente.

Da un lato vi sono le esternalità negative generate dai flussi commerciali, dall’altro la possibilità di ulteriore sviluppo. Questi aspetti, il più delle volte, sembrano essere difficilmente

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9

conciliabili. Nel presente lavoro ho analizzato i terminali interni considerandoli come fattori

“stabilizzanti” dell’intero sistema trasportistico : infrastrutture che, al tempo stesso, possono contribuire alla mitigazione delle numerose esternalità negative e allo sviluppo dell’economia, in modo tale che un sistema trasportistico che vuole rispettare l’ambiente non sia un sistema trasportistico che sceglie di non crescere.

La realizzazione del presente lavoro mi è stata facilitata dal Prof. Mauro Casanova (Università di Genova), dalla Dott.sa Michela Merlo (Ufficio Relazioni Esterne Consorzio ZAI - Interporto Quadrante Europa, Verona), dal Signor Mariano Maresca (World Trade Center, Genova), dalla Dott.sa Francesca Moglia (università U.F.S.I.A. di Anversa), dal Dott. Danilo Cabona (Autorità portuale di Genova) e dalle Autorità Portuali di Rotterdam, Anversa e Singapore, tutti sempre pronti e disponibili nel fornirmi materiale e riferimenti bibliografici. A tutte queste persone e istituzioni vanno i miei più sentiti ringraziamenti.

Passiamo ora ad illustrare sommariamente il contenuto del mio lavoro : nel primo capitolo abbiamo analizzato i principali fenomeni la cui evoluzione ha determinato lo stato attuale del sistema trasportistico. Globalizzazione, delocalizzazione industriale, “rivoluzione dei trasporti”, carenza e costo dello spazio, sono alcuni degli argomenti trattati.

Nel secondo capitolo abbiamo considerato le diverse esternalità generate dai flussi trasportistici (congestione, inquinamento atmosferico, incidenti etc.) e alcuni strumenti per ridurle (pianificazione economica territoriale, tecnologia etc.). La chiusura del capitolo è dedicata alle conseguenze economiche e territoriali derivanti dalla delocalizzazione dell’industria di base.

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Il terzo capitolo affronta la tematica interportuale dal punto di vista giuridico, analizzando i principali provvedimenti legislativi a riguardo e come questi possano contribuire allo sviluppo sostenibile del sistema trasportistico.

Nel quarto capitolo sono trattate le attività svolte e i servizi logistici offerti presso le strutture interportuali, sempre secondo un’ottica pianificatoria e razionalizzatrice. L’aspetto qualificante dell’interporto rispetto all’inland terminal, si dirà, consiste nella gamma di servizi ad alto valore aggiunto e nelle attività che si svolgono nei primi e non nei secondi.

Il capitolo quinto passa in rassegna gli interporti italiani : caratteristiche tecniche, localizzazione, collegamenti, politiche di integrazione in un sistema trasportistico reticolare, sono alcuni degli aspetti considerati relativamente ad ogni struttura.

Il capitolo sesto è un approfondimento monografico sull’interporto Quadrante Europa di Verona, la cui importanza nei traffici in importazione e in esportazione da e per il centro Europa è notevole.

Il capitolo settimo tratta del distripark. Per tale struttura, centro nodale di importanza vitale per la moderna distribuzione su scala sovranazionale, la carenza di materiale a riguardo che potesse considerarsi di autentico valore scientifico, non si è potuto far altro che cercare un primo approccio sistematico e teorizzante.

Infine, il capitolo ottavo chiude il lavoro considerando come le strutture analizzate si inseriscono nel contesto delle infrastrutture trasportistiche europee ed italiane, considerando i progetti per future realizzazioni in vista di un sistema transeuropeo della rete trasportistica.

Diffusione di sistemi di comunicazione informatica tra imprese, integrazioni gestionali e cooperazione tra imprenditori, sono alcuni degli aspetti che, nelle ultime pagine, si considerano

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efficaci per promuovere un ulteriore sviluppo dell’intero sistema trasportistico che sia compatibile con l’equilibrio economico e ambientale delle aree che attraversa.

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1. CENNI STORICO-EVOLUTIVI

1.1. IL RUOLO DEI TRAFFICI COMMERCIALI E DEI PORTI NELLA STORIA

Una delle più antiche attività dell’uomo è forse il commercio. E’ infatti la necessità dei membri delle popolazioni primitive di incontrarsi e scambiarsi, quando ancora non era stato coniato alcun tipo di moneta, i prodotti di cui disponevano e quelli di cui avevano bisogno, che ha permesso l’evoluzione di tutto il genere umano.

L’incontro con altre persone che vivono in luoghi diversi, ha determinato, in concomitanza con altri fattori, quali la necessità di una comune difesa, la possibilità di sfruttare favorevoli risorse del suolo, e altri fattori agglomeranti, la nascita prima dei mercati (intesi semplicemente come punto nello spazio dove domanda e offerta si incontrano) e poi dei villaggi, quindi delle città e, in generale, l’intera evoluzione del processo di sviluppo dell’umanità.

Non appena il progresso tecnologico e la conoscenza lo hanno permesso, l’uomo ha iniziato a solcare i mari, prima ancora di spostarsi per lunghi tragitti terrestri, tutto considerato, più rischiosi e incerti.

In conseguenza all’uso del mare come fattore di sviluppo della società a cui si appartiene, nascono i primi porti, spesso “naturali”, poiché costituiti da insenature sotto costa create gratuitamente dalla natura, senza bisogno di alcun intervento infrastrutturante da parte dell’uomo.

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Il porto si evolve nel tempo, è costruito artificialmente, diviene fattore localizzativo1 per la nascita delle città moderne, oggetto in discussione di sanguinose guerre, tuttavia è sempre presente e con importanza maggiore nella vita economica della società.

La funzione primaria di un porto rimane sostanzialmente la stessa nel corso dei secoli : permette lo sbarco e l’imbarco delle merci trasportate via mare dalle navi.

Con lo sviluppo dei traffici commerciali e la crescita delle città intorno al nucleo porto, quest’ultimo viene ad assumere sempre maggiore importanza e una pluralità di funzioni che vanno oltre la funzione primaria di cui sopra.

Il porto diventa, con la crescita dei flussi commerciali, il crocevia per le numerose attività legate al trasporto in generale (via mare ma anche via terra) : mercanti, assicuratori, banchieri, forza lavoro, sono alcune delle figure che si possono rinvenire nelle immediate vicinanze delle banchine.

Poco sopra abbiamo definito la funzione primaria di un porto. Dobbiamo ora aggiungere che tale funzione è quasi esclusivamente in una posizione servente2 nei confronti dell’aggregato che gli sta intorno. Ciò almeno fino a quando le moderne tecnologie non permettono una gestione decisamente più economica dell’intero ciclo trasportistico, che convenzionalmente si indica come “rivoluzione dei trasporti”, sviluppatasi a partire dagli anni ’50 del nostro secolo.

1 Si parla di fattore localizzativo quando, nell’ambito di uno spazio territoriale, è possibile rinvenire determinate caratteristiche (fisico - morfologiche, economiche etc.) atte a indurre uno sviluppo accentuato e competitivo dello spazio stesso.

2 Servente nel senso che quanto transita per il porto è quasi esclusivamente destinato alla comunità che gli vive a ridosso.

