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CAPITOLO TERZO TEORIA E PRASSI DELLA MEDIAZIONE FAMILIARE 3.1 Gli obbiettivi

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CAPITOLO TERZO

TEORIA E PRASSI DELLA MEDIAZIONE FAMILIARE

3.1 Gli obbiettivi

La mediazione familiare è un tipo di intervento volto alla riorganizzazione delle relazioni familiari e alla risoluzione o attenuazione dei conflitti in caso di separazione o divorzio. Quindi tra i suoi obbiettivi non rientra la “pacificazione” a tutti i costi, ma il mediatore familiare si propone come terzo imparziale per “prevenire i pericoli insiti in situazioni in cui la presenza di interessi contrapposti rischia di offuscare i bisogni reciproci e soprattutto i bisogni dei figli e di instaurare una deriva giustizialista” (MARZOTTO, TAMANZA 2005, p. 381).

Questo tipo di intervento non mira ad impedire il litigio, né a reprimere l’espressione del conflitto nella sua dimensione costruttiva, bensì tende a far recuperare alla coppia genitoriale, anche in una situazione critica, quale la separazione, risorse che aiutino a ricollocare il conflitto e a non esasperarlo, in modo da raggiungere in prima persona degli accordi e quindi essere artefici della riorganizzazione familiare che andrà a regolare la vita dei coniugi e dei loro figli.

Nel tentativo di agevolare il superamento della crisi coniugale, la mediazione introduce l’aspetto della continuità dei legami familiari accanto alla libera scelta. Il lavoro del mediatore familiare mira a restituire ai genitori il pieno potere decisionale, spesso sottratto dal sistema giuridico, conservando per se la sola funzione di garante del procedimento. La mediazione familiare si configura come un percorso integrabile con l’iter giudiziario più che una forma di degiuridicizzazione delle cause familiari. Non è né un “corpo estraneo” né un processo alternativo o in contrapposizione con quello giudiziario, ma piuttosto uno spazio, un frammento di esperienza all’interno di un contesto come quello della separazione, che consente di dare un senso personale, alla luce della storia del rapporto di coppia, al confronto con i diritti e doveri, che si trasformano in aspettative, desideri, richieste, possibilità e rinunce (CANEVELLI, LUCARDI 1997).

Si tratta cioè di un intervento altamente specialistico finalizzato alla rigenerazione dei legami all’interno della famiglia e non al controllo-adattamento (MARZOTTO, TAMANZA 2003).

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Si può affermare che l’obbiettivo fondamentale della mediazione è il ripristino di un canale di comunicazione tra i genitori in grado di creare, nel presente e nel futuro, un’area sgombra dal conflitto coniugale, in cui sia possibile occuparsi insieme dei figli nonostante la fine del rapporto coniugale. Mancando quest’obbiettivo ogni decisione e accordo rischia di avere vita breve e stentata.

Il privilegio, se così si può dire, della ricerca di soluzioni attuata attraverso la mediazione familiare sta nel consenso, strumento ed insieme fine ultimo di tutto il lavoro. Esso consente ai genitori di ritagliare e calibrare ogni decisione sulla realtà particolare della propria situazione, sui propri bambini, e non sull’astratto “interesse del minore” (BERNARDINI 2001).

Condivisa da molti mediatori è, poi, l’attribuzione alla mediazione familiare della finalità di accompagnare i genitori verso il riconoscimento del valore reciproco e della quota di responsabilità personale nella vicenda separativa. La mediazione non ha finalità terapeutiche, fa invece leva sulla possibilità che i membri della famiglia separata o in via di separazione trovino accordi soddisfacenti per il presente e per il futuro.

La peculiarità di tale intervento, rivolto a non patologizzare la fine del legame coniugale, lo pone in uno spazio intermedio tra servizi di cura e servizi di consulenza: si tratta, infatti, di una prassi che mette i soggetti al centro della vicenda di vita che li coinvolge direttamente e che dà voce alla sofferenza di figli e genitori nel conflitto, permettendo loro di apprendere e trattarlo (GRANDJEAN 1989).

La mediazione familiare non ha finalità terapeutiche. L’obbiettivo di un percorso terapeutico è la comprensione delle motivazioni alla base dei nostri comportamenti e dolori, mentre la mediazione avvalendosi delle risorse e delle capacità dei genitori, vuole attivare una ricerca di soluzioni1.

Il percorso di mediazione vuole incentivare il ricorso alla creatività da parte dei partner, cercando di favorire l’ascolto reciproco, nella ricerca di soluzioni condivise e soprattutto senza prendere immediatamente decisioni normative.

Accantonando, almeno in parte, il proprio conflitto, i genitori si ritrovano nella stanza di mediazione per affrontare i problemi relativi ai “beni” che ancora hanno in comune: relazioni con figli e parenti, denaro, casa, responsabilità etc…

La mediazione è dunque un contesto particolare, caratterizzato da un lato dal voler raggiungere un obbiettivo concreto e dall’altro da uno spazio che permette il libero arbitrio.

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L’esperienza della mediazione familiare riconsegna ai due partner la posizione di soggetti non solo bisognosi, ma anche desideranti, rendendoli capaci di prendere decisioni condivise rispetto ai propri figli, riappropriandosi quindi di funzioni, quale la genitorialità, che non possono essere delegate all’avvocato o al giudice.

A questo proposito Laroque (LAROQUE 1994, p.70) scrive: “La mediazione familiare ha per obbiettivo quello di consentire ai genitori di esercitare le proprie responsabilità parentali in un clima di cooperazione e di mutuo rispetto. Il mediatore deve consentire alla coppia di trovare per proprio conto le basi di un accordo durevole e accettabile”.

Possiamo quindi sostenere che la prevenzione del disagio minorile, attraverso il sostegno all’adulto nel difficile compito genitoriale, e la restituzione di pari dignità e responsabilità genitoriale, sono due precipue finalità dell’intervento mediativo.

Per quanto attiene alla funzione preventiva, questa si traduce nell’offerta di uno spazio ben definito e dotato delle necessarie garanzie, in cui sia possibile l’ascolto, il confronto, l’esercizio della propria capacità negoziale e decisionale, lo scioglimento di nodi relazionali che rischiano altrimenti di rimanere attivi per molto tempo.

Il lavoro sulla responsabilità genitoriale che si svolge in mediazione consiste nel “sollecitare nei genitori la capacità di leggere correttamente e di rispondere adeguatamente ai bisogni espressi e non espressi dei figli”2. In altri termini si tratta, di promuovere e facilitare la realizzazione e conservazione di un “ambiente sufficientemente buono” per i figli, un ambiente capace di offrire contenimento, stimolazione cognitiva e affettiva, gratuità degli affetti, presenza non intrusiva, attendibilità e coerenza da parte degli adulti (SCHETTINI 1997).

