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STRADE APERTE Anno 50 Gennaio-Febbraio 2008, n. 1-2

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Strade Aperte n. 1-2/2008

STRADE APERTE

Anno 50 – Gennaio-Febbraio 2008, n. 1-2

Periodico mensile del Masci (Movimento Adul- ti Scout Cattolici Italiani) di educazione per- manente, proposta e confronto

Presidente Nazionale: Riccardo Della Rocca

Segretario Nazionale: Alberto Albertini

Direttore Responsabile: Pio Cerocchi Direttore:Francesco Marchetti Via Piave 1ª Traversa, 6 88046 Lamezia Terme

Tel. 0968.27445 – Cell. 339.6133506 E-mail: frmarchetti@tiscali.it

COLLABORANO IN REDAZIONE:

Giorgio Aresti Salvatore Bevilacqua Romano Forleo Mario Maffucci Francesco Marabotto Franco Nerbi Maurizio Nocera Mario Sica Giovanni Sosi

COLLABORA

PER L’ILLUSTRAZIONE GRAFICA:

Alberto Rustichelli

Composizione, grafica e stampa:

T. Zaramella Real. Graf. s.n.c.

Caselle di Selvazzano (PD) E-mail: tzaram00@zaramella.191.it

Editore, amministrazione e pubblicità:

Strade Aperte Soc. coop. a.R.L., via Picardi, 6 – 00197 Roma, tel. 06/8077377 – fax 06/8077647

Iscritta al Registro Registro degli operatori di comunicazione al n. 4363

Abbonamento a 11 numeri:

Euro 26 da versare sul ccp. n.75364000 inte- stato: Strade Aperte, coop a.r.l. Via Picardi, 6 – 00197 Roma

Iscritto al Tribunale di Roma al n° 6920/59 del 30/05/1959

Associato all’U.S.P.I.

Tiratura: Copie 5.000

QUESTO NUMERO È STATO SPEDITO DALL’UFFICIO POSTALE DIPADOVA CENTRALE IN DATA: 5 FEBBRAIO2008

GLI EDITORIALI

Il coraggio delle scelte Riccardo Della Rocca 3

Di isola in isola (redazionale) 4

L’arcipelago delle oppor tunità (redazionale) 5

FEDE E SOCIETÀ

Il confine, un luogo della mente Ambra Cusin 6

Confine e identità Cristina Bertogna 7

Noi e il mondo nuovo Claudio Magris 8

45° Settimana Sociale Paolo Linati 10

Da Toronto a Loreto Pier Giuseppe Alvigini 12

Bevete la bell’aria di Dio Paola Dal Toso 13

OPINIONI&REPLICHE: L’AGORÀ DI STRADE APERTE

Noi e l’Islam – Lettere al Direttore 14

Noi e l’Islam – dialogo non lotta Don Francesco Anfossi 16 Riflessioni sul tema dell’accoglienza (redazionale) 17 MASCI: un Movimento di vecchi o un Movimento Vecchio? Romano Forleo 18 Nelle nostre radici il nostro futuro Francesco Marchetti 20

I ragazzi del ’59 Pasquale Gaetano 21

VITA DEL MOVIMENTO

Le comunità Toscane a Camaldoli 22

Mostra dell’AGESCI a Reggio Calabria 22

1° Jamborette Alpe-Adria 23

La promessa scout alla croce di Latemar 23

La vita non ha limitazioni 24

La fiaba Continua 25

Por tici nella storia dello scoutismo mondiale 26

Sotto e sopra il mare 26

Anno centenario: un intera città si apre allo scautismo

Un busto bronzeo dedicato a B.P. 27

Il topo di biblioteca 28

Giubileo a Lourdes 30

2° Master Scout regione Calabria 31

LA CONTROCOPERTINA

Strade sempre più aper te (redazionale) 32

Se non diremo cose

che a qualcuno dispiaceranno, non diremo mai la verità

A. Schweitzer

IN COPERTINA: l'arcipelago delle oppor tunità

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Alla fine dello scorso anno un amico mi ha consigliato di leggere “La Messa dell’uomo disarmato”, un libro scritto alcuni anni fa da un prete (almeno a me) sconosciuto Lui- sito Bianchi. È stata una scoperta: forse il più bel libro che ho letto negli ultimi anni!

Un lungo romanzo, più di 800 pagine, in una edizione

“povera”, difficile da trovare nelle librerie, che, pur am- bientato in anni ormai lontani, parla con forza all’uomo di oggi.

Narra le vicende di una comunità rurale della bassa pa- dana dall’inizio della guerra mondiale all’immediato dopo- guerra; una comunità di donne e uomini segnati dalla po- vertà ma anche dalla dignità e dalla solidarietà; una co- munità di tanti personaggi ognuno con le sue caratteristi- che ma tutti portatori di una grande umanità e qualcuno di una grande e tormentata fede.

Il libro parla di una Chiesa che nei suoi luoghi tradizionali, la parrocchia ed il monastero, sa sempre essere luogo di accoglienza fino al sacrificio personale in difesa dell’uomo e della sua dignità.

Parla di uomini e donne che, pur diversi per storia, con- vinzioni ed ideali, lottano insieme per la libertà, per un fu- turo migliore ma sempre con l’attenzione e la compassio- ne anche nei momenti più drammatici. Parla soprattutto dell’eterno conflitto tra la grandezza della Parola che sal- va, ma che si nasconde nei “segni dei tempi” e la me- schinità dell’”antiparola” che è sempre in agguato con i miti del potere, della superbia, della convenienza perso- nale, della pigrizia.

Scrivo questo primo articolo del 2008 per Strade Aperte partendo da questo libro per due motivi: per condividere con tutti coloro che lo leggeranno un’esperienza appas- sionante come spesso solo la lettura di un buon libro sa dare, e poi perché tra le tante riflessioni che questo libro mi ha suscitato alcune riguardano il nostro movimento, il significato per noi tutti di essere “qui ed ora” adulti in un cammino di educazione permanente.

Viviamo oggi come allora in un momento difficile. Le tra- giche immagini che ci giungono in questi giorni da Napoli (spero che quando la rivista arriverà nelle nostre case tut-

to sarà stato risolto nel migliore dei modi) sono la metafora drammatica di una condizione più generale come hanno descritto anche alcuni illustri analisti.

Viviamo una situazione in cui sembra rotto quel legame vir- tuoso che in democrazia deve unire popolo e classe politi- ca; le istituzioni sembrano in difficoltà nel risolvere i gravi e complessi problemi che riguardano la convivenza civile;

poteri forti, talvolta criminali, sembrano condizionare la vi- ta pubblica; i cittadini sembrano rinchiudersi nella difesa di piccoli interessi privati e sembra venir meno ogni spirito pubblico ogni sentimento di solidarietà collettiva; la difesa di piccoli egoismi, di piccoli interessi individuali o di grup- po sembrano prevalere; sembriamo sordi al grido di dolore che giunge dalle aree più povere e abbandonate del mon- do, come quella che ci giunge in questi giorni dal Kenya.

Un profondo malessere è presente e viviamo un momen- to difficile ma il nostro paese è ancora una società sana, ricca di risorse e di energie positive ed occorre sconfigge- re i “profeti di sventura” Voglio ricordare l’ultimo rapporto del CENSIS, che pure parla della realtà sociale come pol- tiglia di massa e di mucillagine, ma offre una strada di spe- ranza quando dice: «…e le offerte innovative possono ve- nire solo dalle nuove minoranze attive, ovvero:

• la minoranza che ha compiuto un’opzione comunitaria, cioè ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità del- la vita;

• la minoranza che vive il rapporto con l’immigrazione co- me un rapporto capace di evolvere in termini di integra- zione e coesione sociale;

• la minoranza che si ostina a credere in una esperienza religiosa insieme attenta alla persona e alla complessità dello sviluppo ai vari livelli;

• e le tante minoranze che hanno scelto l’appartenenza a strutture collettive (gruppi, movimenti, associazioni, sin- dacati, ecc.) come forma di nuova coesione sociale e di ricerca di senso della vita.

Si tratta senz’altro di una sfida faticosa, che le citate di- verse minoranze dovranno verosimilmente gestire da so- le. Ma sfida desiderabile, per continuare a crescere forse anche con un po’ di divertimento; sfida realistica, perché non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di mettersi nel solco di modernità che pervade tutti i Paesi avanzati.”

Io penso che noi possiamo essere tra queste “minoranze”

e dobbiamo averne consapevolezza e sentire questa re- sponsabilità collettiva. Questo non vuol dire rinunciare al- la nostra identità ma al contrario vivere la nostra espe- rienza di scoutismo degli adulti con maggiore intensità, con maggiore consapevolezza. Questo non vuol dire rinuncia- re alla dimensione comunitaria ma al contrario vivere nel- le nostre comunità aprendoci al dialogo, all’accoglienza e alla solidarietà. Questo vuol dire fare dell’educazione per- manente non un fatto privato ma un’opzione civile per ri- costruire sentimenti di solidarietà pubblica. Questo vuol dire far si che tutte le nostre risorse: la rivista, gli eventi di formazione e di riflessione, le opzioni di servizio siano sempre informate da questa prospettiva. Ancora una vol- ta, come negli anni descritti nel libro, è “ tempo delle scel- te” ed occorre avere “il coraggio delle scelte”.