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1.2. DEFINIZIONE E FUNZIONE DI UN PORTO

Un porto può essere definito come un’area nell’ambito della quale le navi sono caricate e scaricate. Solitamente tale area include anche lo specchio acqueo (rada) dove le stesse navi attendono di poter approdare fisicamente alle banchine dove poi verranno compiute le operazioni tipiche del ciclo trasportistico. Il porto inoltre, spesso, si interfaccia con altre forme di trasporto, diverse da quello marittimo, come quella per via ferroviaria o stradale. Per garantire l’effettivo funzionamento dell’interfaccia di cui sopra, all’interno del porto sono anche forniti i servizi e le infrastrutture necessarie3.

La disponibilità di un approdo marittimo o fluviale, comunque configurato, è sicuramente uno dei maggiori vantaggi competitivi4 di cui una società possa disporre per svilupparsi e crescere economicamente.

Il porto viene così ad assumere un ruolo molto importante per lo sviluppo economico e culturale di una società, poiché là giungono beni, persone, conoscenze da paesi e realtà più o meno lontane.

Limitandoci alla considerazione dell’aspetto economico, che è quello che ci interessa maggiormente, il porto ha avuto, in epoche diverse, funzioni e caratteristiche diverse. Pensiamo di

3 All’interno di un’area portuale si trovano spazi destinati ad accogliere le merci scaricate in attesa dell’inoltro al destinatario, posteggi per i camion, uffici doganali, filiali di agenzie marittime e quant’altro necessario al traffico merci.

4 Il vantaggio competitivo si configura nel momento in cui un soggetto dispone di un qualche elemento, materiale o immateriale che in qualche modo lo avvantaggia nella conduzione del proprio business rispetto ai concorrenti diretti ma anche potenziali.

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poter individuare le seguenti : porto-città, porto-emporio, elemento della catena trasportistica integrata.

Analizziamo ora uno per uno i punti di questa classificazione, che, come tale, ha un valore puramente semplificativo.

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1.2.1. IL PORTO-CITTA’

Con questa espressione vogliamo riferirci al fatto che nell’antichità e comunque fino a quando le città non raggiunsero un certo grado di evoluzione, grazie alla tecnologia e allo sviluppo demografico, e le possibilità e le necessità di spostarsi nello spazio erano scarse, non difficilmente il porto e la città erano un tutt’uno. Ivi si svolgono tutte le attività economiche e non della nuova entità territoriale, certamente ancora embrionale.

Tutte le attività urbane si svolgono nelle immediate vicinanze dell’approdo : così dove le merci sono sbarcate e sdoganate è possibile acqistarle e venderle, sia per i mercanti sia per i cittadini, sia per coloro che provengono dalle campagne non ancora interessate dall’urbanesimo.

Inoltre, tutte le attività facenti parte di quello che, con parole moderne, si definisce indotto, sono svolte all’interno dell’area portuale : assicurazione delle merci, finanziamento della reperimento degli equipaggi (ricordiamo la commenda di mare5).

Se a ciò si aggiunge l’estrema esiguità degli insediamenti abitativi, la scarsità delle attività industriali e commerciali, la limitata estensione delle aree di mercato e di fornitura, la necessaria compattezza dell’insediamento nel suo complesso per ragioni difensive, ecco che non è difficile comprendere che porto e città costituiscono in pratica un tutt’uno, un’unica entità territoriale indistinta nei suoi confini interni, spesso ben definita in quelli esterni : il mare da una parte e possenti mura

5 La commenda di mare (o societas maris) è stipulata tra un capitalista (socius stans o creditore) che fornisce un certo capitale ed un capitano di mare (socius tractans o debitore) che si impegna ad usarlo per comperare merci in qualche porto e rivenderle altrove, rimborsando il socio al ritorno e dividendo con lui i profitti ottenuti nella seguente proporzione : ¾ al capitale e ¼ al lavoro (G. Felloni, Profilo di storia economica dell’Europa, G.

Giappichelli editore - Torino, 1993.

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dall’altra, per esempio. Porto e città si identificano in un locus conclusus, autonomo e dotato di capacità autopropulsiva.6

6 Il sistema porto-città detiene tutte le conoscenze necessarie alla sua evoluzione perché pressoché inesistenti sono i commerci terrestri.

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1.2.2. IL PORTO-EMPORIO

Con il progressivo sviluppo dei traffici e della dimensione delle città, che sorpassano ormai i confini disegnati dalle cinte murarie, si assiste alla delocalizzazione di tutte quelle attività che non sono strettamente legate alla manipolazione delle merci.

Il porto viene ad assumere la funzione di crocevia per le merci imbarcate e sbarcate, mentre assicurazioni, finanziamenti, prezzi dei beni vengono accordati in altri luoghi, all’interno del diversificato tessuto urbano, le nuove Borse merci.7

Ciò che continua ad essere svolto all’interno dell’insediamento portuale vero e proprio è lo sdoganamento e la commercializzazione dei beni provenienti da oltremare. Molta parte dei prodotti necessari alla cittadinanza, anche i semplicissimi beni di consumo possono essere acquistati in porto8.

A questo è permesso essere luogo fisico di scambio poiché le pressioni insediative sul suolo portuale sono ancora piuttosto scarse : l’industria moderna sta nascendo e il commercio non ha ancora raggiunto le dimensioni che oggi conosciamo. Anche se con intensità sempre decrescente con il passare del tempo, il porto possiede questa caratteristica fino ai primissimi anni ’50 del nostro secolo, cioè fino a quando la “rivoluzione dei trasporti” stravolge completamente funzione e ruolo del porto, imponendo un ripensamento delle tecniche di gestione sino ad allora utilizzate.

7 Ciò è dovuto, almeno in parte, al fatto che la dimensione della città è cresciuta, uscendo dai confini dell’area portuale strettamente intesa. Così vengono allontanate dalle banchine quelle attività che, con una terminologia moderna, potremmo definire come “servizi al carico”.

8 Ricordiamo, a questo proposito, la destinazione d’uso assegnata alla Darsena di Genova.

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1.2.3. IL PORTO COME ELEMENTO DELLA CATENA TRASPORTISTICA INTEGRATA

A seguito della “rivoluzione” dei trasporti e in modo più specifico, dell’unitizzazione dei carichi, il porto perde la funzione di emporio. Ciò è la necessaria conseguenza dell’impressionante sviluppo dell’entità dei flussi commerciali e delle nuove tecnologie impiegate nella gestione dei trasporti.

Il primo elemento che ci pare rilevante è proprio l’aumento delle quantità dei beni trasportati in senso stretto, parlando di tonnellaggio, a prescindere dall’unitizzazione e dalle nuove tecniche e tecnologie impiegate.

A partire dagli anni ’50 del nostro secolo i flussi commerciali sono in vorticosa crescita, con tassi davvero stupefacenti, in calo soltanto in questi ultimi anni. Il volume dei beni trasportati via mare, nel 1953 è stato di 635 milioni di tonnellate , mentre nel 1995 è stato di 4.678 milioni di tonnellate.9

Lo sviluppo è notevole e la conseguenza primaria è che il porto diventa un’area soggetta a forti pressioni insediative, dove il costo del suolo aumenta in modo esponenziale. Il porto, oltre a generare ricchezza, produce diseconomie di vario genere.

