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146 CAPITOLO VII

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Academic year: 2021

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CAPITOLO VII

LE ESPRESSIONI SUPERIORI DELLA MENTE

Siamo così arrivati ai vertici dell'evoluzione biologica, che ha finito per sganciarsi dalla sopravvivenza attraverso la creazione, oltreché della corteccia, del linguaggio e della coscienza razionale. Tuttavia è proprio a questo livello che si aprono delle difficoltà nell'edificio di comprensione della realtà fin qui costruito, perché di fronte alla coscienza fenomenica Boncinelli non riesce a classificarla nei tipi di realtà finora noti. Egli ne è ben consapevole, tanto da intitolare un paragrafo di uno dei suoi ultimi libri “La coscienza: 'la madre di tutti i problemi'”1

. La sua soluzione consiste nel dire che la scienza può e deve escludere dalla propria indagine questo

fenomeno come se non ci fosse, perché deve ignorare ciò che non capisce. IL LINGUAGGIO

La comparsa del linguaggio e del pensiero simbolico sfuggono per il momento alla spiegazione scientifica, ma non c'è ragione di pensare che essi non si basino sugli stessi principi biologici degli altri fenomeni evolutivi2. Dunque, anche in questo caso, sembra che il riduzionismo possa spiegarci tutto, tanto che Boncinelli è convinto che prima o poi si

scopriranno i geni del linguaggio3 o che tale fenomeno, come ho già detto, sia in futuro spiegabile con quella parte di DNA di cui non conosciamo le funzioni.

Il linguaggio è una caratteristica peculiare dell'uomo. Esso è, come afferma Chomsky, una funzione biologica4. È il risultato di modificazioni anatomiche e funzionali del nostro cervello, ma ha a sua volta operato nel cervello modifiche di questo tipo (d'origine biologica, forse, e non

genetica), allargando in primo luogo la capacità della nostra memoria5.

Boncinelli non crede che esso sia la logica continuazione della comunicazione prelinguistica e che abbia antecedenti negli altri animali. Anzi, al contrario che per Monod, per lui il pensiero pre-linguistico probabilmente non esiste6 e non esiste pensiero senza linguaggio.

Il linguaggio è stato reso possibile da strutture anatomo-funzionali preesistenti, cioè esistenti già in altre specie, ma aventi tutt'altre funzioni, probabilmente motorie7, come abbiamo visto alla fine del precedente capitolo.

Le parti della corteccia che vi sono preposte sono localizzate in area premotoria, e a pagina 97 di "Che fine ha fatto l'io?" Boncinelli afferma che il linguaggio è un'azione come un'altra,

caratterizzata però da un'amplissima libertà. La pronuncia di parole attiva un complesso di aree cerebrali, tra cui mi limito a citare l'area motoria, l'area prefrontale sinistra (che si attiva per le azioni volontarie; lesioni in quest'area provocano una mancanza di progettualità e di capacità di cambiare il proprio comportamento) e la corteccia cingolata sinistra (che si attiva nell'attenzione esecutiva richiesta nelle scelte e che si trova tra i due emisferi all'interno del sistema limbico); l'insula si attiva soltanto con la ripetizione di parole ascoltate. Rimando a "Il cervello, la mente e l'anima"(da pag. 161) una descrizione più dettagliata di queste aree.

1 Pag. 138 di “La vita della nostra mente”. 2 "La teoria dell'evoluzione oggi", pag. 18.

3 "Genoma: il grande libro dell'uomo", pag. 96 e 108. 4 "Che fine ha fatto l'io?", pagg. 173-4.

5 "Io sono, tu sei", pag. 114.

6 Vedi a pag. 209 della mia intervista. 7 "Lo scimmione intelligente", pag. 41.

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Esso costituisce un discrimine di tipo qualitativo, una rottura di simmetria irreversibile, che ci rende non più riconducibili agli animali, perché ci permette di entrare in contatto mentale con gli altri e di confrontare i nostri saperi e di cumularli; è quindi alla base dell'intera evoluzione

culturale. Parlando, non si comunicano soltanto i concetti ma anche i nostri schemi di valutazione, vale a dire i valori8

, che come abbiamo visto hanno una natura prevalentemente emotiva; quindi in tal modo implicitamente si comunicano e si confrontano anche i rispettivi mondi emotivi.

È forse nato insieme alla nostra autoconsapevolezza, perché è stato l'homo sapiens a sviluppare l'uno e l'altra, tanto che l'unica via per analizzare la nostra interiorità è parlare. Così come la coscienza, esso rappresenta qualcosa che è futile, cioè non è utile biologicamente, vale a dire che non nasce in funzione della sopravvivenza, ma forse è nato per caso e poi è stato conservato in quanto solo in seguito si è rivelato utile. Dunque, come la coscienza9, è un esempio di incidente congelato; non è arrivato perché serviva a qualcosa, ma dal momento che è venuto fuori è stato poi riciclato dalla selezione naturale (alla quale di nuovo bisogna riconoscere, malgrado l'intenzione di Boncinelli,un grandissimo potere!).

Il linguaggio ci ha educati ad una sempre maggiore serialità, che successivamente è cresciuta grazie anche alla scrittura, alla logica e alla matematica e che attualmente ha trovato il suo vertice grazie all'uso dei computer, che dunque ci può addestrare ad una logica e ad una razionalità sempre più stringenti. Tale uso per il momento modifica solo i fenotipi "ma potremmo aspettarci che qualcosa accada prima o poi più nel profondo. Allora una mutazione in senso genetico potrebbe preludere ad una ben più significativa Mutazione in senso culturale e

comportamentale." 10. Ciò deve essere inteso – suppongo - nel senso, come abbiamo visto nel capitolo dedicato agli strumenti, che l'esistenza di internet finisca per privilegiare alcuni soggetti portatori di mutazioni casuali che li rendono predisposti ad usarlo.

Occorre forse notare che proprio la serializzazione a cui il linguaggio ci abitua altro non è per Boncinelli che l'uso della consapevolezza, come vedremo nella metafora della clessidra11; ma più che di consapevolezza parlerei però a questo proposito di razionalità, a meno che non si circoscriva il termine a quel tipo particolare di consapevolezza che è quella razionale.

Nell'"Origine dell'uomo" Darwin osservava che il linguaggio non è un vero istinto, perché va imparato, ma che a differenza delle varie arti, tra cui anche la scrittura, è una tendenza istintiva, perché i bambini balbettano, mentre nessun bambino ha una naturale tendenza a scrivere o "a fare il pane". Dunque, questo vuol dire che è in parte innato e in parte appreso. Infatti esso è in parte a priori o per meglio dire genetico, nel senso che nasciamo predisposti al linguaggio. Boncinelli12 riprende da Chomsky l'importante distinzione - per quanto, come egli dice, non sia scientificamente provata – tra “competenza e “esecuzione”.

Una parte del linguaggio è innata, uguale per tutti i neonati del mondo. Si tratta di quella capacità generativa, e trasformazionale per cui data la semplice struttura di una frase se ne possono formare infinite altre. Non c'è una struttura fissa per ogni singola frase, ma una frase nasce dall'altra, per

8 "Io sono, tu sei", pagg. 114-115.

9 Dalla conferenza al CNR di Pisa dell'11.05.2011. 10 "Lo scimmione intelligente", pag. 81.

11 Ne parlerò da fine pag. 156.

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una capacità innata del nostro cervello, attraverso un albero di relazioni e di dipendenze gerarchiche. Esisterebbe quindi una struttura innata delle mente, che posta a contatto con una qualsiasi lingua permetterebbe la costruzione di tutte le frasi possibili. I bambini infatti sono predisposti, fino ai cinque mesi, ad imparare qualsiasi lingua, ma poi, messi a contatto con una lingua specifica, la imparano dimenticando nel frattempo tutte le altre possibili alternative fonetiche13. Altrettanto fanno con la grammatica.

Per poter parlare, sono necessarie tre diverse competenze: una logico-mentale, di natura insieme semantica, sintattica e grammaticale, una percettiva e una motoria-articolatoria. La parte sintattica è di tipo logico, è senza storia e dunque senza evoluzione ed è innata. La parte semantica ha invece una dimensione sociale e storica, perché viene appresa e dunque dipende dalla storia dell'individuo e della specie ed evolve con noi, in quanto il significato di una parola è dato dall'insieme delle frasi in cui l'abbiamo sentita usare14. Quindi la semantica è strettamente legata alla fetalizzazione, cioè all'educazione e all'esperienza nella fase iniziale della nostra vita, e non sarebbe forse possibile senza questa. Capire il significato di una parola è possibile infatti mediante un processo lento di stratificazione di tutti i suoi possibili significati15.

