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Università degli studi di Pisa

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Academic year: 2021

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Università degli studi di Pisa

Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica

Corso di Laurea Magistrale in Lingua e Letteratura Italiana

Titolo della Tesi:

Calvino e gli Stati Uniti: dal Diario americano a America paese di Dio

Candidata:

Giada Del Debbio

Relatore:

Prof.ssa Angela Flora Guidotti

Correlatore:

Prof. Vinicio Pacca

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Indice

Introduzione p. 5

CAPITOLO I

1. Il mito americano p. 8

1.2. I topoi letterari ricorrenti

1.2.1 L’arrivo a New York p. 12

1.2.2 Gli italo-americani p. 16

1.2.3 La donna americana p. 18

1.2.4 La questione razziale p. 24

1.2.5 La religione e il costume p. 27

1.2.6 L’American way of life p. 32

1.2.7 L’American dream p. 41

CAPITOLO II

2.1. Un ottimista in America

Premessa p. 45

2.1.1 Il viaggio negli Stati Uniti p. 45

2.1.2 Dal diario dei primi giorni a New York p. 48

2.1.3 Diario del Middle West p. 54

2.1.4 Gli altri diari p. 55

2.2. I temi

2.2.1 La sociologia e il calderone p. 57

2.2.2 Il profondo Sud p. 61

2.2.3 La donna americana p. 65

2.2.4 La religione e l’America repressiva p. 67

2.2.5 L’American way of life e la generazione beatnik p. 70

2.2.6 Il consumismo e la miseria in America p. 75

2.2.7 L’America, l’Europa e l’Unione Sovietica a confronto p. 78

CAPITOLO III

3.1. America paese di Dio p. 84

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3.2.1 La situazione economica p. 99

3.2.2 La situazione sociale p. 104

3.3.3 L’impianto mitico-immaginativo p. 112

CAPITOLO IV

L’America e le città invisibili

4.1 Le città invisibili e New York p. 118

4.2 Architettura, verticalità e geometria p. 122

4.3 Le città continue e l’America p. 124

4.4 Altri collegamenti con Le città invisibili p. 132

Conclusioni p. 139

APPENDICE I

Tabelle sinottiche p. 143

APPENDICE II

Trascrizione del testo di America paese di Dio p. 170

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Introduzione

Fra il novembre 1959 e il maggio 1960 Italo Calvino fece il suo primo, lungo viaggio negli Stati Uniti, un viaggio che per varie ragioni si può definire «iniziatico». Visse soprattutto a New York, la città da lui più amata, che lo assorbì «come una pianta carnivora assorbe una mosca». Visitò numerosi stati e centri urbani – Cleveland, Detroit, Chicago («la vera città americana, produttiva, materiale, brutale»), San Francisco, Los Angeles, Montgomery, New Orleans, Savannah («la più bella città degli Stati Uniti»), Las Vegas, Houston – incontrando scrittori, editori, agenti letterari, ma anche uomini d’affari, sindacalisti, attivisti per i diritti civili (primo fra tutti Martin Luther King), gente comune.1

Tra il novembre 1959 e il maggio del 1960, Italo Calvino si trova in America come inviato della casa editrice Einaudi, per la quale lavora. Durante il suo soggiorno egli ha modo di visitare non soltanto New York, ma anche buona parte degli Stati Uniti seguendo un itinerario ben preciso, che lo porta dal Middle West alla costa ovest, poi in Texas e per finire negli stati del South; nel frattempo annota appunti e prime impressioni, che vengono raccolte e pubblicate dopo la morte dell’autore sotto il nome di Diario americano 1959-1960.

Una volta tornato in Italia, Calvino mette nuovamente mano ai suoi scritti che vanno a costituire il racconto di viaggio Un ottimista in America, che vedrà la luce solo nel 2014, in quanto Calvino rinuncia a pubblicarlo, pur avendolo corretto in bozze. Decide tuttavia di farne uscire alcuni estratti su rivista, che sono stati successivamente raccolti nelle Corrispondenze

dagli Stati Uniti (1960-1961).

Lo scopo di Calvino non è tanto quello di raccontarci la sua esperienza privata (tanto che le pagine di diario più personali vengono stralciate nelle edizioni successive) quanto piuttosto quella di fornirci una fotografia del quadro sociale americano in un dato momento storico: così l’autore pone l’attenzione sui dettagli, sul modo di vivere, sui racconti, sugli aneddoti, senza però far mancare l’aspetto critico e la fine ironia che caratterizza solitamente i suoi scritti.

Così facendo Calvino si inserisce all’interno di una tradizione già ben consolidata: la celebrazione del “mito americano”, molto diffusa ed amata dalle masse popolari, un po’ più

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estranea, invece, alla tradizione letteraria italiana. Nel primo capitolo dell’elaborato metteremo in luce alcuni aspetti legati al mito: la sua formazione, il suo rapporto con il fascismo, la contrapposizione, così accanita, tra americanisti e antiamericanisti. Vediamo come, in mezzo a queste due “fazioni”, si trova invece la posizione mediana degli autori che, come Calvino, essendosi in prima persona recati in America, ne scrivono in maniera disincantata e realistica, superando i limiti imposti dalla concezione mitica: nell’analizzare i quattro reportage di viaggio di Giuseppe Antonio Borgese, Emilio Cecchi, Mario Soldati e Guido Piovene, abbiamo estrapolato i temi principali, i topoi del viaggio in America.

Passiamo poi al vivo dell’analisi riguardante Un ottimista in America, la cui evoluzione rispetto alle edizioni precedenti è messa in evidenza nelle tabelle sinottiche che riportiamo nell’Appendice I. Il secondo capitolo mette in luce non solo le differenze strutturali fra un’edizione e l’altra, come la composizione e l’ordine dei capitoli, ma delinea i temi principali dell’opera: Calvino, molto interessato agli aspetti sociali dell’America, espone le sue impressioni su temi molto delicati. Uno dei più importanti è sicuramente la questione razziale, poiché in questi anni iniziano le rivendicazioni per la parità dei diritti civili capeggiate da Martin Luther King, alle quali l’autore assiste in prima persona; ma non mancano osservazioni sociali altrettanto importanti, come le riflessioni sul divorzio e sulla posizione della donna nella nuova società, sul difficile rapporto con l’Unione Sovietica e con il comunismo, sugli effetti che il capitalismo ha sulle nuove generazioni: da un lato efficienza e servizi, ma dall’altro la rivoluzione di un movimento giovanile che non tollera di doversi inserire all’interno del ciclo della produzione e si ribella alle leggi dei padri, la beat generation.

Il terzo capitolo invece è incentrato principalmente sul rapporto che lega Calvino con il cinema: infatti, nel 1966, l’autore si incarica di scrivere il testo del documentario America

paese di Dio, realizzato da Luigi Vanzi. Dopo un capitolo introduttivo che descrive in generale

il rapporto che lega Calvino con l’esperienza cinematografica, entriamo nel vivo dell’analisi del documentario, trascritto da noi e riportato nell’Appendice II. L’America che ci viene presentata è molto cambiata dal primo viaggio: dopo la presidenza Kennedy e la distensione dei rapporti con l’Unione Sovietica, adesso tutte le energie sono concentrate e rivolte alla conquista dello spazio, che potrebbe stravolgere la visione del mondo. L’utilizzo della pellicola permette di mostrare immagini che in Un ottimista in America potevano essere descritte solo in maniera astratta, risultando così meno dirette: ad esempio, per quanto Calvino potesse descriverci i quartieri poveri degli Stati Uniti, ben altra cosa è poter vedere con i propri occhi la miseria

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degli abitanti dell’Appalachia. Nell’effettuare la nostra analisi abbiamo individuato tre filoni di lettura principali: uno economico, uno sociale e uno mitico-immaginativo.

Ma l’esperienza americana non si limita alla produzione di Un ottimista in America o del testo di America paese di Dio: gli Stati Uniti sono ben presenti anche negli anni successivi nell’immaginario calviniano; infatti alla base di molte città invisibili dell’omonimo romanzo del 1972 si può leggere in filigrana la conoscenza di tante città reali americane, come New York, Los Angeles, Cleveland, Detroit. Nel quarto capitolo passiamo all’analisi più approfondita di quest’aspetto: dopo esserci soffermati in particolare su New York, e dopo aver sottolineato la predilezione di Calvino per le città che si estendono in verticale (New York) o in maniera lineare (Los Angeles), passiamo a vedere quanto la serie de Lecittà continue sia legata

agli Stati Uniti: ritroviamo importantissimi temi come la critica al consumismo e allo spreco; la mancanza di centro della città americana; l’esigenza tutta americana allo spostamento di interi quartieri; più in generale, la doppia natura degli Stati Uniti, il paese dove, se da un lato abbiamo ricchezza e benessere, dall’altro c’è la parte sfruttata e più povera, necessaria forse anche più dell’altra, e ad essa strettamente legata.

