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Lettura del Poema Paradisiaco di Gabriele D'Annunzio

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Academic year: 2021

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Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all’eternità come Gesù Cristo sulla croce. E’ un’idea terribile. Nel mondo dell’eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile responsabilità. Ecco perché Nietzsche chiamava l’idea dell’eterno ritorno il fardello più pesante (das schwerste Gewicht). […] Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa? Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo [...] è quindi allo stesso tempo l’immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza?

(M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

Introduzione

A settantacinque anni di distanza dalla morte, l’Imaginifico Poeta, e con lui il suo intero e imponente bagaglio di produzione letteraria, straordinario capolavoro artistico per taluni, greve fardello per altri, continua a far discutere, anche se parrebbe non del tutto consono definire in termini di “discussione” un atteggiamento tanto evidentemente schierato, quanto spesso troppo approssimativo, talvolta banalmente salottiero, da parte della critica storica e letteraria italiana nel suo complesso percorso novecentesco. Sin dalle prime comparse del Vate sulla scena della Roma mondana, teatro indimenticabile ne Il Piacere di quel sensuale triangolo Elena - Andrea - Maria che, eletto a simbolo paradigmatico, già confessa i sintomi di un’indole irregolare, il pubblico si dimostrò nei suoi confronti visibilmente scisso: o lo amava incondizionatamente, o altrettanto ardentemente lo odiava; non potè mai rimanerne indifferente tanto estrema, ingombrante e contagiosa era la sua presenza. L'appassionata e reverente ammirazione verso D’Annunzio non si limitava al larghissimo e sorprendente consenso diremmo “popolare”, lo stesso che, ammaliato dal suo languido fascino decadente, decretò l’indiscutibile successo del “doppio” letterario Sperelli a scapito dello sventurato Gesualdo Motta, verghiano self-made man vittima della inclemente logica della “roba”, ma comprendeva anche il favore di moltissimi intellettuali e artisti del momento. Il «sorriso affascinante del bianco immacolato signore»1, squisito agli occhi del giovanissimo poeta

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Saba, risplende nei ricordi e nelle testimonianze di coloro che intrattennero con il Poeta rapporti professionali o più semplicemente affettivi. DaI dichiarato coinvolgimento «febbrile»2 del Debussy per la lirica del Nostro, all’intenso ed immancabilmente energico

ritratto offerto dal futurista Marinetti, che ce lo descrive come «spettacolo affascinante e sempre divertente», «prestigioso seduttore, ineffabile discendente di Casanova e di Cagliostro e di tanti avventurieri italiani, di cui restano leggendari l’astuzia, il coraggio vittorioso e l’infaticabile strategia diplomatica», dotato di un «fascino penetrante» e del «sorriso più fresco del mondo»3. Suggestiva rappresentazione, quasi trasognata, quella del

sensibile osservatore De Amicis,

«[…] ma la forza del suo discorso deriva dalla mirabile ricchezza, delicatezza del suo linguaggio, dall’arte finissima di dar valore a ogni parola, di dire le cose più comuni come le difficili in modo che vi penetrano e vi s’imprimono nel cervello come se egli ve le segnasse con la penna, di rappresentare quello che dice non solo con le parole e con le frasi, ma anche col suono della voce, coi movimenti delle labbra, con gli atti della mano, con l’espressione dello sguardo.»4

che non manca di sottolineare, in questo caso felicemente, la potenza della teatralità gestuale dannunziana, costruzione simulata o innata vocazione che sia, indicativa per i più di quell’artificiosità falsa e deprecabile che da sempre primeggia indiscussa nella valutazione globale della sua completa produzione. Esemplare in merito il parere confidenziale del Campana, rilasciato nella sua corrispondenza epistolare con il Carrà:

«A me sembra che [D’Annunzio] sia la massima cloaca di tutto il letterature presente passato di tutti i continenti e non mi sento di ritrovarmi nei suoi discorsi. Il dolore del Vate non è il dolore del poeta: è senza nobiltà, senza silenzio, senza luce.»5

2 «Come sarebbe possibile che io non amassi la vostra poesia? Infatti l’idea di lavorare con voi mi dà in anticipo una specie di febbre!» Il frammento epistolare del Debussy, qui riproposto, destinato al D’Annunzio, è consultabile all’interno del saggio di S. Costa, Gabriele D’Annunzio. Volti e maschere di un personaggio, Firenze, Sansoni, 1988, p. 159

3 Ivi, pp. 128 - 129 4 Ivi, pp. 101 - 102

5 D. Campana, Lettera a Carlo Carrà, da Lastra a Signa, vigilia di Natale 1917, in Souvenir d’un pendu. Carteggio

1910 – 1931 con documenti inediti e rari, a cura di G. Cacho Millet, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985, p.

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Ma se le «superliquefatte parole del D’Annunzio»6 non conquistarono affatto i palati più

esigenti, non troppo paghi del suo risultato letterario7, certamente poterono contare sulla

sensibilità poetica di coloro che, scevri da pregiudizi di varia entità, ad esempio la questione dei plagi o il condizionamento biografico e politico, di cui più tardi sarà doveroso occuparsi per meglio delineare la tipologia ed i movimenti di una ricezione oltremodo problematica, seppero apprezzare il suo smalto variegato, la sua peculiare poliedricità metrica e quello sperimentalismo stilistico e formale che non troverà mai un durevole appagamento nella metodologia dannunziana dagli esordi di Primo Vere fino alle ultime pagine del Libro segreto. A rendergli giusto merito, anche se in alcuni punti ancora discutibile, se non altro sincera tra l’intricatissima selva di giudizi e opinioni viziati dalla contemporaneità, è la schietta e accurata considerazione del Serra, affacciatasi in un momento, l’anno 1914, come vedremo più avanti estremamente problematico dal punto di vista esegetico:

«Veramente costui non appartiene all’Italia di oggi, all’anno che passa. La sua persona, che conserva la giovinezza di un’altra generazione, aveva in mezzo a noi qualche cosa di diverso e di chiuso […] Eppure, noi sappiamo tutti che, fra i vivi, il solo che conta è lui. D’Annunzio non può essere mediocre. Può essere monotono, falso e anche detestabile in qualche punto; ma è sempre tale in un modo, che a lui solo è concesso: potremo odiarlo e sfuggirlo; ma tutti quanti nell’atto di prendere una penna in mano per allinear dei segni sopra una carta, non possiamo pronunciare il suo nome senza un sentimento di umiltà e rispetto. […] Siamo tutti simili, ma minori, immensamente poveri e scarsi in confronto a lui. Per lui tutto è possibile: anche far coincidere questo momento che sembra di decadenza e di falsità suprema con dei momenti di lirismo e di felicità quasi senza paragone. E’ D’Annunzio che prende una cosa qualunque e la scrive. E’ uno spettacolo bellissimo.»8

Il senso di febbrile incitamento che egli riusciva, e riesce ancora, a trasmettere attraverso la squisitezza e, al tempo stesso, il vigore del suo eloquio, contribuiva a delineare un ritratto estremamente complesso ed eterogeneo del poeta pescarese, il più delle volte elusivo. Tanto sfuggente e volubile l’inclinazione caratteriale del Vate, da scatenare l’indebita ma diffusa 6G. Gozzano, Le golose, vv. 33 - 34, in Le Poesie, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi

7Tra cui possiamo ricordare quello inevitabilmente ironico del Palazzeschi oppure quello ambiguo del Gozzano, forse più amareggiato per la noncuranza di quell’ «Iddio» che non dette a lui, «un po’ scimunito, ma greggio» l’aiuto di farlo «g‹abriel› dannunziano» piuttosto che davvero indisposto al «supremo annunzio» del suo mellifluo verso. (Per la citazione appena offerta si veda G. Gozzano, L'altro, vv. 9 - 11, in Le Poesie, op. cit.) 8 R. Serra, Le lettere, Milano, Longanesi, 1974, pp. 64 - 68