Chomsky - ci dice Boncinelli - limita la sua analisi alla sintassi, escludendo semantica e fonetica;

per quanto dunque il suo contributo sia enorme e condivisibile, non dobbiamo trascurare la semantica, che è fondamentalmente storica, dunque contingente e casuale, come contingente è la vita, non riducibile alla logica. Ridurla alla logica sarebbe come cercare di indovinare il nome di un bimbo solo guardandolo o visitandolo16.

L'apprendimento inizia fin dalla primissima infanzia ed avviene contemporaneamente su tutte e tre queste competenze.

Pare che l'apprendimento del bambino avvenga per classi di termini con la stessa valenza sintattica; si parla a questo proposito di "trascinamento lessicale-sintattico" ed infatti nel nostro cervello, come abbiamo visto, sono state individuate dalle moderne tecniche di visualizzazione differenti aree congenite o innate: per i verbi, per i nomi, per gli oggetti artificiali e per quelli naturali, etc. Mentre negli uccellini di nido l'apprendimento percettivo precede quello motorio, nell'uomo queste due fasi tendono a sovrapporsi. L'apprendimento percettivo in noi inizia nei primi giorni di vita, e fino al quinto mese si può dire che il bambino, in tutte le culture, sia un "ascoltatore universale", perché è in grado di distinguere tutte le possibili combinazioni fonetiche, proprie di tutte le lingue e dunque sarebbe capace di apprenderle tutte quante, almeno potenzialmente. Dopodiché, come Boncinelli ci descrive ne "L'etica della vita" alle pagine 121 e seguenti, il bambino comincia ad eliminare le combinazioni che non fanno parte del suo lessico, in un procedimento progressivo in cui tutto si coagula intorno ad un "unico centro di attrazione", cioè ad un fonema dominante che "risucchia" e annulla tutti quelli ad esso vicini. Dunque l'apprendimento di una o più lingue specifiche segnerà l'esclusione delle altre potenzialità presenti alla nascita. La lingua madre viene così ad avere un rilievo speciale, perché il cervello si struttura , attraverso le architetture sinaptiche, proprio in rapporto ad essa, che dunque non potrà essere più dimenticata, perché diventerà parte integrante del cervello, mentre le lingue che verranno apprese in seguito non potranno mai essere apprese così bene, ma saranno incorporate in maniera per così dire più posticcia.

Una cosa analoga succede per la musica, perché un bambino alla nascita è in grado di percepire tutte le possibili armonie, mentre successivamente si sintonizza solo su quelle proprie della sua cultura di appartenenza, escludendo le altre.

Nella lingua parlata, a differenza che in quella scritta, il flusso è ininterrotto, senza pause o cesure, e per distinguere le differenti parole isolandole occorre, oltre alla distinzione fonetica, una distinzione

13 "La vita della nostra mente", pag. 53-54. 14 "Lo scimmione intelligente", pag. 40. 15 "Mi ritorno in mente", pag. 132.

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secondo unità di significato. A far ciò aiutano da una parte gli elementi ritmici, cioè l'accentazione e la cantilena (tipiche di quel modo speciale di parlare che hanno le mamme coi loro bambini,

definito “matherese”), ma anche la rilevazione, che il cervello del bimbo è già in grado di fare, che ad un determinato suono - per esempio /bam/- probabilmente ne seguirà un altro a completarlo, come nel suono /il-mio-bam-bi-no/. Vale a dire che entra di nuovo in gioco l'aspettativa, cioè il confronto con ciò che è a priori e col nostro sapere pregresso.

Come in ogni percezione, quando si ascolta si svolge un confronto, prevalentemente

inconsapevole, ad opera della corteccia, tra le mie aspettative e la situazione presente, tra le mie conoscenze, innate o apprese, e l'evento che mi si para davanti. Vale a dire che è un confronto, un lavoro di spola tra passato – sia quello prossimo (dell'appena vissuto) che quello remoto (dei miei ricordi) - e futuro (esclusivamente prossimo, di ciò che sto per ascoltare)17. In tal modo la

conoscenza a priori mi permette di inquadrare, di capire, di anticipare la percezione in atto. Ascoltando un linguaggio conosciuto, noi individuiamo all'interno di un flusso continuo di suoni le singole parole grazie anche alla nostra capacità di anticiparne il “senso”, inviando la percezione del suono alla corteccia. Poi però verifichiamo se l'interpretazione è giusta rimandando la percezione in senso inverso, dalla corteccia all'udito. Se per esempio percepiamo qualcosa d'inatteso, che "non torna" rispetto alle aspettative, torniamo indietro con la memoria, alle parole o sillabe precedenti, per ricostruire un differente significato dell'intera frase. Per esemplificarlo, a pagina 96 di "Io sono, tu sei", scrive: " 'Il cane di mio zio corre in giardino' viene seguita progressivamente senza difficoltà, mentre 'Il cane di mio zio corre in Formula 1' richiede che, giunti alle ultime due parole, si torni indietro e si reinterpreti completamente la frase". C'è dunque un sapere “a monte”, a priori certamente, ma anche in parte derivato dalle mie esperienze

precedenti, che contiene le alternative possibili, così che non s'impara niente se già non si sa qualcosa: capiamo ciò che percepiamo quando riusciamo ad incasellarlo in classi di significato già predisposte in noi. Però deve esserci anche un meccanismo inverso, perché càpita talvolta che ciò che percepiamo non sia incasellabile

secondo i modi consueti e sia necessario rivedere tali classi o formarne di nuove; in tal modo ciò che percepiamo non solo è influenzato dalle nostre conoscenze precedenti, ma potrebbe a sua volta integrarle e modificarle, con un potere

creativo evidente, che come si è detto non può toccare invece gli schemi istintuali. Poiché tale lavoro è prevalentemente automatico, mi stupirei se non ci fosse “lo zampino “ dell'amigdala, che come sappiamo è proprio l'organo che richiama automaticamente attraverso un'emozione il succo e il senso delle esperienze pregresse e dei contenuti innati; dunque immagino che anche qui le emozioni giochino un ruolo di primo piano.

Rispetto alle aspettative globali di un discorso, quando inseriamo una parola in una frase c'è una doppia funzione: indicare qualcosa di specifico, ma anche escludere qualcos'altro, in modo da evitare ambiguità, perché l'informazione serve a ridurre l'incertezza.

Il linguaggio è caratterizzato, come il genoma, dall'essere articolato, vale a dire composto da un numero fisso di elementi, che collegandosi nei modi più svariati creano un insieme strutturale, per il quale dunque vale la prova di commutazione. Ciò vuol dire che per capire se in un discorso un certo elemento è significativo oppure no, controllo se la sua soppressione ne modifica o meno il senso; spesso un elemento è significativo perché la sua presenza serve semplicemente ad escludere qualcos'altro. Anche nel genoma la prova di commutazione esiste ed è eseguita in natura dalle mutazioni genetiche spontanee, che variando le basi azotate cambiano la funzione di quel gene, catalizzando una proteina diversa; anche qui la presenza di una base azotata talvolta serve

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semplicemente ad escluderne un'altra. Ma la eseguono artificialmente anche i genetisti che non sapendo cosa in particolare catalizzi una certa proteina procedono a eliminare una base azotata alla volta osservandone le conseguenze.

Ma il confronto con le aspettative non è solo interno al soggetto; si confrontano le aspettative di chi parla con quelle di chi ascolta e i differenti schemi di valutazione interpersonali, e ciò permette una crescita intersoggettiva, che sembra comportare anche un confronto, per quanto

limitato, tra i diversi mondi emotivi. Immagino che tutto ciò avvenga più che altro in modo inconsapevole o che arrivi alla nostra consapevolezza razionale solo in una misura minima.

Il linguaggio, come il codice genetico, è arbitrario o convenzionale, nel senso che una parola non ha una corrispondenza naturale con ciò a cui si riferisce, e noi abbiamo visto che tale caratteristica è indice di complessità.

Inoltre il linguaggio è discontinuo, vale a dire discreto, come discontinue sono le nostre

rappresentazioni sensoriali e mentali a differenza del "cuore"18, che invece è continuo e sempre presente, a riprova della stretta connessione tra linguaggio e razionalità.