Con lo sviluppo dell’intermodalità10 e delle tecniche di gestione integrata della catena trasportistica, argomenti che troveranno ampia trattazione in seguito, il porto diventa un elemento

9 Per l’anno 1953 la fonte è U. Marchese, Aspetti evolutivi dell’economia marittima e portuale, Bozzi, Genova 1985.

Per l’anno 1995 la fonte è Renato Midoro, Appunti di economia e gestione delle imprese di trasporto via mare I, Dipartimento di Tecnica ed economia delle aziende - Sez. ITEC., Università di Genova, 1996

10 Secondo la definizione della convenzione Internazionale dell’O.N.U., Ginevra maggio 1980, un trasporto è intermodale o multimodale quando un solo soggetto economico assume il compito di organizzare più operazioni

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cruciale ma non unico per lo sviluppo ulteriore dei traffici in un’ottica di sostenibilità dello sviluppo stesso : nascono gli stabilimenti industriali per la trasformazione delle materie prime, i collegamenti diretti con la ferrovia e con l’autostrada, i terminal contenitori situati nel retroterra portuale, sempre più lontani dal waterfront, gli interporti scoprono finalmente la loro necessità11, mentre nuove tendenze e concetti di gestione vengono alla luce, come i moderni distriparks testimoniano.

successive di trasferimento e trasbordo in un ciclo complesso di trasporto, con il ricorso a modi di trasporto diversi : ciò sia che le singole operazioni di trasferimento, trasbordo, caricazione, scaricazione vengano svolte direttamente da questo soggetto sia che il soggetto in questione affidi ad altri l’esecuzione delle singole operazioni stesse.

11 La nascita istituzionale dell’interporto avviene con la Legge n°240 del 4 agosto 1990 - “Intervento dello stato per la realizzazione di interporti finalizzati all’intermodalità”, tuttavia soltanto quando le pressioni insediative sulle aree portuali si fanno maggiori e insopportabili, si comincia ad utilizzare tale tipo di infrastruttura, precedentemente considerato inutile per il fatto che i servizi che al suo interno potevano svolgersi erano meglio forniti

all’interno delle aree portuali vere e proprie.

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1.3. I COMMERCI MARITTIMI NEL NOSTRO SECOLO

Se il secolo scorso è definito da molti, e non a torto, il secolo delle scoperte scientifiche, i cento anni che si stanno concludendo sono sicuramente il periodo in cui i traffici commerciali sono fioriti e hanno incrementato la loro entità ad una velocità davvero stupefacente.

I dati forniti dalle Nazioni Unite ci dicono che nel 1929, le merci trasportate via mare assommavano a 470 milioni di tonnellate, con una prevalenza dei carichi liquidi rispetto ai carichi solidi. Ciò è testimoniato dal fatto che il naviglio destinato ai carichi liquidi, tra il 1913-14 e il 1929 vedeva il suo tonnellaggio passare da 1,3-1,4 a 7 milioni di t.s.l.12, mentre, sempre nello stesso periodo, secondo i dati del Lloyd’s Register of Shipping, il tonnellaggio di navi destinate al trasporto di carichi solidi di qualunque tipo aumentava di circa 21 milioni di t.s.l., passando da 47 a 68,1.

L’aumento del tonnellaggio di stazza lorda della flotta mondiale altro non è che una conseguenza dell’aumento della produzione manifatturiera, infatti si deve ricordare che la domanda di servizi di trasporto marittimo è funzione derivata della produzione, nel senso che l’offerta di stiva è performata solo in seguito alla manifestazione di una variazione della domanda, e ben difficilmente accade il contrario.

Nel periodo che precede la prima guerra mondiale, l’espansione della produzione e del commercio mondiale erano stati notevolmente marcati. Fatta uguale a 100 la media annua del periodo 1891-1895, nel 1913 la produzione manifatturiera raggiunge quota 234, il commercio di prodotti manufatti 218 e il commercio di materie prime 195.

12 La stazza lorda rappresenta il volume di tutti gli spazi chiusi o chiudibili situati sopra o sotto il ponte principale.

Nel computo della stazza lorda vengono però esclusi taluni volumi ubicati sopra il ponte principale ed adibiti a particolari servizi della nave o ad esclusivo uso dell’equipaggio.

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Il commercio internazionale via mare, sempre secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, nel periodo successivo al 1929, in corrispondenza della grande crisi del 1929-33, cresce complessivamente poco, ha una caduta nel successivo periodo bellico, mentre, a partire dal 1948 e fino al 1973 cresce molto rapidamente, sestuplicandosi. Il tonnellaggio trasportato internazionalmente via mare nel 1950 è di 525 milioni di tonnellate, mentre nel 1973 è di 3210 milioni di tonnellate. Il tasso annuo di incremento composto è di circa 8,2%.

Il 1973 può considerarsi come un punto di svolta. A seguito dello “shock petrolifero”, determinato dall’improvviso aumento del prezzo del petrolio messo in atto dai paesi aderenti all’OPEC, ci sono stati notevoli cambiamenti relativamente alle prospettive di sviluppo a medio e a lungo termine del traffico marittimo.

Nel 1974 i traffici salgono a 3.250 milioni di tonnellate, per via del ritardo endogeno al settore con il quale l’offerta di stiva si adegua alla domanda della stessa, ma successivamente segnano una brusca caduta, scendendo a 3.030 milioni di tonnellate nel 1975. Successivamente, come è facile aspettarsi, si assiste ad una ripresa (3.714 milioni di tonnellate nel 1979). Tale ripresa non è però duratura, tanto che il tonnellaggio trasportato riprende a scendere (3.090 milioni di tonnellate nel 1983).

A partire dal 1983 e fino al 1994 il commercio internazionale via mare continua a salire, raggiungendo i 4.475 milioni di tonnellate trasportate. Rispetto al punto di minimo (1983), negli anni

’80 l’incremento complessivo è stato del 40,4%, ad un tasso annuo composto del 3,45%.

Complessivamente considerando il nostro secolo, ciò che appare inequivocabilmente, è che, pur alternandosi fasi di marcata espansione e fasi di espansione rallentata, quando non di stazionarietà

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o contrazione, il commercio internazionale via mare ha registrato un aumento assai marcato, moltiplicando 9 volte il tonnellaggio trasportato. Uguale a 100 il tonnellaggio del 1929 (470 milioni), quello del 1993 è 952 (4.475 milioni). Il tasso annuo di incremento composto è di poco superiore al 3,5%.

Ricordiamo, per completezza, che nei dati riportati non è considerato né il traffico di cabotaggio (traffico merci fra porti appartenenti allo steso stato) né il trasporto di passeggeri, attuato su qualunque tipo di rotta, breve o lunga (locale o transoceanica). Il primo non è stato considerato per motivi di forza maggiore, poiché non esistono rilevazioni e stime generali, mentre per quanto riguarda il secondo c’è da dire che l’importanza assunta a livello mondiale è a sua volta funzione dell’importanza assunta a livello di singolo Paese, determinata, spesso, dalla conformazione fisica del suo territorio. In Italia, il traffico di cabotaggio rappresenta circa il 30% del traffico portuale. A livello mondiale si può pensare che esso copra una quota all’incirca pari a 25%. Ma è solo un’indicazione di massima. Il traffico di cabotaggio risente, più del traffico merci internazionale, delle condizioni entro le quali si trova a dover operare, di Paese in Paese (assetto istituzionale del settore e dei porti, conformazione geofisica del territorio, concorrenza con altre modalità di trasporto come ferrovia, trasporti stradali etc.), dunque ha scarso significato una trattazione secondo un’ottica globale, assumendo valore, invece, rispetto ad una considerazione del sistema - Paese.