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esigenza d'inquadrare rigidamente con abilità e rigore quasi scientifici fasi produttive antitetiche, andando dunque ad offrire una scomposizione in fattori primi dell’Opera Omnia. Ne derivano conseguentemente incompatibili ripartizioni di questo tipo: D’Annunzio artificioso/autentico; D’Annunzio solare/notturno; D’Annunzio vitalistico/decadente. Secondo la critica, dobbiamo infatti al Cecchi la fatale intuizione «d’ombra»9, tali componenti

mostrano pressappoco una continuità temporale all’interno della produzione lirica e prosastica dannunziana, descritta dallo stesso studioso come accostamento di due grandi momenti difformi. Data tale ipotesi, si considerano legate ad una prima fase giovanile e matura, segnata secondo la sopraindicata distribuzione dall’artificiosità, dalla solarità e dal vitalismo, tutte le opere comprese tra la debuttante Primo Vere e le più compiute Laudi del

cielo, del mare, della terra e degli eroi. Tenendo fermo come spartiacque il 1906, anno di

pubblicazione del volume Prose scelte, che dà l’addio al ciclo dei romanzi della Rosa e alle altre tentate trilogie del Giglio e del Melograno, la menzionata seconda fase abbandona la poesia per tuffarsi nell’introspezione autentica, notturna e decadente dei romanzi Forse che

sì, forse che no (1910), Contemplazione della morte (1912) e La Leda senza cigno (1916);

nelle prose de Le faville del maglio, pubblicate a puntate sul «Corriere della Sera» dall’11 al ‘14 e nella drammaturgia tragica de La nave (1908), Fedra (1909), Parisina (1913) e Il ferro (1914), passando per l’originale ed inconsueta esperienza linguistica francese de Le martyre

de Saint Sébastien (1911), fino ad arrivare ai vessilli dell’oscurità psicologica con la prosa lirica

del Notturno (1916 in edizione provvisoria – 1921 in edizione definitiva) e con il volume memorialistico Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele d'Annunzio

tentato di morire (1935), in cui effettivamente possiamo cogliere la polverizzazione stilistica

del tradizionale diluvio espressionistico. Indubbiamente sono avvertibili nelle ultime composizioni l’«astrazione decorativa», il «linguaggio musicale di motivi apparentati da una tonalità misteriosa», la modulazione minore di cui l’Artista si serve per «creare le architetture ed il paese, larvale, spettrale, un paese dell’anima», il «malessere» e «l’allucinazione che appunto in lui nasce dalla visività ripiegata» , «quando sulla pienezza di quelle strane, nuove sensazioni s’accosta e s’inserisce un ricordo, che è talvolta il ricordo d’un sogno»10. D'accordo

con l’indiscutibile illustrazione del Cecchi, se del resto si pensa alla carica riflessiva e alla tragica esperienza del dolore nel Notturno o all’amara fragilità emotiva del Libro segreto: 9 Si veda in merito l’intervento, a partire dall’analisi del Notturno, di E. Cecchi, Esplorazione d’ombra, in Ritratti e

profili. Saggi e note di letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1957

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«Mentre scrivo nel buio, il pensiero mi si rompe e la mano si arresta. Allora la lista che ho voltata si rialza e ricade sopra le mie dita, senza rumore. Ho un brivido di spavento. E rimango immobile, con tutto il corpo rigido, non osando più tracciare un solo segno nelle tenebre. Stanotte il letto oscilla e vibra come l′ala doppia tesa tra mare e cielo. Per bere il vigore dell ′Adriatico apro la bocca, ma nessun sorso fresco m′entra nella gola. L′iodio mi fa una bocca di metallo, una gola d′acciaio. L′acciaio è arroventato nella fucina del mio occhio ardente e temperato nella pozza del mio sangue spesso. Grido e non odo il mio grido.»11

«E la mia deserta conoscenza quadrata, la mia concisa disperazione, è tuttavia questa: unicamente questa, immutabilmente questa.

Tutta la vita è senza mutamento. Ha un solo volto la malinconia. Il pensiero ha per cima la follia. E l’amore è legato al tradimento.»12

La prima, il Notturno, un’opera concepita e realizzata durante l’infermità del riposo e nel buio della completa ma momentanea, poi definitivamente parziale, cecità su tantissimi piccoli cartigli, grazie all’ausilio e all’assistenza della figlia Renata, la quale si dedicò instancabilmente alle cure del padre, vittima del grave incidente aereo avvenuto nei primi mesi del ’16. La seconda, il Libro segreto, frammentaria ma torrenziale trascrizione del flusso quasi incontrollato delle reminiscenze di un Io lucidamente disorientato, in cui balena al suo fianco il fedele compagno di sempre, il «ferale taedium vitae», elemento chiave essenziale nello sconfinato registro linguistico dannunziano.

Questi straordinari documenti in prosa lirica consegnano al pubblico dei lettori un D’Annunzio certamente inquieto, angosciato, intimo, profondamente corroso dal dolore fisico e psicologico, dominato dalle ombre della morte e dai fantasmi dei ricordi del passato, ma non porgono fuor d’ogni dubbio un D’Annunzio nuovo. L’uomo che traspare tra le righe degli scritti di questa cosiddetta “fase notturna” non è troppo lontano o diverso rispetto al precedente, offertosi nella “fase solare”; è semplicemente più consapevole, disilluso e disponibile ad una più intima confessione. Trovarsi di fronte, infatti, anche ad una singola opera del Vate, significa percorrere il suo intero mondo, multiforme sì, ma integrale e indivisibile, poiché essa contiene al suo stesso interno la totalità del suo essere composito. 11 G. D’Annunzio, Notturno, Milano, Mondadori, 1975, pp. 91 - 92

12 G. D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D'Annunzio tentato di

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Probabilmente alcune tendenze possono risultare meno evidenti o a prima vista sopite e mitigate entro la produzione giovanile e matura, ma compongono analogamente il substrato continuo e costante dell’indole dannunziana. Inverosimile É già infatti possibile ravvisare entro il 1906, stando alla convenuta linea di separazione cecchiana, quei must, adoperando illecitamente un anglismo che il contrariato purista D’Annunzio senz’altro avrebbe presto sostituito, che affiorano innegabilmente dalle centinaia di carte vergate nell’ultimo momento. Parliamo dell’intramontabile voluptas moriendi, tensione costante e frutto dell’asservimento mentale, quasi schiavistico, del Poeta all’eterna lotta che non decreta mai il definitivo vincitore né il vinto ma solo un altalenante trazione dell’animo tra Eros e Thanatos, oppure della gravosa e invariabile malinconia, scaturita dall’incorreggibile e sempre fallimentare tentativo di conquistare l’Assoluto, il Tutto, tanto attraente quanto inafferrabile. Parliamo di quel sentimento torbido nei confronti del Tempo tiranno, che, seducente, lo attira ricorsivamente nel suo passato, concepito come origine aurea del suo stesso mito personale; o ancora di quell’istinto violento, sadico, talvolta masochista, carico di passionalità carnale, che solitamente si realizza dapprima nella ribellione, poi nella contemplazione estatica della Morte come esclusivo mezzo espiatorio. Procediamo per ordine.

La pulsione alla Vita, Eros, compiuta attraverso il furioso dinamismo panico, l’esaltazione superomistica e la volontà di potenza nietzscheana, l’agognata elevazione mistica e la trascinante energia della parola, bilancia in un equilibrio, ovviamente mai perfetto, la contrapposta pulsione mortale, Thanatos. Si tratta di un anelito che non caratterizza un preciso momento storico o biografico ma che si manifesta come una vera e propria decifrabile vocazione. Compone la sua interiorità, fa parte della sua natura caratteriale e, più volte ed in diverse sedi, è lo Scrittore stesso ad intervenire nel riconoscimento di questo impulso inconciliabile, affermando dapprima ne Il secondo amante di Lucrezia Buti «e come posso rappresentare in parole a me stesso quella sete di vivere mistica e ferina che simigliava alla sete di morire?»13, poi alterando appena nel Notturno, attraverso le parole dei

personaggi che sappiamo essere per la maggior parte delle volte suoi alter ego o specchi appannati: «Una tal sete di vivere è simile al bisogno di morire e di eternarsi»14. Già nei

freschissimi versi di Primo Vere, redatti da un D’Annunzio adolescente, sicuramente ancora ingenuo e acerbo ma fin d’ora incantevolmente avvinto dal dolente pensiero della lontananza 13 G. D’Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti, in Prose di ricerca, di lotta, ecc., op. cit., p. 264

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degli affetti familiari e del luogo natìo, trapela sullo sfondo naturalistico e classicheggiante la predilezione per l’intervallo serotino del giorno morente, cornice, quella dell’occaso, che accoglie il dolce e sospirato ricordo d’amore filiale della «soave immagine raggiante»15 della

madre, cui si contrappone poco dopo la violenta attrazione emozionale per le effigi di Bacco Dionisio, delle Menadi e dei satiri. Avanzando cronologicamente, i toni lirici dell’Intermezzo segnalano sin dal Preludio un decisivo abbandono al tocco narcotico della «Gorgone antica ne la grande chioma» che detiene «la potenza originale del Sesso. Colei che non si noma. […] Lussuria onnipossente madre a tutti i misteri e a tutti i sogni»16. Al fianco di una spiccata

componente erotica, si palesa in modo evidente, soprattutto nei nuovi innesti dell’edizione definitiva17, l’implacabile attrazione per la Morte, probabilmente fino ad ora mitigata

dall’innocenza puberale. La schiera, quasi dantescamente infernale, de Le adultere, trascina il Poeta nella contemplazione artistica ed estatica della carne «immonda» e «bruta», scatenando un’eterna affezione per il «mistero di dolore e di bellezza», per un sentimento sadicamente godibile di tristezza angosciosa, «atroce» e «immensa», che risolversi non può se non attraverso la purificazione mortale. Una tale struttura, calata nel contesto declinante del vespertino paesaggio dell’anima, definisce un impianto per molti aspetti vicino, ma non ancora programmatico, a quello del contemporaneo Poema Paradisiaco, che come l’Intermezzo presenta proprio in epilogo componimenti tematicamente affini.