Il linguaggio c'insegna a distinguere e separare gli oggetti: "il mondo viene ritagliato in cose anche perché esso viene comunicato a parole". Ciò risulta evidente anche dal fatto che i sostantivi sono molto più numerosi dei verbi e i bambini li imparano cinque volte prima dei verbi; perciò c'immaginiamo che il reale sia fatto prevalentemente da oggetti singoli, proiettando su tutto la nostra individualità. Questo dipende certamente dalla bassa temperatura della Terra, che permette una certa stabilità delle cose e ha creato e ne sottolinea la loro individualità. Ma nel lungo periodo nulla è davvero stabile ed ogni oggetto si riduce ad un evento, perché tutto, compresa la materia inorganica, si trasforma. La differenza tra oggetti ed eventi è dunque solo di tempo, ovvero "il mondo", come ripete Boncinelli citando Wittgenstein e affermando di essere in sintonia con lui e con Hermann Weyl19, "è la totalità dei fatti, non delle cose"20. Per riconoscere un evento occorre

un'attenzione particolare, che confronti i vari momenti, che individui un inizio e una fine e tutto ciò è molto soggettivo, perché le delimitazioni sono arbitrarie. Questo, come vedremo, è alla base delle varie forme di racconto, che nuovamente frammentano lo scorrere, che è continuo, in sequenze separate e discrete. Infatti la nostra attenzione è sempre focalizzata intorno a ciò che è individuale, e che più ci preme: l'"hic et nunc", che nel Medioevo era definito il problema della haecceitas, e che è anche alla base della coscienza. Questo vizio di scomporre il mondo ad immagine del nostro

linguaggio e dei nostri sensi, o, come egli dice con una bellissima espressione icastica, di "procustizzare" il mondo21, rendendolo adeguato ai nostri desideri e alle nostre aspettative, di reificare tutto rendendo individuale ciò che non lo è, ha prodotto irresolubili e interminabili questioni filosofiche, in base a cui finiamo per "trattare le ombre come cosa salda"22. Infatti ci

induce erroneamente a credere che per ogni parola o concetto esista sempre un oggetto corrispondente.

Con questa affermazione sul mondo come totalità di eventi, il suo pensiero si salda con l'idea della vita come fiamma, come unico evento che assume temporanee forme individuali. Tutto questo contrasta però con l'affermazione kantiana che non

18 "Io sono, tu sei", pag. 166.

19 Citato a tale proposito a pag. 88 di "Che fine ha fatto l'io?".

20 Si tratta infatti esattamente della famosissima prima sotto-proposizione - la 1.1 - del suo "Tractatus logico-philosoficus".

21 "Io sono, tu sei", pag.80. 22 "Io sono, tu sei", pag. 128.

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possiamo conoscere il mondo di per sé, per quanto Boncinelli affermi di

condividerla (del resto, anche le sue affermazioni sulla natura discreta o continua della realtà sono diverse e tra loro in contrasto, perché talvolta sostiene che la materia così come la luce non è né l'uno né l'altro23

, ma talaltra sembra avere una risposta certa, come quando afferma che "l'apparente continuità e solidità della materia che ci circonda non può illuderci sulla sua vera consistenza, che è discontinua e granulare, fino al livello delle molecole e degli ioni." 24 )

LA COSCIENZA

In uno dei suoi primi libri, "I nostri geni", che è del 1998 scriveva:"Esiste qualche punto di

discontinuità lungo il tragitto che va dalla cellula all'integrazione operata dal sistema nervoso, poi al controllo delle azioni quotidiane e infine alla percezione di sé al centro del gran teatro del mondo? Questa è una delle domande più interessanti e importanti che l'uomo si sia mai posto e prende usualmente il nome di problematica del rapporto mente-corpo o, meglio, mente-cervello. L'ipotesi più semplice che si possa fare è che lungo questo tragitto non ci sia nessuna reale discontinuità. Questa resta a tutt'oggi l'ipotesi più ragionevole. " E proseguiva (a pag. 162): "Non c'è alcun motivo a priori per considerare i fenomeni psichici come diversi da quelli fisici, se non che in quelli psichici gli elementi della realtà sociale, che possono

emergere dall'ambiente familiare e extrafamiliare, hanno un peso maggiore". Infatti (stesso testo, pag. 169):"L'organico non può che essere la base dello psichico anche se questo ha la possibilità di vivere una sua vita autonoma". Fin qui infatti la sua descrizione del mondo appare coerentemente monista, riduzionista, "emergentista"25

e il mentale deriva da ciò che è materiale.

Gli esperimenti di Sperry e Gazzaniga su soggetti con rescissione del corpo calloso dimostrano che si evidenzia in tali casi una coscienza dell'emisfero sinistro diversa da quella dell'emisfero destro26, a riprova della dipendenza della coscienza dal cervello e dalla fisicità.

Occorre inoltre osservare che la coscienza ha sempre un contenuto, è cioè coscienza di qualcosa. Questo qualcosa è ciò che viene trasmesso dai sensi, dunque la coscienza esiste in quanto esistono questi e il mondo materiale, esterno o interno che sia; non c'è coscienza se non in rapporto al mondo. Questo contenuto prevede anche, almeno potenzialmente, l'esecuzione di un'azione. Dunque la coscienza ha anch'essa una natura mista, perché è un percepire e un progettare, cioè un osservare per fare, come il linguaggio.

In "Verso l'immortalità" a pag. 207 distingue i contenuti della coscienza (ricordi, attitudini,

propensioni) dalla loro gestione, la quale ultima potrebbe avere una localizzazione nella corteccia prefrontale laterale. Dunque fin qui la coscienza viene completamente definita

attraverso il riferimento alla vita materiale: al cervello da cui deriva, al percepito che appartiene alla realtà, al movimento.

Come egli riferisce nel suo ultimo libro27, le recenti ricerche del neuropsichiatra Giulio Tononi col suo "coscienziometro"(con cui si misurano gradi differenti e sempre più bassi di coscienza là dove manchi il linguaggio) sembrano dimostrare che la coscienza comporta il coinvolgimento di tutto quanto il cervello. Essa corrisponderebbe infatti ad un avanzamento del segnale nervoso da una

23 "La serva padrona", pag. 105. 24 “Mi ritorno in mente”, pag. 95.

25 Troviamo questo termine a pagina 88 del terzo volume de "La realtà e il pensiero". 26 Pagg. 77-78 di "Pensare l'invisibile".

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zona cerebrale all'altra, mentre la sua mancanza coinciderebbe con un ristagno di questo segnale nel luogo dove si è generato. Questo spiega forse la sensazione che abbiamo di unità e di totalità in rapporto alla nostra coscienza individuale.

Già ne "Il cervello, la mente e l'anima" a fine pag. 205 c'era una prima definizione di coscienza, strettamente connessa alla memoria a breve termine, e anche nelle opere successive questa

somiglianza viene ribadita. Entrambe non hanno una sede precisa; stanno certamente nel cervello, ma un po' dappertutto e non in una sola area; entrambe, come vedremo, hanno la stessa durata. Ciò forse fa sì che Franco Mangia a pagina 68 di "Pensare l'invisibile" osservi che dalla coscienza Boncinelli sembra escludere ogni aspettativa sul futuro. Ma si tratta di una svista, perché proprio l' "aspettativa", che si proietta nell'immediato futuro, è indispensabile per capire la coscienza, esattamente come per il linguaggio, perché è dalla memoria delle esperienze passate (oltreché dalle nozioni genetiche) che si forma un'aspettativa di ciò che sta per accadere, così che anche la coscienza deriva, proprio come il linguaggio, da un continuo lavoro di spola tra passato e futuro. Quindi la coscienza, per quanto somigli molto alla memoria, in particolare alla memoria di lavoro, è qualcosa di più, perché opera un confronto tra questa e la percezione; mentre infatti la memoria è qualcosa di unico, una specie di contenitore, anche se si arricchisce continuamente, la coscienza sarebbe una funzione di interrelazione, tra memoria e aspettativa, tra passato e futuro, che si forgia nel "qui e ora" del presente dinamico, confrontando le aspettative, cioè la memoria, con la realtà esterna e col corpo, in funzione di un possibile movimento che si collocherà in un futuro più o meno prossimo. Dipenderà

dall'ampiezza della memoria la capacità di rinviare la nostra risposta nel tempo; quindi la progettualità a lungo termine, la nostra capacità di costruire il futuro, sembra proporzionale all'ampiezza della nostra memoria.

Il tema della coscienza è ciò che pone Boncinelli a stretto confronto con la filosofia. Infatti egli afferma che si tratta di un "enigma" di cui neanche si dovrebbe parlare, perché "è tardi per la filosofia e presto per la scienza", vale a dire che la filosofia ne ha detto tutto - e anche tutto il contrario... - mentre la scienza non è ancora attrezzata per studiarlo. Allora qual è lo spazio in cui Boncinelli si colloca, visto che questo è diventato l'argomento centrale dei suoi scritti da ben tredici anni?