L’editoriale

del Presidente:

“il coraggio delle scelte”

Riccardo Della Rocca

Presidente Nazionale

Strade Aperte n. 11-12/2007 Gli Editoriali

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Di isola in isola: un viaggio nella memoria

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Strade Aperte n. 1-2/2008 Gli Editoriali

Seminario Piemonte Seminario Sardegna

Seminario Trentino Alto Adige Seminario Calabria

Seminario Liguria Seminario Sicilia

Seminario Emilia Romagna Seminario Lazio

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Strade Aperte n. 1-2/2008

LE ISOLE DELLA SCOPERTA

Sono le prime isole che si incontrano durante il viag- gio. Hanno l’obbiettivo di suscitare curiosità nei viag- giatori per le successive tappe del viaggio. Sono isole sulle quali si inizierà a prendere dimestichezza con car- tine e strumenti di orientamento, si faranno esperien- ze di navigazione sotto costa, ecc. ecc. Sono le isole che creeranno in ciascuno l’entusiasmo per ripartire per altre isole.(il CN l’ha definita formazione di base).

In altre parole, si potrà navigare tra le isole della sco- per ta per:

•Scoprire lo scoutismo, la sua storia, il suo presente.

•Scoprire il MASCI ed il metodo per adulti scout.

•Scoprire la natura, il suo fascino, la sua fragilità.

•Scoprire la Parola, la meditazione, la preghiera.

•Scoprire la gioia del ser vizio al prossimo.

LE ISOLE DELLA COMPETENZA

Su queste isole si approderà per “approfon- dire” la conoscenza e l’uso delle car tine e degli strumenti di orientamento, la navi- gazione sarà molto più impegnativa, e tutti i viaggiatori potranno approfondire temi di loro interesse. (sono i seminari di animazione e i campi monotematici già realizzati negli anni scorsi)

In altre parole, si potrà navigare tra le iso- le della competenza per:

Approfondire la conoscenza dello scoutismo, per poter responsabilmente concorrere a mantenere sempre attuale il suo metodo e adattarlo all’età adulta.

Approfondire la conoscenza della Parola, per poter responsabilmente divenire missionari.

Approfondire la conoscenza delle grandi tematiche che caratterizzano i tempi ed i luoghi in cui viviamo.

LE ISOLE DELLA RESPONSABILITÀ

Sono queste le isole che consentono una rilettura della competenza all’uso di car tine e strumenti di orientamento non più in funzione del singolo viag- giatore ma dell’intera comitiva.

Non è proprio la stessa cosa viaggiare da soli, viag- giare con altri o avere la responsabilità del viaggio di altri viaggiatori (il CN l’ha definita formazione magister).

In altre parole si potrà navigare tra le isole dell’im- pegno per: svolgere responsabilmente un ser vizio di animazione nella Comunità, nella Parrocchia, nelle strutture del Movimento. Un ser vizio di impegno at- tivo e qualificato nella Città, per prevenire, nei limiti del possibile, situazioni di bisogno, di emarginazio- ne, di sfruttamento, di mancato rispetto dei diritti di cittadinanza.

L’arcipelago

delle opportunità:

tradizione e innovazione

Gli Editoriali

Lo scoutismo è un itinerario, un percorso, un ininter- rotto viaggio. Il significato stesso dei termini scout e rover (esplorare girovagare) allude al met- tersi in movimento per andare sempre più lontano. Se lo scoutismo dunque è un viag- gio, un ri-par tire sempre per nuovi oriz- zonti, nuove scoperte, lo scout non può che essere un viaggiatore instancabile, un viandante che, individuato un obietti- vo, lo raggiunge tappa dopo tappa, con gioia ed entusiasmo. Carico del solo ne- cessario, lo scout si avvia lungo le strade del- la vita per esplorare territori sempre nuovi, trac- ciare nuovi sentieri, spostando l’orizzonte sempre più lontano, perché mai pago di quello che vede di quel- lo che sa, sempre alla ricerca del significato delle co- se che lo circondano, delle ragioni vere e profonde per cui vale veramente la pena vivere fino in fondo in

“questa terra e in questo tempo”. Carico solo del ne- cessario… Ma cosa è veramente necessario?

Non c’è un elenco buono per tutti i viaggiatori e per tutti i viaggi. Solo l’esperienza può aiutare a compila- re l’elenco delle cose necessarie, scartando il super- fluo. Di certo però mai si potrà prescindere da buone carte topografiche o nautiche, a seconda della biso- gna, degli strumenti necessari per tracciare le rotta, individuare i percorsi. Le prime ci aiuteranno ad ave- re uno sguardo più ampio, lungimirante, ci aiuteranno a vedere la complessità della realtà e non solo le cer- tezze del nostro piccolo e confor tante mondo, i se- condi a non perderci… E sì perché il pericolo maggio- re che i viaggiatori corrono è proprio quello di perder- si nella complessità del vivere quotidiano in un modo di fatto globalizzato. Ma le cartine bisogna saperle leg- gere, così come gli strumenti per orientarsi bisogna saperli usare. Questo vuol essere “l’Arcipelago delle opportunità”, una occasione offerta a tutti gli adulti scout per viaggiare, assieme ad altri viaggiatori, sulle isole della scoperta (curiosità), della competenza (in- teresse) della responsabilità (impegno)

DI ISOLA IN ISOLA, L’AVVENTURA

DI UN VIAGGIO E L’OPPORTUNITÀ DI CRESCITA

PER TE E PER LA TUA

COMUNITÀ

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Il confine, un luogo della mente…

Proveniamo da una terra di confine, anzi un luogo in cui il confine è un topos rilevante, un luogo che non è solo uno spazio esterno ma è un luogo della men- te pieno di ricordi, di rappresentazioni. A dicembre si è festeggiata l’entrata della Slovenia in Europa. Il 20 dicembre il confine è caduto fornendo alla nostra terra spazi notevolmente più ampi e quindi in quan- to “assenza”, il confine permette la nascita di ulte- riori pensieri e immagini interiori.

Quand’ero bambina oltre la frontiera c’erano dei mi- litari nascosti che intimavano l’alt a chiunque osas- se attraversare. Fino a qualche mese fa, negli ulti- mi anni, groppuscoli di immigrati lo oltrepassavano guidati dai passeur. Strade che oggi sono sentieri del Carso, erano un tempo impor tanti strade di col- legamento tra l’entroterra e il por to di Trieste, per por tare le merci in città e per raggiungere Vienna dal mare.

Le tradizioni di diverse culture hanno in una terra di confine un luogo intermedio di sperimentazione con- tinua, di miscugli creativi, di profumi e sapori/sape- ri che si sposano e configgono assieme. La caduta di un confine geografico rappresenta in genere un momento di aper tura, di gioia e di speranza per le popolazioni, un momento di incontro, di confronto e di stimolo tra culture e storie diverse. Un’oppor tu- nità per dar vita a maggiori solidarietà e spunti di col- laborazione. Ma esistono anche i confini interiori, in- terni alla mente che non possiamo né vedere né toc- care. E cosa accade nelle frontiere interne quando si toglie un confine esterno? Tante sono dunque le domande che ci possiamo porre di fronte alla cadu- ta di una frontiera.

I due contributi, della Dott.ssa Cristina Bertogna (GO) e del Prof. Claudio Magris (TS) che, in accordo con la redazione, abbiamo pensato di chiedere agli au-

tori e pubblicare, indagano aspetti sociali, storici, cul- turali ma anche aspetti interiori, emotivi che sono par te dell’uomo a qualunque latitudine.

Ambra Cusin (a nome della Comunità Masci Trieste)

Confine e identità

Borges diceva che le idee nascono come una possibi- lità, ma possono trasformarsi in tirannide e direi che l’idea di confine appartiene a pieno titolo a questa ca- tegoria… Vorrei parlare del confine da un vertice par- ticolare, come di una modalità che ci permette di deli- mitare la realtà esterna, sensibile, la realtà dei fatti, dalla realtà interiore, un mondo che c’è ma non si ve- de e che possiamo chiamare il mondo delle nostre emo- zioni e dei nostri pensieri… Già Isahia Berlin diceva che non esiste un’idea astratta, ma che ogni idea nasce da un uomo, con una sua storia… Come si costruisce un confine interno? Attraverso lo sviluppo della mente che è una funzione nuova della materia vivente e per questo è complessa e difficile… Se noi nasciamo con uno stomaco capace di digerire il cibo, non nasciamo, però, con una mente capace di pensare dei pensie- ri;per imparare questa operazione abbiamo bisogno del- la mente di un altro (di solito quella materna) che ci in- segna ad accogliere, metabolizzare e trasformare le no- stre sensazioni più primitive (per lo più fisiche, nel neo- nato) in stati d’animo ed emozioni che hanno un sen- so. Questa è la modalità di base che ci permette di svi- luppare la nostra mente e di pensare dei pensieri, co- me dire una mente che sa tessere continuamente del- le immagini che si riescono a sentire, immagini che co- municano il senso dell’esperienza che si sta vivendo;

quello che ci fa ammalare è, all’opposto, l’eccesso di sensorialità primitiva (che è qualcosa di diverso dal- l’aggressività, che è un patrimonio normale della spe- cie), che non riesce ad essere contenuta in immagini e pensieri (una sorta di funzione metaforizzante) e ci arriva addosso con il peso schiacciante della sua con-