L’ambientazione crepuscolare piace moltissimo al nostro Poeta, a tal punto che la inserisce nell’incipit del suo romanzo più celebre, Il Piacere, fonte inesauribile di segnali che ci rassicurano sulla validità di quest’intuizione: mentre «l’anno moriva, assai dolcemente»18, sul

palcoscenico romano si consumano in rapporti claustrofobici e dispotici le ebbrezze amorose 15 G. D’Annunzio, Letterina alla mamma, v. 13, in Primo Vere, contenuto in Versi d’amore e di gloria, vol. I, a cura di A. Andreoli – N. Lorenzini, Milano, Mondadori – I Meridiani, 2006

16 G. D’Annunzio, Preludio, vv. 85 - 87 e vv. 97 - 98, nell'Intermezzo, in Versi d’amore e di gloria, vol. I, op. cit. 17 Nel luglio 1883, con data editoriale 1884, l'editore Sommaruga, pubblicò, privandola dell’explicit, la prima edizione della raccolta dannunziana dal titolo Intermezzo di rime, costituita da ventisei componimenti. Esattamente un anno dopo, nel luglio del 1884, presso lo stesso editore uscì la seconda edizione, accresciuta di tre liriche. Trascorsi dieci anni, D’Annunzio, artisticamente coinvolto dallo sperimentalismo estetizzante ed intellettualistico di quel periodo, riprende il precedente volume per rinnovarlo completamente, anche a livello strutturale: elimina alcune poesie, ne aggiunge altre, fino a raggiungere le cinquantadue unità, le ripartisce in nuove sezioni, arricchisce ulteriormente le fonti letterarie di chiara derivazione parnassiana-decadente e classicheggiante, e rinnova il lessico, che stavolta presenta una nuova coloritura simbolica. Alle fine di marzo 1894 ripubblica il tutto sotto il titolo di Intermezzo, accompagnandolo con due versi biblici in epigrafe.

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del protagonista, vittima della sua stessa vita quasi «fosse una continua lotta di forze contrarie, chiusa ne’ limiti d’un certo equilibrio»19 e inabile per avidità maniacale di

libidinoso possesso nel discernere il piacere dal dolore, la dolcezza dall’amarezza nel permanente «malessere vago». Tra i petali di rose rosse e i profumi leggeri dei gigli bianchi il sacrificio sorge prossimo e la vittima è pronta: l’amore insano, la lussuria e l’abbandono alla perdita dei sensi sono espedienti medianici che, complessivamente, rappresentano il canale di scorrimento tra la sponda della Vita e quella della Morte con possibilità di ritorno. Per quanto riguarda l’impianto strutturale della psicologia dannunziana, sempre duplici e assai fondamentali, non solo ne Il Piacere, sono quelle forze contrarie, or ora menzionate dal D’Annunzio stesso, che scindono sistematicamente l’Io, disorientandolo: la spinta “rossa”, così potremmo nominarla, incarnata dalla seducente Elena, tenendo ben presente la studiatissima e felice scelta onomastica per le due amanti, e la spinta “bianca”, pienamente realizzata dalla virginale Maria. Carnalità/Morte e Purezza/Vita si contendono, come brutali venti avversi, l’attenzione e il consenso dell’individuo. Pongo solo momentaneamente in

standby quest’ultima osservazione che solo più avanti mi occorrerà per proseguire,

attraversando la fittissima macchia della prima fase produttiva, l’indagine d’individuazione del connubio dicotomico Vita - Morte, che, in maniera oltremodo lampante, si manifesta nel terzo romanzo del ciclo della Rosa, Il Trionfo della Morte, pubblicato, non del tutto casualmente, nello stesso anno d’uscita, il 1894, del rivisitato Intermezzo. Frutto di una complessa elaborazione compositiva, estesasi in fasi alterne nell'arco di un lustro dal 1889 al 1894, l'ultima fatica dannunziana, che più direttamente procede a innesti autobiografici, offre, sin dall'enunciazione del suo eloquente titolo definitivo, preferito a quello de

L'Invincibile, l'intramontabile scontro tra i due ormai noti impeti emotivi attraverso un

intreccio contenutisticamente significativo per quest'analisi.

«Io ho una brama ardentissima di vivere, di svolgere in ritmo tutte le mie forze, di sentirmi completo e armonioso. E ogni giorno invece io perisco segretamente; ogni giorno la vita mi fugge da varchi invisibili e innumerabili; e rimango come una vescica mezzo vuota che ad ogni movimento del liquido sbattuto prenda una diversa deformità. […] Una discordia incessante agita e sterilisce tutti i miei pensieri. Che cosa mi manca? Chi dunque possiede del mio essere quella parte di cui non ho conscienza ma che pure m'è necessaria (sento) per continuare ad

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esistere? O forse quella parte del mio essere è già morta ed io non posso ricongiungermi a lei se non morendo? Così è. La morte infatti mi attira»20

Come lo Sperelli e molti altri protagonisti dannunziani, anche Giorgio Aurispa, sospinto dalla vigorosa forza pulsionale della Vita, è disperatamente e incessantemente votato alla ricerca della piena, alta e nobile realizzazione della sua esistenza attraverso molteplici e variegate esperienze. Dapprima egli si dedica senza successo alla musica e alla sperimentazione mistica, poi tenta altre soluzioni con il ritorno alla terra natale e con il recupero degli affetti familiari. Ma, proprio quando «la volontà di vivere si ritirava da lui a poco a poco, come il calore abbandona il cadavere», l'esteta gioca la sua ultima carta, prostrandosi al totale asservimento passionale nel rapporto amoroso con Ippolita.

Habere, non haberi insegna Diogene Laerzio: attraverso il conseguimento possessivo

dell'altrui pienezza fisica e soprattutto psicologica, l'Io crede a sua volta di potersi liberamente controllare e comprendere. Ne consegue ragionevolmente un sentimento confuso e logorante di amara disillusione e alienante vanità, perfettamente riassumibile nella massima pronunciata dal soggetto stesso: «Io non mi posseggo, io sfuggo a me stesso», «come un uomo che, condannato a restare su un piano di continuo ondeggiante e pericolante, senta di continuo mancargli l'appoggio, dovunque egli posi il piede.»21. Questa

massima accompagna il protagonista alla finale deliberazione di accogliere l'abbraccio di Thanatos, pulsione mortale, come unico espediente risolutivo al dramma personale. Raggiunto l'apice della tensione introspettiva, avvertibile nella graduale sospensione dell'intreccio e nella condensazione delle vacue e minuziose elucubrazioni, D'Annunzio impone al suo personaggio la scelta violenta del suicidio / omicidio come esclusiva e sacrale alternativa ad una ricerca vitale dell'Assoluto del tutto improduttiva e, di conseguenza, insostenibilmente frustrante. Così Giorgio, gettandosi da un'alta rupe insieme alla compagna Ippolita, la quale disperatamente fino all'ultimo momento tenta invano di sottrarsi all'abbraccio fatale, compie quello che definirei il “rito della purificazione”, la cosiddetta «vendetta contro la tirannia dei sensi», sottotitolazione voluta dal Vate per il suo libro. Si tratta di un vero e proprio modello essenziale, primitivo nella coscienza dannunziana e ricorsivamente applicato, in modo più o meno apprezzabile, in quasi tutte le sue opere. Tra quelle non citate in questo breve excursus, basti pensare alle celebri pagine palpitanti di 20 G. D’Annunzio, Il Trionfo della Morte, Milano, Mondadori, 1977, pp. 121 - 122