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Il mito americano

Il reportage di viaggio di Calvino si inserisce all’interno di una lunga tradizione di scritti che riguardano gli Stati Uniti; l’attenzione degli italiani per il Nuovo Mondo si può dire che nasca nel 1876, la data ufficiale dell’avvio dell’immigrazione italiana di massa, e a partire da quella data il mito americano si consolida sempre di più nel nostro paese.2 Inizialmente questo interesse sembra influire molto sulla massa dei contadini e poco sulla tradizione letteraria: arrivano nei paesi le foto dei primi migranti, il primo veicolo di informazione per la nascita del mito della ricchezza che fa presa sulla popolazione che non sa né leggere né scrivere3; al contrario, rimane inascoltata la denuncia di molti intellettuali dell’epoca, che tentano di smascherare il fatto che, in America, gli italiani vengono sfruttati e mal pagati, e pertanto invitano i cittadini a non emigrare.4 Sicuramente, un ruolo fondamentale per la nascita del mito americano è stato giocato anche dal cinema hollywoodiano: al contrario di quello italiano, proiettato più verso la forma artistica, quello americano porta in scena personaggi nuovi, spesso uomini che si sono fatti da soli, contribuendo quindi notevolmente a diffondere l’opinione che in America sia molto facile il raggiungimento della ricchezza e della realizzazione personale.5

Se da un lato abbiamo una concezione entusiastica (ma non verificata di persona) della massa, dall’altra vi è una demonizzazione dell’America intrapresa a più riprese dal regime fascista, che con il Nuovo Mondo adotta un comportamento altalenante: se inizialmente, infatti, il Regime guarda con favore alle terre oltreoceano (fino almeno al 1924, quando il presidente Wilson dispone severe restrizioni all’immigrazione italiana), in seguito invece i rapporti si incrinano, specie tra il 1936 e il 1939, anni in cui l’Italia inizia a guardare con favore alla Germania nazista e ad approvare le leggi antiebraiche.6 Ovviamente, nel clima di terrore che nasce a seguito della presa di potere di Mussolini, moltissimi tra i suoi oppositori e tra gli intellettuali di sinistra vedono nell’America la terra della salvezza, e soprattutto

2

Ambra Meda, «Paese Moloch» o «Eden paradisiaco»? Gli Stati Uniti d’America nella letteratura d’inizio ‘900 fra

realtà e immaginazione, in La letteratura degli italiani. Rotte confini passaggi, Genova, 15-18 settembre 2010, a cura di

Alberto Beniscelli, Quinto Marini, Luigi Surdich, Novi Ligure, Città del silenzio edizioni 2012, p. 1 (si cita dall’estratto).

3

Ambra Meda, cit., p. 2.

4

Ambra Meda, Al di là del mito: scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti, Firenze, Vallecchi 2011, p. 15.

5

Ambra Meda, «Paese Moloch» o «Eden paradisiaco»?, p. 3.

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della libertà, contribuendo anch’essi a sviluppare un’idea utopica di terra ideale, che aveva poco contatto con la realtà.7

Tuttavia, secondo Dominique Fernandez, il mito nella tradizione intellettuale italiana non si forma contemporaneamente al regime fascista, ma nasce almeno otto anni dopo la marcia su Roma, e sopravvive alla morte di Mussolini, almeno fino al 1950, anno del suicidio di Cesare Pavese, autore che contribuisce non poco alla nascita e allo sviluppo dello stesso.8

Sempre secondo Fernandez, il mito comincia a diffondersi proprio grazie alla censura fascista, che impediva di leggere le opere americane in lingua originale, con il risultato che diventava più difficile farsene un’idea diretta (al contrario di quello che, invece, succedeva in Francia)9, aumentando la diffusione di false idee e preconcetti; inoltre, sempre secondo l’autore, proprio (ed esclusivamente) a causa dell’esistenza del fascismo e delle conseguenti limitazioni alla libertà di stampa, gli intellettuali italiani, non potendo più esprimersi liberamente in patria, iniziano a guardare con favore oltremare.10

Questa posizione, tuttavia, è stata ampiamente superata e dibattuta da studiosi più recenti, come Ambra Meda e Claudio Antonelli, che trovano la spiegazione di Fernandez troppo semplicistica. Tra le cose che Antonelli osserva si può innanzitutto notare che anche in Francia, intorno agli anni Trenta, era nata un’opposizione culturale molto forte verso la modernità proposta dagli Stati Uniti11; verrebbe smentita pertanto l’ipotesi che l’antiamericanismo vada di pari passo con il pensiero politico, poiché il regime fascista vigeva solo in Italia, e non si spiegherebbe questo rifiuto mosso dai francesi. E comunque l’opposizione tra americanisti e fascisti non può essere così netta, visto che ci sono anche stati, in Italia, alcuni fautori del regime che tuttavia si sono espressi in maniera favorevole sugli Stati Uniti, come ad esempio il figlio di Benito Mussolini, Vittorio, che dichiarò di amare il jazz, il cinema e la letteratura d’oltremare.12

Per quanto riguarda invece gli oppositori al fascismo, in certi casi il loro filoamericanismo è stato dettato da ragioni politiche, in altri da cause puramente letterarie. Mentre l’Italia deve sottomettersi al regime dittatoriale e xenofobo, da una parte proietta le sue speranze di

7

Ambra Meda, Al di là del mito, p. 18.

8

Dominique Fernandez, Il mito dell’America negli intellettuali italiani dal 1930 al 1950, Caltanissetta, Salvatore Sciascia 1969, pp. 11-12.

9

Fernandez, Il mito dell’America negli intellettuali italiani, p. 16.

10

Fernandez, Il mito dell’America negli intellettuali italiani, pp. 11-17.

11

Claudio Antonelli, Pavese, Vittorini e gli americanisti: il mito dell’America, Bagno a Ripoli, Edarc Edizioni, 2008, p. 29.

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democrazia verso il Nuovo Mondo; ma dall’altra, teme che quelli che in Italia vengono sentiti come disvalori possano corrompere il sistema di vita italiano, e pertanto denigra molti aspetti dell’American way of life, riflettendo un senso innato di paura per il progresso.13 Così da una parte alcuni autori esaltano eccessivamente l’America, senza mai esserci stati; dall’altro, altri la accusano senza pietà, senza difendere quasi nulla del suo sistema di vita; infine, altri ancora, cioè quelli che in America ci vanno personalmente, scrivono i resoconti più sinceri, ma spesso anche crudi e disincantati, elogiando i meriti del Nuovo Mondo senza ignorarne i difetti.14

Così abbiamo, da una parte, gli americanisti, come Pavese e Vittorini, che in America non ci sono mai stati e che compongono i più elevati elogi dell’America. Come osserva Antonelli, «Vittorini e Pavese si guardarono bene dal “consumare”, attraverso l’esperienza diretta, anche se da semplici turisti e quindi comodamente e senza rischi, quell’amore che li aveva fatti tanto spasimare. All’invito di varcare il Rubicone, risposero entrambi negativamente»15. Secondo Antonelli questo accadde perché è molto più facile amare qualcosa che è lontano dalla nostra realtà e che abbiamo conosciuto solo tramite un romanzo o una cronaca: possiamo goderne seduti in poltrona, senza cambiare le nostre abitudini e la nostra città, e magari idealizzandolo. Così per Pavese l’America diventa il luogo dell’utopia, consapevole che la lontananza è necessaria per alimentare un mito.16 Chi invece davvero ha affrontato il viaggio, si è trovato spiazzato dalla nuova realtà, dall’impatto con Little Italy e dal modo di vivere degli italo-americani, e osserva lo spaesamento degli emigranti, che è ben lontano dal mito della terra promessa così tanto pubblicizzato in patria; e così autori come Borgese e Soldati, pur ammirando molti aspetti del Nuovo Mondo, sono tra i primi a metterne in luce le mancanze.