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Il 20 dicembre

è caduto il confine tra Italia e Slovenia

Strade Aperte n. 11-12/2007 Fede e Società

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Strade Aperte n. 1-2/2008

cretezza; per fare un esempio tratto dalla vita quoti- diana, vedere e sentire ogni giorno al telegiornale ag- ghiaccianti fatti di cronaca mentre si mangia, sembra una cosa normale, ma lo è veramente? Se si potes- sero sentire emotivamente le informazioni che ci giun- gono alle orecchie, avremmo ancora voglia di mangia- re? Vediamo quindi come il confine contribuisce a de- lineare la nostra identità, le conferisce una forma, crean- do una linea di demarcazione, ma anche un legame o, usando un termine tecnico, una “barriera di contatto”, che sarebbe una membrana semipermeabile fra un esterno e un interno, e ciò è possibile solo se c’è un oggetto esterno (di solito la madre) con cui relazionar- si… In questo modo si crea uno spazio psichico, di- ciamo una sorta di contenitore dove possiamo ospita- re le nostre emozioni, riconoscerle, condividerle, no- minarle, dar loro un senso e trasformarle nei nostri pen- sieri… quella che Virginia Wolf chiamerebbe una “stan- za tutta per sè”, solo che si tratta di una stanza interiore… Questo ci ricorda che il confine ha un ruolo dinamico, è un’entità viva, che si crea e si trasforma nel tempo. Se viene a mancare questa funzione di contenitore, o se il contenitore stesso è difettoso (o per- ché troppo rigido o troppo sfumato), di- venta un fattore disfunzionante sulla sen- sorialità o pulsionalità di base, che, ad esempio, o non viene raccolta o può ir- rompere con eccessiva intensità e dare ori- gine a malesseri di vario tipo:nevrosi os- sessive, quando c’è un eccesso di controllo, quando si tiene separata l’emotività da una par- te e la razionalità dall’altra, o il corpo dalla mente (di- menticando che siamo un’unità psicofisica)…le fobie, le anoressia, o le malattie psicosomatiche, o anche certi fenomeni sociali quali delinquenza, le carattero- patie, dove prevale la modalità dell’azione al posto del- la funzione del pensiero, ecc… con gradienti diversi di problematicità. Quindi, per crescere e svilupparci, ab- biamo bisogno di un contenitore mentale dai confini sufficientemente plastici, in grado di ampliare la nostra possibilità di fare esperienze nuove e diverse e di po- terle pensare, come dire di dar vita a nuove idee su noi stessi e il mondo che ci circonda… Ma per allargare questi nostri confini dobbiamo accettare di scendere anche sul terreno dello sconosciuto, in termini psi- coanalitici nei territori misteriosi dell’inconscio (lo stra- niero che ci abita) che, per definizione, non conoscia- mo… Se sappiamo con precisione dove si situa lo sto- maco o il cuore, non sappiamo dove si situa l’incon- scio e la nostra mente… questa c’è ma non si può ve- dere con gli organi di senso… Abbiamo bisogno di al- tri strumenti per indagarlo, come quella funzione pen- sante di cui parlavo prima e che la vediamo molto be- ne all’opera nei poeti: pensiamo, ad esempio, all’im- magine della siepe nell’Infinito di Leopardi, una siepe che, delimitando lo spazio fisico, permette all’autore di immaginare “interminati spazi”, proprio quel confi- ne permette alla mente di immaginare quello che non

vede ma che potrebbe esserci e che c’è dentro di noi…

Così il confine permette di differenziare il conscio dal- l’inconscio, ma anche la realtà dalla fantasia e di go- dere di entrambe, senza restare imprigionati in una di queste due dimensioni… Calvino ne parla come di una preziosa capacità di chiudere gli occhi per creare delle immagini che suppliscono al reale attraverso l’imma- ginazione, in una sorta di comunicazione interiore:que- sto ci fa pensare che accanto agli occhi come organi di senso possediamo anche uno sguardo della mente che ci permette di cogliere il significato delle esperienze che viviamo, che non sono un elenco di fatti e di infor- mazioni, come la cronaca sui quotidiani, che creano un mondo bidimensionale alla Truman Show; piuttosto l’apprendere dalle esperienze che viviamo ci fa senti- re come Ulisse, che è rientrato ad Itaca solo dopo aver esplorato i confini e le possibilità del mondo in cui vi- veva… Se lo pensiamo come un viaggio nei sotterra- nei della psiche, possiamo dire che Ulisse ha ri- trovato le proprie radici, è ritornato a se stes- so solo dopo aver potuto scoprire e sondare anche l’estraneità, con tutta la turbolenza che questo comporta, diviso fra la sedu- zione delle sirene o della maga Circe e la forza cieca del ciclope… E chi di noi non si è sentito così, almeno una volta nella vita? Una turbolenza che ha a che fare con l’angoscia di non tornare più a casa, co- me dire con l’angoscia di perdere il senso della propria identità. Ed è questa paura, in ultima analisi, che è sempre presente nei rap- porti con l’Altro e nei momenti di passaggio e di cambiamento che la vita porta con sé (se ci pensia- mo, la vita è fatta di continui attraversamenti di confi- ni). Direi che la psicoanalisi (ma non solo) ci ha per- messo di gettare uno sguardo oltre il confine della realtà concreta, su questo mondo “altro” e di scoprire, ad esempio, che non siamo uno, con un Io razionale, un’i- dentità definita e stabile e che lo straniero, non sta so- lo fuori, ma anche dentro di noi e che fa parte a pieno titolo della nostra identità… Che i sogni, appartengo- no ad un mondo nostro almeno tanto quanto ci appar- tiene la vita che viviamo durante il giorno, che non so- no confinati nelle tenebre della notte, ma attraversano anche lo stato di veglia e determinano il nostro modo di essere e di pensare… Che le emozioni possono es- sere barbare e selvagge e fanno male, ma possono es- sere addomesticate e, in questo caso, ci aiutano a cre- scere, ma per farlo, come dicevo prima, dobbiamo al- largare i nostri confini mentali in un costante rapporto con l’Altro, creando dei legami emotivamente signifi- cativi e che questa esperienza la teniamo dentro di noi e diventa una presenza viva che ci accompagna sem- pre, anche quando siamo soli… Sarebbe come dire:

diventare capaci di farsi toccare dal mondo, dalla sua complessità e dalla sua bellezza, ascoltare la vita, che è il contrario dell’indifferenza.

Cristina Bertogna Gorizia, 19 dicembre 2007

Fede e Società IL CONFINE

PERMETTE DI DIFFERENZIARE IL CONSCIO DALL’INCONSCIO,

MA ANCHE LA REALTÀ DALLA FANTASIA E

DI GODERE

DI ENTRAMBE

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La frontiera che cadrà fra poche ore non ha diviso, come molte altre cadute negli ulti- mi anni, soltanto due Stati – sia pure spesso coinvolti in passato in tragici conflitti, come è accaduto tra Francia e Germania, in quel sanguinoso e coat- to carnevale che è la Storia – ma ha diviso, per un cer to periodo, il mon- do. A impedirci di andare rispettiva- mente a bere un bicchiere di vino a Sesana o a Opicina era, un tempo, la Cor tina di Ferro, la grande muraglia che tagliava la terra in due e poneva Trieste, pur dimenticato cul-de-sac dell’ Adriatico, in qualche modo al centro del mondo, sul- la linea del fuoco in cui si fronteggiavano e minacciavano di scontrarsi Oriente e Occidente.

Almeno sino alla grande rottura fra Tito e Stalin – ma anche più tardi, sino alla normalizzazione dei rappor- ti fra Italia e Yugoslavia – quella frontiera era, per la maggior parte di noi, invalicabile; dietro di essa co- minciava, per noi, l’impero di Stalin, simbolo per ec- cellenza di una minacciosa e indistinta oscurità e iden- tificato, stoltamente, con l’Est, con quell’ Est che la fantasia occidentale tende spesso a rifiutare come in- decoroso, promiscuo e vagamente indegno e a so- vrapporlo, altrettanto confusamente, al comunismo.

Ogni paese ha il suo Est, il suo vicino orientale cui guardare con supponenza, definendolo magari «bal- canico», con un aggettivo al quale la carica dispregia- tiva ha tolto ogni significato geografico: se il principe di Metternich diceva che a Vienna, sul Rennweg, co- minciavano i Balcani – termine che non usava quale complimento – un secolo e mezzo più tardi a Ulm, città danubiana situata qualche centinaio di chilometri a ovest di Vienna, si diceva che a Neu-Ulm, la città nuo- va costruita sull’altra riva del Danubio e abitata da mol- ti immigrati venuti dall’Est, cominciavano i Balcani.

Ma dietro a quella frontiera allora così difficilmente valicabile – e materialmente più vicina al centro di Trieste di quanto non lo sia un quar tiere di Roma o di Milano a un altro dalla par te opposta della mede- sima città – non c’era soltanto l’impero di Stalin, l’I- gnoto, il Per turbante. C’era pure il noto, il familiare, terra in cui sino a poco prima si era abituati ad an- dare come in un’altra zona della propria città;

luoghi consueti dell’abitudine, luoghi di casa.

Un mondo vicino e lontano, un paesaggio – naturale e umano – che si avver tiva come lo specchio del proprio volto e insieme

come il volto dell’Altro.