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narcisistica sfrenatezza verbale de Il Fuoco (1900), romanzo bipartito non solo formalmente, si pensi alle due sezioni de «L'epifania del fuoco» e «L'impero del silenzio», ma anche contenutisticamente, poiché conteso, secondo la prevedibile prassi dannunziana, dai due poli d'attrazione: l'ardore erotico e l'impeto spirituale e artistico (Eros), caratterizzante il primo libro e scatenato dal discontinuo e appassionante rapporto con la Musa ispiratrice, Foscarina, si scontra ancora una volta con il funereo e malinconico ripiegamento interiore (Thanatos) del secondo libro. A chiudere nuovamente il sipario, D'Annunzio invita sul palcoscenico veneziano il personaggio più probabilmente a lui gradito, la Morte, alla quale è assegnata infatti la parte tacita ma eminente del “rapimento” del musicista Richard Wagner, vecchio e malato nel corso della trama, tuttavia esemplare e irriducibile modello da imitare per il protagonista Stelio Effrena. Non limitandosi a questa seppur significativa comparsa, il Tristo Mietitore, acclamato dalla stessa folla “nera e densa”, chimerica ed informe che, magicamente incantata, pendeva dalle labbra del giovane poeta, esegue il bis, spezzando metaforicamente la travagliata storia dei due amanti e permettendo così ad entrambi la rinascita individuale. Un tale disegno, non disprezzando certamente versi meno illustri, si estende anche nella raccolta delle Elegie romane (1892), diario psicologico interamente edificato sul metro intimo del distico elegiaco in cui la voce del potente sentimento per la donna, identificata in Barbara Leoni, canta la trasfigurazione poetica di un colloquio d'amore, inizialmente concitato poi stanco e morente, sullo sfondo di una Roma estremamente malinconica, struggente e ancora una volta vespertina. Volendo ulteriormente insistere sul tema, si consideri uno dei primi esperimenti teatrali, ultimato nel 1898 ma ideato già durante il viaggio in Grecia del 1895, ovvero quello de La Città Morta. Questa tragedia, in cui si avverte l'ambiziosa intenzione, peraltro compiuta e molto soddisfacente, di attuare in chiave moderna un teatro catartico di stampo greco classico, assiste non solo all'eterno e disatteso urto delle due spinte catalizzatrici ma anche alla conversione formale e simbolica delle stesse negli elementi primordiali del fuoco e dell'acqua, tanto cari al D'Annunzio. Infatti all’interno di tale esperimento teatrale assumono rispettivamente entrambi funzioni determinanti e nodali per lo svolgimento dell’intreccio: da un lato, nell’arso ed oramai spettrale paesaggio aprico dell'estinto dominio del mitico re Agamennone, l’ardente calore igneo accoglie le quattro anime solitarie dei personaggi, scatenando in essi il fisiologico bisogno corporeo dell’abbeveramento. L'esigenza di dissetare il corpo appare traducibile allegoricamente,

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come suggerisce lo stesso Getto22, con il desiderio intemperante di soddisfare

cognitivamente il bisogno, tanto auspicato quanto palpabile e tangibile a livello fisico, di sollevare lo schopenhaueriano Velo di Maya, di palesare la Verità, attingendo direttamente dalla sorgente della Conoscenza; dall’altro l’acqua, proponendosi in modo sibillino e ambivalente sia come immagine primaria di vita sia in qualità di fonte rivelatrice di presagi mortali, agisce attivamente in questa direzione, interpretando così lo gnoseologico veicolo rivelatore. Comprese tra queste estreme posizioni, due grandi tematiche: la sete e la contrapposta alleata, ovvero la cecità, da intendersi entrambe anche stavolta in senso traslato rispettivamente come slancio intimo verso il soddisfacimento intellettivo della piena comprensione dell’Aletheia e come impedimento onnipresente, fisico e morale, alla realizzazione di questo percorso. L’impossibilità aprioristica di rompere il terreno schema formale e di trattenere possessivamente nella realtà concreta e dinamica l’Assoluto, per sua natura immutabile e imperituro, produce immancabilmente i consueti effetti malinconici, di cui, come dimostrato finora in modo evidente, non è assolutamente privo il momento giovanile/maturo della denominata «fase solare». In questa prospettiva occorre quasi obbligatoriamente chiedersi quale ruolo detengano gli ingredienti igneo e acquatico nella più generale Weltanschauung dannunziana. L'elemento fuoco, che del resto, come visto precedentemente, intitola già uno dei suoi celebrati romanzi, è comunemente associato alle qualità e alle impetuose tendenze dell'energia maschia, che riscalda, brucia e consuma la mente ed il corpo dell'uomo tramite l'accensione esplosiva di forti propulsioni emotive, spesso autopunitive, quali l'odio nei confronti degli altri e di se stessi, la rabbia, l'amore visceralmente dipendente, il fanatismo e l'ossessiva passionalità. Avvalendosi di questa tradizionale connotazione figurativa, D'Annunzio acclude al valore allegorico dell'oggetto la funzione purificatrice della combustione, che, pur modificandone lo stato d'aggregazione, monda e decontamina la materia. Così come al fuoco, il Nostro, potenziandone le proprietà e attribuendogli un sacrale valore gnoseologico, riconosce tale virtù purificatrice anche all'acqua, simbolo degli ineffabili gorghi dell'inconscio ed interprete tropologica dell’ancestrale principio cosmico femminile generatore di vita, Madre per eccellenza, verso la qual figura il Poeta si mostrò sempre incondizionatamente devoto. Ne La Città Morta l’Autore sperimenta questa prerogativa attraverso il punto di vista dei suoi personaggi, in particolare quello di Anna, la quale, familiarizzando con la misteriosa natura onnisciente dell’acqua, 22 G. Getto, La Città Morta, in Tre studi sul teatro, Caltanissetta - Roma, Sciascia, 1976, pp. 193 - 200

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entra in contatto, proficuamente o meno, con segreti e dinamiche del tutto inaccessibili in condizioni alternative. Ma è nell’Alcyone (1903) che l’Io dannunziano sfrutta personalmente la peculiare dote del magico fluido. E, come avremo modo di constatare, non per la prima volta. Estremamente attratto dalle potenzialità della finzione letteraria, concepita come momento d’apparente evasione e fuga dall’«hora» che corre, D’Annunzio allestisce, inserendola nell’ormai maturo blocco artistico delle Laudi, una raccolta poetica di larghissimo respiro, dotata non solo di una complessa unità di spazio e tempo, ma di uno sviluppo narrativo del tutto sorprendente. Per la dettagliata analisi di un’intuizione tanto acuta interviene solamente nel 1998, quindi a quasi cento anni circa dalla pubblicazione, il poeta e redattore, estraneo al mondo accademico, Luca Alvino con il suo contributo Il poema della

leggerezza. Gnoseologia della metamorfosi nell’Alcyone di Gabriele D’Annunzio23. Osservando

attentamente l’alcionia struttura architettonica, Alvino discerne due differenti tipologie temporali: il cosiddetto «tempo della storia», dal quale è impossibile trovare sospensione, ovvero il tempo stagionale, umano e ritmicamente ricorrente, regnante dall’inizio fino al componimento Terra, vale! e nell’ultima sezione, comprendendo la chiusura autunnale da

Tristezza a Le carrube; e il «tempo del mito», irripetibile alterazione divina del ciclo

inesorabile Vita / Morte, legato alla poesia e teatro della metamorfosi, che si estende nella sezione centrale, in particolare dal Ditirambo II al Ditirambo IV. Con l’ausilio di numerosi riferimenti testuali il critico studia i movimenti interni alla raccolta, suddividendola in due grandi cornici e cinque macrosezioni, ciascuna delle quali costruita interamente sulla base di uno dei quattro elementi secondo la sequenza terra - acqua - aria - fuoco - terra, e giunge ad individuare uno straordinario percorso ciclico, frutto dell’inesorabile alternanza nello spazio alcionio tra tensioni ascendenti e discendenti, orizzontali e verticali, che attribuisce all’opera un fondante valore semantico. Emotivamente stremato e consumato dalla prigionia carnale e dalla limitata natura umana, che costringono l’individuo alla fissità e alla permanenza della costante ripetizione degli atti (tempo della storia), D’Annunzio, inarrestabile e fiducioso fino alla fine dei suoi giorni, si propone di sospendere, almeno provvisoriamente, così come magistralmente perpetrerà l’epigono Montale, la reiterazione terrestre, tentando in ogni modo di aprire così quel varco che scopre «uno sbaglio di Natura,/ il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,/ il filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una 23 L. Alvino, Il poema della leggerezza. Gnoseologia della metamorfosi nell’Alcyone di Gabriele D’Annunzio, Roma, Bulzoni, 1998