Sottolinea poi Bernardini (BERNARDINI 2001), che l’intervento in questione deve mirare al riconoscimento delle competenze genitoriali in termini ampi. Obbiettivo della mediazione diventa, in questo senso, non solo la possibilità di affrontare lo specifico momento critico che due ex partner stanno attraversando, ma anche il potenziamento della loro capacità di confrontarsi con il carattere di normalità della crisi stessa, come variabile naturalmente connessa non solo alla genitorialità ma anche alle diverse fasi che segnano il passaggio delle tappe del ciclo di vita dell’intero sistema familiare, che dovranno essere affrontate nel tempo in concomitanza con il loro verificarsi.

Gli obbiettivi della mediazione familiare possono essere così sintetizzati:

• offrire un contesto strutturato in cui il mediatore possa sostenere la comunicazione

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tra i partners ai fini della gestione del conflitto e a vantaggio della capacità di negoziare su tutti gli aspetti che riguardano la separazione;

• chiarire le aree del conflitto utilizzando le risorse disponibili per affrontarle;

• valutare le opzioni possibili presenti nella dinamica familiare per ricercare soluzioni condivise da tutti i membri della famiglia;

• aiutare a rimuovere le difficoltà legate ad una comunicazione troppo esasperata e conflittuale;

• aiutare a trovare accordi concreti, costruttivi e personalizzati rispetto alle specificità di quella famiglia per tutti gli aspetti che riguardano la relazione affettiva ed educativa con i figli;

• valorizzare le componenti positive e adulte di ciascun genitore;

• creare uno spazio di incontro e di dialogo con il partner, che permetta ai genitori di riassumere la responsabilità genitoriale, evitando deleghe a terzi.

3.2 I presupposti

I presupposti strutturali della mediazione familiare sono: volontarietà, neutralità,

specificità e segretezza.

Sia in Italia che all’estero, nei documenti associativi viene evidenziato come la mediazione familiare debba essere un processo di volontaria3 partecipazione e di volontario raggiungimento, nonché di volontaria accettazione degli accordi emersi. Nata per reagire all’inevitabile deresponsabilizzazione che consegue alla delega a professionisti per la risoluzione di conflitti e controversie nell’ambito della separazione coniugale, la mediazione familiare vuole essere e restare, nonostante l’eventualità di un invio coatto da parte del giudice, un processo di self-empowerment (HEYNES, BUZZI 1996). L’empowerment è uno dei principi fondamentali della mediazione che possiede però significati diversi: a un primo livello esso passa attraverso la condivisione della conoscenza, cioè i mediatori assistono i partecipanti nel raggiungimento di decisioni

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La raccomandazione del Consiglio d’Europa n. R (98) 1 afferma che la mediazione non deve essere forzata, poiché questo rappresenterebbe una contraddizione in termini. La volontarietà dell’accesso alla mediazione familiare viene confermata dall’articolo 155-sexies, comma 2, della legge 54 del 2006 che comporta la volontarietà e il protagonismo delle parti nella mediazione familiare. E’ comunque importante ricordare quanto accennato prima sull’esperienza norvegese, dove la mediazione obbligatoria per tutti i genitori che si separano ha portato risultati molto positivi.

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proprie e consapevoli, per far questo è necessario raccogliere e condividere informazioni mettendo i partecipanti nella condizione di espandere la loro gamma di alternative; un altro aspetto dell’empowerment dovrebbe essere la protezione dalle pressioni, i mediatori non dovrebbero in alcun modo permettere a un partecipante di esercitare pressioni sull’altro, né il mediatore dovrebbe consigliare o guidare i partecipanti verso il conseguimento di un particolare risultato.

La mediazione deve essere frutto del consenso delle parti, quindi di una loro richiesta e non espressione dell’ottemperanza ad un obbligo o ad una prescrizione (SERVETTI 2005) 4. Per quanto un giudice possa suggerire o ordinare alle parti di recarsi ad un colloquio preliminare di mediazione, la volontarietà della partecipazione deve restare una condizione qualificante. Nessuno spingerà le parti ad accettare una proposta o una possibile opzione emersa in mediazione, se esse non lo decideranno volontariamente; lo stesso mediatore ha il compito di facilitare le trattative e di allargare il ventaglio delle possibilità, ma non può imporre né forzare le parti al conseguimento di accordi (BUZZI 2000).

Il rispetto della volontarietà dell’accesso (se uno dei due coniugi è contrario la mediazione non si attiva) costituisce l’elemento cardine della definizione del contesto di mediazione familiare, evidenziandone la natura di “spazio di ascolto-confronto” e di “negoziato” liberamente scelto (CANEVELLI, LUCARDI 1997).

Nella Raccomandazione del Consiglio d’Europa si legge: “L’essenza della mediazione riposa sul suo carattere di volontarietà e sul fatto che le stesse parti tentano di pervenire ad un accordo, di modo che se le parti rifiutano o si sentono incapaci di procedere alla mediazione, il tentare di obbligarveli è controproducente”.

Spesso ci si riferisce al mediatore come a una terza parte neutrale. La neutralità è però suscettibile di diverse definizioni. In una prima accezione significa imparzialità, cioè il mediatore non deve essere di parte. Oltre a questo il mediatore non deve avere interessi personali rispetto all’esito del processo di mediazione, quindi non deve aver avuto o avere legami con l’uno o l’altro genitore od avere un qualche tipo di interesse nella vicenda separativa. Deve essere “equidistante” cioè deve concedere la stessa attenzione a tutti i partecipanti gestendo il processo in modo equilibrato ed imparziale. Molti mediatori pretendono di essere imparziali ma ammettono di non poter essere neutrali, qualunque terza parte non può evitare di influenzare non solo il modo in cui si negozia ma anche il contenuto della negoziazione. Il filosofo Eligio Resta parla di “equivicinanza”:

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In alcuni contesti il principio della volontarietà può essere sfumato, ad esempio in Inghilterra e in Galles, coloro che chiedono un intervento del giudice in un procedimento familiare si vincolano a partecipare ad un incontro preliminare di mediazione familiare.

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“comprendere nello stesso momento, nello stesso modo, con la stessa vicinanza richieste, esigenze, necessità diverse e spesso opposte e inconciliabili. L’equivicinanza è quella forma mentale verso cui il mediatore deve disporsi nel momento in cui entra nella stanza di mediazione. Solo se i genitori si sentono compresi nella irriducibilità delle loro posizioni, possono provare a pensare ai motivi e al senso della loro irriducibilità”5. La neutralità del mediatore porta con se una dimensione completamente originale, la sua posizione è completamente estranea al conflitto a questo proposito Canevelli e Lucardi (CANEVELLI, LUCARDI 1997, p. 38) sostengono che “Non è tanto l’imparzialità – pur indispensabile – a qualificare il contesto della mediazione, quanto la non appartenenza ad alcun livello della competizione e la considerazione per gli aspetti emotivi e negoziali della conflittualità”. Altro elemento che potrebbe sembrare ovvio ma sul quale invece è importante soffermasi è la segretezza professionale6. In un momento conflittuale qual è la separazione, i coniugi hanno numerose preoccupazioni collegate alle implicazioni del contesto giudiziario, i genitori che si rivolgono al mediatore hanno spesso paura che quanto emerga nel corso della mediazione possa essere usato in sede di giudizio. Questa sfiducia può ostacolare il confronto diretto. Il mediatore deve quindi garantire il segreto professionale e svolgere il proprio intervento in totale autonomia rispetto all’ambito giudiziario, quindi egli non può stendere alcuna relazione in ordine ai risultati conseguiti o alle ragioni che hanno portato al fallimento della mediazione, né dare giudizi in merito alla personalità dei coniugi o suggerire ad essi percorsi alternativi, neanche nel caso in cui abbia rilevato situazioni un cui potrebbe essere consigliabile una terapia psichiatrica o psicoterapica.