Il confine ora cancellato aveva mutilato l’Italia di terre e città di plurisecolare ci- viltà italiana, come l’Istria costiera, e re- stituito alla Slovenia e alla Croazia le ter- re slave annesse dopo il 1918, generando lutti, drammi e ingiustizie, a cominciare dall’esodo di istriani, fiumani e dalmati.

Quella frontiera era anche una ferita che sfi- gurava il viso e tornava improvvisamente in suppurazione anche quando sembrava cica- trizzata. Ma quella ferita era stata in realtà in- ferta molto prima; non è solo dal ‘45 che il nostro vol- to era deturpato come quello degli studenti tedesco- nazionali delle Burschenschaften, che praticavano il duello col preciso scopo di coprirsi il viso di cicatrici.

La frontiera è per definizione un territorio misto e com- posito, la cui identità è sempre plurima anche se, a se- conda dei casi, segnata da una componente talora net- tamente prevalente. La frontiera viene spesso cele- brata quale crogiolo di culture e luogo di incontro, ma è stata più spesso arcipelago di mondi desiderosi ognu- no di ignorare l’esistenza degli altri, muro innalzato nel

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Strade Aperte n. 1-2/2008

Noi e il mondo nuovo*

Claudio Magris

Fede e Società

PER LO SCRITTORE DI FRONTIERA LA DOMANDA FONDAMENTALE

«CHI SIAMO, DONDE VENIAMO, DOVE ANDIAMO», DIVENTA LA DOMANDA, ALTRETTANTO

METAFISICA E UNIVERSALE, «PERCHÉ CI

ODIAMO»

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Strade Aperte n. 1-2/2008

cuore e nel pensiero per sbarrare la strada all’altro e per non vederlo, per poter dire che non esiste.

Talvolta, per accorgersene, non basta alzare gli occhi, come parrebbe logico, ma occorre fare il giro del mon- do. Milosz, il grande scrittore polacco, racconta che a Vilnius, dove aveva vissuto per un certo periodo, a due- cento metri dal caffè letterario in cui egli si incontra- va con i suoi amici, c’era un caffè in cui si ritrovavano alcuni straordinari poeti jiddish, dei quali peraltro egli aveva appreso l’esistenza e letto le opere solo vent’an- ni più tardi, a Parigi, grazie a traduzioni francesi: per superare quei duecento metri aveva avuto bisogno di un lungo viaggio nel tempo e nello spazio.

La nostra frontiera, lineamento e profilo del nostro volto, era divenuta una smor fia con le violenze o già con i pregiudizi di una nazionalità nei confronti del- l’altra, con la negazione dell’altro e del suo diritto di considerarsi a casa in quelle terre. Prevaricazioni, di- sprezzo, persecuzioni, vendette, sciovinismi sono le pietre che avevano costruito il nostro piccolo muro di Berlino e alimentato, ora da una par te ora dall’al- tra, i nostri piccoli roghi d’Alabama.

È giusto che gli storici facciano il conto dei torti e del- le vittime, ma senza l’acre compiacimento di voler sco- prire che l’altro ci ha fatto più male di quello che gli ab- biamo fatto noi; che se noi gli abbiamo ammazzato un fratello, lui, grazie a Dio, ce ne ha ammazzati due.

La nostra frontiera non si riduce al rapporto fra italiani e slavi, in particolare sloveni, che pure ne costituisce la chiave di volta. Abbraccia pure altre comunità e com- ponenti, nazionali culturali politiche religiose, altri rap- porti – a cominciare naturalmente dall’eredità del pas- sato asburgico e della cultura ebraica. Questa «iden- tità di frontiera» è stata il cuore di Trieste, delle sue in- sicurezze e delle sue passioni, del suo vivere di con- traddizioni apparentemente irresolubili, che sembra- vano trovare – come in altre città e situazioni analoghe, ad esempio a Praga – l’unica soluzione possibile nella letteratura, il solo spazio in cui ci si può avventurare quando non si sa bene quale sia l’essenza della pro- pria vita. Di questa frontiera – delle sue lacerazioni, del- le sue possibilità, delle sue stimolanti e inibenti diffi- coltà – si è nutrita la letteratura triestina, sin dal Mio Carso di Slataper. La frontiera è divenuta una metafo- ra della vita; come ha scritto Fulvio Tomizza – in una pagina, ricordo, che lesse una volta a Mosca, dove era- vamo andati insieme a incontrare autori e lettori russi – per lo scrittore di frontiera la domanda fondamenta- le «chi siamo, donde veniamo, dove andiamo», diven- ta la domanda, altrettanto metafisica e universale, «per- ché ci odiamo». Si potrebbero e dovrebbero fare altri nomi di scrittori, italiani e sloveni, che hanno fatto di quella frontiera e delle sue tensioni un’intensa para- bola poetica della condizione umana. Questa lettera- tura di frontiera – nella quale esistenzialmente e anche generazionalmente mi riconosco e che è anche la mia – sta avviandosi alla fine, come è giusto. Giusta è la Ruota, dice il Lama di Kim. Alcuni suoi rappresentanti – anche di una generazione più anziana della mia, ad

esempio Boris Pahor – continuano a creare opere più che mai vive e attuali nella capacità di ritrarre il mon- do, ma la creatività metaforica della frontiera sta pro- babilmente concludendo il suo ciclo.

L’imminente caduta del confine con la Slovenia segna indirettamente pure questo trapasso. Naturalmente l’entrata in vigore di una legge o di un accordo non spe- gne di per sé i fuochi. Finché vivranno le generazioni coinvolte nelle violenze subite ed inferte e segnate dai risentimenti pressoché inevitabili che esse lasciano nel cuore e nella testa e anche finché vivranno le genera- zioni che, pur non avendo patito direttamente quel dram- ma, ne hanno colto l’eco bruciante da chi l’ha vissuto, quel confine invisibile esisterà ancora. I pregiudizi, le diffidenze, i complessi di superiorità, inferiorità e per- secuzione, sono duri a morire; tendono a continuare anche quando non esiste più la realtà che li ha creati.

Ma oggi altre sono le frontiere che tagliano, invisibi- li e dure, la città e l’esistenza. Frontiere sociali, psi- cologiche, morali; le zone pressoché ignote e simili a una terra di nessuno in cui vivono altri, nuovi e sco- nosciuti concittadini; le case o le cantine dei sene- galesi, dei nuovi immigrati, dei cinesi, chiuse da un’al- tra specie di Cor tina di Ferro calata dentro di noi.

Frontiere di valori morali, sempre più spostate, che è difficile sapere se vadano varcate oppure rese an- cora più salde; frontiere tra la cosiddetta realtà e la cosiddetta sua simulazione, sempre più confuse e provvisorie, come quinte di un teatro di posa, tra le quali ci aggiriamo sperduti, senza capire se abbiamo sbagliato set e in quale film stiamo recitando.

Già oggi una nuova letteratura, anche a Trieste, si sta occupando di questi nuovi confini più che di quello che correva nel cuore dello «slavo-tedesco e italiano»

Scipio Slataper, come egli scriveva in una lettera a Gi- getta. Quanto alla specifica frontiera tra Italia e Slo- venia che ora sparisce, non è il caso di farne troppo oggetto di discussioni, dibattiti, elucubrazioni, che ri- vangherebbero il passato anche nei nobili auspici del futuro. È meglio lasciare la parola alle concrete ini- ziative economiche, alle nuove realtà – sociali, uma- ne – che esse potranno creare, ai nuovi piccoli mon- di che potranno sorgere, microcosmi di una nuova Eu- ropa in divenire. Gli uomini che in passato hanno fat- to grande Trieste, arrivando da ogni parte d’Europa e italianizzandosi, non pensavano cer to a creare un

«crogiolo di culture»; venivano per lavorare, per so- pravvivere e vivere meglio. Solo così hanno potuto contribuire, senza saperlo e soprattutto senza voler- lo, a fondare una nuova Trieste. Forse anche ora po- trebbe aprirsi una nuova, creativa fase di storia, di sviluppo e non sarebbe opportuno distrarre i mano- vratori che alzano e sbaraccano le sbarre di frontiera con troppe riflessioni della civetta, l’uccello di Miner- va che ha tanta saggezza filosofica, ma arriva al tra- monto di una nuova realtà, non alla sua aurora.

[*Da Il Piccolo del 20/12/2007, per gentile con- cessione dell’autore, che ringraziamo]

Fede e Società

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Ho par tecipato in rappresentanza del MA- SCI alla 45ª Settimana Sociale dei Cat- tolici Italiani, tenutasi a Pistoia e Pisa, negli stessi giorni in cui si teneva a Montesilvano l’Assemblea Nazionale MASCI.

Tema della Settimana: «Il bene co- mune, un impegno che viene da lon- tano».

La Settimana si è svolta a cento anni dalla

prima, tenutasi a Pistoia nel 1907, di cui fu ar te- fice Giuseppe Toniolo, docente all’Università di Pi- sa, deceduto nel 1918, e nel 1971 proclamato ve- nerabile.

L’incontro era stato promosso dal Comitato scien- tifico ed organizzativo delle Settimane Sociali, or- ganismo che fa riferimento alla CEI.

La par tecipazione era ad invito: i circa 1200 par- tecipanti erano in rappresentanza delle diocesi ita- liane, oppure delle associazioni laicali cattoliche di livello nazionale.