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verità»24. Durante il brevissimo soggiorno nel regno mitologico, destituito dalla pressione

dell'eracliteo flusso del divenire, la succitata verità, che mai potrà essere comunque contemplata appieno, trova parziale compimento nella metamorfosi, attraverso l’abbandono del corpo umano che nient'altro è se non il platonico carcere dell’anima. Le pulsioni di Vita e di Morte riaffiorano tra le meravigliose pagine dell’Alcyone, ricongiungendosi chiaramente, durante le fasi più delicate per lo snodo narrativo e filosofico, agli elementi dell’acqua e del fuoco, presenti anche stavolta in qualità di depositari di un ruolo basilare. Dopo aver dedicato molti versi all’allegorico inseguimento della puerile creatura, figlia della Cicala e dell’Olivo, e dopo aver assistito alla spumeggiante mietitura del grano nell’estate che infuria, l’Io poetico dannunziano saluta lo scenario georgico, i campi arati e i boschi selvatici, lasciandosi quindi alle spalle la componente “terra” per ricercare in altri lidi la breccia verso l’oltremondano. La intravede presso la foce immobile e silente del fiume Arno, dove alle sue acque dolci si mescolano quelle salate del Mar Tirreno, ma il passaggio è lento e graduale, poiché egli deve essere depurato dalle scorie terrestri ed educato poeticamente all’ascolto della Verità. Da Pace a Terra, vale! inizia così un percorso riabilitativo in cui la Natura stessa, invitandolo a udire le sue recondite percezioni e vibrazioni sonore, provvede all’alfabetizzazione del Poeta tramite l’uso di un linguaggio nuovo e sconosciuto. In tal senso l’acqua costituisce nella sua complessità il collegamento medianico tra l’Io e l’Ignoto che si cela oltre il varco, il confine cruciale tra il mondo dei vivi, in cui domina il tempo della storia, e quello degli incorporei, limite sospeso tra la vita e la non vita, da intendersi, quest'ultimo, più come un «non essere» parmenideo, piuttosto che come morte. Proprio sulla sponda dello stesso fiume l’elemento acquatico, corredato di uno stato d’aggregazione liquido sicuramente più congeniale alla trasmutazione formale rispetto a quello degli altri tre, rende possibile la metamorfosi di un già trasfigurato Gabriele/Glauco ovidiano attraverso la catartica dissolvenza della gabbia corporea. A fare da portavoce alla sua ambiziosa ansia del divino, D’Annunzio elegge con felice arguzia il noto pescatore della Beozia che, già secondo Dante, costituisce nella cultura greca e latina l’unico esempio possibile di trasumanazione. Perdute le opprimenti spoglie e finalmente libero di godere della fresca ed insolita «deità», l’Io diviene, su uno sfondo non sorprendentemente vespertino, vòlto ad indicare la morte della «terrestrità», da uomo «mortal nato di sostanza efimera» a divinità acquatica 24 E. Montale, I limoni, vv. 26 - 29, in Ossi di seppia, contenuto in Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori - I Meridiani, 1984

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contemplatrice dell’«etere sidereo», «immemore della sua dura nascita»25 e della sua

gravezza. Tuttavia per un vero mortale, quale non è Glauco bensì il nostro Gabriele, questa gentile concessione non può durare a lungo e D’Annunzio, pur cercando speranzoso di prolungare l’eccezionalità del dono, ne è perfettamente consapevole. Ed ecco che il fatale avvertimento non tarda a scuotere la creatura marina dallo spensierato rapimento estatico, poiché esso accompagna nel suo raccolto ingresso sulla scena finale de L’Oleandro, nel bel mezzo dell’affascinante conversazione mitopoietica tra i sei giovani, addirittura la personificazione della tacita e cupa Malinconia, la quale trascina con sé quell’amara constatazione finale che giace sempre sul fondo di un’esperienza goduta tanto intensamente da non mostrarsi mai ancora pienamente appagata:

«Ma la Melanconìa venne e s’assise in mezzo a noi tra gli oleandri, muta, guatando noi con le pupille fise. Ed Erigone, ch’ebbe conosciuta la taciturna amica del pensiero, chinò la fronte come chi saluta. […] Un’altra era con noi, ma restò muta/ tra gli oleandri lungo il bianco mare»26.

Con la sua apparizione al tramonto, essa, esemplarmente descritta, incrina il mitico miracolo panico, evocando simultaneamente la morte del giorno e la dimensione tristemente ciclica e storica del Tempo, che purtroppo per il Nostro prevede un progressivo ritorno alla primigenia condizione. Ed il fuoco? Quale posizione e funzione ha esso all’interno di questo «diario estivo di un’estate marina»27? Omettendo un approfondimento, superfluo per l’indagine,

della sezione “aerea” dell’Alcyone, che comunque si disperde senza puntuali confini lirici da

Versilia fino ad Altius egit iter, desidero porre ora l’attenzione sul componimento “igneo” per

eccellenza, ovvero il Ditirambo IV. Il mito al quale attinge stavolta il Poeta è quello che vede come suo protagonista il giovane figlio di Dedalo, Icaro, il quale, perdutamente innamorato di Pasifae, moglie di Minosse, tenta un superomistico, e prettamente dannunziano, atto liberatorio e purificatore che annienti, senza lasciar traccia, ogni ricordo annesso all’episodio, da lui furtivamente spiato, del bestiale congiungimento tra la donna amata, futura madre del Minotauro, ed il toro bianco donato da Poseidone al re cretese, affinché venga sacrificato in suo nome. Come prevede il racconto mitologico, Icaro, incapace di sostenere moralmente l’imbestiamento dell’amata, la quale ha rinunciato ad ogni spinta spirituale a vantaggio della 25 G. D’Annunzio, Ditirambo II, v. 3; v. 7; v. 120; v. 131 in Alcyone, contenuto in Versi d’amore e di gloria, vol. II, a cura di A. Andreoli – N. Lorenzini, Milano, Mondadori – I Meridiani, 2006

26 G. D’Annunzio, L’Oleandro, vv. 481 - 482, in Alcyone, in Versi d'amore e di gloria, vol. II, op. cit.

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sola libidine carnale, cerca la salvezza con la completa ascesi, sollevandosi dalle bassezze della mediocrità terrena: il suo premeditato gesto eroico consiste nel lanciarsi intrepido nello spazio aperto del limpido cielo, cercando di avvicinarsi il più possibile al Sole grazie alle famose ali costruite dal padre stesso. Nonostante il severo ammonimento di Dedalo, Icaro «solo e alato nell’immensità»28 si spinge oltremisura verso l’astro infuocato, andando allo

stesso modo incontro ad una triste sorte eroica con un anelito tanto intrepido da riportare alla mente lo stesso impeto ardimentoso dell’Ulisse dantesco. Ancora una volta l’ossessione autodistruttiva di Thanatos, come unico rimedio all’insostenibilità del trauma e alla volontà di riscatto, si fa largo nella psiche dannunziana, esasperata da una forza erotica e passionale assolutamente dannosa e incontrollabile, e lo fa offrendo all’Io stesso la soluzione mortale, e al contempo purificatrice, con l’incredibile “contatto” solare. Infatti, se è giusto individuare nel corpo celeste il mezzo letale, poiché causa stessa dello scioglimento della cera alla base dell’impalcatura alare, pare doveroso riconoscere ad esso, elemento efficiente nella scissione dei legami materiali e di conseguenza nella metaforica liberazione dell’uomo dal giogo dell’individuazione, anche un ruolo catartico e depuratorio. In questo modo Gabriele / Icaro, purificato dal fuoco, trova stavolta la sua ennesima redenzione nel «folle volo» autocelebrativo, «roteando per la luce eterna» e precipitando nelle acque amniotiche del suo «profondo Mare»29, dove tutto ricomincerà nuovamente.