Di conseguenza il giudice, non venendo a sapere niente del percorso mediativo svolto, può limitarsi a prendere atto che i genitori ad un dato momento non sono “mediabili” e di conseguenza procedere nello svolgimento del proprio compito istituzionale. Nel caso in cui l’intervento di mediazione abbia successo non solo le parti ne traggono beneficio, ma anche lo stesso procedimento giudiziale, nei casi in cui sia già stato avviato, troverà la sua conclusione in tempi più brevi.

Rispetto all’ambito giudiziario, pur operando su un piano collocato nel retro della vicenda giudiziaria, l’apporto del mediatore “si traduce nell’innovativa capacità delle parti di proporre in via autonoma e concordata un assetto di vita separata che sia frutto di

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Tratto da: RAIMONDI 2005.

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Nel nostro ordinamento la riservatezza e l’informalità dell’intervento sono desumibili dall’art. 29, comma 4, della legge 274/2000, per cui le dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’attività di conciliazione non possono essere in alcun modo utilizzate ai fini della deliberazione.

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incondizionata adesione e, come tale, idoneo a fornire maggiori garanzie di attuazione” (SERVETTI 2002).

Oltre ai presupposti strutturali appena descritti, ve ne sono altri di natura procedurale, che caratterizzano il rapporto tra mediatore familiare come professionista e i genitori come utenti.

Infatti genitori e mediatore, perché la mediazione funzioni, devono instaurare una specifica relazione, che non si basi sulla tecnicità – come accade ad esempio quando si chiede una consulenza tecnica di parte- né sull’alleanza – come accade quando si chiede un aiuto personale. La relazione in mediazione deve invece basarsi sull’apprendimento: il mediatore deve accertarsi della disponibilità dei genitori a comprendere la loro situazione, poi durante il percorso il suo sarà un ruolo di affiancamento attraverso la riformulazione,

facilitazione, sostegno e contenimento, gli unici aspetti “direttivi” saranno quelli relativi al rispetto delle regole contestuali, sia in relazione alla dimensione temporale che agli obbiettivi prefissati.

3.3 L’intervento di mediazione

I luoghi in cui si possono svolgere gli incontri di mediazione familiare sono principalmente i Servizi Pubblici e i Centri Privati. In entrambi i casi un ruolo fondamentale viene svolto dalla protezione della privacy di coloro che si rivolgono al servizio, sarebbe infatti opportuno che le persone che si rivolgono alla mediazione non si trovino ad essere mescolate a quelle che giungono con altre necessità7. La mediazione non ha finalità terapeutiche ed è importante che questo risulti ben chiaro all’utente fin dall’inizio del percorso.

Sul piano della formazione professionale ancora oggi vi sono pareri discordanti, difatti la figura del mediatore familiare è una figura nuova che non ha ancora acquisito un vero riconoscimento professionale (a livello di albo professionale, ad esempio). I primi mediatori italiani si sono spesso improvvisati tali o si sono formati all’estero (Usa, Canada, Francia, Inghilterra, Svizzera) e provengono da altre professioni, come assistenti sociali, psicologi, terapeuti. Il lavoro di mediazione presuppone comunque delle competenze sui

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Come già detto questo atteggiamento è stato negato dalla previsione della presenza di servizi di mediazione familiare all’interno dei tribunali, fatta nel dicembre del 2007 la Commissione Europea per l’efficienza dei tribunali ha emanato le linee guida per l’implementazione della mediazione familiare.

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principi generali di psicologia, sociologia, sulle normative di legge che regolano questa materia, nonché un’adeguata formazione in materia. Questa situazione di indeterminatezza non ha giovato alla corretta diffusione della mediazione familiare.

Non solo tutti i professionisti che si avviano alla mediazione devono completare il proprio sapere, ma, in ragione della natura intrinseca della mediazione, devono utilizzare diversamente le loro conoscenze e competenze. Sembra quindi necessario che il mediatore rappresenti una figura professionale a sé stante, sia che provenga dall’avvocatura, e che quindi senta come più importanti le questioni patrimoniali, sia che provenga dalla psicologia o dalla terapia e che quindi consideri come più urgente la questione delle relazioni affettive. Occorrerebbe comunque creare una figura professionale omogenea sul piano della formazione, oltre che su quello deontologico, se si vuole giungere al suo riconoscimento. L’art. 4 del Codice deontologico dell’Association pour la Promotion de la

Mèdiation Familiale (Apmf), recita: «Nessuno potrà esercitare la funzione di mediatore familiare se non avrà nello stesso tempo acquisito una competenza tecnica in una professione legata alle scienze umane e/o giuridiche; seguito una formazione specifica alla mediazione familiare in materia di divorzio e separazione; in più dovrà seguire corsi di aggiornamento periodici e sottomettersi a supervisione».

Ogni Centro di Mediazione Familiare deve attrezzarsi con un servizio di ricezione delle richieste, che permetta di fare una valutazione preliminare del caso, chi raccoglie la richiesta deve possedere le competenze per raccogliere i dati utili per il lavoro successivo. A questo proposito è interessante la scheda telefonica che viene compilata presso il Centro GeA di Milano. La scheda in questione è particolarmente dettagliata ed oltre a una serie di informazioni socio demografiche relative ai genitori e figli (età, professione, titolo di studio), si fa richiesta di informazioni quali lo stato civile, il contesto giudiziario (se presente) e la richiesta iniziale (orientamento, sostegno individuale, sostegno di coppia, mediazione) fatta da chi contatta il centro.

Per quanto riguarda il primo colloquio, il mediatore dopo aver analizzato la domanda iniziale, introduce la mediazione familiare presentandone natura e scopi, oltre alla strutturazione del processo ed esponendone i principi di volontarietà, riservatezza, indipendenza dall’ambito giudiziario, in modo da non lasciare spazio ad equivoci riguardanti le finalità della mediazione. Nel primo incontro è importante raccogliere informazioni relative agli aspetti socio-demografici di genitori e figli (nome, cognome, professione, e situazione abitativa; nome dei bambini, età e residenza privilegiata), alla modalità con cui i genitori sono venuti a conoscenza del servizio, come è stato deciso di

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rivolgersi alla mediazione (individualmente o in coppia), e se e come sono stati informati i figli.

Durante i primi incontri viene fatta un’analisi del contesto, durante la quale il mediatore verifica la volontà delle parti nel voler intraprendere il percorso mediativo, essi devono quindi dare il loro consenso impegnandosi nella ricerca di soluzioni reciprocamente soddisfacenti per se e per i propri figli. Non tutti i conflitti sono mediabili, di conseguenza il mediatore per proseguire nella mediazione deve valutare la mediabilità della coppia, cioè la fattibilità del percorso, i criteri di mediabilità possono essere così riassunti:

• autonomia/autodeterminazione (i genitori devono essere persone autonome e indipendenti, capaci cioè di autodeterminarsi);

• attendibilità (i genitori devono “dimostrare” la capacità o almeno la volontà di saper mantenere un impegno);

• capacità di cambiamento ( i genitori devono manifestare la loro volontà di cambiamento).