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1.4. LA FLOTTA MONDIALE

Il modo migliore, seppur nei limiti della rispondenza fra teoria e pratica, per misurare l’offerta di stiva, è la considerazione della consistenza della flotta mondiale.

Questa, in periodo lungo, alternando fasi di espansione marcata a fasi di stazionarietà e contrazione, rispecchia, con uno sfasamento temporale, differente a seconda del settore merceologico considerato, l’andamento dei traffici marittimi internazionali.

Lo sfasamento temporale tra andamento dei traffici e andamento della flotta non è altro che il tempo necessario all’offerta di stiva di adeguarsi alla domanda, vera componente che comanda in un settore così globale e competitivo come quello del trasporto marittimo, dove poco possono perfino quegli accordi fra caricatori denominati Conferences, piuttosto che Pools, Slot Charter Agreements13 a seconda del tempo e del contesto competitivo a cui ci riferiamo.

Il tempo necessario all’adeguamento di cui sopra deriva, molto semplicemente, dal fatto che una nave è un fattore di produzione che richiede un investimento notevole, magari di non facile reperimento, inoltre, fattore ancor più importante, la nave richiede tempi tecnici di costrizione che oggi, con l’ausilio delle moderne tecnologie applicate nei cantieri navali del Far East, si sono ridotti a circa 18 mesi, ma che per il passato erano anche più del doppio.

Non dimentichiamo poi che anche la contrazione della flotta risulta sfasata rispetto alla contrazione dei traffici : spesso gli armatori, con la speranza di una ripresa del business, prima di procedere alla demolizione della nave (operazione complessa e costosa che richiede più tempo di

13 Senza entrare nel dettaglio riguardo ad ogni singolo tipo di accordo citato, possiamo dire che si tratta di accorgimenti attuati nella gestione del naviglio atti a razionalizzare l’offerta per sfruttare al meglio le rotte e i mercati, impedendo così che una concorrenza esasperata danneggi i partecipanti al mercato stesso.

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quanto si possa comunemente credere), optano per un periodo di disarmo, durante il quale non vi è alcun utilizzo commercialmente profittevole del fattore di produzione.

L’ultimo aspetto da prendere in considerazione riguardo allo sfasamento temporale tra domanda e offerta riguarda le modalità operative e gestionali del fattore nave.

Prima che la crisi del 1973 sconvolgesse l’intero settore, vi era una costante nell’ambito dei diversissimi contratti di utilizzazione della nave : la validità temporale del contratto stesso, sempre pluriennale, con punte fino a 15 - 20 anni per le cosiddette super petroliere dei primi anni ’70, non permetteva il rapido adeguamento dell’offerta alla domanda, costituendo un dannoso elemento di rigidità della gestione, impedendo, di fatto, la messa in disarmo di naviglio di cui il mercato non aveva più bisogno.

L’andamento della flotta mondiale attraversa diverse fasi lungo il nostro secolo. Fra il 1900 e il 1914 si assiste ad uno sviluppo accelerato, passando da 28,9 milioni a 47 milioni di t.s.l.. Segue un periodo, quello della Grande Guerra, di sviluppo molto modesto in cui si arriva a 50,9 milioni. Nel periodo post bellico la flotta cresce ad un ritmo molto sostenuto, fino al 1929 (68,1 milioni).Il tonnellaggio mondiale nel 1937 è sceso a 66,3 milioni. Fra il 1937 e il 1948 la flotta mondiale, comprendendo anche la Reserve Fleet14 americana, raggiunge gli 80,3 milioni. Il periodo di espansione arriva, nonostante la crisi del ’73, fino al 1982, anno in cui il tonnellaggio è di 424,7 milioni. Nel periodo compreso tra il 1982 e il 1988 la flotta mondiale scende fino a toccare i 403,4 milioni di tonnellate. Successivamente si assiste ancora ad un incremento (1993 : 457,9 milioni).

14 La Reserve Fleet è costituita da tipi standard di naviglio di costruzione bellica, che verranno tolti progressivamente dal mercato e tenuti in disarmo per anni prima di venire demoliti. Ciò determina, almeno fino a 10 - 12 anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, un elemento di tendenziale, anche se contenuta, sopravvalutazione della consistenza della flotta mondiale.

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Riportiamo un elenco riassuntivo in cui si considera il tonnellaggio mondiale (in milioni di t.s.l.) a partire dal 1950 (dati del Lloyd’s Register of Shipping).

1950 84,6 1957 110,2 1969 211,7 1973 289,9 1977 393,7 1979 413 1982 424,7 1992 444,3 1993 457,9

Come si può vedere dai dati riportati, fra il 1950 e il 1979, la flotta mondiale è aumentata di quasi 5 volte, con un ritmo medio annuo che non ha precedenti nella storia. Di particolare rilevanza appare poi anche la durata del trend espansivo : quasi vent’anni senza interruzioni. Il tasso medio di incremento annuo composto è stato circa il 5,5%. Nel 1982 la flotta mondiale si era incrementata del 47% rispetto alla consistenza del 1973. La contrazione dei primissimi anni ’80 è stata del 5% circa.

La successiva espansione, fino al 1993, è stata del 13,5% e il tasso di incremento annuo composto è stato del 2,5%.

All’inizio del secolo la consistenza della flotta era di 29 milioni di t.s.l., mentre nel 1993 è 15,8 volte superiore.

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1.5. IL GIGANTISMO NAVALE

L’aumento complessivo del traffico mondiale, unito all’abbattimento del costo di trasporto per tonnellata, nonché alle migliorate condizioni infrastrutturali e operative dei porti, sono fattori strettamente connessi al fenomeno qui in esame.

Il gigantismo navale, fino ai primi anni ’70, è alimentato soprattutto dai traffici petroliferi.

Questi, grazie al consolidato sistema di condotte che dal porto di sbarco permettono l’inoltro del carico verso le raffinerie dell’hinterland pressoché in tempo reale, riescono a sfuggire ai costi crescenti per la movimentazione e lo stoccaggio generati dall’impianto portuale nel momento in cui si supera un certo livello di traffico. I mezzi per la movimentazione del carico hanno una produttività oraria determinata oltre la quale non ci si può spingere, il costo del lavoro straordinario incide fortemente sui bilanci aziendali, il porto stesso ha limiti strutturali quali la profondità dei fondali, l’estensione delle banchine e delle aree destinate allo stoccaggio dei carichi, inoltre, il porto, spesso, viene a interferire, crescendo, con la città che lo ospita, generando i ben noti problemi che analizzeremo in seguito, alcuni dei quali sono inquinamento, commistione urbanistica, degrado.

Le navi cisterna e le navi destinate al trasporto di minerali e le navi porta petrolio e minerali (ore/oil) per gli insediamenti industriali costieri riescono a fuggire i limiti imposti dagli spazi portuali e dai costi di movimentazione, grazie alle pipe-lines e agli accorgimenti tecnici per lo movimentazione dei minerali, quali pompe e nastri trasportatori. Negli anni ’70, grazie anche alla ristrutturazione del Canale di Suez, la portata unitaria delle navi cisterna arriva così a superare il mezzo milione di tonnellate, mentre le porta minerali sfondano il limite dei 200 milioni di tonnellate, grazie agli insediamenti a fil di costa che permettono la scaricazione direttamente in stabilimento, dal momento

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che il più delle volte questi insediamenti posseggono una banchina in concessione, come testimoniano gli impianti del ponente genovese.