Molte sono le opere dannunziane passate in rassegna finora in sede di quest’indagine. Ho ritenuto opportuno infatti osservare l’andamento di un complesso modello filosofico che non solo permea la sua intera produzione letteraria, ma che costituisce di per sé, come un pesante fardello kunderiano, l’impianto e lo spunto stesso per la sua artistica esplosione creativa, per il suo puro e immortale compimento vitale. Esso, sebbene proposto talvolta in modo disomogeneo o prematuro soprattutto agli esordi, si presenta come un sublimale motivo conduttore. Acquisiti ormai i termini del binomio universale erotica - heroica, a partire dall’emblematico titolo del componimento dell’Intermezzo, appare del tutto intelligibile la ricorsiva attrazione del Vate per il trapasso. Rivolgersi alla morte, in prima persona nell'ambito poetico o attraverso i suoi alter ego in quello prosastico, ma pur sempre nei limiti della finzione letteraria, significa per D’Annunzio tentare di sottrarsi, attuando una sorta di intima purificazione, ad un ciclo costante e continuo, eretto sulla concatenazione 28 G. D’Annunzio, Ditirambo IV, v. 551, in Alcyone, in Versi d'amore e di gloria, vol. II, op. cit.

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inflessibile degli stadi alternativamente contrapposti di generazione / degenerazione, spesso realizzatisi simbolicamente per mezzo dei citati elementi ancestrali. Nell’Io dannunziano, indotto al costruttivo godimento vitale da parte della finora equilibrata pulsione erotica, viene a manifestarsi la nota imperativa ossessione del totale conseguimento del Tutto, della comprensione dell’Indicibile e della piena manipolazione fisico-psicologica degli individui a lui più intimi, in particolare della figura femminile amata, mostrando in questo modo l’incalzante abbandono alla sregolatezza dei sensi. Giunto all’apice dell’inconsolabile ricerca, nonché alla mesta presa di coscienza dell’impossibilità del compimento, inizia il suo graduale sprofondamento: il corpo si corrompe e lo spirito, ultimo baluardo della resistenza seppur di natura estremamente malinconica, tenta di riaffiorare, illudendosi di ottenere facilmente una rinascita mistica e morale attraverso il lucido ritorno alle origini. Il termine “ritorno” è fondamentale in questo contesto sia per quanto riguarda la definizione di un rapporto di profonda attrazione nei confronti della terra natale e dell’affettivo nucleo familiare, sia in prospettiva della stimabile valenza gnoseologica e purificatrice attribuita al ripescaggio del passato, sia, infine, per la caratterizzazione dell’ontologia dannunziana, molto vicina per molti aspetti alla deduzione nietzscheana dell’eterno ritorno entro un sistema periodico. Tuttavia tale recupero si rivela ovviamente sempre vano, lo spirito raggiunge il corpo nella sua caduta progressiva e nient’altro da fare rimane all’Io poetico se non sfoderare dal mazzo l’ultima carta, ovvero quella che sceglie Thanatos come rigenerazione purificante dal male che lo corrode. Ripetendo simbolicamente ogni volta il processo di rinascita, la vita si congiunge alla morte per dare origine ad una nuova fase dell’esistenza, così come avviene nelle celebrazioni misteriche in cui l’iniziato deve morire figurativamente per poter rivivere in possesso delle autentiche qualità umane. Questo inesorabile percorso ciclico, analogo quasi

in toto al flusso perenne di memoria eraclitea in cui «tutto scorre» o alla ruota orientale del samsara, trova la sua armonia proprio nel mantenimento del conflitto stanziale delle forze

oppositive e discordanti che lo compongono. Fondamentalmente la concordanza pacifica interiore e, più generalmente, cosmica non deriva dalla coincidentia oppositorum delle spinte avverse, piuttosto dal loro stesso vivace scontro che produce fra l’altro l’essenza vitale stessa. Ciò che a prima vista potrebbe cagione del disordine, in realtà definisce pragmaticamente la legge stessa della vita universale, poiché riconosce l’essere come entità interdipendente ed impermanente, soggetto al Tempo e al mutamento costante. Proprio per questo la manifesta compulsione possessiva e l’agognata identificazione panteistica del sé con la totalità

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dell’Assoluto, agendo come coatte tendenze esiziali e nocive, entrano in piena rotta di collisione con l'effettiva Legge di costruzione / distruzione, ingannando un D’Annunzio vinto ogniqualvolta dall’illusione di poter riuscire nell’irrealizzabile impresa di scardinare il drammatico «tempo della storia». Persuasa dal menzionato studio di Alvino, relativo al riconoscimento di un significativo percorso interno all'Alcyone, e sollecitata dall'individuazione, fin qui compiuta, di tematiche, inclinazioni e movimenti onnipresenti nella produzione dannunziana, considero doveroso chiedermi a questo punto se, abbracciando il suo smisurato bagaglio letterario, sussista davvero un momento in cui per la prima volta si sia manifestata in modo tangibile la volontà artistica del Poeta di allestire consapevolmente una struttura costruita con meticolosa attenzione simbolica, tale da riorganizzare ciò che fino a quel momento ha gridato scompostamente e a gran voce la sua esistenza nelle pagine dei precedenti prodotti letterari. La risposta è affermativa. Immediatamente prima di concludere la riflessione con l’approfondimento alcionio, ho alluso in modo sibillino ad un D’Annunzio, all’altezza della stesura delle Laudi, non propriamente estraneo all’utilizzo poetico in prima persona di un ciclico sviluppo narrativo, peraltro evidentemente articolato anche in quest'occasione in sequenze descrittivo - narrative. Identificherei tale momento in uno dei nuclei poetici più biasimati e contestati dell’intera produzione dannunziana, additato con ostilità per le accuse di plagio e per la sua artificiosa «bontà» menzognera che sembrerebbe caratterizzarlo, gravemente condizionato dal severissimo giudizio della critica ad esso contemporanea, ma in definitiva non assimilato, né compreso in profondità. Parlo del Poema Paradisiaco, ingiustamente definito come una «caduta»30 e finora condannato ad assolvere il ruolo di fiacco e infelice esito di un D’Annunzio

minore e dimesso. Titolo inconsueto e spesso sconosciuto al vasto pubblico, che, trovandosi ad attingere al repertorio dannunziano, opta solitamente per il romanzo più celebre, Il

Piacere, o al massimo per le liriche alcionie, il Poema Paradisiaco può orgogliosamente

vantarsi di un carattere innovativo, fortemente sperimentale e determinante sia a livello linguistico e formale, sia a quello tematico: basti solo pensare alla soluzione metrica che, sebbene ancora rispettosa di alcune tradizionali norme ritmiche, si sgancia in maniera autonoma ed emancipata dalla rigida combinazione del verso; o ancora alle riprese crepuscolari che influenzeranno gli esperimenti poetici del decennio successivo. Osservazioni senz’altro apprezzabili ma, mi si potrà obiettare, l’Opera Omnia dannunziana si 30 Con riferimento all’epiteto di per sé esegetico offerto da Adelia Noferi, segnalo il suo fondamentale contributo critico: L’ Alcyone nella storia della poesia dannunziana, Firenze, Vallecchi, 1946

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contraddistingue interamente per un continuo, quasi estenuante, sperimentalismo multiforme sul piano fonetico, lessicale, stilistico e retorico. Quale parametro risolutivo prende allora parte nella definizione del Poema Paradisiaco come esclusiva prova letteraria? A rendere quest’opera tanto singolare e preziosa interviene appunto l’inedita e sofisticata progettazione di un tracciato interno alla raccolta che, snodandosi in vere e proprie tappe spirituali, realizza attraverso la stupefacente compenetrazione tra il genere del romanzo, dotato quindi di un intreccio, e quello del canzoniere, massimo mezzo espressivo dell’Io lirico, l’applicazione di un ciclico modello ad indirizzo filosofico. Per la prima volta D'Annunzio riorganizza sistematicamente un cospicuo gruppo di componimenti, già pubblicati separatamente in rivista, in una collezione a prima vista incoerente e logicamente disomogenea, allestendo a livello architettonico, un interno circuito gnoseologico vòlto a configurare visivamente il messaggio stesso del suo pensiero poetico. Nel corpus paradisiaco sono infatti rintracciabili sezioni e sequenze, articolate nelle unità delle singole liriche, che costituiscono le fasi principali del suo programma teorico, ignorato o almeno incompreso al tempo della sua divulgazione. Per coloro che almeno un po' hanno imparato a conoscere il Poeta, o se non altro si sono sforzati di comprenderne la forma mentis e l'impostazione psico - filosofica, le sue scelte stilistiche e concettuali, specialmente quelle che più da vicino coinvolgono il riassetto generale del materiale letterario, non appariranno mai casuali: nessun dettaglio è sprovvisto di una ben precisa motivazione. Dall'eloquente scelta onomastica a quella contestuale, dalla caratterizzazione analitica dei personaggi alla minuziosa definizione dell'oggettistica, D'Annunzio, ben lontano dall'essere artificioso e inautentico, non abbandona mai al caso le sue creazioni letterarie ma, al contrario, grazie ad una sempre ponderata ricerca speculativa le dota di recondite sfumature simboliche, che arricchiscono il soggetto in questione di significati sfuggenti, eppure fondamentali per la comprensione del messaggio. I superficiali commenti presumibilmente esegetici e l’atteggiamento detrattore tenuto nei confronti del Poema da un discreto numero di critici, allora costituenti lo schieramento, quello idealistico, più autorevole ed influente, condizionarono visibilmente ed in modo erroneo la ricezione dell’opera. Il Poema

paradisiaco, non troppo per l'eventuale scarso valore delle sue componenti formali,

stilistiche o contenutistiche, bensì perché colpevole di ricoprire la scomoda posizione di “figlio minore” di un padre altrettanto inferiore, quale fu per Croce proprio D’Annunzio, fu estromesso aprioristicamente dal campionario del suo celeberrimo saggio Poesia e non