Nella nostra analisi, prendendo in considerazione quattro dei letterati che fisicamente si recarono in America, ossia Mario Soldati, Emilio Cecchi, Giuseppe Antonio Borgese e Guido Piovene, abbiamo provato a capire quali possono essere i fili conduttori che legano le visioni di questi quattro autori, al fine di stabilire eventuali topoi della tradizione di viaggio nel Nuovo Mondo.

I quattro autori hanno alle spalle esperienze e caratteri differenti: Mario Soldati è un giovane borsista di ventitré anni, che parte nel 1929 alla volta di New York; tuttavia, a causa della crisi economica, esauriti i soldi della borsa di studio, dovrà lavorare prima in un ufficio di

13

Ambra Meda, «Paese Moloch» o «Eden paradisiaco»?, p. 5.

14

Antonelli, Pavese, Vittorini e gli americanisti, p. 43.

15

Antonelli, Pavese, Vittorini e gli americanisti, p. 46.

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collocamento per senzatetto, poi al ristorante Ramo d’oro.17 Il soggiorno durò due anni, e da questa esperienza nacque America primo amore (1935).

Giuseppe Antonio Borgese, invece, che nel 1931 si trovava in America come giornalista, evitò di tornare in patria per non prestare il giuramento di fedeltà al regime fascista (obbligatorio per i docenti universitari); pertanto rientrò in Italia solo nel 1948, dopo un esilio durato diciassette anni. In America svolse il lavoro di professore all’università di Berkeley. La sua esperienza è stata meno traumatica e più serena rispetto a quella di Soldati; il suo lavoro gli concedeva di vivere con rilassatezza e di studiare dall’interno la società americana, senza troppo astio e in maniera oggettiva: da queste osservazioni nasce l’opera Atlante americano (1946).

Il cronista del “Corriere della Sera” Emilio Cecchi viene inviato per la seconda volta negli States nel 1937, viaggio a seguito del quale nascerà l’opera America amara (1940). Secondo Martino Marazzi, già nel titolo viene fornita una chiave di lettura dell’opera: non solo il senso di sgomento e ripulsa che l’America gli provoca, ma anche un richiamo al titolo America primo

amore di Soldati, oltre che al modo di dire toscano «maremma amara.18 Questo resoconto non è affatto idilliaco: anzi, mette aspramente in luce aspetti negativi della società americana, quali lo sfacelo della famiglia, la freddezza e l’ambizione delle donne, lo squallore della vita di provincia;19 e tutto ciò è reso con estrema crudezza. La questione razziale negli stati del Sud è esposta con chiarezza ed abbondanza di dettagli; e al fine di avvalorare ancora di più ciò che viene raccontato, non mancano le citazioni delle fonti, che spesso sono fatti di cronaca o letture dell’autore, tanto che spesso il testo assume quasi un tono d’inchiesta o di documentario.20 Secondo Ambra Meda due aspetti pesano sul conto di Cecchi: il primo, il fatto di essere un autore dal gusto di «aristocratico letterato europeo»; l’altro, quello di essere sempre convissuto in pace con il fascismo; e infatti egli stesso, nel suo commiato a Messico, si domanda se può effettivamente dire di essere stato leale nella sua descrizione, e di aver effettivamente esposto quello che ha visto senza pregiudizi.21

Infine, Guido Piovene è l’ultimo tra questi autori a recarsi in America, nel 1951, a guerra conclusa. Egli si era già avvicinato ai reportage sugli States quando aveva recensito il libro di

17

Ambra Meda, Al di là del mito: scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti, p. 99.

18

Martino Marazzi, Little America. Gli Stati Uniti e gli scrittori italiani del Novecento, Milano, Marcos y Marcos, 1997, p. 63.

19

Ibidem.

20

Ambra Meda, Al di là del mito: scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti, p. 139.

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Cecchi; riesce poi a recarvisi di persona insieme alla moglie, una volta ottenuto l’incarico dal “Corriere della Sera”.22 Il titolo del suo trattato, De America (1953), richiama alla mente il

genere delle summae enciclopediche medievali, sempre portate ad accogliere e spiegare positivamente ogni novità; e infatti, anche l’opera di Piovene risulta molto ottimistica, positiva, e quasi mai vengono messi in luce aspetti negativi della realtà americana.23 Molto lunga e dettagliata, l’opera di Piovene è una vera e propria enciclopedia che fornisce una mappa concettuale per ogni luogo e ogni aspetto della società statunitense.

Tenendo in considerazione questi quattro testi, e paragonandoli all’opera di Calvino, proveremo nel prossimo capitolo a definire quali potrebbero essere considerati topoi del viaggio in America, che definirebbero le tematiche ricorrenti del vero immigrato americano, con l’occhio di chi è davvero sbarcato negli Stati Uniti.

2. I topoi letterari ricorrenti

2.1 L’arrivo a NY

L’arrivo al porto di New York sicuramente può essere considerato il primo grande topos letterario della tradizione, in quanto l’emozione descritta da ognuno degli autori al momento in cui vengono avvistati i primi grattacieli è indescrivibile. La grandezza è il tema dominante: grandezza del transatlantico, grandezza delle macchine, grandezza dei grattacieli. Emilio Cecchi resta affascinato dalla potenza e dall’efficienza delle macchine moderne:

Già, quell’aria di musica ch’è intorno alle macchine, anche quando son ferme. Ma tutte e dodici le turbine, in quattro gruppi di tre, andavano ad alta pressione. Non ci s’intendeva che a urlare con la bocca all’orecchio. Ciò nonostante, era ritmo, era esaltazione, era musica; e che musica: su un basso continuo di quindicimila cavalli a vapore. E i tiepidi aghi dei manometri, come lunghe ciglia, marcavano le minime oscillazioni del ritmo.24

Nonostante lo scetticismo che in genere mostra per ogni cosa nuova, non può fare a meno di stupirsi di fronte a questo spettacolo di modernità; come osserva Ambra Meda, Cecchi è sempre in bilico tra una posizione di scetticismo e un sentimento di ammirazione, ed è la

22

Martino Marazzi, Little America. Gli Stati Uniti e gli scrittori italiani del Novecento, p. 94.

23

Marazzi, cit., pp. 94-95.

24

Emilio Cecchi, America amara, Padova, Franco Muzzio Editore, 1995, p. 5. Questa edizione riporta la versione originale del 1940, alla quale si è ritenuto di dare la preferenza per la sua importanza storica; l’edizione riveduta e ampliata del 1958 si legge in Emilio Cecchi, Saggi e viaggi, a cura di Margherita Ghilardi, Milano, Mondadori, 1997, pp. 1115-1523.

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sensazione che abbiamo leggendo la sua descrizione dei grattacieli di New York: da un lato, denuncia il fatto che il grattacielo in sé non è altro che «un’operazione aritmetica, una moltiplicazione. Portato unicamente da una spinta verticale, che ha certe affinità gotiche, non fornisce che la materia d’un problema meccanico»25. E aggiunge: «Non è, il grattacielo, espressione ingenua e solidale di potenza civica, ma espressione d’orgogliosa e solitaria prepotenza economica. È il campanile senza campane d’una religione materialista, senza Dio.»26 Tuttavia, si percepisce, a nostro parere, una sorta di sconvolgimento di fronte a questi edifici, tanto da arrivare a paragonarli alle moli di Babele o al Valalla, concludendo con quest’amara profezia:

E le moli dei grattacieli non rappresentavano, secondo lui [Meyer Schapiro], che l’estrema enfiagione del volontarismo e babilonismo contemporaneo. Erano i bastioni d’un Valalla su cui incombe il crepuscolo, e su cui prima o poi sarà celebrata la fine d’un mondo.27

Più poetica e molto meno amara è la descrizione di Borgese, trepidante nell’attesa di scorgere il Nuovo Mondo dalla nave:

L’immaginazione è piena d’un quadro: l’arrivo a Nuova York. Il tempo è sereno, e arriveremo al tramonto. La skyline, la scala titanica dei grattacieli di Manhattan che tutti quanti abbiamo vista grigia sullo schermo, ci apparirà nella sua ora di gloria: coi bronzi, gli alluminii, i pinnacoli, i vetri, infiammati di sole rosso. […] Più tardi una fila di lumi si muove all’ombra dell’orizzonte; s’allunga, si spiega: Long Island.28

Borgese è positivamente affascinato da tutto quello che vede non appena toccato il suolo, e non si percepisce un giudizio negativo come in Cecchi; egli scrive che l’architettura americana «non è più natura, è spirito; non più necessità, è espressione: eloquenza, lirica. Nuova York si compiace di sé, riconosce il suo volto, si esalta. Di qui sorge la retorica, o espressionismo sublime, o architettura verticale»29. Il grattacielo è una manifestazione della potenza del proprietario, esattamente come le torri delle città medievali; e troviamo, sia in Cecchi sia in Borgese, un interessante paragone tra New York e San Gimignano:

dentro la cerchia del comune ogni potente alzava la sua torre contro il vicino e rivale; qui, dentro la sconfinata socialità, nella presunta uguaglianza repubblicana, ogni

25

Cecchi, America amara, p. 10.