Vi erano alcuni sacerdoti, ma la maggioranza dei par tecipanti erano laici.

Fra le realtà associative presenti: anzitutto l’A- zione Cattolica, le ACLI, Comunione e Liberazio- ne, Forum delle Associazioni familiari, Focolari;

molte case editrici e pubblicazioni della stampa cattolica.

Con alcuni ho avuto l’oppor tunità di uno scambio:

Agesci, Movimento Scienza e Vita, Retinopera, FOCSIV.

Erano presenti numerose altre realtà associative, del mondo culturale, del “Terzo settore” e del vo- lontariato, del mondo del lavoro e della scuola.

Dell’Agesci era presente la Presidente del Comi- tato nazionale neoeletta, Dott.a Chiara Stroppiani, di Torino, e Lino Laccagnina, di Milano.

Cer tamente fra i rappresentanti delle associazioni laicali vi erano adulti scout e capi di scout, ma ho avuto poche occasioni di incontrarli.

Alcuni temi trattati.

1. IL BENE COMUNE OGGI

Si deve anzitutto distinguere fra bene totale, somma dei beni individuali o di singoli gruppi sociali, e bene comune come risultato della cooperazione di tutti, prodotto da tutti e usufruito da tutti. Nella costruzio- ne del bene comune, “tutti sono responsabili di tut- ti”. Oggi in Italia pochi parlano di bene comune: «L’in- capacità dell’Italia di perseguire il bene comune de- riva dall’avere un assetto istituzionale operante più spesso di fatto che di diritto, il quale rende del tutto improbabile il perseguimento di un bene comune» (P.

Donati, Relazione). Aumentano i mezzi di comunica- zione (Internet, s.m.s.) ma calano le relazioni fra le persone; ci si relazione solo con coloro che sceglia- mo, non con tutti gli uomini e tutte le donne (neo- corporativismo – autoreferenzialità associa- tiva). Facciamo molto volontariato, ma il sistema scoraggia chi vorrebbe occuparsi di bene comune. Bene comune come progetto di sviluppo solidaristico in una società sussidiaria, e progetto di vita delle persone. Il bene comune oggi non può essere quello di una sola parte del Mondo, di un solo Paese, né di una sola città o di una sola categoria professionale: de- ve essere il bene di tutti gli uomini e di tutte le don- ne del Mondo (Nunzio Mons. Bertello).

2. LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA

Anzitutto la riscoper ta della centralità della persona umana. Vi sono alcuni valori “non negoziabili”, cioè non riconducibili al processo di secolarizzazione e di relativizzazione: l’intangibilità della vita, dal concepi- mento fino al naturale tramonto; la famiglia fondata sul matrimonio indissolubile di un uomo e una don- na; il valore della liber tà della persona, come ade- sione al bene e alla verità. Rifacendosi al Messag- gio di Papa Benedetto XVI al Convegno di Verona del 2006, l’impegno ad allargare gli spazi della razio- nalità (il tema fede-ragione); l’elaborazione di una se- ria proposta culturale. Il “discernimento”, sia come atteggiamento della persona, sia come ser vizio da proporre alla comunità. E poi, la capacità di acco- gliere e di accompagnare la sofferenza (S. Pezzotta – P. Binetti), in tutte le sue forme.

3. BENE COMUNE ED ECOMONIA CIVILE

La relazioneDISTEFANOZAMAGNI, docente di economia politica all’Università di Bologna, occupa 19 pagine tutte dense di considerazioni. È un documento da non ignorare, del quale mi è difficile fare una sintesi ac- cettabile. Riporto alcuni spunti significativi: In tempi di economia globalizzata, la democrazia rappresen- tativa non basta più, occorre una democrazia delibe- rativa. I cittadini devono partecipare con funzione de-

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45ª Settimana Sociale

Pistoia /Pisa, ottobre 2007

Paolo Linati

Strade Aperte n. 11-12/2007 Fede e Società

IL BENE COMUNE, UN IMPEGNO

CHE VIENE

DA LONTANO

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Strade Aperte n. 1-2/2008

liberativa alla gestione delle istituzioni. Si tratta di isti- tuire dei “forum deliberativi” in cui prima delle gran- di decisioni, ascoltare il parere dei cittadini. Se non si realizza questo traguardo, si arriva alla derespon- sabilizzazione della società civile. (Zamagni). Citando San Bernardo di Chiaravalle: «L’elemosina (alle per- sone come ai popoli) aiuta a sopravvivere, non a vi- vere, perchè vivere è produrre». In una economia eti- ca, l’elemosina deve avere queste tre condizioni: ren- dersi conto di quali sono le cause della povertà; rea- lizzare una giustizia “proporzionale”; chiedere conto dell’uso fatto di ciò che si è ricevuto. Recentemente è stata introdotta una nuova parola: econometica, l’economia etica (Zamagni). La necesità di fare rete fra società civile, società politica e mercato: in Italia non riusciamo a fare questa rete, perché la società politica ignora il bene comune (pensa solo al bene elettorale), la società civile dice “non vogliamo spor- carci le mani”, il mercato non rende conto a nessu- no, è autoreferenziale. Nella ricerca del bene comu- ne, quello che attualmente manca in Italia non è il be- ne, ma il comune (Bruni), cioè le relazioni fra le per- sone, fra le persone e le istituzioni. La via indicata è la cosiddetta economia civile: l’istituzione e l’impe- gno nelle cooperative sociali, nelle imprese che dia- no lavoro a pieno titolo ai diversamente abili, nelle or- ganizzazioni no-profit (ONP), le IPAB, il commercio equo-solidale, il microcredito, la “finanza etica”. Il mo- dello per il futuro è quello dell’economia civile.

4. LE PROSPETTIVE DELLA BIOPOLITICA

Con il termine biopolitica, in contrapposizione a quel- lo più diffuso di bioetica, non si deve intendere solo la traduzione dei principi dell’etica medica in leggi e regolamenti dello Stato; si deve intendere anche la

«totale presa in carica e la gestione integrale della vi- ta biologica da parte del potere» (F. D’Agostino, Univ.

Tor Vergata Roma). Potere che non si riferisce solo al- lo Stato, ma ad ogni “prassi collettiva di carattere au- toreferenziale” (es. i media; le case farmaceutiche).

La distinzione tra vivente e non vivente acquista nel contesto biopolitico attuale un unico fondamento, quel- lo legale: è la legge che individua i criteri per l’accer- tamento della vita e della morte (D’Agostino): “la vi- ta non è più un dono, è un decreto”. La legalizzazio- ne dell’abor to, l’alterazione dell’equilibrio delle na- scite tra i sessi (in Cina e India), la procreazione as- sistita, l’eutanasia, sono tutti problemi etici sui qua- li le decisioni sono state prese non dall’etica ma dal- la politica. Come uscire dal paradigma della biopoli- tica? Il relatore indica alcune proposte ed atteggia- menti. Qui ne indico due: – riconoscere la dimensio- ne privata e pre-politica del “bios”; – ricostruire in chiave positiva la categoria di fragilità. Rivedere la fragilità umana non come valore negativo, ma come principio antropologico fondamentale, come una for- ma di rispetto per la vita. Non fragilità come insicu- rezza, ma come consapevolezza della “finitudine” e della “mortalità”. Accanto al rischio della biopolitica,

c’è (secondo Paola Bignardi) la tendenza a volere abo- lire la sofferenza abolendo i sofferenti. Come dalle aule si vuole levare il crocifisso, così dagli uomini si vuole levare il dolore. Dobbiamo reimparare ad af- frontare il dolore, a superare la concezione ormai do- minante di rifiuto del dolore. Osservazione (di G. Cam- panini): Una volta esistevano gli ospedali, adesso vi sono le “aziende ospedaliere”.

5. EDUCARE

La relazione di base sulla educazione è stata tenuta da Luigi Alici, Prof. Ord. di Filosofia Morale Univ. di Macerata, e Presidente Azione Cattolica Italiana.

Le trasformazioni profonde nella cultura e nel co- stume, intercorse dal 1968 ad oggi, configurano il rappor to fra educazione e bene comune in forma ra- dicalmente diversa dalla situazione di 50 anni fa.

Manca oggi un progetto educativo condiviso in quan- to manca una pedagogia del bene comune (Alici).

Dobbiamo tenere conto di una diffusa fragilità rela- zionale, che sembra avere assunto un carattere per- vasivo e sistematico, a cui occorre rispondere con un esercizio autentico di discernimento comunitario (Alici). L’emergenza educativa (Ministro Fioroni) in cui ci troviamo è messa alla prova da tre nodi di fon- do: l’autonomia, che può por tare all’autoreferenzia- lità educativa; la necessità di riprogrammare conti- nuamente il progetto educativo; il “tutto e subito”, la relazione “usa e getta”, la “contrazione degli oriz- zonti”. Compito di noi adulti è cercare di non ag- giungere al debito pubblico in euro che lasceremo ai nostri figli e nipoti, anche un debito educativo, che nessuno potrà pagare al posto nostro (Chiosso – Ali- ci). Va riscoper to il senso e il valore educativo del- l’adulto, del “maestro”: insegnanti-educatori, capi- educataori che trovino il senso di quello che fanno:

il senso dell’educare, il senso del bene comune; che cerchino il bene dell’educando, prima della propria affermazione personale. I giovani guardano agli adul- ti, gli adulti non guardano molto ai giovani (Chiosso).