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poesia del 1923 e passò quasi del tutto inosservato dall’anno della sua pubblicazione (1893)

fino agli anni Novanta del Novecento. Disarmonicamente scissa tra il feroce antidannunzianesimo dell’ala crociana e una timida e debole rivalsa avversaria, la platea esegetica ha così negativamente condizionato la fortuna non solo dell’opera singola, ma più generalmente dell’intero scrittore, alimentando soprattutto negli anni del secondo dopoguerra, come illustrerò nel capitolo prossimo, quei banali, eppure risonanti e tenaci ancor’oggi, pregiudizi storico - politici, biografici e moralistici che segnano da sempre il suo percorso31. Delegando alle pagine successive la trattazione di un tema tanto delicato quanto

ancora apertamente controverso, desidero, anticipando gli obiettivi di questo lavoro e chiudendo la panoramica introduzione, sottolineare la natura empirica dell’ipotesi di lettura offerta in questa sede, di un testo così complesso e sfuggente, visti lo scarso interesse per questa raccolta e la carenza di interventi e pubblicazioni divulgati in merito finora. Ad un primo approfondimento storico dell’esegesi “paradisiaca” e all’esplorazione biografica del contesto documentabile in cui opera D’Annunzio fra il 1891 ed il 1893, seguirà l’analisi del testo in virtù dell'individuazione di un'interna struttura metapoetica, interpretata in rapporto alle molteplici tematiche che più espressamente suggeriscono l’invito ad un fresco e rinnovato approfondimento di stampo psicanalitico e filosofico insolito alla critica letteraria dannunziana, tra le quali spiccheranno l’allegoria del giardino, il ruolo delle quattro figure femminili (nutrice, madre, sorella e amante), la concezione filosofica del Tempo, la funzione del Nostos e l’applicazione del ciclo generazione - degenerazione. Grande spazio sarà inoltre riservato alla trattazione del valore organico del Poema in relazione alla sua genesi e alle sue prime problematiche strutturali, alle fonti culturali e ai moderni modelli europei, in particolar modo francesi, che ne influenzarono la stesura e infine alla rivalutazione complessiva dell’opera.

31 Capitale al riguardo l'ammirevole, onesto e finalmente dissacrante intervento dal titolo Una vicenda di

pregiudizi, contenuto nel volume La scrittura verso il nulla: D'Annunzio di Giorgio Barberi Squarotti, peraltro

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Capitolo 1

1. 1 - Profilo storico di critica dannunziana. Il Poema Paradisiaco

Durante il Convegno un normalista di Pisa che ha dovuto sfidare lo stupore, il disdegno e lo scherno dei suoi colleghi per aver osato dedicare i suoi studi all’opera dannunziana mi ha riferito uno spassoso dialogo svoltosi fra lui e un altro normalista, un grosso nome che mi guarderò bene dal pronunciare. Questi esprimeva al solito la sua meraviglia che il malcapitato compagno perdesse il suo tempo a leggere e a studiare il D’Annunzio. «Ma guarda - gli obiettava timidamente il suo interlocutore - hai letto questo passo?» «No». «E quest’altro?» «No». «E quest’altro ancora?» «No». «Ma almeno hai letto l’Alcyone?» «Solo due poesie in una antologia». «Ma insomma che cosa hai letto del D’Annunzio?» «Il saggio del Croce su di lui»!

(E. Paratore, Studi dannunziani, 1966) Fino al secondo dopoguerra il panorama esegetico letterario risentì globalmente dell’autorevole egemonia idealista crociana, si parlò addirittura di «dittatura intellettuale», soprattutto per la standardizzazione di quei parametri fondamentali che, a partire dai principi della sua teoria estetica, assolvevano alla distinzione, pur nella diversità delle soluzioni, tra produzione autentica o inautentica e alla conseguente definizione di ciò che, una volta verificatane la validità, avesse il diritto di esser classificata come «poesia» o, in caso contrario, come «non poesia». Menzionando volutamente il titolo di uno dei suoi interventi più influenti, appunto Poesia e non poesia (1923), definito dal Russo «il libro più affascinante di Croce», è possibile osservare un incisivo esempio del ferreo e sorvegliato metodo del Croce, sempre ed unicamente concentrato sull’osservazione della veridicità dei caratteri sensibili offerti dai testi in analisi. In accordo con la coscienza critica del primo Novecento, prevalentemente imperniato su un’impressionistica disamina delle idee e delle sensazioni, a scapito della valutazione più propriamente letteraria e della sensibile deduzione delle motivazioni profonde dell’ispirazione artistica, tale definizione, approssimativamente costruita sulle categorie del bello e del brutto, diviene criterio di giudizio per stabilire il valore dell’autore e delle sue opere. Questo indirizzo deduttivo risale originariamente alla tipologia del pensiero filosofico del critico abruzzese che, in opere quali Estetica come scienza

dell'espressione e linguistica generale (1902) e Breviario di estetica (1912), definisce l'arte

come connubio inscindibile tra pura intuizione ed espressione, come forma spirituale e «aurorale» della conoscenza, in funzione del ruolo epistemologico dell'aisthesis (sensazione)

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nella teoresi dell'estetica. Secondo Croce la poesia, affinché possa godere di un tale status, non può limitarsi ad aggiungere una forma, sebbene pregevole e meritoria, ad un contenuto altrettanto apprezzabile; in quanto formula trascendente ed astratta, essa si configura come autonoma rivelazione dello spirito individuale, non tanto ai fini della comunicazione o della trasmissione di un assunto, quanto all’espressione artistica più nobile e profonda di un’intuizione. Esibite in qualità di risoluti canoni estetici, piuttosto che come personali opinioni, le numerose tesi crociane, in virtù del programma ideologico appena esposto, non poterono certamente apprezzare un intellettuale come D’Annunzio, il cui complesso manifesto letterario sembra scontrarsi con la, poca, flessibilità della programmatica crociana. Seppur stranamente escluso dall’esame del 1923, interamente dedicato alle figure rilevanti sullo scenario letterario italiano ed europeo del diciottesimo secolo, al D’Annunzio viene riservato nel 1903 un lungo ed eloquente approfondimento, adesso compreso nella raccolta dei suoi saggi critici dal titolo La letteratura della nuova Italia32, all’interno del quale

il Croce, nonostante la giustapposizione, peraltro poco convincente, di qualche raro e freddo intento celebrativo, talvolta evidentemente ironico, sferra sull’intera produzione dannunziana un pesantissimo attacco, assolutamente troppo severo e statico, fondato molto spesso su di una lettura delle opere volutamente sbrigativa ed “epidermica”, dettata da un’intransigente e irremovibile prospettiva critica. Nella produzione dannunziana prosastica e lirica l’intento artistico si limiterebbe evidentemente, proprio come auspicato dal Croce stesso, ad uno scialbo accostamento tra la forma artificiosa ed un contenuto altrettanto povero, se non vacuo, totalmente privo di quella nobiltà spirituale che ufficializza il menzionato status poetico. A che cosa è possibile ricondurre l’esigua intimità dannunziana riscontrata? «Il D’Annunzio non riscalda gli animi: il D’Annunzio non sente, ma è un dilettante di sensazioni», dove «il dilettantismo, di cui si parla, sta in quel che si dice

contenuto, nella disposizione verso la vita e la realtà: è un dilettante, non già estetico, ma

psichico»33. E da fine e insincero dilettante qual è, pur offrendo contenuti lucidamente

carenti, si sforza tal punto nel produrre con gran lena prodotti artisticamente vuoti, da ottenere addirittura il meritevole riconoscimento di «artista del dilettantismo, che può essere artista grande, perché niente di umano dev’essere alieno dall’uomo, e anche questa 32 B. Croce, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, vol. IV, Roma - Bari, Laterza, 1973. All’approfondimento su Gabriele D’Annunzio sono dedicate le pagine 7- 66.