Il fenomeno “gigantista” che più ci riguarda da vicino, considerato il nostro lavoro, è però quello delle navi porta contenitori : questo è posteriore a quanto analizzato ora e trae origine dalla sempre più accentuata specializzazione del lavoro e dei porti per quanto riguarda le categorie merceologiche trattate, dallo sviluppo dei traffici mondiali, in aumento ma a tassi ora decrescenti, ma soprattutto dall’evoluzione tecnologica che ha caratterizzato la movimentazione dei carichi e l’intera gestione del ciclo trasportistico. Il gigantismo navale, comunque considerato, è sia conseguenza sia causa dei cambiamenti che sono avvenuti (e stanno avvenendo) nel mondo dei trasporti : il fenomeno è biunivoco e si autoalimenta, secondo un processo di feedback.

In conclusione di questo paragrafo accenniamo brevemente alla questione dell’ottimo dimensinamento della nave. La tendenza verso il gigantismo, ad un certo punto viene a scontrarsi con i limiti tecnici incontrati dall’ingegneria navale da un lato, per quanto riguarda il mezzo nave vero e proprio e dall’ingegneria civile e meccanica dall’altro, per quanto riguarda l’infrastrutturazione portuale e le caratteristiche dei mezzi necessari al trasporto e alla movimentazione dei carichi.

Dal punto di vista economico non esistono limiti teorici all’innalzamento delle dimensioni del naviglio, sotto la condizione di poter disporre di carico pagante che vada a remunerare tutti i costi di gestione, anche quelli che oltre una certa dimensione della nave iniziano a crescere più che proporzionalmente, a tasso crescente. Il limite alla crescita della dimensione del naviglio è esterno ad esso : va ricercato nei limiti spaziali delle aree destinate alla ricezione e allo stoccaggio dei carichi, all’impossibilità di superare certe soglie di produttività oraria delle attrezzature, nella limitata profondità dei fondali e nell’accessibilità degli scali e delle banchine in particolare. Non avendo qui la

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necessità di essere esaustivi su questo argomento, rimandiamo al lavoro di U. Marchese in proposito15.

15 U. Marchese, Economie di scala e portata ottimale della nave, in Università di Genova, Annali della facoltà di scienze Politiche, anno I.

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1.6. LA SPECIALIZZAZIONE DEI PORTI E DELLE NAVI

Intorno agli anni ’50, il 55/60 per cento dei giorni commercialmente utilizzabili dalla nave (345 o 350 a seconda del modello gestionale assunto dall’armatore16) è passato all’interno dei porti per le operazioni di caricazione e scaricazione.

Ben presto ci si accorge che il modello ideale, per le ragioni di cui al paragrafo precedente, è rappresentato dal sistema adottato dalla catena del trasporto di petrolio greggio.

Per poter garantire la fluidità necessaria alle operazioni di caricazione e scaricazione di tutte le categorie merceologiche e non solo del petrolio, è opportuno orientare lo sviluppo del porto, o almeno delle diverse aree ad esso interne, verso un’autonomia funzionale senza commistione e intralcio reciproco. La movimentazione delle rinfuse solide richiede determinate tecnologie, diverse da quelle impiegate nel ciclo dei minerali, diverse ancora da quelle necessarie per movimentare un contenitore. Nel momento in cui tutte queste operazioni avvengono indistintamente all’interno di un’area portuale, mischiandosi le une alle altre, si creano le condizioni perché la produttività, la fluidità, l’efficienza e la sicurezza del lavoro siano danneggiate, con la conseguenza che i giorni passati in porto (e quindi i costi di gestione) aumentano, con grave penalizzazione dell’assetto economico- finanziario dell’impresa armatoriale.

Il primo passo verso il decentramento totale di alcune attività legate al ciclo del trasporto, vero oggetto del presente lavoro, è la creazione di aree (quando non di veri e propri scali portuali) specializzate nel trattare un certo tipo di carico.17

16 Nel tempo commercialmente utile, 15 o 20 giorni non vengono computati perché, normalmente, tale periodo è necessario per le operazioni di revisione e collaudo della nave, dunque vi è l’impossibilità di acquisire carico pagante.

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Accanto alla specializzazione delle aree portuali vi è la specializzazione delle navi da carico generale.

In conseguenza a ciò si assiste ad un progressiva riduzione della portata delle navi stesse.

L’utilizzo a pieno carico del mezzo, che ha costi di investimento e di gestione più alti in virtù delle innovazioni applicate, è determinante al fine di operare con profitto. Inoltre, navi più modeste (dal punto di vista della stazza, non tecnologicamente parlando), permettono di evitare l’imbattersi nei limiti infrastrutturali dei porti, come la lunghezza delle banchine, il pescaggio dei fondali, l’estensione delle aree sotto bordo e così via.

Quanto appena detto vale soprattutto per il traffico “bulk”, alla rinfusa, mentre per quanto riguarda la possibilità di incremento della performance del traffico “liner” bisogna aspettare che il container faccia la sua prima apparizione, venendo a costituire elemento di rottura, fattore rivoluzionario dell’intero settore e non solo, considerato l’effetto a catena causato su navi, impianti portuali, ambiente e territorio.

Fino a quando le merci hanno viaggiato prevalentemente in casse o al limite in “pallet”18, per tonnellaggi davvero irrisori (se confrontati con quelli caricati sulle moderne navi multipurpose), non è stato possibile razionalizzare il settore del trasporto liner, se non relativamente ad un miglior uso delle attrezzature già esistenti (gru e trattori) o da un piccolo miglioramento nella manipolazione derivante da nuove tecnologie (es. carrelli fork-lift). Solo l’unitizzazione dei carichi generali, con l’uso del container, ha determinato una vera e propria rivoluzione nella concezione e nella gestione del traffico

17 I primi a nascere, per ragioni di sicurezza, sono i porti petroli, spesso relativamente lontani dalle altre aree portuali ma drammaticamente vicini agli insediamenti abitativi, come nel caso di Genova Multedo.

18 Il pallet è una base generalmente lignea, di dimensioni standard, strutturata in modo tale che possa essere sollevata e movimentata da un carrello fork-lift, su cui si fissa una certa partita di un carico.

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liner, permettendo un approfondito sfruttamento delle diverse economie che possono essere riscontrate nel ciclo trasportistico.

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1.7. L’UNITIZZAZIONE DEI CARICHI

Il contenitore, principale protagonista dell’unitizzazione dei carichi, non nasce, secondo quanto a tutta prima si potrebbe pensare, nel settore del trasporto marittimo, bensì in quello terrestre.

Nel 1936, Malcom McLean, camionista, proprietario allora di una piccola impresa di trasporti su gomma (la Sealand19), si accorge che perderebbe molto meno tempo per caricare il proprio mezzo se, anziché caricare un collo alla volta, effettuasse un’unica operazione di carico, sistemando un solo “scatolone” sul pianale del proprio camion, riempito prima del suo arrivo.