6. ALCUNE CONCLUSIONI E PROSPETTIVE D’IMPEGNO A conclusione dell’incontro, il Vice Presidente delle Settimane Sociali Prof. Giuseppe Della Torre (Retto- re LUMSA) ha indicato alcune prospettive d’impegno:

Diffondere le tematiche affrontate in questa Setti- mana; A questo scopo, creare eventi che trattino uno o più dei temi trattati; favorire l’istituzione di luoghi d’incontro sui temi sociali, economico-politici; dedi- care attenzione a ciò che sta avvenendo nel “Terzo Settore”, alle iniziative di autonomia e di sussidia- rietà; prestare attenzione alle dedizioni che prossi- mamente prenderà il Parlamento in materia di Terzo Settore, volontariato, sussidiarietà; sollecitare la par- tecipazione e il diritto di accesso al credito; atten- zione ai giovani, ai disabili, agli anziani; attuare un for te impegno educativo, che affronti i temi dell’e- mergenza educativa, della educazione alla legalità, della pedagogia del bene comune.

Fede e Società

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Non è mia intenzione commentare lo splen- dido e commovente spettacolo delle cen- tinaia di migliaia di giovani radunatisi sul- la Piana di Montorso, ma riflettere su quanto Benedetto XVI ha detto a quei giovani. Ho ritenuto oppor tuno citare anche la GMG svolta a Toronto, l’ultima con Giovanni Paolo II, perché entrambi i Pontefici esprimono, ai giovani, pur con pa- role proprie, una medesima sollecitazione. È

sintetizzabile con l’invito di Giovanni Paolo II a tutti i giovani del mondo, ad “elaborare una cultura nuova per poter promuovere una civiltà nuova”. Quasi una

“bomba” spirituale e culturale. Ascoltiamo Benedet- to XVI, ricavando le Sue espressioni dal Quotidiano Avvenire. Quanto segue è in risposta agli inter venti dei giovani, sabato 01 Settembre.

«Il mondo, lo vediamo, deve essere cambiato, ma è proprio la missione della gioventù di cambiarlo! Non lo possiamo fare solo con le nostre forze, ma in comu- nione di fede e di cammino. In comunione con Maria, con tutti i santi, in comunione con Cristo, possiamo fa- re qualcosa di essenziale (varrebbe la pena di sottoli- neare questo “essenziale”) e vi incoraggio e vi invito ad avere fiducia in Cristo, ad avere fiducia in periferia, affinché diventi visibile e realistica la speranza di tutti, e ognuno possa dire: “Io sono importante nella globa- lità della storia. Il Signore ci aiuterà». (Avvenire 02/09/07 pag.4) Ripeto nuovamente, anche in questa sede, quan- to espresso a proposito di Giovanni Paolo II: quasi una

“bomba” spirituale e culturale.

Appena prima ha detto «La Chiesa viva, la Chiesa delle piccole co- munità, la Chiesa parrocchiale, i Movimenti (Laicali ndr) dovrebbero formare dei “centri” nelle periferie e, così, aiutare a superare le cose che la grande politica, ovviamente, non supera e dobbiamo, nello stes- so tempo, anche pensare che no-

nostante le grandi concentrazioni di potere, proprio la società di oggi, ha bisogno della solidarietà, del senso della legalità, dell’iniziativa e della creatività di tutti. So che è più facile dirlo che realizzarlo, ma vedo, qui, per- sone che si impegnano (…) (Ibidem)

Qualcuno potrebbe pensare che queste importanti di- chiarazioni siano state, in qualche modo, sollecitate dalle espressioni dei giovani. Ne cito una per tutte: “A molti di noi giovani di periferia manca un centro, un luogo o persone capaci di dare identità. Siamo, spes- so, senza storia, senza prospettive e, perciò, senza futuro(…)” (Giovanna e Piero, da Bari) (Ibidem) Nell’Omelia della S. Messa della Domenica 02/09/07, Benedetto XVI ha ulteriormente proseguito nelle Sue considerazioni: «Il messaggio (dal Vangelo della S. Mes- sa ndr) non seguite la via dell’orgoglio, bensì quella del- l’umiltà. Andate controcorrente, non ascoltate le voci interessate e suadenti che oggi, da molte parti, pro- pagandano modelli di vita improntati all’arrogan- za, alla violenza, alla prepotenza, al succes- so ad ogni costo, all’apparire, all’avere a scapito dell’essere (altra parola che me- rita sottolineare, nella speranza che tut- ti siano consapevoli della impor tanza dell’”essere” e dell’”essenza” per co- struire la civiltà nuova”) (…) Siate vigilanti!

Siate critici! (…) Quella dell’umiltà, cari ami- ci, non è, dunque la via della rinuncia, ma del coraggio (…) Possiamo capire che la nostra Fede non propone un insieme di divieti morali, ma un cammino gioioso alla luce del “si” di Dio. È vero, tan- te e grandi sono le sfide che dovete affrontare (…) La motivazione fondamentale che unisce i credenti in Cri- sto non è il successo, ma il bene, un bene che tanto più è autentico quanto più è condiviso, e che non con- siste prima di tutto nell’avere, ma nell’essere (…) Se- guire Cristo, cari giovani comporta lo sforzo costante di dare il proprio contributo alla edificazione di una “so- cietà” più giusta e solidale, dove tutti possano godere dei beni della Terra (…) Segue l’esortazione – riporta- ta dai mass media – concernente la salvaguardia del Creato) (Avvenire 04/09, pag 04)

A questo punto sono costretto a porre un interrogati- vo. Mi sembra evidente che, in generale, i giovani de- vono ricevere, dagli adulti, il patrimonio di esperienza e di elaborazione culturale per poter agire ed operare in modo da vivere una vita propriamente umana, e non rischiare di scendere nel subumano. Noi Adulti Scout cosa stiamo facendo a favore dei giovani di questa fa- se storica, e, soprattutto per i no- stri fratelli minori delle associazio- ni giovanili nel senso di elaborare una cultura nuova per poter pro- muovere una civiltà nuova”, preli- minare necessario per poter “cam- biare il mondo”? D’altronde anche B.P. ci ha esor tato a “lasciare il mondo un po’ migliore di come lo abbiamo ricevuto”

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Da Toronto a Loreto

Pier Giuseppe Alvigini

Strade Aperte n. 11-12/2007 Fede e Società

ELABORARE UNA CULTURA NUOVA

PER POTER PROMUOVERE

UNA CIVILTÀ

NUOVA

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Nel Manuale dei Lupetti (pp. 196-197) Baden- Powell propone la pratica di alcuni esercizi fi- sici da svolgere alla mattina, appena sve- gliati, oppure la sera. Nell’esecuzione sug- gerisce di rivolgersi a Dio, guardando il cie- lo, con questa frase: «Io sono vostro dalla testa ai piedi» e mentre si respira, invita:

«Bevete la bell’aria di Dio (attraverso il na- so e non attraverso la bocca)». È questo un modo semplice di pregare, ma molto con- creto che B.P. per primo probabilmente pra- tica, perché più di quanto si possa immagina- re, gli sta a cuore l’educazione religiosa. Lo sot- tolinea continuamente in numerosissimi passi che si trovano sparsi in vari suoi testi, che ho raccolto in for- ma antologica in Bevete la bell’aria di Dio. Si tratta di un utile strumento per comprendere la spiritualità dello scou- tismo quale mezzo di educazione anche alla fede, poi- ché su questo aspetto, come del resto su altre proble- matiche, B.P. non ha espresso il suo pensiero o descritto la possibile azione educativa in un libro specifico o in un manuale di carattere pedagogico, ma ripetutamente ri- prende il tema nei confronti del quale manifesta una for- tissima attenzione ed una squisita sensibilità, impron- tata a quel suo tipico spirito di concretezza. Dunque, ba- sta leggere solo qualche pagina di Bevete la bell’aria di Dio per verificare come nell’intenzionalità educativa di B.P., la dimensione religiosa sia troppo importante per- ché la formazione scout possa farne a meno. Stando al pensiero ed all’opera educativa di B.P., non è possibile uno scoutismo ateo! Eppure, nonostante ciò, ancora agli inizi del secolo scorsi la proposta scout fu accolta dagli ambienti cattolici del nostro Paese con pesanti diffidenze e sospetti. La parte più chiusa e intransigente della cat- tolicità italiana, infatti, assunse un atteggiamento for- temente critico, in particolare, rimproverando allo scou- tismo di essere nato in un contesto straniero, d’ispirar- si a dottrine protestanti, di basarsi su una visione na- turalistica della vita. Gli interrogativi sollevati con toni piuttosto polemici sull’efficacia educativa, invitanti alla