Mentre i criteri di non mediabilità sono:

• l’inattendibilità di uno o entrambi i genitori; • violenze/abusi/ minacce;

• il distacco della realtà: malattia mentale, dipendenze.

E’ inoltre necessario che i genitori si impegnino a partecipare con “lealtà” e correttezza al processo di mediazione, definendo congiuntamente le questioni familiari da trattare. La parte centrale del processo viene definita dalla maggior parte dei modelli “fase negoziale”, durante la quale attraverso l’esplorazione dei bisogni e degli interessi sottostanti le diverse posizioni, il mediatore incoraggia a trattare per trovare soluzioni che tutelino il superiore interesse di figli. Durante la fase conclusiva della mediazione viene fatta una sintesi del percorso e un bilancio dei risultati ottenuti, concentrandosi sulle prospettive future. Se la mediazione ha un esito positivo, i genitori elaborano un progetto d’intesa condiviso che regoli gli aspetti di vita che ancora li legano, in particolar modo i figli. Gli accordi raggiunti possono essere eventualmente sottoposti al giudice con l’ausilio dei propri legali. Un percorso di mediazione familiare proprio per le sue finalità di tipo nonterapeutico dovrebbe svolgersi in un arco temporale che va dai 10-12 incontri con cadenza bimestrale. E’ possibile che il percorso di mediazione si interrompa. Le cause possono essere molteplici e riferibili al mediatore, ai genitori e/o all’ambiente esterno.

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Le possibili cause di interruzione riferibili al mediatore sono:

• la difficoltà a gestire il conflitto o le alleanze che si creano nella stanza di mediazione;

• un’errata valutazione di mediabilità; • una scarsa motivazione al lavoro; • accordi raggiunti troppo rapidamente;

• il timore rispetto ad invii “potenti” (giudici, avvocati).

Riferibili ai genitori:

• motivazioni differenti o insufficienti dei genitori; • insoddisfazione rispetto alle aspettative;

• scarse risorse (emotive e intellettuali); • reazione negativa al mediatore; • fretta di concludere.

Riferibili all’ambiente:

• ingerenza di altre persone (nuovi partner, amici, parenti etc…); • questioni legali.

3.4 Principali modelli teorici di riferimento

I modelli teorici presentati di seguito hanno uno scopo orientativo (CIGOLI 1998) molte delle modalità operative presentate sono infatti comuni a più modelli8, ogni professionista, infatti, compie una sintesi personale che meglio soddisfi le esigenze personali (proprie e dei clienti) e del contesto in cui opera (MARZOTTO, TELLESCHI 1999).

I modelli più diffusi nascono negli anni Settanta in USA e Canada soprattutto grazie allo psicologo H.Irving, al terapeuta della famiglia J. Heynes e all’avvocato O.J Coogler, ognuno di essi propone un modello di mediazione familiare che verrà poi ripreso ed elaborato per essere adattato alle esigenze e sensibilità delle varie realtà.

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Sui modelli di mediazione familiare: CANEVELLI, LUCARDI 2000, pp.85-116 e MARZOTTO, TELLESCHI, 1999, pp. 30-37.

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H. Irving e M. Benjamin propongono il modello di “Mediazione familiare terapeutica” secondo cui la mediazione può avere effetti durevoli solo se vengono risolte problematiche di tipo emotivo e relazionale.

Heynes è il fondatore dell’Academy of Family Mediatiors, nel 1981 pubblicò un libro guida per il mediatore familiare intitolato Divorce Mediation, attraverso il quale ha diffuso il suo modello operativo, detto negoziale, sia negli USA che in Canada.

L’avvocato O.J. Coogler ha sviluppato un modello d’impostazione sistemica chiamato

structured mediation, strettamente influenzato dalla sua personale esperienza di divorzio e dalla sua professione di avvocato. Infatti, nel modello è prevista la collaborazione tra avvocato e mediatore nella stesura per iscritto degli accordi presi.

I modelli che verranno presentati qui di seguito sono quelli più in uso nella realtà italiana e prendono le mosse dai primi modelli di mediazione familiare sviluppati dagli autori appena citati.

Modello sistemico (Aims9 e Scuola Genovese10)

Il modello di mediazione familiare sistemico vuole tenere conto dell’intero sistema familiare, cioè adotta una lettura complessa della dinamica relazionale che gravita attorno al conflitto, sollecitando la sinergia tra figure professionali che operano in ambito diverso: psicologico, giuridico e sociale.

In Italia questo modello è stato adottato dagli aderenti all’Aims e alla Scuola Genovese. Alla base del modello sistemico vi è il riconoscimento dell’importanza che hanno per il singolo le relazioni nel sistema familiare così come la rete psicologica, giuridica e sociale che l’individuo si costruisce durante le esperienze conflittuali. La cornice teorico-metodologica di riferimento è il paradigma sistemico-relazionale e i principi su cui si ispira (BASSOLI, MARIOTTINI, FRISON 1999) che possono essere così sintetizzati:

• inevitabilità del conflitto e necessità di valorizzarne gli aspetti costruttivi;

• ampliamento del campo di osservazione a tutti i sistemi coinvolti nella dinamica del conflitto;

• circoscrizione degli obbiettivi dell’intervento al fine del raggiungimento degli accordi, pur rispettando la complessità degli eventi storici e degli intrecci relazionali.

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Associazione Internazionale Mediatori Sistemici, fondata nel 1995 vuole promuovere, all’interno del modello sistemico, il progresso degli studi e delle ricerche nel campo della mediazione familiare, comunitaria, sociale ed organizzativa.

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Visto in una prospettiva generale, il modello sistemico focalizza l’attenzione sull’individuo all’interno dei suoi sistemi di appartenenza. Il conflitto viene visto come elemento potenzialmente positivo, costruttivo ed evolutivo: le differenze vengono valorizzate quali potenziali sorgenti di consenso, nel rispetto dell’individualità e nell’esaltazione delle relazioni.

Può essere interessante considerare nello specifico il modello sistemico della Scuola genovese, elaborato da Mastropaolo negli anni ’80 durante l’esperienza di lavoro con coppie in crisi presso il servizio pubblico di Genova (MASTROPAOLO 1999). L’intervento di mediazione in quest’ottica si propone principalmente di differenziare l’essere genitori dalla relazione di coppia, superare le conflittualità presente nei processi di separazione e favorire la comunicazione tra genitori affinché, pur da separati, prendano le loro decisioni rispetto ai figli e riescano a trovare accordi per continuare nel loro cammino di genitori. Secondo la Scuola genovese, la mediazione familiare è quindi un intervento che mira a superare le conflittualità legate al fenomeno separativo, in modo da conservare un rapporto sereno con i figli, oltre ad avere una funzione preventiva rispetto a possibili forme di disagio manifestate dai figli coinvolti nella separazione.