Abbiamo visto quanto egli solleciti a non fare affermazioni gratuite e "chiacchiere" sganciate dalla realtà, a non porsi problemi scientificamente non risolvibili, ma anche quanto al contempo egli sappia apprezzare ad esempio le idee "preveggenti" di Darwin e riconosca l'apporto nel proprio e nell'altrui percorso scientifico di visioni o “insight”. Egli sostiene che quando non c'è ancora una verifica sperimentale, sono ammesse speculazioni e "idee", che si spera siano in futuro

verificabili28. Tutto ciò sembra contrastare con l'affermazione che il pensiero razionale debba sempre appoggiarsi alle "sensate esperienze", ma ci sono

interrogativi e pensieri che possiamo formulare e lasciare in sospeso in attesa di una futura verifica esperienziale.

Questo secondo me crea lo spazio a considerazioni di tipo filosofico e le sue considerazioni sulla coscienza s'inseriscono proprio in questo spazio e possono essere definite a mio parere proprio d'ordine filosofico: una filosofia delle ipotesi provvisorie, che attende future possibili conferme dalla scienza, che stimola forse quest'ultima ad affrontare ciò che è più importante tra quello che ancora non si conosce.

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Nonostante che la scoperta dell'inconscio risalga a Freud, dunque a tempi piuttosto recenti, esso costituisce da sempre la nostra realtà più rilevante. Quasi tutto ciò che accade dentro di noi, nel nostro corpo e nel nostro sistema nervoso centrale, nelle nostre sinapsi, è inconscio e non se ne può dunque parlare; il nòcciolo della nostra percezione sensoriale e anche della nostra memoria non sono necessariamente coscienti29. La coscienza è "una lenticchia nel mare"30,"un isolotto nel mare del subsimbolico e del parallelo", cioè una parte minuscola rispetto al resto. Osservo che una proporzione analoga è quella che egli vede tra razionalità e emotività, e ciò probabilmente già indica la stretta parentela che c'è per lui tra razionale e

cosciente. Occorre dunque casomai spiegare cosa sia l'eccezionalità della coscienza, visto che il normale svolgimento delle cose del mondo avviene in maniera inconscia.

La coscienza, insieme con l'individualità - che essa presuppone - e col linguaggio (che è nato contemporaneamente alla coscienza sia da un punto di vista ontogenetico che filogenetico), costituisce uno degli apici dell'intero sviluppo della Terra. Si tratta di una proprietà emergente, come tutto ciò che è mentale, grazie a cui la vita è diventata capace di riflettere su se stessa.

Abbiamo visto che "un embrione di coscienza"(ma non ancora razionale, immagino) deriva forse dalla “teoria della mente” e dal fenomeno fisiologico e irriflesso dei neuroni-specchio, attraverso cui riconosciamo gli altri simili a noi31, e che la “teoria della mente” come la coscienza probabilmente nasce grazie alle cure parentali32. Avendo osservato che i neuroni-specchio, che sono alla base della teoria della mente, operano non solo in noi ma anche in altri animali, immagino che derivino forse dalla socializzazione, ma non dalla fetalizzazione, perché questa è solo umana. Al contrario la coscienza, se qui

s'intende quella razionale, deriverà da questa nostra fase infantile, mentre ciò non dovrebbe valere per la consapevolezza del corpo, che hanno anche gli animali. La coscienza è forse la più alta creazione della corteccia ed è definita "inaccessibile"33 proprio perché dipende dall'unicità irripetibile del nostro cervello e delle sue connessioni, per cui è

anch'essa altrettanto unica e irripetibile (ricordo che l'unicità del cervello individuale e della stessa cellula è dovuta prevalentemente al caso e in secondo luogo alle esperienze di vita, perché

geneticamente i cervelli sono tutti molto simili; quindi questa inaccessibilità non è un'esclusiva della coscienza. Con tutto ciò, essa in condizioni normali è assente, non è che un'eccezione. È attraverso un'attività inconscia non solo del cervello ma dell'intero sistema nervoso che le idee si formano in noi, anche se finiscono per appartenerci veramente solo quando arrivano alla nostra consapevolezza34.

Distingue, sulla base degli strumenti che abbiamo per indagarla - dunque, come egli dice35, da un punto di vista più metodologico che ontologico - tre diversi livelli di coscienza36:

1. la "consapevolezza", che è propria degli animali, ma che caratterizza anche noi nelle azioni spontanee37. Per come ce la descrive, essa sembra caratterizzare le azioni automatiche e istintive; io sono infatti consapevole di un mio movimento o

29 Pagina 178 di "Mi ritorno in mente". 30 “Lo scimmione intelligente”, pag. 165. 31 "Mi ritorno in mente", pag. 180. 32 "Le forme della vita", pag. 154. 33 Pag.74 di "Io sono, tu sei". 34 "Come nascono le idee", pag. 7. 35 "Lo scimmione intelligente", pag. 159.

36 Ne "Il cervello, la mente e l'anima" definiva la coscienza anche come sintesi di mente computazionale e di mente

fenomenologica (pag: 279), che poi coincide con la definizione di anima (pag. 281).

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sentimento anche se non so perché è nato, sono consapevole di un'idea che mi è venuta anche se non controllo le connessioni necessarie a costruirla; sono consapevole di ciò che vedo o sento anche se non riesco a descriverlo. Io preferirei parlare di consapevolezza fisica o del corpo.

2. la "coscienza esplicitabile condivisa", cioè l'autocoscienza, il sapere di essere coscienti; è accompagnata da meditazione e consiste nel poter parlare della propria consapevolezza, dunque nell'essere coscienti di esserlo (o "autocoscienza"). Si tratta evidentemente di un tipo di coscienza che può essere definita mentale. Essa nacque probabilmente uno o due milioni di anni fa insieme col linguaggio, ed è difficilmente distinguibile da questo, tanto che quasi vi si identifica; entrambi questi fenomeni sono certamente38 semplici incidenti congelati, nati per caso, non funzionali in origine alla sopravvivenza, ma furono conservati perché non lesivi. Come il linguaggio, non serve a nulla (nel senso che non nasce con finalità biologiche), ma dal momento che c'è è meglio usarla che non usarla39. Coscienza e linguaggio dettero l'avvio all'evoluzione culturale e hanno una natura mista, perché stanno tutti e due tra percezione e motricità, tra memoria dichiarativa e memoria procedurale. Entrambi – questo tipo di coscienza e il linguaggio - ci distinguono dagli animali e tale differenza, diversamente da quel che pensa Giorello, non è puramente quantitativa ma è qualitativa. Infatti, nessun uomo, neppure nelle peggiori patologie psichiche, sarà davvero come un animale, perché, se l'antica origine è comune, lo sviluppo biologico è un punto di non ritorno. L'evoluzione è irreversibile e ha creato qualcosa di totalmente diverso e irriducibile, così che bisogna considerare l'uso del linguaggio come una discriminante fondamentale40.

3. la "coscienza fenomenica", che sembra la fonte di tutti i guai del pensiero di Boncinelli, la cui esistenza egli talvolta afferma e talaltra nega41, consiste nella specificità incomunicabile delle proprie percezioni. Fa riferimento ad un articolo del 1974 diThomas

Nagel intitolato "Cosa si prova ad essere un pipistrello?" per descrivere questo tipo di

coscienza. Afferma che forse si tratta soltanto di una “coloritura emotiva” inessenziale, mentre tutto ciò che è essenziale da un punto di vista pratico sta interamente nel secondo livello42. Per descriverla, a pagina 175 di “Mi ritorno in mente”, scrive: “Osservando alcuni oggetti e vivendo determinati avvenimenti posso provare, e in effetti provo, sensazioni molto personali estremamente difficili da comunicare agli altri. Un orologio, una penna o a maggior ragione una foto possono avere per me, e solo per me, un significato speciale e assolutamente soggettivo.” Si tratta dunque della risonanza emotiva di pensieri e percezioni e non mi pare che ci sia niente di più rispetto alla prima forma di consapevolezza. La coscienza fenomenica se davvero esiste in noi esiste anche negli animali, anche se non possiamo saperlo con certezza visto che essi non parlano. Anzi, forse primo e terzo livello di consapevolezza "potrebbero anche essere la stessa cosa", visto che "mi domando se si può essere vivi senza avere un terzo livello di

coscienza"43 (e su questo sarei perfettamente d'accordo, perché sono persuasa anche gli animali abbiano un mondo emotivo). Ciò che cambia tra noi e gli animali è che questi hanno poca concentrazione e poca memoria, e questa è una differenza

importante, perché la memoria è alla base della coscienza. Nel suo ultimo libro afferma che

38 A pag. 65 di "Che fine ha fatto l'io?"scrive: "come biologo so – una volta tanto posso davvero usare questa

espressione: so – che la coscienza e il linguaggio sono accidenti."