26

Cecchi, cit., p. 11.

27

Cecchi, cit., p. 10.

28

Giuseppe Antonio Borgese, Atlante americano, Firenze, Vallecchi, 2007, p. 49.

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magnate erige a capriccio, a grandigia, la sua torre su quelle dei concorrenti, e v’incide come su un monumento il suo nome.30

In Cecchi: «Fu Bernard Berenson che, giungendo dal mare a Nuova York e scorgendo i primi grattacieli, li paragonò alle torri di San Gimignano.»31

C’è poi la descrizione dell’arrivo di Soldati, che si pone sempre su un piano molto più sentimentale e personale degli altri autori. Egli arriva a New York in transatlantico in due occasioni distinte, ma non sembra che l’arrivo gli abbia sortito particolari emozioni, tanto da definirlo «un arrivo qualunque, un arrivo indifferenziato, incolore, l’arrivo di un viaggio inutile e di una vita annoiata»32; è anche vero che la prima volta arriva di notte, e non si scorge bene la costa, ed in entrambi in casi c’è una pesante nebbia che limita la visuale. Tuttavia sorge il sospetto che l’autore non voglia esporsi in maniera troppo positiva: l’arrivo in America è di solito associato a grandi speranze di successo, che nel suo caso erano state infrante. C’è pertanto la sensazione, leggendo il suo testo, che l’autore rimanga sempre volutamente un po’ sottotono rispetto alla realtà, per non sbilanciarsi troppo. L’emozione dell’arrivo è così trasposta sugli altri passeggeri:

«Jolanda! Jolanda! Neviorche! Siamo arrivati! Vieni a vedere Neviorche!»

E tutto il bastimento si destava. Alcuni emigranti, presi da un entusiasmo infantile, come se fino a un momento prima avessero disperato di arrivare, o non si fossero mai ben rappresentata nella mente la possibilità di quell’arrivo, gridavano a piena gola; chiamavano i congiunti, gli amici, i figli ancora piccoli che venivano per la prima volta in America, dove essi già ritornavano; e rivelavano nell’accento con cui esclamavano «Neviorche» la convinzione di trovarsi di fronte a un mondo meraviglioso e beato.33

Durante il secondo viaggio l’emozione dell’arrivo sarà vissuta con più partecipazione anche dall’autore stesso, beandosi del fatto di stare tornando nel paese tanto amato, come un innamorato che torna dalla sua donna:

30

Borgese, Atlante americano, p. 56.

31

Cecchi, America amara, p. 9.

32

Mario Soldati, America primo amore, Palermo, Sellerio, 2003, p. 35.

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L’America era vicina. Tornavo in America per la seconda volta. Dormivo nella pace della fiduciosa attesa, nella soave certezza che a volte previene la gioia di un incontro amoroso.34

Nelle parole del giovane Soldati che cammina per la prima volta per le vie di New York, si legge quello che devono aver provato i primi emigranti di fronte a tale grandezza di dimensioni:

Nessun arrivo è così prepotente.

Al primo apparire dei grattacieli il passato sfuma; la patria, la casa, la madre, gli amici sono leggendo lontane, e quasi vaghi ricordi infantili. Non importa la stagione: appena toccato il suolo d’America, appena fatti i primi passi fuori dai docks, tra la Batteria, Riverside, la Nona e l’Ottava, un’aspra primavera par che si aizzi, un vento sollevi mentre si cammina. È la speranza, la certezza di rinnovarsi e ricominciare; e anima chi è arrivato allora allora, come tutti gli altri che sono arrivati prima, forse anche un secolo o due ma in fondo così poco tempo prima.35

Per Soldati, i grattacieli costituiscono uno degli spettacoli più belli del mondo: non possono che colpire, affascinare, sconvolgere, con la loro maestosità e la loro grandezza; per questo i grattaceli sono diventati un luogo topico, un passaggio obbligato per tutti quelli che scrivono dell’America. Non nega, comunque, che questa meraviglia allo stesso tempo affascina e sgomenta; è quel tipo di bellezza che ci attrae ma contemporaneamente ci respinge. A detta sua i grattacieli sono un simbolo non tanto di forza, ma del canone della bellezza dell’architettura americana, l’ultima conquista del loro spirito eroico.36

A tutti gli effetti l’incontro di Soldati con gli States rappresenta un colpo di fulmine, tuttavia egli non manca di notare che New York ha anche dei difetti. Così come i grattacieli e i quartieri alti della città rappresentano il punto di arrivo al quale tutti aspirano, allo stesso tempo niente è così brutto quanto il Bronx e tutti gli altri quartieri poveri. I cittadini che abitano queste strade malfamate vivono pensando sempre a Park Avenue, sperando prima o poi nell’opportunity, in quel colpo di fortuna che gli permetta di scalare la vetta, che a volte può capitare, ma che per la maggior parte è destinato a rimanere un sogno.37 New York non ha

34Soldati, America primo amore, p. 37. 35

Soldati, America primo amore, p. 41.

36

Soldati, America primo amore, pp. 43-45.

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mezze misure: così come può essere grande, affascinante, maestosa, allo stesso tempo può raggiungere lo squallore più totale nell’arco di qualche chilometro.

2.2 Gli italo-americani

Ovviamente una delle questioni sulle quali i viaggiatori si sentono in dovere di esporre un giudizio è quella dei loro connazionali, coloro che «ce l’hanno fatta»: sono riusciti a trovare, chi più chi meno, uno spazio negli Stati Uniti tale da permettere loro di rimanere e di costruirsi una vita.

Innanzitutto bisogna fare una distinzione: c’è una grande differenza, infatti, tra gli immigrati di prima generazione e i loro figli, che sono nati sul suolo americano. Soldati ci racconta che gli italo-americani in cui si è imbattuto erano, contro ogni aspettativa, dei villani, che fanno discorsi insulsi, superbi, sdegnosi. In primo luogo questo sdegno si riversa proprio sugli stessi genitori, nel tentativo di far dimenticare agli altri e a se stessi la loro origine:

Perché parlavano (molto volgarmente del resto, come fui in grado di notare) un’altra lingua; perché ingollavano l’erre a dovere, e senza fatica cacciavano la lingua fra i denti a ogni th, mentre i loro vecchi ne erano fatalmente incapaci e avrebbero fino alla morte pronunciato rrait e den; perché non sapevano l’italiano o potevano facilmente fingere di non saperlo; perché erano più alti e meno bruni dei loro cugini di Salerno o di Trapani: si arrogavano assoluta indipendenza dai genitori.

E i primi a incoraggiarli, i primi convinti della necessità di tale indipendenza, erano proprio i genitori.38

Dietro queste parole si legge, forse, un malcelato disprezzo per un gruppo sociale che si ritiene superiore al protagonista, in quanto italiano; inoltre l’autore stesso ammette che durante la traversata (il primo momento in cui entra in contatto con gli italo-americani) è l’unico che non sa parlare la lingua, e pertanto, sotto sotto, ammira chi la possiede. Oltre però ad un personale senso di inferiorità, c’è comunque un fondo di verità nelle sue parole: non è infatti l’unico a notare che questo gruppo sociale sembra essere a sé stante rispetto a tutti gli altri. Non si può dire che essi siano italiani (in quanto spesso non c’è capacità di comunicazione nemmeno fra genitori e figli, poiché gli uni parlano il dialetto italiano, gli altri una forma ibrida di inglese) ma nemmeno si può dire che siano americani (scrive Soldati che i veri americani

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guardano con disprezzo gli italo-americani, che credono arrogantemente di possedere la lingua, e invece parlano un miscuglio, un ibrido fra le due che non è né l’una né l’altra cosa).39

Questo aspetto è notato anche da Borgese, che in California viene invitato a cena da una famiglia originaria di Lucca, i Pellegrini:

Da questa parte della tavola si parla lucchese o, chi non lo sa, l’italiano; dall’altra parte, dov’è la gioventù, si parla inglese; le due lingue fluiscono insieme in un brusio conviviale, s’incontrano, si mescolano.40

Ma la lingua non è l’unica cosa che gli italo-americani hanno dimenticato. Una costante di tutti gli autori che abbiamo preso in considerazione è l’osservazione di come, indiscutibilmente, una volta sbarcati sul suolo americano essi riescano a dimenticare completamente la cultura, anche culinaria e gastronomica, in favore di un nuovo modo di mangiare che è, a detta di tutti unanimemente, molto più cattivo di quello patrio.