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disposizione spirituale ha la sua propria realtà e il suo significato»34. Per un compenso tanto

celebrativo il diretto interessato sarà rimasto enormemente lusingato, conoscendo ormai, grazie alle acute intuizioni crociane, il suo carattere frivolo e sdegnoso nei confronti della mediocrità, provvisto di un «ingegno troppo lucido e analizzatore da abbandonarsi ai rapimenti e alle frenesie mistiche […] indifferente a ogni passione e interessamento morale o politico, aperto e attento al flusso delle sensazioni in quanto tali» e spregiudicato nell’intenso «lavorio di assimilazione e di eliminazione, ch’egli compie rispetto ai modelli»35:

sarebbe infatti, pur nell’ambito del dilettantismo, un artista, magari uno dei migliori ed il suo ego, paragonabile ad «un vento freddo di cinismo e brutalità»36, si troverebbe pienamente

soddisfatto. Secondo il Croce, non ancora evidentemente pago, D’Annunzio ama talvolta dilettarsi persino d’idealità e di moralità, a tal punto da trasformarsi irrisoriamente in un mitico Re Mida decadente che rende innaturale e simulato tutto quel che tocca: falsa bontà, falso eroismo, falso idealismo soggettivo, addirittura falso desiderio di possesso: «C’è in esse una falsa profondità, che spiace agl’intelligenti, i quali non tollerano di essere illusi, delusi e trastullati da nessuno, e neanche da un artista grande» (o da un artista grande del dilettantismo?), dal quale «Nulla, o quasi, viene veramente dal cuore»37. Il burattino di

legno, totalmente privo di valori morali e di una genuina spinta emotivo - intellettiva indipendente, «non ha avuto quel che si dice evoluzione o progresso, ma un mutare apparente e un persistere reale»: sostanzialmente avrebbe giocato con grande abilità nel riproporre senza fine in una nuova veste i medesimi contenuti, per giunta inautentici, in tutte le occasioni letterarie. Inevitabilmente sul Poema Paradisiaco non dissipa improbabili elogi e, come mi aspettavo, liquida la raccolta poetica con un blando e rapido giudizio, definendo l’esperienza paradisiaca come una profanazione della vita morale e dei più nobili sentimenti umani, in cui trionfano «la stanchezza e la tristezza di un amore esaurito». Dello stesso il Croce ricorda solamente, con toni peraltro svogliati e indifferenti, le passeggiate, i giardini abbandonati, il desiderio sterile delle cose lontane, l’amore di chi è stanco di amare donne altrettanto esauste e «una vaga malinconia e nostalgia», sorte «dalla coppa della voluttà

34 B Croce, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, op. cit., p. 11 35 Ivi, pp. 13 - 14

36 Ivi, p. 12 37 Ivi, p. 29

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vuotata»38, sicuramente il tutto avvertito anch’esso come falso, nonostante l’assenza

dell’impeccabile puntualizzazione.

Sulla scorta del pensiero crociano, integralmente fondato sull’inattuabilità dell’interpretazione idealistica e filosofica dell’opera dannunziana, qualche anno dopo, nel 1909, un altro eminente scrittore e critico letterario, Giuseppe Antonio Borgese, denuncia nella sua monografia dedicata alla controverso Poeta peccatore «lo stato di paralisi, da cui sono nate le Elegie romane e, peggio assai, il Poema Paradisiaco»39. Borgese, volendo offrire

una lettura analitica di tipo cronologico, riassume nella sezione, denominata La crisi

sensuale, due dei tre esperimenti della Rosa (Il Piacere, Il Trionfo della Morte) e i tre capitoli

lirici (Intermezzo, Elegie romane, Poema Paradisiaco) del periodo romano - napoletano, individuando a buon diritto nel perno caratterizzante codesta stagione l’infelice «identità fra il desiderio e la cosa raggiunta» e la «soggettiva bramosia del mutamento». Purtroppo però l’indolente giudizio riservato in particolare al Poema, che sicuramente risente del parametro crociano, delude ancora:

«Celebri divennero invece le liriche del Poema Paradisiaco, ov’era raggiunto il nec plus ultra del languore. […] Sono larve di liriche piuttosto che liriche: svenevoli, circonfuse di un sudore molle che gocciola né si rapprende. Nell’anima del poeta una parola melliflua si ripete in echi successivi, che s’affievoliscono rimando; l’oziosa interrogazione trova ripetendo se stessa la sua risposta; l’immagine ricalcata, il ritornello querulo offrono una parvenza di continuità. Il pensiero poetico non procede, ma si ripiega su sé medesimo, e anche il nesso grammaticale s’è sciolto. Il cervello raccoglie, numerandoli, i sospiri d’un petto consunto, e li involge accuratamente nella bambagia rosata d’una strofa ove i versi s’assottigliano come tentacoli filiformi e la rima s’accascia stanca e da lungo tempo prevista.»40

Tra ombre invertebrate e verzura incontaminata sembrerebbe così consumarsi leziosamente il malinconico cammino d’una carne (falsamente?) stanca, aggrappatasi all’estremo palpito dell’intramontabile speranza dannunziana di un prossimo mutamento dello spirito stremato. Questo è quanto, anche se spaventosamente semplicistico. Non ancora soddisfatto appieno, Borgese allieta i lettori, dedicando l’ultima parte del suo volume ad un complessivo profilo 38 B. Croce, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, op. cit., p. 27 e p. 55

39 G. A. Borgese, Gabriele D’Annunzio, Milano, Mondadori, 1983, p. 63 40 Ivi pp. 63 - 64

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stilistico, linguistico e storico, tra le cui pagine spicca una bizzarra Sintesi della malattia

dannunziana. Dal Filosofo moralista già clinicamente ritenuto, insieme agli altri due colleghi,

Fogazzaro e Pascoli, un «malato di nervi», il D’Annunzio non si dorrà certamente stavolta di ricevere l’appellativo di «barbaro lussurioso e crudele»41 che, si badi bene, seppur

animalesco e fortemente materialista, può godere, in accordo con le esilaranti opinioni del Borgese, di una lussuria e di una crudeltà apprezzabilmente raffinate! E non solo: l’arte, il significato e la forza della sua barbarica opera deriverebbero, proprio da quelle stesse falsità e malattie che lo compongono e lo deturpano. La dannunziana malattia in questione vanta una vasta gamma sintomatica: la speciale falsità che «viene dal di dentro […] ove la pompa esteriore nasconde con cattiva coscienza la povertà della cosa detta», l’affezione verbale esemplificata da uno stile «tronfio e lungagginoso», nonché dalla decifrazione verbale del gesto istrionico, l’esenzione intellettiva, poichè «il cervello del D’Annunzio si mantiene quasi immune da leghe di meditazione filosofica» e «difetta di quella più comune virtù che per antitesi potremo chiamare intelligenza»42, e infine «l’impossibilità del riso, l’assenza di

gaiezza, d’umorismo, di scherzosa ironia», aspetti indicativi, sempre per il Borgese, di una deficienza connaturata all’ispirazione, di una superba consapevolezza della propria superiorità spirituale, «quasi teme, ridendo, di spogliarsi della sua dignità sacerdotale»43. In

conclusione «il D’Annunzio è un visitatore importuno cui si chiudono le porte e gli orecchi. Se non siamo disposti a sentirlo, la sua parola non ci vince»44. Nella fitta ed intricatissima

giungla delle innumerevoli e sconsiderate convinzioni valutative, ecco baluginare, tra le dissacranti parole del Borgese appena riportate, una sottile ma chiarificante considerazione. A livello esegetico e nel campo della ricezione il problema non riguarda troppo il confezionamento di norme rituali e canoniche che distinguano rigidamente il materiale poetico da quello non poetico, standard che del resto assai rapidamente mutano parimenti alla variazione delle esigenze culturali e sociali, alla trasformazione linguistica e all’affermazione di correnti letterarie o movimenti filosofici nei singoli paesi: infatti all’interno del ricchissimo deposito letterario italiano, tre soluzioni liriche con tematica affine, in questo

41 G. A. Borgese, Gabriele D’Annunzio, op. cit., p. 142 42 Ivi, p. 111

43 Ivi, p. 133 44 Ivi, p .117

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