L’osservazione di per sé stessa lapalissiana, creò un prodotto rivoluzionario per il mondo dei trasporti (e non solo) : il container.

Abbandonando immediatamente questa visione un po’ romantica della storia del container, c’è da rilevare che la diffusione di tale prodotto non fu immediata e priva di difficoltà, per diverse ragioni.

Uno dei problemi concerne la standardizzazione delle misure del contenitore stesso e dei pianali destinati a riceverlo : non dobbiamo dimenticare che siamo in un periodo in cui le comunicazioni non sono certo molto agevoli e la diffusione delle nuove tecnologie procede ancora

19 Oggi la SeaLand, dopo aver proceduto ad acquisizioni, fusioni, operazioni di joint-venture (la più importante con la CSX, leader americano del trasporto ferroviario) si propone come global carrier, cioè come un soggetto operante nel settore del trasporto intermodale e dei servizi logistici connessi in grado di mettere in atto un trasporto door-to-door, dallo stabilimento industriale al cancello del grossista, quasi a contatto con il consumatore finale. E’ fra i primi 5 operatori mondiali in questo tipo di attività.

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con una notevole lentezza. Oggi le misure di tutti i tipi di contenitore sono internazionalmente stabilite dall’ISO (International Standard Organisation ) e sono riconosciute in tutto il mondo20.

Un secondo ordine di problemi che si dovette affrontare prima che l’uso del contenitore potesse diffondersi su scala planetaria riguarda la disponibilità e il costo dei mezzi terrestri atti alla movimentazione (carrelli, gru) e delle infrastrutture per la sua gestione. I costi di investimento e di gestione delle nuove navi e dei mezzi di movimentazione dei contenitori, fanno si che l’utilizzo di questa innovazione risulti operativamente conveniente soltanto a partire da una certa quota di traffico, che sarà raggiunta solo negli anni ’60.

Un terzo “collo di bottiglia” è rappresentato dal fatto che la tipologia navale maggiormente diffusa, al tempo era costituita da general cargoes, cioè navi da carico generiche, dotate di stive multi tech che ben si prestavano alla ricezione di diverse categorie merceologiche ma che tuttavia non presentavano le caratteristiche tecniche necessarie al rizzaggio e allo stivaggio21 del contenitore.

Considerati congiuntamente i problemi evidenziati, si può facilmente comprendere perché la diffusione del contenitore fu lunga e travagliata. Tale fase dura fino alla metà degli anni ‘50 circa, passando dal trasporto stradale a quello fluviale per affermarsi definitivamente anche in quello marittimo. La standardizzazione completa, del contenitore e dei mezzi atti a movimentarlo e riceverlo, avviene solo tra gli anni ’70 e ’80.

20 I contenitori maggiormente diffusi sono quelli da 20 piedi , (TEU : twenty equivalent unit). Le dimensioni, in piedi, di un contenitore, sono 20x8x8, anche se sempre maggiore diffusione stanno avendo i contenitori da 20x8x8,6 (definiti high-cube) . Diffusissimi sono anche i contenitori da 40 (FEU : forty equivalent unit), ma per semplicità di computazione dei traffici, vengono considerati come due da 20. Esistono tuttavia anche contenitori detti “fuori sagoma”, destinati a trasporti speciali, come parti di nave o turbina e contenitori privi di copertura (open-top).

21 Lo stivaggio riguarda la sistemazione ottima e sicura del carico all’interno delle stive o sopracoperta, mentre il rizzaggio consiste nell’assicurare fisicamente i carichi affinché, durante la navigazione non si spostino, compromettendo pericolosamente la stabilità della nave.

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L’unitizzazione, come si è detto, nasce dalla preoccupazione degli operatori di velocizzare i traffici e abbassare i costi di handling delle merci in colli, dal momento che per quanto riguarda i carichi rinfusieri molto era già stato ottenuto, con l’introduzione di pompe e nastri, permettendo la riduzione del tempo trascorso in porto dalla nave e della manodopera impiegata.

Prima che la containerizzazione si diffondesse su larga scala, intorno alla metà degli anni ’60, le operazioni di movimentazione delle merci varie erano lente, labour intensive, esposte a rischi di danneggiamento, costose per tutti i soggetti coinvolti nella catena trasportistica, difficilmente programmabili e gestibili. Nel momento in cui l’esplosione del commercio mondiale si fa violenta e i nodi sopra evidenziati non sono dunque più sopportabili, si prende coscienza dell’importanza rivoluzionaria del contenitore. La sua diffusione su scala universale procede con tassi impressionanti soprattutto durante gli anni ’80 (+10% annuo), per stabilizzarsi negli anni ’90 (+6/7% annuo), favorita dalla massiccia applicazione delle innovazioni tecnologiche, soprattutto informatiche. Oggi la grande maggioranza del traffico di merci varie (90%) è containerizzato, mentre il traffico rinfusiero, per le sue caratteristiche (economiche e tecniche) non è pressoché toccato dal fenomeno in esame, anche se la sua consistenza rispetto al totale del traffico mondiale è prevalente (55/60%)22.

L’uso del contenitore permette di velocizzare le operazioni di caricazione e scaricazione della nave, abbattendo così i costi portuali e quelli di manodopera, permette un più rapido inoltro al destinatario (che vede così ridotto il proprio transit time23), inoltre, fattore molto importante, non si

22 Per piccolis sime partite di rinfuse solide e liquide soprattutto, sono nati contenitori appositamente concepiti. La cisterna è condizionata all’interno di un telaio delle dimensioni standard.

23 Il transit time è il tempo in cui il proprietario o il destinatario del carico non ne ha la disponibilità perché in viaggio o comunque non ancora consegnato.

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hanno più rotture di carico poiché il contenuto del contenitore non è assolutamente manipolato anche laddove il trasporto possa definirsi complesso o multimodale.

L’introduzione del contenitore ha un altro effetto : trasforma l’industria della movimentazione dei carichi e del trasporto dal labour intensive a capital intensive. La manodopera impiegata diminuisce notevolmente, sostituita da attrezzature costosissime e con altissimi costi fissi. Gru portainer e trastainer, carrelli, pianali, ma anche il container non speciale, nella sua semplicità di parallelepipedo in ferro, hanno costi molto elevati24 che possono esser coperti solo da un notevole giro d’affari.

L’aspetto veramente rivoluzionario dell’unitizzazione dei carichi tramite contenitore piuttosto che tramite pallet o cassa mobile consiste nel fatto che tutte le categorie merceologiche (solide ma anche liquide) vengono ad assumere le stesse caratteristiche per quanto riguarda le operazioni di handling.

Con l’uso del contenitore, ai fini della movimentazione, non vi è differenza tra un carico di prodotti ad alta tecnologia e un carico di rottami ferrosi, solo per fare un esempio.

Non dobbiamo però mitizzare l’uso del contenitore, perché se è vero che ha risolto una varietà di problemi nell’ambito dei trasporti, proponendosi come fattore decisivo per lo sviluppo dei traffici e quindi dell’intera economia, è anche vero che la sua diffusione universale ha generato più di un problema : inquinamento, congestione, degrado ambientale e, non ultimo, disoccupazione.