Le modalità e prassi di lavoro possono essere così sintetizzate (MASTROPAOLO 1999): • Fase di premediazione: durante questa prima fase si cerca di valutare lo stadio di

crisi in cui versa la coppia e quindi il tipo di intervento più adeguato. Può durare più incontri, durante i quali i genitori possono decidere se separarsi o se rimanere assieme. Se l’intervento più appropriato risulta la mediazione familiare, il mediatore esplicita le modalità del percorso mediativo.

• Fase del lavoro con la coppia: gli obbiettivi di questa fase sono il far sì che i partner comunichino rispetto ai figli e riescano a trovare un accordo reale. In questa fase non sono previsti incontri individuali, è necessario che entrambi i genitori siano sempre presenti. Al primo incontro vengono invitati anche i figli, e durante questo incontro viene chiesto ai genitori di raccontare la loro storia di coppia e di famiglia. In questo modo si vuole trasmettere un senso di continuità e di evoluzione, basandosi su un passato comune si vuole recuperare la possibilità di un futuro accordo e far quindi vedere ai figli un filo conduttore delle relazioni familiari. Le motivazioni sottostanti all’invitare i figli al primo incontro (MASTROPAOLO 2000) vogliono valutare la risonanza della vicenda separativa sui

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figli e sui genitori, oltre a conoscere il contesto familiare e “liberare i figli” (MASTROPAOLO 1999) dal ruolo di terzi nel conflitto genitoriale.

La mediazione familiare del modello genovese è di tipo parziale ma integrata con il legale, cioè il mediatore lavora sulla relazione, sulla risoluzione del conflitto, mentre l’avvocato si occupa degli aspetti legali ed economici.

Modello terapeutico (IRMeF11 di Roma)

Il modello di mediazione terapeutica è nato in Canada a metà degli anni Settanta ad opera di Howard Irving, psicoterapeuta e docente della Facoltà di Scienze Sociali e di Giurisprudenza dell’Università di Toronto e rivisto in un secondo momento con l’aiuto di M. Benjamin (BENJAMIN, IRVING 1987). Questo modello si sviluppa a partire da alcune osservazioni in merito all’efficacia della mediazione strutturata. Secondo gli autori, quest’ultima, fondata sull’attenzione ai fatti e alle posizioni delle parti, dando grande rilievo alla negoziazione a scapito dei processi relazionali, non si addirrebbe a molte situazioni di crisi coniugale, pena il fallimento del percorso mediativo.

Di conseguenza gli autori ritengono la soluzione degli aspetti emotivo-affettivi legati alla vicenda separativa, l’accoglimento e la gestione dell’intera gamma di variazioni interazionali presenti nelle coppie, l’aspetto fondamentale su cui lavorare. Una parte importante del lavoro viene fatta sulla preventiva ristrutturazione dei processi relazionali e sulla crisi del gruppo familiare. Infatti è previsto un ampio spazio per l’espressione delle emozioni connesse al conflitto, in modo da creare una base che possa favorire la collaborazione futura nell’interesse dei figli.

Il cambiamento è prodotto dall’aiuto fornito alla coppia per far fronte alle emozioni che bloccano una soluzione efficace e funzionale dei problemi (CIGOLI 1998; MARZOTTO, TELLESCHI 1999; CANEVELLI, LUCARDI 2000).

Inoltre è di fondamentale importanza la volontarietà e la libertà di scelta, oltre l’equità del mediatore che deve dare vita ad un progetto clinico che consenta di pervenire ad un accordo equo.

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L’IRMeF è un’associazione culturale fondata nel 1995 sulla base dell’esperienza maturata nella Sezione di Mediazione Familiare attivata dal 1989 presso il dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione della Facoltà di Psicologia dell’Università “La Sapienza”. di Roma. I soci fondatori dell’IRMeF sono inoltre soci fondatori della Società Italiana di Mediazione Familiare (SIMeF).

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La cornice teorico-metodologica di riferimento è il paradigma sistemico-relazionale, e i principi a cui si ispira (BASSOLI, MARIOTTINI, FRISON 1999) possono essere così sintetizzati:

• l’importanza di ampliare il campo di osservazione a tutti i sistemi coinvolti nella dinamica del conflitto;

• la consapevolezza dell’inevitabilità del conflitto nelle relazioni umane e la conseguente necessità di valorizzarne gli aspetti costruttivi e evolutivi, al fine di favorirne la crescita armonica dei sistemi e dei loro singoli membri;

• l’esigenza di circoscrivere gli obbiettivi dell’intervento al raggiungimento degli accordi, rispettando la complessità degli eventi storici.

In Italia il modello di mediazione familiare terapeutica è stato accolto dall’Istituto di Ricerca e Formazione in Mediazione Familiare (IRMeF) di Roma, e da questo adattato al proprio contesto lavorativo: “il riferimento alle esperienze effettuate in altri Paesi è stato costante e indispensabile pur avendo come obbiettivo quello di effettuare adattamenti alla situazione socio-culturale italiana e di trovare una definizione di mediazione familiare articolata e soddisfacente per noi” (ARDONE 1999, p. 95). L’approccio terapeutico proposto dall’IRMeF prevede che prima dell’avvio della mediazione vera e propria vengano esaminate alcune variabili, nell’ambito della cosiddetta fase di valutazione (3 incontri: due individuali ed uno congiunto). Ciò che emerge da questa prima fase permette al mediatore di capire se i genitori sono inadatti alla mediazione ed eventualmente fare un invio a terzi (psicologi, terapeuti etc..); se non sono ancora pronti alla fase di negoziazione e quindi necessitano di alcuni incontri di premediazione; se sono pronti alla negoziazione e quindi intraprendere da subito il processo di mediazione vero e proprio.

La fase di premediazione (dura in media da 4 a 8 sedute) ha come obbiettivo quello di apportare cambiamenti nei modelli d’interazione familiari. Una volta conclusa la premediazione, se la coppia ha conseguito risultati positivi viene fatta accedere alla fase di negoziazione; nel caso, invece, in cui la situazione sia rimasta invariata, il mediatore suggerisce ai coniugi di ricorrere ad altre forme di intervento (ARDONE, MAZZONI 1998; ARDONE 1999).

La fase di negoziazione prevede che il mediatore svolga tre funzioni differenti: stabilire una struttura che consenta di dirigere la comunicazione tra i coniugi; suggerire delle opzioni qualora la coppia non sia in grado di farne emergere di soddisfacenti; ed infine

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controllare gli stati affettivi ed il modello di comportamento dei coniugi nel divenire del processo mediativo.

L’obbiettivo di questa fase è quello di contenere l’ansia, la tensione e la sfiducia che accompagnano i genitori durante l’esplorazione delle alternative possibili.

I problemi vengono affrontati a partire da quelli meno gravi a quelli più complessi, in modo da permettere ai coniugi di sedimentare i risultati ottenuti ed affrontare meglio le questioni più spinose.

Dopo circa 2-3 mesi dalla conclusione del percorso, il modello prevede un follow-up per verificare i progressi ed il rispetto degli accordi raggiunti (ARDONE, MAZZONI 1998; ARDONE 1999).