prudenza rispetto ai possibili pericoli, finirono per svi- luppare un atteggiamento di prevenzione e frenare so- stanzialmente la diffusione in Italia delle prime espe- rienze scout. A seguito del fatto che il Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani (CNGEI), fondato nel 1912 ed attestato su posizioni laiciste (oltre che militaristiche), si andava rapidamente sviluppando – il che rappresen- tava una preoccupazione a livello di “pastorale giovani- le” -, nel mondo cattolico si cominciò a far strada l’ipo- tesi di promuovere la nascita di uno scoutismo cattoli- co e si giunse così, alla fondazione nel 1916 dell’Asso- ciazione Scautistica Cattolica Italiana (ASCI), che fin da subito ottenne l’approvazione pontificia, grazie all’im- pegno del conte Mario di Carpegna e del padre gesuita Giuseppe Gianfranceschi. A loro va riconosciuto il meri- to di essere riusciti, nel ruolo rispettivamente di laico e di prete, a far accettare alla chiesa italiana lo scoutismo, salvaguardandone l’originalità pedagogica e l’autono- mia, rispetto alla prospettiva di assimilarlo a qual- che altra associazione, quale ad esempio, l’A- zione Cattolica. Ed in un clima sostanzialmente poco favorevole, dal 1916 al 1928 lo scou- tismo cattolico conobbe una significativa crescita sul piano quantitativo, diffonden- dosi in modo capillare su pressoché tutto il territorio italiano. Se era necessario, Be- vete la bell’aria di Dio dà torto a quei pre- giudizi che eventualmente continuino a so- pravvivere, ribadendo ancora una volta che, come amava ripetere il figlio dei Luigi e Ma- ria Beltrame Quattrocchi -che lo iscrissero a die- ci anni, nel 1916, nello storico gruppo scout Ro- ma V-, don Tarcisio: «Basta leggere gli scritti di B.P. per renderci conto di quanto sia pieno di spirito cristiano il pensiero del nostro Fondatore». Anzi, precisava: «Lo scou- tismo ideato da B.P. è un sistema educativo e appunto per questo lungi dal prescindere da un ideale religioso, esalta l’importanza di una fede lealmente e generosa- mente praticata». Ed è a don Tar – Aquila Azzurra che de- vo modo la sollecitazione prima che mi ha portato a scri- vere questo contributo uscito in una prima versione di tremila copie subito esaurite, durante il ser vizio di In- caricata Nazionale alla Documentazione. La Conferenza Internazionale Cattolica del Guidismo ne ha chiesto nel 2006 la traduzione in francese: “Buvez le Bon Air de Dieu” Texts de B.P. sur la formation religieuse e nel 2007 quella in ingleseDrink in Good’s air. Texts by Lord Ro- bert Baden-Powell on religious education; entrambe so- no pubblicate nel sito Internet reperibile all’indirizzo:

htpp://cicg-iccg.org/document. La nuova edizione del testo è completamente riveduta, pur mantenendo l’im- postazione precedente: la raccolta in forma antologica dei numerosissimi brani scritti da Baden-Powell sul te- ma dell’educazione religiosa, raggruppati in capitoletti tematici introdotti ognuno da una mia brevissima pre- sentazione per facilitarne la lettura. Tornare alle fonti consente di riscoprire una volta di più come lo scouti- smo possa costituire un itinerario per arrivare alla sco- perta di Dio e camminare sulla strada della santità.

Bevete

la bell’aria di Dio

Paola Dal Toso

Strade Aperte n. 11-12/2007 Fede e Società

UN UTILE STRUMENTO PER COMPRENDERE

LA SPIRITUALITÀ DELLO SCOUTISMO QUALE

MEZZO DI EDUCAZIONE ANCHE ALLA

FEDE

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A proposito dell’articolo “Alcune riflessioni sull’I- slam e la Pace” a firma della Federazione dello Scou- tismo Marocchino apparso su Strade Aper te 8- 9/2007, abbiamo ricevuto due lettere di A/S, che esprimono alcune osservazioni critiche. Le pubbli- chiamo, unitamente ad una riflessione sullo stesso argomento di Don Francesco Anfossi (Vice A.E.N.

del MASCI) che potete leggere a pag 16.

Spett.le Direttore,

dopo aver letto l’articolo “Alcune riflessioni sull’Islam e la Pace” a firma della Federazione dello Scoutismo Marocchino comparso sul n° 8-9/2007, chiedo di po- ter fare alcune altre riflessioni su questo argomen- to. In quell’ar ticolo si fanno affermazioni quali: “l’I- slam non ha mai permesso la violenza”. Orbene, nel Corano si legge: Uccidete gli idolatri ovunque li tro- viate, catturateli, assediateli, fateli cadere nell’im- boscate (Sura IX, 5) Ammazzateli ovunque essi si in- contrino (II, 191). Combatteteli fino a che non vi sia più ribellione e che la religione sia quella di Allah (II, 193) Non voi li avete trucidati, è Allah che li ha uc-

cisi (VIII, 17). Chi sono questi nemici? Sono tutti gli infedeli, i non musulmani, cioè i Cristiani, l’Occiden- te, noi! Per l’Islam vi è un’esistenza buona (quella musulmana) ed una cattiva (non musulmana), per cui o ci si conver te all’Islam o si è trucidati. Più pacifici di così… E veniamo ai fatti.

Sin dai suoi esordi l’Islam ha combattuto l’Occiden- te. Prova ne è che tutta la riviera mediterranea, dal- la Turchia al Marocco, nei primi secoli tutta cristia- na, è stata conquistata dall’Islam e costretta, con le cattive, ad assoggettarsi ad esso. Dio ha voluto che l’Islam sia stato battuto nel 732 a Poitiers, nel 1571 a Lepanto e nel 1683 a Vienna per cui l’Europa si è salvata dalla islamizzazione coatta e cruenta. Ma l’I- slam non si è dato per vinto, di qui la strage degli Ar- meni in Turchia durante la II guerra mondiale. Dopo quella data l’Islam ha subito alcune sconfitte nelle guerre in campo aperto contro Israele (1967 e 1973).

Da allora l’Islam, per conquistare l’Occidente, ha cam- biato strategia, articolandola in quattro punti. Eccoli.

1. Terrorismo. L’11 settembre 2001, con la distru- zione delle Torri gemelle a New York, l’Islam ha di- chiarato guerra all’occidente, una guerra non con- venzionale, asimmetrica, dove i terroristi vigliac- chi prediligono stragi di civili innocenti. Poi fu l’11 marzo 2004 a Madrid, con la quale strage l’Islam condizionò le elezioni spagnole. Poi fu il 7 luglio 2004 con la strage di Londra e il 23 luglio 2004 con quella in Egitto, seguite da altre, tante altre, in altri Paesi. Se questa non è violenza, terrore, mor te, cos’è?

2. Immigrazione islamica. È continua, minacciosa ar- rogante, con la quale l’Islam occupa il territorio eu- ropeo, che ormai considera suo, e nei cui anfratti si annidano “terroristi in sonno”, come hanno di- mostrato alcuni arresti e processi in Italia. E per restare nel nostro Paese, si sappia che vi sono ben 612 moschee di cui 285 sedi di prediche che fo- mentano l’odio verso i cristiani, a cominciare dai bambini nei quali viene instillato odio verso i coe- tanei non musulmani (notizia di un paio di mesi fa)!

Mi chiedo e vi chiedo se sarebbero tollerate forme anche infinitamente meno pesanti da parte dei cri- stiani nei Paesi dell’Islam. A meno che la recipro- cità non sia un concetto a senso unico e solo a di- scapito dell’Occidente cristiano! La verità è che l’I- slam vuole conquistare l’Italia, ventre molle di un’Eu- ropa materialista, e come ebbe a dire lo sceicco Omar Bakri: nessun musulmano dubita che l’Italia sarà islamizzata e che la bandiera dell’Islam sven- tolerà su Roma. Più chiari di così!

3. Ricatto mediatico. Non mi dilungo, tanto è nota l’amplificazione del terrore attraverso i media che viene seminato nei popoli colpiti dalle stragi. A dir- lo è pure Magdi Allam, musulmano, vicedirettore del Corsera, obbligato a vivere sotto scor ta.

4. Alleanze antioccidentali. In Europa l’Islam può contare su tutti quei movimenti e partiti, per lo più discendenti dalla ideologia comunista, che vogliono

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Noi è l’Islam

Lettere al direttore

Strade Aperte n. 11-12/2007 Opinioni&Repliche: l’agorà di Strade Aperte

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Strade Aperte n. 1-2/2008

il prevalere delle minoranze, l’appiattimento delle diversità, e la scomparsa delle radici cristiane dal- la nostra civiltà. Questi epigoni del comunismo ve- dono nell’Islam l’utile alleato per scardinare il Cri- stianesimo, tolto di mezzo il quale, sarà facile rea- lizzare il sogno comunista di una egemonia ma- terealistica dell’Europa. Non fu forse un musul- mano, Alì Agca, armato dai comunisti dell’Est, a tentare di assassinare Giovanni Paolo II nel 1981?

Quanto poi all’affermazione, nel citato ar ticolo, per la quale l’Islam ha contribuito al miglioramento dei diritti dell’uomo e al rispetto della sua dignità, vorrei che a rispondere fossero tutte le donne musulmane che quanto ad oppressione e violenze ne patiscono da 1500 anni, comprese quelle che ora in Italia ven- gono brutalizzate, se non uccise, solo che non si ade- guino alle regole islamiche, al punto che si stanno organizzando in un sodalizio per difendersi dal ma- schilismo islamico. Se poi un musulmano intende passare ad altra fede la sua sor te è segnata per ma- no dei suoi correligionari. È questa la tolleranza, la liber tà e la pace sbandierata dall’Islam? Sperando di avere dalla Rivista ospitalità uguale alla Federa- zione Nazionale dello Scoutismo Marocchino porgo cordiali saluti.