Scrive Calvino che «non c’è operazione mentale più difficile, mi sembra, di quella con cui costoro riescono a cancellare ogni ricordo di cosa l’Italia è veramente, inventare un’Italia irreale, che corrisponde proprio a quella che gli americani si aspettano che sia»41 in riferimento ad un espresso-place, ossia un caffè americano gestito da italiani, dove però la cultura nostrana è ben lontana, sia per la produzione del caffè, che può essere servito con scorza di limone ed ha nomi altisonanti, sia anche per l’ambiente del locale, dove risuona a tutto volume un brano d’opera e vi sono busti di marmo a richiamare il mondo romano.

Sono le stesse cose che osserva Soldati quando si trova a pranzo presso una famiglia italo-americana, i Costantino, che sono tutti felici di averlo in casa. A tavola, l’autore si stupisce di come «un italiano avesse perduto a quel punto il gusto del vino»42, poiché gli viene servita, a suo dire, una porcheria: gli spaghetti si mangiano meglio in una bettola di Trastevere, mentre di secondo e di dessert vengono proposti il tacchino e l’apple pie, tipicamente americani. Così l’autore dubita che essi ormai si ricordino ancora qualcosa della loro terra; i giovani non capiscono l’italiano, e lo prendono in giro per la sua scarsa comprensione dell’inglese: lo chiamano green-horn, ossia «nu cafone», augurandogli di poter diventare un civilizzato, un

American citizen.43 Vengono riproposti a ripetizione brani musicali della tradizione napoletana,

39

Soldati, America primo amore, p. 59.

40

Borgese, Atlante americano, pp. 82-83.

41

Italo Calvino, Un ottimista in America, 1959-1960, Milano, Mondadori 2014, p. 32 (qui di seguito: OA).

42

Soldati, America primo amore, p. 66.

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a dimostrazione del fatto che l’Italia non è stata dimenticata; per tutta la giornata la necessità è quella di dimostrare fino allo sfinimento all’ospite che si è felici e realizzati, contenti della propria vita, di tutte le cose che sono state lasciate alle spalle; ma sotto sotto, con il loro immediato attaccamento e i loro ripetuti inviti a tornare le domeniche successive, i Costantino mostrano in realtà un disperato senso di solitudine, di abbandono, di desiderio di patria.

2.3 La donna americana

Il genere femminile in America, tanto diverso da quello della madrepatria, attrae l’attenzione di quasi tutti gli autori considerati. L’attenzione viene posta su almeno quattro tematiche distinte, che possiamo ritrovare anche in Calvino: il primo è, molto semplicemente, il tentativo della ricerca del prototipo della donna americana; il secondo è l’immagine della donna in carriera emancipata, e delle conseguenze che questo nuovo ruolo femminile assume nella società; il terzo è la realtà del tetto coniugale in provincia, che assume solitamente accezione negativa; infine, l’ultimo aspetto, che curiosamente accomuna tutti gli autori, è la curiosità verso le donne di colore, tanto numerose in America quanto rarissime o inesistenti in Europa: tutti quanti sono spinti da un desiderio irrefrenabile di entrare in contatto con i quartieri neri e vengono sconvolti dalla carnalità sia degli uomini che delle donne. Il contatto con la donna avviene sempre durante un ballo, ma in nessun caso l’esperienza è appagante.

Per quanto riguarda il primo argomento, ossia il prototipo della donna americana (punto cruciale anche per Calvino), questo pare essere uno dei crucci del giovane Soldati, il quale, trovandosi a vivere in America per ben due anni, tenta, senza successo, di trovare la giusta donna laggiù, nel tentativo di diventare americano a tutti gli effetti. Soldati parla di almeno un paio di ragazze che ha frequentato nel periodo del suo soggiorno, ma il suo desiderio, per sua stessa ammissione, non era rivolto all’una o all’altra in maniera specifica; era, più genericamente, il desiderio di avere anche lui una fidanzata americana: «Non pensavo di stringere una donna. Ma una americana. […] la piccola bionda comune, una delle infinite bionde d’America: mi avevano accolto dalla mia adolescenza oppressa e ribelle. E ora mi avrebbero difeso contro il ritorno.»44 Ovviamente dietro alle sue parole si nasconde il desiderio (che in effetti poi realizzerà) di sposare un’americana per poter sempre rimanere legato a quella terra. Questa esperienza gli permette di farsi un’idea chiara su come vanno le cose nel rapporto uomo-donna, tanto diverso rispetto all’Italia.

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Innanzitutto le donne hanno paura di uscire con gli italiani: al contrario dei loro coetanei biondi e alti che sono più infantili e più teneri, negli italiani esse temono l’aggressività e la forza maschia che sono ormai abituate ad associare all’emigrato.45 Tuttavia, nonostante questa preoccupazione, sono molto libere ed indipendenti, cosa che sorprende non poco l’autore: la sua fidanzata, che abita con la madre, una volta presa confidenza non esita a farlo rimanere a dormire a casa:

Giacevamo sul sofà, abbracciati. Dalla stanza attigua si sentiva la madre russare, ignara della nostra presenza. Ma anche se si fosse destata avrebbe finto di non udirci. Almeno così mi garantiva la figlia. E certo, ogni notte, per due o tre mesi, usammo impunemente il salotto.

Ora cosa dovevo ringraziare: il rispetto dei protestanti per l’individuo, il senso assoluto della sua responsabilità sia pure tra madre e figlia? o piuttosto la follia di emancipazione della moderna donna americana?46

L’emancipazione è un aspetto che non rimane inosservato dai nostri autori, ed anche Soldati, che pure trae giovamento da questi modi di fare molto liberi, tuttavia la definisce “follia di emancipazione”, e quindi implicitamente fa trapelare un giudizio negativo.

Cecchi dedica ben due capitoli all’osservazione della vita della donna. Non mancano le parole di elogio: egli riconosce, ad esempio, i meriti delle prime donne emigrate, che cavalcando al fianco del marito verso il West, e aiutandolo nella sua conquista, sono state una base importante per la società; e di quelle più moderne dice: «Accidenti, se sono donne. Donne formidabili, in pienissima attività di servizio: che s’innamorano, divorziano, flirtano, si sposano, figliano, divorziano magari, e subito risposano. Donne che, a quanto si narra, sono poi quelle che fanno marciare l’America a bacchetta.».47 Si tratta di donne molto belle, che stanno attente alla linea, che hanno del tempo per se stesse in quanto la vita domestica è resa molto meno faticosa dai primi elettrodomestici, e che hanno la possibilità di lavorare ed emanciparsi.

Oltre agli aspetti positivi riconosciuti dall’autore, tuttavia egli non manca di sottolineare i problemi di questa società: quella che Calvino definisce scapolo-donna premurandosi di specificare «scapolo, e non zitella»48, dimostrando di avere una grande stima della sua figura forte, individualista e lavoratrice, viene invece criticata da Cecchi, perché questo modo di vivere umilia ed intristisce la maggior parte delle donne che non rientrano nei giusti parametri:

45

Soldati, America primo amore, p. 77.

46

Soldati, America primo amore, p. 77.

47

Cecchi, America amara, p. 116.