Il modello prevede una frequenza di incontri di due volte al mese, per un periodo che si aggira intorno ai sei mesi. Non essendo prevista la scrivania nella stanza di mediazione, ognuno è libero di posizionare la sedia in modo paritario rispetto all’altro. La presenza di giochi nella stanza indica che ci si occupa dei figli e che si è pronti ad accoglierli per ascoltarli e farli partecipare (MAZZONI 1994).

L’approccio sistemico-terapeutico è infatti favorevole all’eventuale presenza dei figli nella stanza di mediazione. L’incontro avviene in base alla loro età: nel caso di bambini in età scolare e prescolare, avviene nella fase finale della mediazione; per i figli adolescenti invece avviene nella fase centrale della mediazione.

Per il mediatore l’incontro con i figli è anche un’occasione di verifica del lavoro svolto. Per quanto favorevoli alla presenza dei figli, la questione viene considerata comunque aperta, ogni situazione “ può essere affrontata solo facendo appello alla flessibilità dei mediatori e alla loro capacità di valutare volta per volta, situazione per situazione, le conseguenze della scelta operativa di includere o escludere i figli dal processo di mediazione” (ARDONE 1999, p. 102).

Modello integrato (GeA di Milano)

Lo sviluppo di questo modello lo si deve soprattutto a Marlow (MARLOW 1994; cfr anche MARLOW, SAUBER 1990) e ad Emery (EMERY 1998). Questo modello si è diffuso anche in Italia, in particolare ha ispirato l’Associazione GeA di Milano: “la nostra impostazione è frutto del lavoro di sintesi che abbiamo cercato di operare tra le preziose suggestioni che ci sono giunte dai colleghi di altri Paesi che da più tempo sperimentano la mediazione familiare e la nostra realtà culturale, letta alla luce della nostra peculiare sensibilità

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professionale e umana” (BERNARDINI 1994, p. 247). Il termine “integrato” si riferisce alla relazione tra mediatore e consulente legale che collaborano positivamente nella gestione del conflitto di coppia: il primo aiuta la coppia nella negoziazione di accordi relativamente alle responsabilità genitoriali; mentre il secondo si occupa della negoziazione relativa agli aspetti economici.

Secondo questo approccio la mediazione familiare non è dunque sostitutiva del sistema legale, bensì “un intervento che ottiene migliori risultati quando è frutto di un’integrazione tra le competenze del mediatore e quelle legali delle parti” (SCAPARRO 2000, p. 70).

Nell’approccio integrato praticato dal GeA, in mediazione vengono affrontati tutti i temi su cui i genitori confliggono, dai figli all’ambito patrimoniale. Il mediatore non dà consigli, non si sostituisce ai genitori, ma insieme ai genitori si assume la responsabilità della ricerca di soluzioni e intese, ed è proprio questo lavoro di équipe che aiuta ad attivare le risorse positive dei genitori.

Il modello del GeA, per quanto riguarda l’intervento vero e proprio, prevede la presenza di entrambi i genitori fin dal primo colloquio, se ciò risultasse difficoltoso rimane aperta la possibilità di un primo colloquio individuale orientato prevalentemente a verificare la possibilità di coinvolgimento dell’altro genitore. Rimangono comunque sempre fuori dalla stanza di mediazione tutte quelle figure quali nuovi compagni, parenti, figli che spesso accompagnano i genitori in queste occasioni (BERNARDINI 1997).

Nei primi due o tre incontri mediatore e genitori valutano insieme se vi siano condizioni e motivazioni per intraprendere o meno il percorso di mediazione familiare. Gli elementi che determinano la non mediabilità sono: un’eccessiva dipendenza dalla famiglia di origine, dal nuovo partner, dal legale, quindi l’assenza di plenipotenzialità di uno o entrambi i partner; l’accusa di comportamenti violenti o di abusi sessuali; l’indisponibilità o impossibilità di stabilire la “tregua giudiziaria”; la mancanza di risorse genitoriali.

Una volta deciso di intraprendere il processo di mediazione questo si sviluppa in una serie di colloqui, 8-12 incontri, nei quali si affrontano concretamente i nodi emersi, fino al raggiungimento di accordi.

L’approccio GeA non prevede la redazione di un’intesa scritta “si vuole evitare ogni forma di burocratizzazione del processo e del consenso, salvaguardando l’originalità e la personalizzazione di ogni percorso; ci sono genitori per i quali redigere un’intesa scritta ha il senso benefico di ritualizzare l’accordo ritrovato, per altri questo stesso atto assume il significato di cristallizzare la fiducia” (BERNARDINI 2001, p. 107).

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Una volta conclusa la mediazione è previsto un momento di follow-up: dopo due anni, i genitori vengono intervistati da un operatore diverso da quello incontrato in mediazione su aspetti relativi alla tenuta e efficacia degli accordi raggiunti in mediazione.

In quest’approccio vengono affrontati prevalentemente i problemi relativi all’affidamento dei figli secondo uno stile non direttivo. Viene lasciato uno spazio relativo alle emozioni e in prevalenza quando sono connesse ad aspetti pratici della riorganizzazione della vita familiare. La conduzione del colloquio non è rigida, il processo viene definito dalle parti in corso d’opera. Il lavoro si svolge sugli interessi ancora in comune, piuttosto che sull’ottenimento di un diritto. Infatti, non è chiesto alle parti cosa vogliano ottenere, ma quanto siano disposti a spartire con l’altro.

Il modello in questione è contrario alla presenza dei figli nella stanza di mediazione considerandola una sorta di “ scorciatoia che risparmia ai genitori il compito, ma anche nega loro la soddisfazione, di rimanere gli interlocutori principali dei loro figli, essendo in grado di comprenderne le esigenze e i travagli, e potendo quindi rimanere, o eventualmente recuperare, la loro autorevolezza” (HERSKOVITS, RAIMONDI 2000, p. 136). Far partecipare i bambini ai colloqui di mediazione viene visto come esporli a dinamiche da cui invece dovrebbero essere protetti (BUSELLATO 1999). Secondo l’approccio GeA, il mediatore assume la rappresentanza dei bambini, cercando di riportarli continuamente al centro del lavoro di mediazione, pur evitando toni colpevolizzanti o ricattatori. Infatti, “ciò che conta è la visione che i genitori hanno del figlio, la loro capacità di conoscere i bisogni e di rispondervi” (MATTAVELLI 1994, p. 74).

Rispetto alle questioni più strettamente economico/patrimoniali, e alla formulazione giuridica di tutti gli accordi, il mediatore lavora per migliorare la comunicazione tra i genitori, ma in presenza di un contrasto che permane o a ridosso della decisione, rimanda in modo esplicito ai legali di fiducia, con i quali cerca di avere rapporti il più possibile collaborativi, pur sempre nel rispetto dell’autonomia reciproca e della riservatezza: “con gli avvocati c’è massima collaborazione e trasparenza di intenti, ma la mediazione in sé, vale a dire i suoi contenuti e le caratteristiche del suo svolgimento, è protetta dal segreto professionale e dalla tutela rigorosa della neutralità del mediatore” (BERNARDINI 1997, p.59).