39 “Che fine ha fatto l'io?”, pag. 50. 40 " Che fine ha fatto l'io?", pag. 132.

41 A pag. 52 di "Che fine ha fatto l'io?"scrive: "E infine, in omaggio ai filosofi e dunque a te, ammetto un terzo

sostantivo - della realtà del quale tuttavia dubito sempre di più- che è la coscienza fenomenica."

42 "Lo scimmione intelligente", pagg. 186-187. 43 ""Che fine ha fatto l'io?", pag. 182.

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forse la coscienza fenomenica deriva dalle altre due, deriva dalla percezione sensoriale e dal dolore, dal desiderio sessuale e alimentare e dal loro soddisfacimento44. A pagina 188 di "Che fine ha fatto l'io?" scrive giustamente: "Mi rendo conto che oscillo tra una posizione estrema – per cui un po' di coscienza (fenomenica) ce l'hanno tutti, animali

compresi – e una posizione di segno opposto in cui la coscienza (fenomenica) non serve a nulla. Tuttavia abbiamo detto che con ogni probabilità è inevitabile, ma non abbiamo ancora detto a che cosa serve; quindi le due cose non sono così in contrasto". Si tratta, per come la definisce in "Che fine ha fatto l'io?" a pagina 192 di un "rumore di fondo"- inevitabile e inutile- di un meccanismo perfettamente funzionante, e tale definizione coincide, più o meno, con quella che usa per l'”io” nell'ultimissima pagina di "Mi ritorni in mente". Infatti essa è ciò che ci fa dire "io"45. Tale coscienza è definita "ineffabile"46 in quanto sfugge alla ricerca scientifica, almeno per il momento, e la scienza deve prenderne atto ed evitare il problema. In “Quel che resta dell'anima”, parlando evidentemente di questo tipo di coscienza la chiama “presa di coscienza personale” e afferma che rappresenta "un salto logico e metodologico"47 in quanto fa per la prima volta incorrere in difficoltà nella spiegazione dei meccanismi della mente48. Essa, insieme con il collettivo è ciò che più si avvicina all'idea di anima; infatti scrive:" In tutti i casi abbiamo concluso che ai nostri giorni non ha più senso parlare di anima tranne che in due, molto diversi tra di loro: la mia personale presa di coscienza di questo o quell'evento e l'idea di quello che abbiamo chiamato il collettivo umano"49. Il concetto di anima infatti rischia di saltar fuori quando si pone, in me e solo in me, il problema di come i neurostati possano convertirsi in psicostato50 - momento in cui misteriosamente avviene il passaggio

dall'inconscio al conscio, vale a dire “la mia personale presa di coscienza”-. Come già sappiamo, chiama “realtà transmateriali”51 sia la coscienza fenomenica che il Collettivo, perché non hanno più niente di materiale e sembrano sganciati ed autonomi dalla realtà. Osserva che sia l'una che l'altro poggiano su due basi: il linguaggio e la coscienza52 (evidentemente quella esplicitabile cioè linguistica) senza i quali non potrebbero esistere. Io non capisco la necessità che la coscienza fenomenica si basi sul linguaggio, e dunque sulla coscienza esplicitabile, perché la pittura e la musica ad esempio secondo me comportano forme di consapevolezza non necessariamente linguistica. Forse è proprio la necessità che egli vede di un fondamento linguistico che gli impedisce di ridurre questa coscienza a quella del primo tipo, che io chiamo del corpo. Se la coscienza fenomenica

rappresenta il mondo incomunicabile delle emozioni personali, che sono per noi la cosa più preziosa e che meglio ci definisce, mi sembra più probabile che essa si fondi piuttosto sul meccanismo dei neuroni-specchio, sulla

proiezione di sé negli altri e degli altri nel sé, che anche per Boncinelli è alla base della formazione della coscienza, evidentemente pre-linguistica; essa comporta il confronto dei valori e dunque delle emozioni e caratterizza noi

44 "Quel che resta dell'anima", pag. 38. 45 "Mi ritorno in mente", pag. 175. 46 "Quel che resta dell'anima", pag. 58.

47 L'espressione ricorda quella già riferita con cui Giovanni Paolo II definiva l'origine dell'uomo, e

ciò forse indica che entrambi sono di fronte ad un problema analogo, ad un fenomeno cioè che non riescono a catalogare.

48 "Quel che resta dell'anima", pag. 87. 49 "Quel che resta dell'anima", pag. 159. 50 Pagg. 29-30 di “Quel che resta dell'anima”. 51 “Lo scimmione intelligente", pag. 174. 52 Pag. 160 di “Quel che resta dell'anima”.

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come gli altri animali riportandoci alla consapevolezza fisica o di tipo 1.

I primi due livelli di coscienza sono osservabili dall'esterno, attraverso lo studio comportamentale, e perciò sono indagabili e indagati dalla scienza (la coscienza condivisa può essere in più anche oggetto di colloquio), mentre la coscienza fenomenica non può essere oggetto di scienza, perché solo ciò che è riproducibile, non soggettivo e non individuale53, può esserlo, e la coscienza

fenomenica è un unicum irripetibile, un hapax54. Essa può essere “studiata” unicamente attraverso l'introspezione, a cui però Boncinelli nega qualsiasi valore oggettivo e scientifico. Non possiamo infatti essere coscienti dei meccanismi inconsci della mente ed è perciò che non possiamo usare l'introspezione per analizzarla.

Con tutto ciò, critica l'atteggiamento di coloro che negano la possibilità per l'uomo di conoscere la mente, come se fossimo affetti da "scotoma cognitivo"55, confermando la sua inossidabile fiducia nella scienza.

Boncinelli distingue l'"io" come soggetto della coscienza fenomenica, incomunicabile anch'esso, dal "me", che è il soggetto frammentario e studiabile scientificamente di quella condivisa.

Nonostante questa triplice distinzione, Boncinelli parla poi di coscienza molto spesso, come già abbiamo visto, senza specificare, intendendo di solito quella di secondo livello, che più caratterizza l'uomo e che può essere studiata. Questo induce un po' di confusione nella lettura dei suoi testi. Per esempio,egli afferma che mentre i fenomeni nervosi sono di tipo parallelo, quando arrivano alla coscienza e alla verbalizzazione vengono messi in ordine uno dopo l'altro, vengono cioè "serializzati", in un

processo inconscio e irreversibile. Senza serialità non c'è né coscienza né linguaggio né razionalità. Il modo seriale - ci dice a pagina 128 di "Tempo delle cose, tempo della vita, tempo dell'anima"- comporta l'esecuzione di un'operazione dopo l'altra, mentre quello parallelo comporta l'esecuzione di tali operazioni in contemporanea. Questa serialità è evidentemente quella razionale o esplicitabile; la coscienza in generale non è necessariamente seriale, perché ci sono moltissimi fenomeni di cui siamo coscienti (dal mal di denti – come lui stesso dice - ai sentimenti, etc) senza aver messo in fila i pensieri o controllato le

connessioni logiche. La coscienza sembra un fenomeno più ampio della razionalità e non necessariamente seriale, a differenza di questa, a meno che non si

circoscriva il discorso alla sola coscienza esplicitabile.

Per descriverci la coscienza, ancora senza specificare di quale coscienza sta parlando, ma riferendosi implicitamente a quella di secondo tipo, Boncinelli ricorre alla bella metafora della clessidra. Nello sforzo di ordine e di serializzazione, che costringe i messaggi nervosi ad allinearsi, si può immaginare che si formi una specie di strettoia a forma d'imbuto. Ci sarebbero molti messaggi che si affollano intorno a tale strettoia, vicinissimi ad entrarvi (che sono forse precoscienti) e ciò spiega perché talvolta alcuni sogni o visioni o, come Boncinelli li chiama, "insight" portino a scoperte o intuizioni a cui non si è riusciti ad arrivare consapevolmente. Quando

non riusciamo tanto bene ad esprimere un concetto o un'immagine è perché questi non ci sono abbastanza chiari e non sappiamo serializzarli completamente; quest'operazione comporta uno sforzo cosciente, come quando si dice che una cosa ce l'abbiamo "sulla punta della lingua"56; è

53 "L'universo della coscienza", pag. 46. 54 "Io sono, tu sei", pag. 162.

55 "Il cervello, la mente e l'anima", pag. 291; tale definizione, come dice Boncinelli nel congedo, la si deve a Braitenberg.

56 Quando Boncinelli parla del tempo, citando S. Agostino afferma di sapere cos'è, ma di non saperlo dire. Sembra

dunque averne una coscienza di primo tipo, emotiva e primaria, che non è ancora esplicitabile e sequenziale.