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In realtà, converrebbe anche parlare della tristezza e umiliazione della donna americana. […] queste signore d’ogni età oltre i trentacinque o quarant’anni, che sole solette vengono al ristorante o al drug-store.49

Secondo l’autore un alto numero di donne paga alcuni cambiamenti sociali che sono loro deleteri, condannandole alla solitudine, alla monotonia del piccolo fornello a gas della loro cucina:

Sono le legioni delle donne rimaste a mezzo: le donne che non hanno casa, e che sarebbero riuscite splendidamente se avessero avuto una casa. Quelle che pagano le spese dell’immenso sciopero familiare americano, le spese d’un assurdo ideale di vita irresponsabile e felice; che scontano l’universale paura della schiavitù domestica, con le conseguenze di un vertiginoso decrescere della natalità nel ceppo anglosassone.50

Per Cecchi la solitudine è dovuta a due fattori: il primo, una forte inimicizia fra i due sessi, dovuta al grande cambiamento del ruolo femminile nella società, che adesso ha ottenuto la parità con l’uomo, creando così un contrasto fino ad ora inaudito; il secondo, il fatto che per la nuova società americana, attiva, moderna e veloce, la vita familiare diventa molto spesso un peso, e così si preferisce, alla moglie, semplicemente la girlfriend, senza sfociare in rapporti difficili ed impegnativi. Le idee di Calvino su questo argomento sono molto più moderne: egli vede, in questo nuovo tipo di donna, il mondo del domani, e trova che la lotta fra i sessi possa portare nient’altro che una spinta positiva nella società. Tuttavia la previsione di Cecchi, in parte, sembra azzeccata: anche Calvino non può sorvolare sul fatto che questo tipo di ragazza sia sempre irrequieta, insoddisfatta, infelice, e si lamenti degli uomini:

Sono ragazze felici? Mah, cosa vuol dire? Certo, sono spesso anche insoddisfatte, inquiete, vanno dallo psicoanalista, quasi tutte si lamentano degli uomini americani (altro luogo comune), ognuna ha la sua teoria psico-sociologica per spiegare come mai l’uomo americano non va.51

Persino Piovene, che solitamente è un osservatore positivo ed innamorato della vita statunitense, su questo aspetto rivede le sue posizioni e tentenna: ammette che il rapporto uomo-donna non è ben riuscito, e le motivazioni sono molteplici. Oltre a quelle già citate da Cecchi, l’autore ne individua una piuttosto interessante: l’idolatria per il corpo, l’amore per se

49

Cecchi, America amara, p. 119.

50

Cecchi, America amara, p. 121.

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stessa, l’egocentrismo di base della donna americana che la porterebbe a non essere più desiderosa nemmeno dell’amore:

Vi è finalmente la tendenza ad una idolatria per il proprio corpo che conduce alla frigidezza: insomma un narcisismo estremo. Qui entrano naturalmente lo spirito scientifico, la vita regolata pedantemente dal dottore, il caffè-latte preso nel cuore della notte per «disintossicarsi», il non ridere mai per paura delle rughe, la riluttanza ai rapporti sessuali.52

In aggiunta a tutto questo, la tendenza delle donne ad operare il proprio corpo a piacimento, per nascondere i difetti e le imperfezioni, nel tentativo di poterlo gestire sempre e completamente; ma oltre all’egocentrismo delle donne, alla base dei difficili rapporti con l’uomo c’è anche la rigidità dei rapporti personali, e la necessità di doversi sempre guardare le spalle dallo scandalo, dalla vergogna, dal ricatto; inoltre, non ultima, un’eredità del puritanesimo, che porta le persone a temere i propri istinti, che nella nuova società del progresso devono essere sempre tenuti accuratamente controllati e, se necessario, repressi.53

Ovviamente, come osserva lo stesso Calvino, la vita della donna di New York è diametralmente opposta a quella della donna di provincia: se da una parte domina la donna scapolo, dall’altra dominano le mogli, e nessuna donna può sperare di avere un ruolo senza un buon matrimonio. Stessa cosa osserva Piovene, che nota come il matrimonio in America sia socialmente necessario più che altrove, e la vita sociale si svolge a coppie tanto che, a volte, un uomo senza moglie al fianco può essere svantaggiato nei rapporti sociali. Molto comunemente, però, a causa della freddezza dei rapporti tra i coniugi, il matrimonio si rivela fallimentare: entrambi possono passare interi anni provando un’insoddisfazione di fondo che alla fine, a causa di un evento spesso banale ma illuminante, viene fuori e porta allo scioglimento della coppia.54

E così la vita dei coniugi americani di provincia si svolge all’interno di un quadro di noia ed appiattimento. Tuttavia per Borgese è proprio in provincia che si rivela il vero aspetto delle cose:

Assai scialba trascorre la vita media, tra il lavoro professionale (che qui si chiama job), la parca mensa, i beveraggi gelati, e i piaceri, - molto misurati – dell’arte e della

52

Guido Piovene, De America, Milano, Garzanti, 1953, p. 159.

53

Piovene, De America, p. 159.

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conversazione. E identica, in queste fresche Recanati uscite ieri dalla mano dell’uomo, è la noia, - dico la tragica noia che nella sua vecchia Recanati torturava Leopardi. […] può accadere che un uomo intelligente, una donna sensibile, vi confessi che la civiltà americana non ha ancora spremuto un succo molto gustoso dalla vita55

Borgese non si rivela molto interessato allo studio della donna, ma non può fare a meno di notare quanto può essere grigia la sua esistenza nella provincia e nel matrimonio stesso. Anche Soldati si sofferma su questo aspetto, ed attribuisce alla noia la grande passione, quasi sacrale, che gli americani hanno per il cinema: mentre per le italiane il cinema è un diversivo, una storia di fantasia che può distrarle per un’oretta dal lavoro, dalla famiglia, dai ragazzi e da tutti gli altri impegni, per la donna americana è l’unica via di fuga da un’esistenza piatta, dove la famiglia è molto più ristretta che in Italia, non c’è modo di farsi compagnia, anche perché in America nessuno cammina per le strade, come in Italia. E Soldati descrive con molta accuratezza una serata tipica della ragazza americana, che su per giù si svolge così:

Ma del tempo così risparmiato, dell’energia così salvata, che cosa fa la poveretta? Una grande solitudine la circonda. I nonni? Sono ricoverati in appositi ospizi. I parenti i cugini i nipotini? Tutti sparsi per gli States inseguendo the opportunity, l’opportunità, il denaro: la vita insomma. Il padre accende la pipa e resta curvo, fino all’ora di andare a letto, sulle parole incrociate. […] La ragazza e il fratello, dopo aver misurato una dozzina di volte la sala passeggiando dall’angolo dov’è seduto il padre all’angolo dov’è seduta la madre, si attaccano al telefono, si attaccano rispettivamente a un’amica e un amico che in case simili stanno soffrendo esattamente la stessa noia: combinano di trovarsi all’angolo della strada numero tale e dell’avenue numero tale. Scappano di casa disperati e ritrovano, fuori, la stessa atmosfera.56

E dopotutto l’unica speranza di una ragazza di provincia per emergere da tutto questo è quella di inseguire anch’essa il proprio sogno, di scappare e cercare di diventare qualcuno: infatti, l’amica di Soldati che abbiamo già citato si trova a New York pur essendo originaria del Texas, ultima di dodici sorelle e fratelli, e il suo sogno è quello di arrivare sul palcoscenico, per fare qualsiasi cosa, la ballerina, la cantante, l’attrice, pur di stare sul palcoscenico. Perché, come rileva anche Calvino, l’alternativa negli Stati Uniti è tra essere qualcuno o non essere affatto: pertanto per molte donne la fama acquisisce un’importanza fondamentale, da ottenere tramite il mondo dello spettacolo.

55

Borgese, Atlante americano, p. 94.

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Infine, rimane un’ultima categoria di donne, ossia quelle che vengono definite «le ragazze negre». La società di colore attira generalmente l’interesse di tutti i nostri autori, in particolar modo per quanto riguarda la questione razziale, ma c’è anche in molti una curiosità particolare verso le donne di colore, verso la loro fisicità, visto che la maggior parte di loro non ne ha mai vista una da vicino, o non ci si è mai trovato in contatto, e, in particolare, suscita interesse il loro modo di ballare e di muoversi.

Soldati, Borgese e Piovene per recarsi ad Harlem necessitano di una guida, in quanto raramente i bianchi entrano nel quartiere dei neri; nel caso di Calvino invece questa esperienza ci viene descritta tramite le parole riportate dell’amico Giovanni B. Bisogna dire che negli anni in cui Calvino e Piovene visitano gli Stati Uniti recarsi ad Harlem non era più una moda diffusa; mentre infatti Borgese scrive che «il turista ci va la sera stessa dello sbarco»57, al contrario Piovene dichiara che «quindici anni fa andare ad Harlem era un abituale divertimento borghese; ora, dopo alcuni incidenti, i bianchi non ci vanno […]. Si aggiunga che mentre i ricchi americani d’un tempo ci si divertivano, i nuovi ricchi, provenienti dal basso, non ci metterebbero i piedi»58. Pertanto, quella di frequentare il quartiere nero era un’abitudine ormai superata nel 1951.