Modello relazionale-simbolico12 (CSRF, Università Cattolica13)

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Precedentemente denominato “transizionale-simbolico” (CIGOLI 1998; CIGOLI, MARZOTTO

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Il presente modello è stato elaborato dall’èquipe interdisciplinare del Centro studi e ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica di Milano, esso ha come orizzonte di riferimento il paradigma relazionale-simbolico: “relazionale”, perché si occupa dei legami (di coppia, tra generazioni etc…); “simbolico”, in quanto è particolarmente interessato al fondamento delle relazioni familiari al di là dei cambiamenti storici, cioè vuole riconoscere il valore della fede e della speranza nel legame familiare.

In questo contesto teorico la mediazione familiare è intesa come un’esperienza di passaggio ritualizzata della crisi di coppia: il mediatore, terzo equidistante, cerca non solo di favorire il raggiungimento di accordi tra genitori divisi, ma anche di permettere il “rilancio del patto coniugale oltre la sua fine” (MARZOTTO 2000). E’ un processo di accompagnamento della transizione reale e simbolica della famiglia e si offre come uno spazio di facilitazione e sostegno al processo di rinegoziazione delle relazioni familiari. Assume la funzione di ritualizzazione del conflitto coniugale, del suo riconoscimento/identificazione e della sua elaborazione/superamento: viene considerata come strumento idoneo per la salvaguardia dei legami di appartenenza, indispensabili per la salute delle relazioni. Al cospetto della crisi coniugale, il mediatore viene rappresentato come un “traghettatore della transizione”, ossia come colui che cerca di guidare la coppia nel recupero di una fiducia reciproca nel legame (CIGOLI 1998). Egli esprime la preoccupazione e il sostegno del corpo sociale nei confronti del corpo familiare per permettere una “nuova pattuizione” tra genitori (MARZOTTO 2002); assolve, al bisogno di ritualità della coppia nel momento della sua scissione: il fatto che le coppie, come si legano con cerimonie comunitarie, desiderano slegarsi con un rito di passaggio socialmente riconosciuto; ed è il segno visibile con cui la comunità risponde ad un bisogno di continuità al di là della frattura coniugale (MARZOTTO, TAMANZA 2004).

L’intervento di mediazione mira pertanto a favorire l’assunzione di ruoli nuovi, incoraggiando i genitori a valorizzare lo scambio con le generazioni che li precedono e con i loro figli, anche in presenza di gravi turbolenze nella relazione coniugale: “portare in salvo la fiducia nel legame per essere capaci di stabilire nuove alleanze nella vita futura” e “continuare a poter contare su due genitori per costruire la mente”, questi sono due obbiettivi centrali del percorso di mediazione secondo l’approccio relazionale-simbolico, riguardanti rispettivamente genitori e figli (MARZOTTO, TAMANZA 2005, p.308). Si ha a che fare con l’”organizzazione di un rituale” nel cui tempo e spazio possa essere fatto

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CSRF, Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, opera dal 1976, occupandosi di ricerca scientifica sulla famiglia in ambito interdisciplinare, promuovendo iniziative di formazione a vario livello.

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qualcosa per rigenerare il legame, allo scopo di preservare la trasmissione intergenerazionale (CIGOLI, SCABINI 2004).

Relativamente al processo di mediazione, esso si articola in quattro fasi fondamentali (MARZOTTO, TAMANZA 2004), così chiamate:

1. esordio: è il primo contatto della persona con il servizio o il professionista, a volte si esprime con una domanda confusa che necessita una chiara presentazione della mediazione, dei suoi obbiettivi e delle condizioni di praticabilità della mediazione;

2. premediazione: un percorso preliminare di 3-4 incontri dedicato alla verifica delle condizioni di mediabilià e alla definizione del contratto di mediazione, cioè alla spiegazione/accettazione delle regole di lavoro e alla definizione dei temi rispetto ai quali sviluppare le negoziazioni e prendere accordi (ha generalmente luogo quando il mediatore rileva che non ci sono le condizioni per avviare subito la mediazione familiare);

3. negoziazione: fase che dura 4-5 incontri e condotta secondo la logica della “negoziazione ragionata”14 (FISHER, URY 1980), in cui i genitori sono chiamati ad affrontare i problemi relativi ai figli e ai beni materiali – così detta mediazione globale15-, e ad esaminare per ciascuno di essi le opzioni possibili per individuare quella più idonea all’intera famiglia;

4. redazione degli accordi: consiste nella stesura del “progetto d’intesa”, un documento che, sottoscritto dai genitori, viene consegnato ad ognuno di loro per essere eventualmente presentato all’avvocato e portato in giudizio.

Nel presente modello è accolta la pratica della co-mediazione, in cui le questioni dei figli e quelle economiche sono trattate da due mediatori distinti ma compresenti, che ricorrono ad uno stile “forte”, “direttivo” nella conduzione del processo. Inoltre è contemplata la possibilità di ricorrere ad incontri individuali con i genitori e di far entrare i figli nella stanza di mediazione. Sebbene non in modo rigido, s’ipotizzano uno o due colloqui alla presenza anche dei figli, dopo che i genitori hanno formulato una bozza d’accordo e li

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La tecnica della “negoziazione ragionata” prevede che ciascun tema venga affrontato secondo la sequenza quadripartita: a) definizione comune del problema; b) esplorazione degli interessi e dei bisogni ad esso correlati; c) ricerca delle possibili opzioni; d) valutazione critica delle opzioni e decisione.

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Nella mediazione globale vengono affrontati anche i temi relativi alle questioni economiche, mentre nella mediazione parziale questi aspetti vengono rimandati ai legali.

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hanno preparati ad un appuntamento con il mediatore: “ciò può positivamente aiutare la transizione, nel senso di favorire la cura dei legami tra le generazioni, lo scambio di doni tra le stirpi, ma anche l’esplicitazione di timori e paure da entrambe le parti” (MARZOTTO 2002).

Modello basato sui bisogni evolutivi (Centro per l’età evolutiva Roma16)

Il modello basato sui bisogni evolutivi è stato sviluppato da F. Canevelli e M. Lucardi del Centro per l’età evolutiva di Roma, si caratterizza per la ricerca di un equilibrio tra aspetti pragmatici ed emotivo-relazionali, tra superamento dell’evento critico e ridefinizione personale. Nel modello vi è la compresenza di obbiettivi pragmatici (come la ricerca di accordi legati ad aspetti della separazione) e di obbiettivi relazionali (relativi all’evoluzione del rapporto tra ex partner). Il modello si sviluppa a partire dalla concezione della separazione come processo o percorso piuttosto che come evento (CANEVELLI, LUCARDI 2000a).

Non si vuole soltanto mantenere rapporti civili per salvaguardare la funzione genitoriale ma si cerca di recuperare per sé e restituire all’altro aspetti dell’immagine personale che sono inevitabilmente legati al vissuto di coppia. Viene quindi data importanza non solo alla dimensione genitoriale, ma anche a quegli aspetti della vicenda coniugale che inevitabilmente appartengono al mondo interno dei partner. L’emergere nella stanza di mediazione di richiami al passato, compresi momenti di aperta conflittualità, possono favorire il superamento dell’evento critico, aiutando la ridefinizione di sé da parte degli ex coniugi.