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irreversibile e può essere còlto solo soggettivamente, non può essere indagato dall'esterno. (La fase in cui i neurostati si affastellano intorno alla strettoia potrebbe forse rappresentare la consapevolezza o coscienza di tipo 1). Siccome però all'attimo di coscienza segue di solito un'azione (vengono cioè messi in moto dei muscoli), in cui i messaggi diventano nuovamente paralleli tornando verso il corpo, allora si può paragonare la coscienza, più che ad un imbuto, ad una clessidra.

La coscienza (esplicitabile) sarebbe quindi la fase della serializzazione in cui i neurostati, di natura sensoriale o mentale, si trasformano in psicostati e tale processo è irreversibile, così che dallo psicostato non si riesce più a risalire ai relativi neurostati. Questa serializzazione comporta talvolta, ma non sempre secondo Boncinelli, uno sforzo cosciente, perché mettere in ordine le idee non è né facile né sempre automatico e necessita di un processo attenzionale. Ma tutto ciò più spesso avviene secondo lui in maniera inconscia (e qui chissà che non si riferisca al livello 1 di

coscienza). E si domanda: mentre dall'interno so quando sono cosciente, cosa posso osservare dall'esterno per distinguere un processo inconscio da un altro anche temporaneamente cosciente? Come posso descrivere la coscienza in maniera non soggettiva?57 L'ipotesi più plausibile è che la coscienza emerga, come abbiamo detto, quando il cervello è coinvolto interamente, globalmente dal segnale, cosa che potrebbe fondare la nostra sensazione di totalità e indivisibilità dell' “io”58.

Gli studi sperimentali affermano che durante questa serializzazione i neuroni passano da

un'oscillazione elettrica disordinata ad una sincrona e ordinata; uno stato di coscienza sarà tanto più profondo quanto più neuroni sono numerosi e sincronizzati59.

L'irreversibilità di tale meccanismo genera – afferma Boncinelli - la sensazione dello scorrere del tempo interiore, nel senso della successione dei "qui e ora" di cui parlava sant'Agostino60.

Si tratta dunque di una coscienza episodica, di un "presente dinamico", di una collezione di atomi, di successivi "qui ed ora" da cui sono continuamente distratto, e che hanno una lunghezza

temporale variabile, di almeno un terzo di secondo (che è il tempo minimo per interpretare qualcosa, vale a dire perché arrivi a coscienza) e non superiore alla durata della nostra memoria a breve termine; dura dunque da due a cinque secondi, diciamo in media tre secondi. "Quella che noi chiamiamo coscienza o vita interiore è quindi una collezione di atomi di presente"61.

Ognuno di questi episodi si chiude quando la mia percezione cessa di essere conforme all'aspettativa62. C'è questo continuo lavoro di spola tra memoria e percezione, "un continuo traghettare il possibile nel reale", in cui la percezione è sempre finalizzata all'azione, magari solo potenziale. L'attimo di presente appena chiuso va a finire nella memoria e se ne apre un altro. Questa mi pare la miglior definizione che fin qui Boncinelli abbia dato della coscienza; se l'attimo di coscienza si chiude quando non è più conforme alle mie aspettative, deve evidentemente trattarsi del confronto e dell'interazione tra i miei a priori e conoscenze precedenti e l'esperienza attuale, tra il sapere che ho

ereditato geneticamente o che ho già acquisito e quello che costruisco adesso, consapevolmente o meno. Questo confronto è il nòcciolo dell'apprendimento e dell'evoluzione interiore, che continuamente cambia le mie aspettative, a

dimostrazione che ciò che è a priori viene integrato e forse modificato nella mia percezione individuale, anche se ciò non è ereditabile in quanto non entra nel genoma.

57 A questo proposito si possono leggere le sue considerazioni sul test di Turing e sulla stanza cinese di Searle in “Il

cervello, la mente e l'anima”, pagg. 282-4.

58 "Mi ritorno in mente", pag. 199. 59 "Io sono, tu sei", pag. 163 in fondo. 60 "Io sono, tu sei", pag. 164.

61 "Io sono, tu sei", pag. 168.

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Gli attimi di coscienza somigliano molto ed hanno la stessa durata temporale della nostra memoria di lavoro o a breve termine, ma non vi si identificano, perché, come si è detto, operano il confronto tra memoria e percezione attuale. Però questo “attimo di presente” mi sembra che non sia necessariamente legato né al linguaggio né alla serializzazione e neppure dunque alla coscienza di secondo tipo; esso può accogliere una serializzazione, quindi un attimo di coscienza razionale, allo stesso modo che un attimo di coscienza fisica o del primo tipo. Dunque questa collezione di atomi di presente sembra rappresentare di nuovo una forma più vasta e generale di coscienza, che non si limita a quella esplicitabile.

In conclusione, la coscienza appare più "un affioramento di processi nervosi subsimbolici inconsci caratterizzato da una specifica colorazione emotiva, non un centro di produzione di pensieri stessi e ancora meno di atti di volontà" 63, come ben sappiamo dagli esperimenti di

Libet. In questo caso mi pare che però egli debba limitare il discorso alla sola

coscienza esplicitabile, e che tale chiarimento ci eviterebbe degli apparenti

paradossi. Come infatti ho già osservato, gli esperimenti di Libet indicano sì che la coscienza arriva in ritardo rispetto all'azione, purché s'intenda che stiamo parlando di coscienza esplicitabile o mentale che dir si voglia, mentre non indicano nessun ritardo nella coscienza del primo tipo, assolutamente irriflessa, che è quella del corpo. Altri esperimenti della psicologia sperimentale avevano già prima dimostrato che la consapevolezza di un pericolo, per esempio la presenza di un bambino di fronte a noi quando percorriamo in auto una strada, avviene quando già il nostro piede ha azionato il freno. Non siamo consapevoli di questo ritardo per via degli "imbrogli" della corteccia, che riscrive gli eventi secondo il suo ordine. È certamente per una consapevolezza del corpo irriflessa che io freno prima ancora di esserne razionalmente consapevole, ma non si tratta di

inconsapevolezza vera e propria! Se è il mio corpo che frena e io sono il mio corpo, allora sono io che freno, prima ancora di averne una consapevolezza razionale! Allo stesso modo posso sentire un sentimento, e comportarmi di conseguenza, senza esserne razionalmente cosciente; ma in tal caso non si dovrà dire che sono incosciente: si potrà solo dire che forse sono irrazionale. Tutto questo è

perfettamente coerente con l'idea di coscienza come qualità emergente del corpo; sarà dapprima nata la coscienza di primo tipo e successivamente, per una sorta di riflessione su se stessa, quella di secondo tipo, che è una meta-coscienza.

Osservo infine che la collezione di attimi di presente, in cui la nostra coscienza consiste, rappresenta nuovamente un fenomeno discreto, come tutti quelli che avvengono nel sistema nervoso. Dunque, anche se la nostra coscienza dinamica può darci il senso profondo della nostra identità, non può darci però il senso della continuità del nostro essere.

ANCORA SULLA COSCIENZA FENOMENICA

Abbiamo già visto che Boncinelli a proposito dell'esistenza della coscienza fenomenica fa affermazioni diverse e tendenzialmente contraddittorie di cui egli stesso è ben consapevole. Sostiene anche, polemicamente, che sono (solo) i filosofi che ne parlano e che ne sentono la

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necessità64 , quando invece è evidente che tale urgenza è anche sua. Con ciò egli sembra testimoniare, suo malgrado, la necessità di uno spazio di riflessione filosofica, che tracci anche una direzione alle future indagini della scienza.

Ne "La vita della nostra mente" del 2011, scrive65:"Rimane sempre il problema della terza forma di coscienza, quella fenomenica, e del suo rapporto con la mia individualità. Rimango io, insomma, con le mie sensazioni e in presa diretta con me stesso. Qualcosa di cui non dubito e che mi è estremamente presente66"Nello stesso anno, a pag. 74 de "Il mondo è una mia creazione"scrive :"Al momento non è chiaro se questa terza forma di coscienza sia

effettivamente una coscienza e se sia necessaria perché la nostra mente possa funzionare o perché una qualsiasi intelligenza possa funzionare. È una questione aperta, soggetta a una quantità rilevante di ambiguità, ma possiamo momentaneamente assumere che esista. Ovviamente riferita agli altri Sé sulla base dell'analogia con il mio proprio vissuto".

Queste due affermazioni sembrerebbero contraddittorie, ma non lo sono, perché egli non dubita della sua propria esistenza, e neanche della sua personale

coscienza fenomenica, che è un "dato primario"(forse questo significa che

appartiene alla coscienza di primo tipo). Invece, è l'esistenza degli altri e della loro coscienza fenomenica che può essere dedotta (con strumenti evidentemente

razionali legati alla coscienza esplicitabile) in via ipotetica o ricavata dalla “teoria della mente”, in un quadro di solipsismo che Giorello rileva e che Boncinelli stesso ammette67

.