In effetti anche Soldati, che arriva ad Harlem in taxi, supera una serie di ricchi che scendono da lussuose limousine per andare a cercarsi un po’ di divertimento. Tuttavia, non potendosi permettere di entrare nei locali di lusso, opta per un locale con meno pretese, e vi entra da solo, sentendosi però un estraneo ed un intruso:

Presto mi accorgo di essere l’unico bianco in mezzo a qualche centinaio di negri. Nessuno si meraviglia o mostra meravigliarsi della mia presenza. Ma girando tra la folla cerco invano un volto che mi sorrida. Forse sono un intruso? Forse li offendo? 59

Appena entrato Soldati nota come sappiano tutti muoversi perfettamente a ritmo, e come gli uomini riescano ad avvicinare le donne con risolutezza, forza, seguendo la melodia e giocando insieme ad esse. Anche Borgese si stupisce di come questi giovani siano forti e bravi a ballare, tuttavia la sua esperienza si svolge a distanza di sicurezza: infatti se ne rimane a sedere al proprio tavolo, insieme ad un amico e ad una donna bionda, un po’ come se si trovasse ad uno spettacolo. Invece Soldati è l’unico deciso a vivere questa esperienza a pieno; e così, raccolto il coraggio, decide di invitare una donna a ballare, ma non una semplice mulatta,

57

Borgese, Atlante americano, p. 215.

58

Piovene, De America, p. 86.

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bensì una vera e propria ragazza nera al cento per cento. Ne sceglie una delle più alte e delle più mature, che rimane spaventata o stupita del gesto, difficile dirlo; tuttavia, dopo qualche insistenza, accetta. Ma il coraggioso tentativo di Soldati si rivela fallimentare: infatti, mentre balla con lei, la donna gli sfugge, si stacca spaventata dai suoi tentativi di accostarsi e di ottenere familiarità:

Le sue labbra tremavano di terrore. I suoi occhi mi sfuggivano. E la sua maestà era turbata, come se un sacrilegio fosse stato compiuto. Pensai, non certo con piacere, che fra qualcuna delle loro razze, per antica e giustificata superstizione, portasse male essere scelta da un bianco. Mi affrettai a lasciarla prima ancora che finisse il pezzo. E comunque, rimasto solo, mi guardai intorno: sentii che il mio tentativo falliva. Decisi di piantare lì.60

Questa esperienza è molto simile a quella che vivrà l’amico di Calvino, Giovanni B., a quasi trent’anni di distanza: recatosi per ballare in un locale frequentato da ragazze di colore, si ritrova ad osservare la fisicità degli altri sentendosene necessariamente escluso. Un complesso di inferiorità vero e proprio, che lo spinge ad andarsene senza nemmeno invitare una ragazza, perché automaticamente il bianco che si trova ad una di queste feste si sente tagliato fuori e rifiutato dal loro prorompente erotismo:

Che ci stavamo a fare lì, noialtri? Non avrei mai osato metter piede sulla pista. A ricordarmi che c’ero venuto con l’idea di corteggiare delle ragazze, arrossivo. Di fronte a quell’umanità gigantesca che si muoveva con tanta naturale felicità fisica, c’era da sentirsi come un minorato.61

2.4 La questione razziale

Per quanto riguarda uno dei temi più scottanti e sentiti, ossia il problema della questione razziale e in particolar modo della segregazione dei neri del Sud, si nota che Borgese e Soldati, che hanno una visione, come abbiamo visto, più ottimistica e positiva dell’America, sorvolano bellamente sull’argomento. C’è però da sottolineare che nel loro itinerario di viaggio gli stati del Sud non sembrano essere presi in considerazione, quindi la loro esperienza si ferma alle due coste; forse è anche per questo motivo che, nei rari casi in cui esprimono un’opinione riguardo alla questione della mescolanza, lo fanno sempre in tono positivo o neutrale:

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Soldati, America primo amore, p. 123.

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osservo il mutare delle razze secondo le latitudini dei quartieri; estranee e diverse, quasi ignote l’una all’altra, in una convivenza sui generis, come d’inquilini che stiano ai piani dello stesso casamento e s’incontrino nell’ascensore senza salutarsi e senza, neanche, guardarsi male.62

E Soldati conserva grandi speranze per quanto riguarda il futuro; un futuro che si prospetta roseo e possibilista, in quanto gli Stati Uniti sono anche fusione; per lui le varie razze, pur vivendo separate, non possono fare a meno di incontrarsi ogni giorno:

Eppure, a forza di vederli, a forza di trovarseli accanto sulla piattaforma comune e quotidiana del subway, questi odiati ebrei, questi aborriti negri, converrà abituarsi al loro aspetto. Conoscerli. E finalmente riconoscerli. Lo so, esistono esempi scoraggianti. Un secolo e più di convivenza non ha mitigato l’odio degli Stati del Sud per gli uomini di colore. Ma colà è un duello, un’alternativa. A New York, a Chicago, e altrove nel Nord, la confusione delle razze dovrebbe, per la sua stessa enormità, portare unione e amore piuttosto che separazioni e inimicizie.63

Al contrario, Cecchi, Piovene e Calvino visitano tutta l’America in lungo e in largo, e pertanto hanno una visione d’insieme più chiara anche sugli aspetti della provincia e degli stati interni; così non possono evitare di citare il problema della questione razziale. È nel 1960 che Calvino si reca negli stati del Sud, in coincidenza con l’episodio della domenica nera di Montgomery, che lo segna profondamente, in quanto si trova di fronte, per la prima volta, al vero razzismo. Ma ovviamente questi episodi non sono nuovi nel vecchio Sud, come non esita a sottolineare Emilio Cecchi.

L’autore, nel capitolo 5000 linciaggi64, svolge un vero e proprio lavoro documentaristico riguardo alla reale situazione dei neri del Sud, riportando i casi più eclatanti. Egli si avvale di documenti, statistiche e materiale fotografico della «National Association for the Advancement of Colored People», con sede a New York, dove è possibile verificare la situazione dei linciaggi fino al 1935: può così appurare che dal 1882 negli Stati Uniti sono state linciate in tutto 5110 persone, la maggior parte di colore, in minima parte bianchi, accusati vagamente di estremismo. Ad esempio, nel 1935 vengono linciate 39 persone, di cui 4 bianche, le altre di colore; la modalità è sempre la stessa:

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Borgese, Atlante americano, p. 140.

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Soldati, America primo amore, p. 94.

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Quasi sempre la vittima viene rubata di prigione, sotto al naso degli sceriffi e della polizia; cacciata in un’automobile e portata in qualche luogo dove si consuma lo scempio. In merito al quale, i rapporti degli sceriffi e governatori invariabilmente concludono: «assassinio per mano d’ignoti».65

Ovviamente la maggior parte di questi pestaggi si consuma nel Sud; Cecchi riporta che su 3200 avvenuti nel trentennio 1889-1918, oltre 2800 furono commessi proprio in questa zona. Per esemplificare la modalità di queste spedizioni punitive l’autore ne cita due (ma la lista era indubbiamente molto più lunga): uno è avvenuto nel Mississippi, l’altro in Florida. Per dare un’idea della situazione, riportiamo il primo:

Il 13 aprile 1937, a Duck Hill, Mississippi, due negri, Roosevelt Townes e «Boot Jack» Mac Daniels, da poco arrestati sotto imputazione di avere ucciso, in dicembre, un negoziante: G. S. Windham, furono rapiti in pieno giorno, mentre lo sceriffo e due agenti li scortavano al ritorno dal tribunale; e portati, dieci miglia lontano, in una località dove li aspettavano tre o quattrocento fra uomini, donne e bambini. «Incatenati ad un albero, furono sforacchiati con la fiamma di saldatoi a benzina; e dopo due ore di codesta tortura, bersagliati a revolverate. Infine, arsi, ammucchiando loro intorno stoppie bagnate di petrolio; e il fuoco venne appiccato che erano ancora vivi ed urlavano.» (Resoconti della stampa locale, e: Can the States stop Lynching?, a cura della «National Association ecc.».) Esito dell’inchiesta legale: nessun indizio di colpevoli, nessun arresto.66.