Andrea Smerieri Comunità Mirandola (Mo)

Caro Direttore

sul n. 8-9 di Strade Aper te ho letto il contributo of- fer to dalla Federazione Nazionale dello Scoutismo Marocchino e profitto dell’ospitalità fraterna per al- cune precisazioni, premettendo che i passi tra vir- golette sono tratti dal Corano tradotto da padre Che- rubino Mario Guazzetti e dal contributo succitato. In ordine al preteso carattere profetico di Gesù Cristo è bene chiarire che Gesù non è un profeta, ma figlio di Dio e figura della SS. Trinità. Il Corano, libro sacro per l’Islam, respinge in modo incontrover tibile la di- vinità di Gesù Cristo (5, 72: 116-117; 9, 30-31) “Son davvero miscredenti quelli che dicono il Messia, fi- glio di Maria, è Dio” (5, 17; 4, 171). Circa “la vera

tradizione politica dell’ Islam (che) rigetta la guerra e preferisce la pace” il Corano è lapidario: “Com- battete quelli (…) fra coloro cui (ebrei e cristiani, n.d.a.) fu dato il libro, che non professano la religio- ne della verità.” Cosa significhi non professare la re- ligione della verità è presto affermato: “…i cristiani dicono Il Cristo è figlio di Dio. Questo è ciò che di- cono con la loro bocca imitando ciò che dicevano i miscredenti che li hanno preceduti. Dio li maledica!”

(9, 29-31). Per ciò che concerne gli imperativi con- tenuti nel Corano è vero che il Libro afferma: “Non aggredite, Dio detesta gli aggressori”, ma la sura non si interrompe qui, prescrivendo agli islamici la sor te dei miscredenti: “ Uccideteli quindi ovunque li trova- te (…) Ecco la ricompensa dei miscredenti!” (2, 191).

Ora o un islamico non segue gli imperativi del Cora- no, ma allora è eretico, oppure se musulmano prati- cante è imperativamente sottomesso al Libro, con ciò facendo strame di ogni proposito pacifico, tertium non datur.

Nel prosieguo della lettura trasalgo, allorquando ap- prendo che “Contrariamente alle idee pubblicate da libellisti professionisti (…) l’Islam è una vera religio- ne di ragione, di misura, di aper tura.” A tal proposi- to è bene chiarire che l’Islam (sottomissione a Dio) non effettua distinzioni tra potere temporale e pote- re spirituale, ciò a differenza della religione cristia- na che informa le “cosiddette società civili”. L’iden- tificazione dei due poteri in una unità implica che non vi sia differenza tra la violazione di un precetto tem- porale e violazione di un precetto spirituale; concre- tamente l’introduzione di un testo biblico o la cele- brazione della SS. Eucarestia comportano comunque sanzioni a carico dei colpevoli. Se “l’Islam ha inse- gnato i diritti dell’uomo molto prima del 18° secolo”

resta da intendere di quali diritti si sta discettando, ma cer tamente non quelli che stabiliscono la lapi- dazione di un’adultera (peraltro nel nostro paese sa- rebbe una strage), nè di quelli che impongono ai fe- deli di altre religioni una tassa ad hoc.

Veritas in caritate.

Giacomo Stevani Comunità “Cavazzuti” Piacenza

Opinioni&Repliche: l’agorà di Strade Aperte

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Parto da un’esperienza vissuta personalmente.

Dagli anni ’90, con la Caritas della mia dioce- si seguo le vicende dei Balcani. Dai primi gior- ni di permanenza tra quelle popolazioni, è emerso un dato evidente: le tensioni che esistono in quei paesi da secoli, non sono tra cattolici e ortodossi, ma tra serbi e croa- ti. È solo un fatto accessorio, non deter- minante, che i Serbi siano ortodossi, ed i Croati cattolici. Conta molto più l’essere Serbi o Croati che essere cristiani! Le atro- cità che sono state commesse non hanno al- cun rapporto con i Vangeli, ma solo nella vo- lontà di sopraffazione sull’altro! Nei confronti del- la lotte politiche balcaniche, la religione viene con- sapevolmente utilizzata per dare maggior forza alle moti- vazioni storiche e politiche del contrasto. Anche l’azione mondiale dell’Islam ha motivazioni storiche e politiche che meritano molta attenzione. Devo però, per il momento, la- sciarle ad altra occasione: lo spazio concesso è limitato.

Potremmo parlarne in seguito. Ricordo solo che a progetti politici si risponde con progetti politici!

Penso che occorra, invece, riflettere su una delle radi- ci del problema, per dare conto di un fatto che ha ef- fetti nocivi anche sulle azioni politiche. La soluzione dei problemi posti dalla presenza mussulmana non potrà infatti realizzarsi in modo definitivo, se non verrà risol- to il problema religioso che sta interessando, in modo non percepibile ma influente, l’intero Islam.

Il vero problema nodale dell’Islam, oggi, è la sua teolo- gia. Per spiegarmi, parto da lontano, da un fatto di ca- sa nostra. Nessuno di noi pensa di epurare la Bibbia.

Ma la Bibbia contiene anche impressionanti racconti di violenze e massacri: la strage che Giosuè fa di donne, bambini e anziani, è presentata addirittura come un co- mando divino! (Gs 6, 21; 7, 1s). A Giosuè viene anche detto: “Farai ad Ai e al suo re come hai fatto a Gerico e al suo re” (Gs 8, 2); e si racconta che “Giosuè si impa- dronì di Makkeda, la passò a fil di spada con il suo re, votò allo sterminio loro e ogni essere vivente che era in

essa, non lasciò un superstite e trattò il re di Makkeda come aveva trattato il re di Gerico” (Gs 10, 28)

Il salmo 135 loda il Signore perché ha concesso la vit- toria su “Seon, re degli Amorrèi, e Og, re di Basan”, due re “colpevoli”, con la loro gente, per non aver accetta- to serenamente che questi intrusi prendessero pos- sesso delle loro case e delle loro terre: “Salirono lun- go la strada verso Basan. Og, re di Basan, uscì contro di loro con tutta la sua gente per dar loro battaglia a Edrei. Il Signore disse a Mosè: «Non lo temere, perché io te lo dò in potere, lui, tutta la sua gente e il suo pae- se … Gli Israeliti batterono lui, con i suoi figli e con tut- to il suo popolo, così che non gli rimase più superstite alcuno, e si impadronirono del suo paese” (Nm 21, 33s).

Sono stragi che non riusciamo a pensare come volute dal Dio che ama tutti gli uomini!

Elia non ha evidentemente letto la Gaudium et Spes sul- la libertà religiosa, se dopo un forte contrasto con 450 profeti di Baal, risolto da Dio in suo favore, “…dis- se: «Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi uno!». Li afferrarono. Elia li fece scendere nel torrente Kison, ove li scannò” (1 Re 18, 49)!

Questi fatti (ce ne sono anche altri!), ser- vono per comprendere come sia diverso leggere la Bibbia così come è scritta, dal leggerla tentando di esserle fedeli inter- pretandola!

Noi abbiamo l’autorevole insegnamento di Gesù, che ha osato, per portare a compi- mento Legge e Profeti (Mt 5, 17), toccare persino uno dei comandamenti: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sa- bato! Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato” (Mc 2, 27). Il cammino percorso, da Pio XII alla Dei Verbum, ci ha dato scurezze importanti A complicare il tutto, c’è anche il fatto che per noi la Bibbia è ispirata, mentre la grande maggioranza di teo- logi mussulmani, oggi, insegna che il Corano è stato dettato personalmente a Maometto. L’Islam sta pas- sando, su questo tema, un momento difficile. Ne ra- giono con voi, utilizzando alcune osser vazioni di un ge- suita esperto dell’Islam; basta leggere il suo nome per capire perché: si chiama Samir Khalil Samìr, sj.

Gli risulta che non pochi musulmani abbiano scritto rin- graziando il Papa per quello che ha detto in Germania, a Regensburg. Già subito dopo il discorso, il tunisino mussulmano Abdelwahhab Meddeb ha ringraziato Be- nedetto XVI, perché “finalmente qualcuno osa parlare e punta il dito sulla violenza nell’Islam”. “Il seme della violenza nell’Islam si trova nel Corano”, è il titolo di un articolo di Meddeb.

Sulla questione della violenza, i musulmani sanno che i semi sono nel Libro sacro. Ma tutti cercheranno sem- pre di nasconderlo, negando i fatti anche contro l’evi- denza. Il discorso di Benedetto XVI non ha annacquato o negato i fatti; ha proposto di comprenderli all’interno di un contesto umano; ha suggerito all’Islam di ripren- dere l’interpretazione dei testi, proponendo la lettura di quel testo dentro l’esperienza umana di Maometto. Sug-

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Noi e l’Islam:

dialogo non lotta

Don Francesco Anfossi

Vice A.E.N. del MASCI

Strade Aperte n. 11-12/2007 Opinioni&Repliche: l’agorà di Strade Aperte

CON UN DIALOGO ATTENTO E RISPETTOSO, DOVREMMO

ASCOLTARE CHI CERCA LA VERITÀ E NON LA LOTTA,

OFFRENDO COMPRENSIONE ED AMICIZIA, NELLO SPIRITO

DELLA GAUDIUM

ET SPES

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