Evidentemente nel corso del tempo si persuade sempre di più dell'esistenza di questa forma di coscienza, pur continuando a ripetere "se questa esiste"(vedi pag. 198 di "Mi ritorno in mente"). Già la distinzione tra res dividua e res individua 68non ha senso se non per l'esistenza di questa forma di coscienza, che è l'unica cosa che “sfugge alla realtà”e che non fa parte della res dividua69.

A pagina 248 di "Mi ritorno in mente" afferma : "Solo le cose divisibili periscono, al momento della disconnessione delle parti che le compongono" e da ciò traiamo la conclusione che per lui la coscienza fenomenica e l'”io” – se esistono – non possono morire.

Questa coscienza fenomenica viene descritta come qualcosa di inutile ma ineliminabile: "Deve trattarsi di un'imperfezione, di una sbavatura, di un refuso, di una circostanza sopravveniente, di un epifenomeno, di una complicazione non voluta e non essenziale, del rumore che una macchina in azione inevitabilmente fa. Oppure, chissà, servirà invece a qualcosa."70

Più che inconoscibile (è infatti ben presente al soggetto stesso, appunto come dato primario) è incomunicabile, privata e inesplorabile, vale a dire che non è studiabile

oggettivamente, scientificamente, almeno per il momento; può essere solo indagata mediante l'introspezione, che però non è uno strumento affidabile.

Se fin qui aveva affermato che per spiegare la realtà non occorre supporre l'esistenza di Dio, adesso tutto cambia, perché sembra esistere nella nostra vita

64 “Le tre età della mente”, pag. 196. 65 Le sottolineature sono entrambe mie. 66 "La vita della nostra mente", pag. 165.

67 Scrive ad esempio a pag. 13 di "Mi ritorno in mente": "che io esisto non v'è dubbio: negarlo sarebbe una

contraddizione in termini".

68 Essa compare – mi sembra - per la prima volta ne “Lo scimmione intelligente”, pag. 14. 69 Pag. 198 di "Mi ritorno in mente".

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quotidiana qualcosa che non fa parte della realtà, che sfugge alla scienza, e che dunque riapre un possibile spazio per spiegazioni di altro tipo. L'essenza della coscienza fenomenica – egli ribadisce - consiste probabilmente nella sua molteplice coloritura emotiva71. Forse le emozioni delle quali Boncinelli non si fida sono alla base dei guai che gli combina questo concetto di coscienza fenomenica. Se soltanto il mondo emotivo è continuo e persistente – come Boncinelli afferma – bisognerebbe

dedurne che non se ne può fare a meno, se vogliamo trovare la nostra continuità e identità. Ricordo che una delle sue critiche nei confronti della filosofia è che essa non si accorge della permanenza nell'uomo. Tale permanenza certamente è data dal genoma72, che come sappiamo si esprime principalmente attraverso i nostri

comportamenti automatici, che fanno capo al “sistema decisionale 1” e dunque alle emozioni. Ma mentre gli attimi di coscienza sono una collezione continuamente interrotta, le emozioni sono – come egli stesso afferma – un continuum.

Abbiamo visto che i nostri comportamenti (che si basano non solo sugli istinti ma anche sulle emozioni), in virtù del fatto che noi impariamo per tutta la vita, anziché essere rigidamente previsti in un programma chiuso, com'è per molti animali, si arricchiscono continuamente di possibilità alternative che si basano sulle nostre esperienze. In tal modo ogni concetto e ogni parola evoca nella nostra coscienza fenomenica un bagaglio di contenuti diversi che variano anche profondamente da individuo ad individuo, perché derivano da esperienze e apprendimenti individuali e perciò

differenti. Ad ogni concetto, parola o frase noi colleghiamo "un senso", che riassume, in una specie di sintesi storica attraverso un'emozione, tutte le connotazioni e le sfumature di cui le nostre esperienze passate l'hanno caricato e che formano uno schema di aspettative per il futuro. Tutto ciò è alla base del fascino, della ricchezza e della complessità che troviamo soprattutto nell'arte e nella creatività, ma determina anche la nostra difficoltà ed impossibilità di comprenderci l'un l'altro fino in fondo, di comunicare profondamente . Ogni termine è polisemico ed evoca per ognuno concetti e ricordi differenti, e quando parliamo si finisce per litigare - anche quando saremmo sostanzialmente d'accordo - soltanto perché le parole hanno sfumature di significato differenti per l'uno e per l'altro, evocando emozioni differenti. Per tale ragione sarebbe necessario definire all'inizio di ogni conversazione i termini che usiamo, perfino nella vita di ogni giorno! L'incomunicabilità di questo schema di aspettative che va a costituire la mia

coscienza fenomenica caratterizza anche i contenuti della consapevolezza di primo tipo e perfino le mie percezioni sensoriali, perché non riuscirò mai a far capire, per esempio, cos'è che vedo quando osservo un determinato colore, anche se

Boncinelli, nell'intervista che mi ha rilasciato, afferma che "c'è incomunicabile e incomunicabile"73. Egli stesso riconduce l'assoluta inaccessibilità, d'origine

evidentemente biologica, della coscienza individuale al fatto che ogni cervello è qualcosa di assolutamente unico e originale, perché plasmato da esperienze e da casi diversi 74

. L'inaccessibilità varrà dunque per qualsiasi fenomeno mentale e percettivo, anche se il mondo emotivo è certamente più complesso, spesso

inconsapevole e carico di risonanze. E se incomunicabilità e privatezza valgono non solo per la coscienza fenomenica ma anche per la coscienza di primo tipo, ciò mi conferma il sospetto che potrebbe trattarsi di un'unica forma di coscienza.

71 "Il mondo è una mia creazione", pag. 93.

72 In “Che fine ha fatto l'io?” a pag. 198 scrive:”L'unica cosa autentica che ho, è il mio genoma”. 73 Dall'intervista, a pag. 209.

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LA FORMAZIONE DELLA COSCIENZA INDIVIDUALE

Poiché la coscienza è una qualità emergente "degli aggregati di certi tipi di circuiti neuronali"75 anche nella vita personale essa non è presente fin dall'inizio, ma compare ad un certo punto dello sviluppo.

Quand'è che nasce dunque nella vita individuale? È difficile dirlo, ma certamente non prima che si attivi il sistema nervoso, cosa che avviene verso la ventitreesima settimana dello sviluppo

embrionale. Qui Boncinelli sta evidentemente parlando della coscienza di primo livello, perché quella di secondo livello non può che nascere nei primi anni di vita, visto che coinvolge il linguaggio.

In "Mi ritorno in mente", nel paragrafo intitolato "L'origine della coscienza" da pagina 177

Boncinelli riassume i vari modi in cui autori differenti ritengono che la "coscienza primaria" abbia origine. Non ci dice cosa significhi questo attributo: "primaria", ma nel proseguimento del discorso sembra confermare che si tratti di quella di primo tipo.

Gerald Edelman crede che essa derivi dal funzionamento sensoriale e dal quadro che me ne faccio,

ma Boncinelli osserva che tutto ciò funziona anche senza la coscienza. Antonio Damasio reputa invece fondamentale il mondo emotivo. Il neurobiologo Derek Denton ritiene che essa si formi in base all'enterocezione, cioè in base ai bisogni primari e alla loro soddisfazione o insoddisfazione. Probabilmente, osserva Boncinelli, sono vere tutte queste affermazioni; occorre tutto ciò che questi autori hanno detto ed inoltre occorre anche la propriocezione, perché tutte queste cose servono per poter agire e dunque sono all'origine della coscienza, dal momento che essa è finalizzata all'azione.

Jaak Panksepp non a caso mette alla base della coscienza le funzioni motorie e perciò tira in ballo il

concetto di intenzione. Alla base della coscienza, già di primo livello, vi sarebbe infatti per

Boncinelli una doppia natura, una natura mista: percettiva e motoria, o quanto meno di progetto di azione, come nei neuroni-specchio, che certamente hanno un ruolo significativo per la nascita della coscienza, visto che ci permettono di comprendere fisiologicamente, prima di qualsiasi riflessione, che gli altri funzionano proprio come noi e sono come noi.

È tra gli otto e i quindici mesi che un bambino impara a capire la corrispondenza tra oggetti ed immagini riflesse; verso i diciotto mesi, mediante una reazione di evitamento della propria

immagine, comincia a distinguere sé dal resto del mondo e verso i ventiquattro mesi raggiunge una vaga consapevolezza che il bimbo visto nello specchio è lui stesso. La "coscienza di sé" (che corrisponde evidentemente a quella esplicitabile condivisa) forse inizia verso i tre anni, quando comincia l'uso corretto dei pronomi personali di prima e seconda persona, così che il bimbo può dire: "(Quello) sono io"76.