L’approccio evolutivo, (CANEVELLI, LUCARDI 2000a; 2000b), prevede che il percorso mediativo si evolva secondo le seguenti fasi:

• fase preliminare: riguarda le premesse per l’attivazione della mediazione, l’accoglienza della richiesta, le motivazioni, la valutazione di mediabilità. In questa fase iniziale possono essere effettuati colloqui individuali (massimo due per ciascun genitore), dando così la possibilità a ciascuno di esprimere le proprie richieste e al mediatore di presentare le opportunità della mediazione.

• Fase prima: l’obbiettivo pragmatico di questa fase è l’individuazione di un’area del rapporto e della separazione sulla quale confrontarsi e prendere decisioni in

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Il Centro per l’età evolutiva è attivo a Roma dal 1986, dal 1992 è attivo presso il Centro un Servizio di Mediazione Familiare (privato).

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comune. Gli obbiettivi relazionali mirano invece alla necessità di un “riconoscimento dell’altro come interlocutore”, questa è la premessa indispensabile per poter attivare la dimensione negoziale. Il mediatore in questa fase svolge esplicitamente un ruolo direttivo, in quanto i partner si trovano più che nelle altre fasi a fare i conti con la conflittualità. Lo scopo del mediatore è quello di facilitare la comunicazione diretta tra i partner, aiutando ad esplicitare le richieste, oltre ad essere “garante” delle caratteristiche e delle regole contestuali. Questa prima fase prevede da uno a tre incontri.

• Fase seconda: l’obbiettivo pragmatico è il raggiungimento di un accordo, che possa divenire l’oggetto di successive verifiche ed eventuali formalizzazioni. Il raggiungimento dell’accordo è strettamente legato all’obbiettivo relazionale cioé il “riconoscimento dell’altro come negoziatore”. Questa seconda fase, è quella, propriamente negoziale in cui i partecipanti si confrontano portando le loro istanze e riconoscendo quelle altrui. Il mediatore in questa fase ha funzione di stimolo e di contenimento, contribuendo a creare un clima interattivo. Le tecniche più usate sono quella degli “sbilanciamenti”, in cui il mediatore attraverso movimenti successivi si avvicina verso l’uno e l’altro partner, creando un’attenzione empatica, e quella delle “traduzioni” cioè il ripetere in modo nuovo e diverso quanto detto dai partner, al fine di introdurre elementi di condivisione con l’altro. La durata di questa fase prevede da tre a cinque incontri.

• Fase terza: l’obbiettivo pragmatico è l’ulteriore definizione, verifica e formalizzazione degli accordi, cioè se ne verifica la compatibilità con le aspettative e il grado di soddisfazione degli ex coniugi, fino alla compilazione e sottoscrizione del verbale conclusivo. L’obbiettivo relazionale invece è il “riconoscimento dell’altro come genitore separato”. I genitori sperimentano in questa fase nuove modalità di rapporto e cercano di instaurare scambi interattivi caratterizzati da un clima di restituzione e riconoscimento delle reciproche competenze. Lo stile di conduzione del mediatore è più vicino a quello della prima fase, cioè viene prestata più attenzione al mantenimento delle caratteristiche contestuali che consentono il raggiungimento degli obbiettivi, piuttosto che la sollecitazione di temi e contenuti. In questa fase il mediatore utilizza la scansione degli incontri come uno strumento tecnico, cioè questi vengono maggiormente distanziati, di modo da permettere la verifica e l’assimilazione degli accordi. Si va da due a quattro incontri e dopo circa sei mesi è previsto un follow-up.

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L’approccio evolutivo non contempla la presenza dei figli nella stanza di mediazione: “lo spazio della mediazione è lo spazio esclusivo degli adulti, non in quanto tali, quanto perché nella loro condizione di ex-partner in un rapporto affettivo di qualità specifica e singolare sono i responsabili e i competenti rispetto alla ridefinizione del rapporto stesso e alle decisioni che dovranno incarnare in prima persona” (CANEVELLI, LUCARDI 2000a, p. 110). La presenza dei figli nella stanza di mediazione viene vista come un ostacolo al recupero della responsabilità genitoriale, in quanto “ si presta maggiormente a una delega, a un offrir voce alle posizioni genitoriali, a possibili strumentalizzazioni” (CANEVELLI, LUCARDI 2000a, p. 110).

Il modello basato sui bisogni evolutivi come quello integrato è una mediazione “parziale” in quanto l’elemento centrale è la gestione della genitorialità e la ridefinizione del rapporto tra gli ex- partner, gli aspetti economici vengono rimandati all’ambito legale.

Modello strutturato

La mediazione strutturata nasce nella metà degli anni Settanta negli Stati Uniti ad opera di O.J. Coogler, ed è stata in seguito riformulato da La Grebe.

Il modello operativo di impostazione sistemica è fortemente predefinito nelle varie fasi e richiede il rispetto di numerose regole, che hanno lo scopo implicito di ridurre la sofferenza delle parti, soprattutto attraverso il ristabilire la comunicazione e la collaborazione. Il Dott. Coogler propone uno schema delle aree d’accordo che saranno affrontate, allo scopo di offrire alla coppia genitoriale la certezza che il mediatore affronterà ogni questione messa in evidenza dalle parti. “Il presupposto di fondo del modello è che solo un quadro assai definito protegge dal caos e aiuta le coppie in difficoltà, circoscrivendo tempi modi e contenuti del contendere” (MARZOTTO , TELLESCHI 1999). Il modello strutturato cerca di attuare una mediazione “globale” in quanto è estesa a tutte le questioni derivanti dalla dissoluzione della famiglia. La funzione del mediatore è quella di attivare atteggiamenti collaborativi che portino ad un cambiamento nella situazione di conflitto, interrompendo le strategie competitive a favore della collaborazione, il mediatore inoltre deve essere neutrale e in una posizione paritaria rispetto ai genitori; sono le parti a proporre le soluzioni non il professionista.

Generalmente non vengono previsti incontri individuali in quanto questi sono ritenuti contrari al principio cardine della mediazione: l’equidistanza.

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Modello negoziale

Il principale autore di riferimento è J. M. Haynes17 psicologo e fondatore della Academy of

Family Mediatiors, il modello negoziale è il più diffuso negli Stati Uniti. Il mediatore ha il compito di restituire la capacità di contrattazione alle persone: si parla di processo di

self-empowerment che crea autocontrollo rispetto alla gestione di tutti gli aspetti legati alla vicenda separativa. L’obbiettivo è il raggiungimento del miglior risultato possibile, utilizzando alcune tecniche della negoziazione ragionata (CIGOLI 1998).

L’elemento caratterizzante di quest’impostazione è che il processo di contrattazione è globale, in altre parole sono affrontate sia le questioni connesse alle relazioni con i figli, sia le questioni patrimoniali connesse alla rottura del legame.

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Riferimenti

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