Parimenti, è altrettanto vero che se si fosse attribuita una maggiore importanza, fin dal loro sorgere, ai

24 L’impianto necessario alla movimentazione del contenitore, costituito principalmente da una gru a ponte (portainer), usata per l’handling di piazzale e di una gru con sbraccio sufficiente allo stivaggio a bordo (trastainer), ha un costo superiore ai 12 miliari di Lire, mentre un semplice contenitore, (non refrigerato), di produzione asiatica, costa dai 5 ai 7 milioni di Lire.

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problemi appena indicati, secondo ottiche maggiormente lungimiranti, sarebbe stato più facile combatterli nel tempo, in modo graduale. Inoltre, bisogna ricordarlo, la vera causa delle esternalità negative citate, non è tanto l’affermazione e lo sviluppo dell’uso del contenitore in sé, bensì, semmai, la scarsa attenzione rivolta ai problemi generati dal forte sviluppo indotto dalla crescita dei traffici, che ha avuto, come mezzo, proprio il container.

Partendo da questo presupposto, nel corso di questo lavoro, cercheremo di analizzare le politiche e gli accorgimenti (messi in atto e auspicabili) per consentire che l’eccezionale sviluppo che ha caratterizzato il mondo occidentale in questi ultimi 50 anni non si arresti ma che continui secondo le linee tracciate dalla dottrina dello “sviluppo sostenibile”25.

25 Parliamo di sviluppo sostenibile intendendo un grado e una modalità di sviluppo di un sistema economico che si configura in modo tale che quanto è ottenuto dalla presente generazione, non assorba completamente tutte le risorse disponibili e non abbia ripercussioni sul sistema stesso tali da imp edire lo sviluppo durante le prossime generazioni.

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1.8. NAVI PORTA CONTENITORI E SPAZI PORTUALI

L’affermazione dell’uso del contenitore come fattore di unitizzazione dei carichi, ha determinato importanti cambiamenti, sia per quanto riguarda le caratteristiche tecniche del naviglio sia per quanto riguarda l’uso delle banchine e degli spazi portuali in genere.

Per quanto riguarda il primo aspetto, è necessaria una premessa. Un contenitore altro non è che una struttura in ferro di dimensioni standard e a forma di parallelepipedo. Nel momento in cui l’uso del contenitore non è più qualcosa di sporadico26 nell’ambito del carico di una nave, ma viene ad essere preponderante per quanto riguarda il tonnellaggio trasportato, è facile comprendere come la struttura delle stive e della nave in genere mal si prestino (quando non siano del tutto inadeguate) a ricevere tale elemento.

Usare un container senza adeguate tecniche di movimentazione e stivaggio è qualcosa di estremamente pericoloso per la manodopera e per i carichi stessi, considerate dimensioni e peso dell’oggetto in questione. Inoltre, non da ultimo, è anche antieconomico perché, anziché ad una velocizzazione e, in generale, ad una razionalizzazione del trasporto, il mancato uso di mezzi ad hoc determina un inasprimento delle diseconomie della gestione del carico che si concretizza in una maggiore percentuale di incidenti (alle merci ma anche alle persone) per tonnellaggio trasportato e ad un rallentamento generale delle operazioni di handling, a causa delle difficoltà tecniche che si vengono ad incontrare.

26 I primi contenitori venivano caricati sopracoperta, per via del fatto che non era possibile il loro inserimento nelle stive e la nave non disponeva di attrezzature tecniche per lo stivaggio, impossibile e rischioso senza particolari gru di bordo.

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Le navi iniziano così a mutare le loro strutture : dapprima dedicando spazi appositamente concepiti ai contenitori senza eliminare le consuete stive dedicate ai carichi generali, quindi evolvendosi nel senso di navi altamente specializzate nel trasporto integrale di contenitori, dotate di stive appositamente concepite e di eccezionali strumentazioni per lo stivaggio e il controllo del carico27.

La stiva della nave cambia completamente aspetto : essa viene completamente

“cellularizzata”, nel senso che lo spazio interno è diviso da apposite guide (dunque ad una distanza di 8 piedi una dall’altra) atte a ricevere contenitori impilati. Il modulo spaziale, così configurato, viene nominato slot. Tale sistema permette lo sfruttamento integrale dello spazio disponibile e una più sicura disposizione del carico. Anche le boccaporte28 vengono cellularizzate e standardizzate, così da consentire la caricazione di alcuni “piani” di contenitori oltre il ponte principale, che in una moderna full container è quasi interamente sfruttato per la caricazione.

Un altro aspetto degno di nota è che una moderna porta contenitori è sprovvista di gru per la caricazione e la scaricazione del carico. Ciò è dovuto al fatto che il mezzo tecnico in questione occupa uno spazio e ha un costo tali da impedire ogni ragionevole collocamento a bordo. Gru trastainer e portainer, carrelli e pianali, fanno così parte delle infrastrutture portuali di generale utilizzazione e non delle dotazioni tecniche delle singole navi.

27 Un tempo lo stivaggio (operazione che consiste nel sistemare il carico in modo tale che, durante la navigazione, non venga compromessa la stabilità generale della nave, oltre a garantire una razionale disposizione del carico stesso) era operazione labour intensive, nel senso che richiedeva parecchia manodopera e tempo. Oggi, per quanto riguarda il trasporto dei contenitori, il piano di carico è completamente computerizzato, viene fatto prima ancora che la nave approdi per essere caricata, con software dedicato, diventando così operazione capital intensive. E’ così scomparsa, almeno nei porti dei paesi sviluppati, la figura professionale dello stivatore, particolarmente quotata, un tempo, quella genovese.

28 Apertura della stiva per permettere l’ingresso del carico.

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I crescenti costi legati al traffico containerizzato, dovuti alle moderne tecnologie impiegate, sia per quanto riguarda le infrastrutture utilizzate (navi e impianti portuali), sia per quanto riguarda il livello dei prezzi, soprattutto dopo il 1973, determinano una ricerca affannosa dello sfruttamento integrale di tutti i tipi di economie di scala29 legate, in qualche modo, al trasporto.

Il gigantismo navale, fenomeno già verificatosi precedentemente agli anni qui in osservazione (dalla metà degli anni ’80), viene così ad interessare anche le nuove navi dedicate all’esclusivo trasporto dei contenitori.

Se nel 1994 l’offerta di slot a bordo di navi full container è mediamente di 3.500 (lo slot è la cellula destinata a ricevere un contenitore da 1 TEU), alla fine del 1997 esistono ordinativi per navi da oltre 6.000 TEU, accanto ad un progetto olandese per una nave da 8.000.

Un siffatto sviluppo del traffico merci in generale e di quello containerizzato nello specifico, ha indubbiamente diverse ripercussioni sull’impianto portuale e sul territorio.

Per quanto riguarda l’impianto portuale c’è da notare che, nel momento in cui il traffico containerizzato assume una certa consistenza, vengono introdotti i già citati trastainer e portainer, con relativa scelta dl sistema di imbarco/sbarco indiretto30 e la nave non attracca più perpendicolarmente

29 Parlando di economie di scala intendiamo fare riferimento:

a) se la gamma dei servizi prodotti non cambia, al rapporto tra variazioni proporzionali dei costi totali e variazioni proporzionali della quantità prodotta, per ciascuno dei servizi prodotti, e quindi, al comportamento dei costi unitari medi pieni, comprensivi dei costi di impianto e, più in generale, dei costi considerati fissi in periodo breve;

b) quando la gamma dei servizi prodotti cambia, alle economie di diversificazione (scopo), cioè alle opportunità di entrata di nuove attività, che si presentano al complesso produttivo (porto) come conseguenza della dimensione (scala) già raggiunta. Le opportunità in questione derivano o dal sopravvenire della disponibilità di un fattore, o dal formarsi del necessario minimo di scala del mercato per le nuove attività, come effetto delle dimensioni raggiunte dal complesso. (U. Marchese, Lineamenti e problemi di economia dei trasporti, ECIG, Genova).