Ma finché la memoria non interviene, attraverso il potere "legante" dei ricordi, non si può avere una vera e propria coscienza di sé; ciò avviene attraverso due fasi importanti, una prima fase tra i tre e i cinque anni ed una seconda tra i cinque e i sette. Sappiamo che per Boncinelli la memoria è strettamente legata alle emozioni, e dunque di nuovo le emozioni diventano parte integrante della coscienza di sé.

La consapevolezza o coscienza nel funzionamento nervoso arriva a cose fatte, perché, come dice Gazzaniga, "la mente è l'ultima a sapere" (sempre che per mente, come dice Boncinelli, s'intenda la coscienza; ed io aggiungo: quella di secondo livello), anche se – continua Boncinelli – “è pur sempre l'unica” (ad essere capace di sapere).

Abbiamo riferito a pagina 127 il famoso esperimento coi pulsanti di Benjamin Libet, che dimostra che il nostro cervello conosce la nostra decisione ancor prima di noi. Perciò Boncinelli conclude

75 "Il cervello, la mente e l'anima", pag. 21.

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che mezzo secondo è ciò che separa la mente dal cervello77. Sappiamo che Boncinelli quando parla di mente parla di solito di quella computazionale, escludendo la psiche, che comprende anche le emozioni e consiste in tutto ciò che avviene, anche

inconsapevolmente, nel corpo; dunque mente computazionale, razionalità e

coscienza di secondo livello tendono in lui a coincidere. Forse il nostro corpo "sa" prima ancora che noi ne siamo coscienti; questo sapere è forse la consapevolezza di primo tipo, propria anche degli animali, che è una consapevolezza del corpo o, se vogliamo, della psiche.

Tutto ciò non stupisce: se la corteccia ha quasi esclusivamente un'azione inibente, la volontà consapevole, che è legata alla corteccia, consisterà nel non fare

qualcosa, mentre la volontà di fare – anche soltanto premere un pulsante - sembra più che altro qualcosa di automatico, forse di istintivo o di emotivo.

Pare dunque esserci una certa corrispondenza tra coscienza di primo livello e “sistema decisionale 1”, così come sembrano corrispondere la coscienza di secondo livello e il “sistema decisionale 2“. In fondo non siamo poi troppo complicati e

basterebbe dire che procediamo esclusivamente col sistema emotivo e con quello razionale, anche per quanto riguarda la coscienza.

Damasio definisce "estesa" la coscienza di livello più avanzato, che forse corrisponde a quella esplicitabile di Boncinelli. Essa necessita sicuramente di uno stato di veglia e di attenzione. Lo stato di veglia contrapposto al sonno necessita dell'attivazione del sistema reticolare ascendente, che è una costellazione di circuiti nervosi del tronco encefalico che lo mettono in connessione con la corteccia. Per potervi accedere occorre il linguaggio, che non nasce nell'individuo dall'inizio e improvvisamente, ma si forma anch'esso nel tempo. Ma a sua volta il linguaggio, essendo una comunicazione, presuppone la coscienza dell'altro, che forse diventa una specie di modello per edificare il proprio Sé: ciò conferma che ci costruiamo, e costruiamo la nostra coscienza, a partire dall'interrelazione sociale. Sappiamo anche che attraverso il

linguaggio si comunicano anche i nostri valori, dunque le emozioni che essi sottintendono, a conferma che la nostra coscienza, compresa quella esplicitabile, ha un

fondamento emotivo.

L'individualità abbiamo visto che non esiste nel mondo subatomico; si tratta di una qualità

emergente78 che certamente già esiste a livello di molecole e macromolecole, ma è solo nel mondo animale e in quello umano che trionfa 79.

Nel singolo organismo umano l'individualità è qualcosa che non inizia dal concepimento, ma appare durante la vita, perché anche qui occorre oltre al patrimonio genetico l'apporto della società,

attraverso l'educazione, e quello del caso80. La percezione che io ho del mondo si forma dal confronto con quella altrui e da tutte le descrizioni che l'educazione e la cultura apportano. Man mano che avanzano le epoche storiche, la discrepanza tra ciò che percepiamo autonomamente e ciò che emerge dal confronto col Collettivo è sempre più grande.

Per quanto riguarda il terzo tipo di coscienza, quella fenomenica, Boncinelli non

77 Pag. 67 di "Mi ritorno in mente". 78 "Io sono, tu sei", pag. 22.

79 Vedi la Prefazione a "Io sono, tu sei", da pag.3. 80 Vedi a pag. 73 di "Pensare l'invisibile".

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affronta neanche il problema di quando essa inizi, forse perché non gli è ben chiaro se essa esista davvero o sia solo un'illusione.

LA CONTINUITÁ

Se di me stesso – si chiede Boncinelli - ho dunque una percezione soltanto del "qui e ora", se la mia coscienza è frammentata ed episodica, se come per i sensi ci troviamo ancora di fronte ad un

fenomeno discreto, com'è che arrivo al senso di continuità del mio io, visto che tutti noi sentiamo noi stessi come qualcosa di unitario? Per spiegare dunque l'unità e la continuità, pur nella

frammentarietà dei vari attimi di coscienza, devo forse- si chiede - ipotizzare l'esistenza di un centro specifico che la opera? Si deve pensare all'Io penso cartesiano o all'Io trascendentale kantiano? Una prima risposta è che ci arrivo per ragionamento81, in quanto è la corteccia che rende tutto unitario e mi crea la sensazione convinta che esista l'”io”. In realtà c'è una molteplicità di funzioni svolte autonomamente dai vari organi, talvolta in maniera sequenziale e consapevole ma più spesso in maniera parallela e inconscia; però la corteccia costruisce un'unità che non c'è ma in cui noi crediamo fermamente. L'”io” sarebbe in tal caso di nuovo una razionalizzazione senza fondamento, una costruzione puramente illusoria.

Ma altrove e più spesso la risposta di Boncinelli è di altro tipo.

A dare unità è perfettamente sufficiente il flusso continuo dei processi paralleli relativi sia al corpo che alla psiche, che continua anche quando si dorme, di cui una minima parte, momento dopo momento, viene serializzata ed emerge alla coscienza; è la continua propriocezione del proprio corpo, l'insieme dei ricordi personali e il fatto che gli altri ci trattano e ci riconoscono sempre allo stesso modo. Si tratta di processi non necessariamente attivi, ma anche passivi, come il subire le azioni altrui o come il leccarsi, che negli animali dà un forte senso d'identità perfino maggiore che in noi, che per una tradizione inibente abbiamo un cattivo rapporto col nostro corpo82. Ciò che avviene in noi fisiologicamente anche se non cosciente può avere ripercussioni sul mentale (vedi per esempio i processi ormonali). La maggior parte delle cose che avvengono in noi sono non coscienti, dai fenomeni strettamente biologici alla maggior parte dei neurostati; perfino talvolta la vista o l'udito sono inconsci (come nella visione cieca). La continuità è data dunque dalla nostra biologia, esiste anche mentre dormiamo, non è qualcosa che si spenge e accende, anche se è vero che "appena ti svegli, accendi il riflettore"83. "La continuità sta nell'inconscio, se vogliamo chiamarlo così; ma possiamo anche chiamarlo non conscio, preverbale, sub-simbolico e via discorrendo.84" E termina dicendo che insomma è data dal corpo e non da un ipotetico “io”85. Questo tipo di continuità non è certamente qualcosa di illusorio, come quella data dalle unificazioni corticali.

In tutto ciò, l'”io” risulta inessenziale: è forse anch'esso, come la coscienza fenomenica, soltanto un "refuso", "un rumore di fondo" inutile ma ineliminabile, come accade in un meccanismo ben oleato. L'ipotesi della sua esistenza deriva probabilmente da quella più antica di avere un'anima86. Pare dunque che “io” e coscienza fenomenica – se esistono - siano estremamente simili, e che rappresentino il corpo, che invece è certamente reale. Questa risposta

81 "Che fine ha fatto l'io?", pag. 75. 82 "Che fine ha fatto l'io?", pag. 71. 83 "Che fine ha fatto l'io?", pag. 77. 84 "Che fine ha fatto l'io?", pag. 77.

85 "Che fine ha fatto l'io?", pag. 80, dove scrive: "Imperversa, invece, una tendenza svalutativa del corpo che ci

porta a prendere continui abbagli, al punto che dire che la nostra continuità è data dall'io ci piace, mentre dire che la nostra continuità è data dal corpo non ci piace."

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