Per Cecchi, quindi, il problema della segregazione è reale e allarmante; al contrario, vent’anni dopo Piovene sostiene che, pur ammettendo che il problema è esistito, adesso la questione è risolta e non si verificano più episodi così violenti. In realtà ciò non può corrispondere al vero, visto che proprio in quegli anni la lotta per i diritti porta a scontri molto cruenti, testimoniati fra l’altro, pochi anni dopo, anche da Calvino. Piovene si limita solamente ad ammettere l’esistenza del problema della segregazione, sostenendo che il raggiungimento dei pieni diritti deriva tanto dalla lotta dei neri quanto dalla cura dei bianchi:

La segregazione è vera, e ancora così completa che non sarebbe facile esagerarla. I bianchi la giustificano con molte ragioni. I negri, strappati tre secoli fa alle giungle dell’Africa, hanno progredito in modo senza paragone maggiore dei loro confratelli rimasti al paese d’origine: si potrebbe negarlo? Il loro progresso continua, e si accelera: si può negare ch’esso sia voluto dai bianchi, dovuto alle cure dei bianchi,

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Cecchi, America amara, p. 70.

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non meno nel Sud che nel Nord? La piena eguaglianza legale, civile, politica è ammessa ormai dovunque, ed applicata in misura sempre maggiore.67

Non solo Piovene non cita mai i linciaggi di persone di colore, ma in realtà non dimostra nemmeno di provare per loro particolare simpatia; infatti sono descritte come primitive e svogliate:

Il negro del Sud è un bambino, un Peter Pan che non vuol crescere, perché crescere è scomodo. Pagato quasi sempre a cottimo, primitivamente evangelico, lascia il lavoro non appena ha il danaro bastante per finire la settimana; va a ballare, a pescare, a comperare i dolci, e vive sempre alla giornata. […] L’inferiorità non li umilia, come non umilia i bambini di fronte al padre e alla madre che li proteggono; essa protegge il gusto, e la morale, dell’infanzia perpetua; la segregazione è un’ovatta.68

L’unica ammissione che l’autore si sente in dovere di fare è che esiste una resistenza di fondo verso la popolazione di colore, sentita però in particolar modo solo dai bianchi più poveri. Il rischio è quello della promiscuità: infatti nel Sud i ricchi proprietari bianchi sono molto più benevoli verso i loro lavoratori neri, mentre i braccianti bianchi, che vedono sempre di più le persone di colore assumere mansioni e stipendi simili ai loro, si vedono minacciati da questi ultimi e difendono la diversità con accanimento: «Il bianco agiato tiene il negro lontano, ma con affabilità; il povero, minacciato di promiscuità, lo tiene lontano ostilmente»69.

2.5 La religione e il costume

Un aspetto sul quale Calvino si sofferma è certamente l’osservazione della religiosità degli americani, così diversa da quella degli europei, non solo perché, ovviamente, in America vi è un calderone di razze (e quindi di religioni) diverse che non si ha in Italia, ma anche perché la vita dell’americano medio sembra essere influenzata necessariamente dall’appartenenza ad una determinata Chiesa: non importa quale, purché se ne abbia una, e quindi si appartenga ad un gruppo sociale che ci qualifica:

Quando si parla dell’America religiosa si mette di solito l’accento sulla molteplicità di culti, sul regime di libera concorrenza delle Chiese, che è uno degli aspetti più caratteristici della tradizione liberale di questo paese. Ma adesso l’impressione che ne ho avuto è stata di un blocco ai vertici delle varie Chiese, d’un regime quasi di 67 Piovene, De America, p. 283. 68 Piovene, De America, p. 285. 69 Piovene, De America, p. 282.

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«cartello», che non ammette che qualcuno resti fuori dall’una o dall’altra confessione.70

Il cattolicesimo in America è un aspetto che non tocca solamente Calvino: anche Piovene e Soldati si interessano all’argomento, e analizzano le differenze tra la religione di Roma e la sua collega d’oltreoceano. Soldati, che si trova a dover partecipare alla funzione dell’8 dicembre (che, come viene sottolineato nel testo, in Italia è messa di precetto), si reca alla Messa dei Padri Francescani, e già il primo impatto è negativo, poiché in generale tutti gli italiani, abituati alle grandi chiese e alle strutture d’Europa, non riescono a trovarsi a loro agio in quelle americane:

In fondo al tratto di 31 Strade compreso tra l’Ottava e la Settima, dopo garages, tipografie, case di spedizioni, traffico di camions, operai in tuta che attendono ai primi lavori del mattino: una réclame al neon, azzurra e vermiglia: The Capuchins – Franciscan Fathers – Roman Catholic Church.71

Soldati rimane sconvolto dal fatto che la religione venga sponsorizzata come se si trattasse di un negozio qualunque, con un’insegna al neon, in mezzo a tante altre attività più disparate; Borgese, invece, rimane colpito dal fatto che, mentre in Italia le città ed i paesi sono spesso modellati intorno alla cattedrale e in generale alle chiese, che quindi rappresentano uno degli edifici più importanti al pari di regge e castelli, questo aspetto non esiste in America: ci sono i grattacieli che, alti e prepotenti, si ergono a schiacciare con la loro forza la piccola Trinity Church, minuscola in mezzo a tanti colossi:

Un altro esempio è l’aspetto religioso o no della sagoma cittadina. Noi europei conosciamo tipi di città dominati dalla reggia, ed altri coronati dal castello, ed altri ancora, innumerevoli nelle nostre terre, ordinati intorno alla cattedrale: città di corte, città di guerra, città di popolo cristiano. Qui non è nulla, naturalmente, che attiri l’attenzione nel primo o nel secondo senso; ma anche i monumenti religiosi sono in seconda fila, schiacciati, pigmei o quasi fra giganti. […] Questa trasposizione di valori non si sente in alcun luogo meglio che nell’enigmatica, narcotica oasi di Trinity Church. […] Ora è nascosta, incapsulata dentro il sistema fantasmagorico dei grattacieli di Wall Street.72

70

Calvino, OA, p. 46.

71

Soldati, America primo amore, p. 218.

72

(29)

29

Ma al di là dell’aspetto estetico delle chiese, è soprattutto il modo di vivere le funzioni che colpisce gli autori; l’appartenenza ad essa è una mera formalità, e il valore del fedele è dato dalla quantità di denaro che egli elargisce come elemosina alla funzione della domenica:

Glabri maggiordomi in marchetto passano stendendo tra i banchi le rosee mani: esigono da ogni fedele un quarto di dollaro. I cattolici poveri, in America, non possono entrare in tutte le chiese cattoliche. Devono andare nelle loro chiese, nelle chiese per poveri diavoli.73

Ognuno trova, al posto che gli è assegnato, una bustina su cui è scritto il suo nome, e l’offerta che ha fatto; può aggiungere un’altra offerta, che sarà anch’essa registrata. Una questua, in alcune chiese, raccoglie anche migliaia di dollari per volta. Nella funzione successiva il predicatore dal pulpito annuncia la cifra raggiunta, impartisce elogi (o rimproveri) e cita quelli che hanno donato di più. Queste citazioni sfrenano l’emulazione dei maggiorenti della parrocchia.74

Il motivo che spinge i fedeli a questa emulazione, a questo bisogno di elargire per essere elogiati, è, come osservano sia Calvino sia Piovene, il bisogno di appartenenza: la necessità che ogni americano ha di sentirsi parte di qualcosa, di fare gruppo contro altri, di rispecchiare la propria identità all’interno di un gruppo perché, in un paese dove le religioni, le lingue e le culture sono tanto numerose, il rischio è di perdersi, e di non sapere più a cosa si appartiene:

La forza delle chiese (di tutte le chiese) in America dipende da due ragioni: sono un modo di raggrupparsi, in un paese plurimo, nel quale tutti tendono a far gruppo e rinchiudersi; sono un modo di uscire, con una classificazione diversa, dalle classificazioni economiche.75

Tuttavia, almeno secondo Soldati, nel cercare se stessi e la loro appartenenza gli americani hanno perso il senso della vera religione cattolica romana: egli disprezza l’eccessivo attaccamento al denaro e alle offerte; il modo di fare pubblicità alla propria chiesa, equiparandola così a sette di bassa lega; l’attenzione spasmodica degli americani alla forma, che porta i frati cappuccini ad essere più attenti al farsi la barba o il pizzetto rasatissimo piuttosto che alla funzione religiosa. Arriva ad affermare che «è più cattolico lo stile di una

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Soldati, America primo amore, pp. 223–224.

74

Piovene, De America, p. 70.

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