30 Nell’imbarco indiretto i carichi non affluiscono direttamente sotto bordo per essere sistemati nelle stive(come nell’imbarco diretto), ma prima arrivano in porto (o altre aree appositamente destinate), dove vengono stoccati, in attesa di tutti gli altri interessati allo stesso viaggio o ad una sua parte, quindi, all’arrivo della nave vengono stivati. Allo sbarco i carichi non vengono consegnati direttamente al ricevitore ma vengono movimentati verso

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alla banchina (di poppa), bensì parallelamente ad essa (cioè accostando l’intera fiancata). Ciò è essenzialmente determinato dalle caratteristiche tecniche degli impianti di movimentazione. Tali mezzi, per la caricazione della nave, dispongono di gru il cui braccio può coprire (e non sempre31) soltanto la larghezza della nave, mai la sua lunghezza, dunque si fa necessario il tipo di approdo di cui sopra.

La configurazione di vaste aree destinate allo stoccaggio dei contenitori è condizione essenziale per l’integrazione tra i trasporti marittimi e quelli terrestri, venendo a costituire un importante volano tra le due modalità, così diverse tecnicamente. Dunque, in un’ottica di integrazione del ciclo trasportistico, appare impossibile prescindere dal coordinamento dei due sistemi di trasporto.

L’aumento dello spazio necessario sotto bordo cresce in modo esponenziale, con la crescita dei traffici e la dimensione del naviglio. Questa è sicuramente una prima conseguenza della massiccia containerizzazione. Tale conseguenza ha a sua volta implicazioni notevoli sull’assetto e l’economia del sistema porto e del territorio circostante in generale. Assistiamo ad un crescente congestionamento

altre aree più o meno lontane dalle banchine, quindi, in un secondo momento, consegnati. La scelta del sistema indiretto è la conseguenza di tre fattori :

a) l’entità dei flussi di traffico è tale che non permetterebbe un ordinato svolgimento della circolazione e delle operazioni in genere nell’ambito dell’area portuale

b) la nave, dati i costi di gestione ad essa associati, non può permettersi di aspettare singolarmente i caricatori, dovendo minimizzare i tempi di sosta in porto

c) l’esistenza di una grande disparità in termini dimensionali tra nave e mezzi di trasporto terrestre (treno o autoarticolato) rende pressoché irrealizzabile un sistema diretto. Facciamo un esempio : assumiamo che una nave da 4000 contenitori debba essere caricata interamente in un porto e che vi giunga vuota. Nella migliore delle ipotesi, 4000 contenitori implicano la disponibilità 2000 camion (il pianale di un camion è lungo poco più di 12 metri, mentre un contenitore da 1 TEU misura 6,096 metri in lunghezza). Se aggiungiamo che il carico deve giungere con continuità sotto bordo per minimizzare i costi nave e i costi porto, pur assumendo di poter disporre di circa 2000 mezzi contemporaneamente, le conseguenze in termini di traffico e di sicurezza dello scalo sarebbero tali da indurci immediatamente ad abbandonare l’ipotesi fatta.

31 Le navi porta contenitori più grandi (dette post panamax per via del fatto che così larghe da non poter transitare per il Canale di Panama) hanno una larghezza superiore ai 46 metri, e non tutti i trastainer dispongono di uno sbraccio sufficiente per caricarle e scaricarle.

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delle aree portuali stesse32, dovuto al maggior afflusso e circolazione di mezzi terrestri e ferroviari, a forti pressioni insediative per aree portuali non utilizzate o suscettibili di uso più redditizio, ad una commistione urbanistica tra la città e le strutture portuali. La conseguenza ultima è il deterioramento generale della performance del servizio di trasporto, (che diventa più lento, meno sicuro, inquinante etc.) e delle condizioni di sviluppo di un determinato territorio e della sua popolazione.

Non mancano esempi in cui possiamo vedere insediamenti porto-industriali accanto ad aree abitative, come i porti petroli di vecchia concezione, o scali ferroviari merci inseriti in realtà urbane, per finire a camion posteggiati in ambito pressoché cittadino, solo per fare qualche esempio.

Nel momento in cui il traffico eccede una certa portata e lo spazio viene a scarseggiare, si creano tutte le esternalità e i disagi citati. Lo scopo principale del presente lavoro è proprio l’analisi economica degli strumenti pianificatori messi in atto o suscettibili di possibile applicazione per continuare ad agire sulla strada dello sviluppo organico e ordinato.

32 Un buon esempio di congestionamento di piazzale portuale può essere fornito dal porto di La Spezia, prima che questo perdesse più della metà del suo traffico contenitori : là si potevano osservare cinque piani di contenitori, quando, normalmente, non si sale oltre il terzo. Le difficoltà di movimentazione sono evidenti. Tale situazione era causata dalla mancanza di spazio portuale.

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1.9. LA NASCITA DEL TRASPORTO INTERMODALE

Uno degli aspetti più interessanti, conseguenti all’unitizzazione dei carichi, è la possibilità di effettuare tutte le operazioni di manipolazione del carico stesso nel punto di trasbordo senza toccare il carico stesso, cioè evitando le cosiddette “rotture di carico”. Questo fenomeno ha determinato un’aggravio dei costi, dovuto alla maggiore quantità di capitale necessario per l’impianto e la gestione di mezzi tecnologicamente nuovi (trastainer, portainer, moderne navi cellularizzate) accanto alla rigidità d’uso dei mezzi stessi33 che ha imposto una affannosa ricerca di quantità sempre maggiori di carico, determinando una netta concentrazione dei traffici in un ristretto numero di porti34

Parallelamente a questo aggravio di costi, vi è la riduzione dei medesimi per quanto riguarda la manodopera impiegata negli impianti portuali, sempre maggiormente sostituita da moderne tecnologie meccanizzate e il risparmio dal punto di vista dei costi-nave e dei costi-porto, dal momento che, con l’unitizzazione, diminuiscono fortemente i tempi di sosta della nave in porto.

Nel complesso, il costo di movimentazione dei carichi diminuisce, permettendo un’ulteriore crescita dei traffici ma, soprattutto, l’estensione dell’area di mercato (retroterra) di ciascun porto, in conseguenza del fatto che ora, a parità di costo con il passato, è possibile luoghi e mercati più lontani.

L’unitizzazione dei carichi, di per sé, dovrebbe determinare una certa indifferenza localizzativa per quelle attività non direttamente implicate nelle operazioni di caricazione e

33 Per esempio, un trastainer non può essere destinato ad uso diverso che la movimentazione dei contenitori, allo stesso modo, una nave full container, non è in grado di ricevere altre tipologie di condizionamento.

34 Soltanto circa trenta porti del pianeta, nel 1996, hanno movimentato più di un milione di contenitori, con netta prevalenza dei porti del far east su tutti gli altri. Si rimanda alle pubblicazioni di dicembre della rivista Containerisation International per una rassegna completa e approfondita.

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