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Primo capitolo IL SISTEMA MONISTICO: PROFILI GENERALI 1.1 Introduzione al sistema monistico. Le fonti normative

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3 Primo capitolo

IL SISTEMA MONISTICO: PROFILI GENERALI

1.1 Introduzione al sistema monistico. Le fonti normative

L’impianto normativo in punto di governance interna delle società per azioni, in particolare del consiglio di amministrazione, è rimasto sostanzialmente inalterato per molto tempo, ossia dal codice civile del 1942 (fino agli anni 2003-2005). Con il passare degli anni, si è progressivamente avvertita l’esigenza di un intervento sistematico di riforma del diritto societario (Titolo V del codice civile) per dotare l’ordinamento di un sistema flessibile e competitivo. A tale scopo, con decreto del 24 luglio del 1998 è stata istituita una Commissione di studio (la c.d. Commissione Mirone), con il compito di predisporre uno schema di disegno di legge per la riforma organica del diritto societario. Parallelamente ai lavori della Commissione, alla fine del 1998 nasce il Comitato per la Corporate Governance delle società quotate e nel 1999 appare il primo Codice di Autodisciplina.

Intanto, qualche anno più tardi, vi è stata la riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative (d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), volta alla ricerca di una maggiore flessibilità organizzativa rispetto al passato, mediante la ricerca costante di un equilibrio tra norme imperative e autonomia statutaria. Tale riforma ha apportato significativi cambiamenti al diritto societario italiano, dopo anni di immobilismo, consentendo alle società per azioni con l’opzione di cui all’art. 2380 co. 2 c.c., di scegliere il modello di amministrazione e controllo più rispondente alle proprie esigenze organizzative, al fine di agevolare «la nascita, crescita e competitività tra le imprese, oltre a favorire l’accesso al mercato dei capitali da parte delle piccole e medie imprese»1. Inoltre,

pone quale fulcro centrale della governance della società per azioni il sistema dei controlli interni che si ricollega al generale principio di adeguatezza dell’assetto organizzativo interno dell’impresa.

1S. ALVARO, D. D’ERAMO, G. GASPARRI, Modelli di amministrazione e controllo nelle società quotate.

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4 La scelta di un determinato modello di governance, inteso in un’accezione ampia quale “sistema di regole con il quale le società di capitali sono dirette e controllate”, viene valutata a fronte di una analisi comparativa “costi/benefici”, declinata alla luce delle numerose possibilità statutarie consentite dalla legge. A tal riguardo, la concreta fisionomia che viene assunta dai diversi modelli è influenzata dal settore in cui opera l’impresa, dalle caratteristiche dei suoi assetti proprietari, dalla sua dimensione, dallo status di quotata o meno. Infatti, è possibile annoverare dei principi base nell’ampio quadro della riforma di cui il governo dell’impresa deve tener conto, vale a dire: l’ampliamento dell’autonomia statutaria, la semplificazione del regime giuridico e il suo adeguamento alle esigenze economiche dell’impresa, l’incremento di competitività del sistema imprenditoriale italiano e il suo adeguamento, sotto il profilo regolamentare, alla concorrenza internazionale.

Per quanto concerne i sistemi di amministrazione e controllo, dopo la riforma summenzionata, è possibile - come noto - ricorrere a tre modelli:

- il c.d. sistema tradizionale o latino, in cui sono presenti tre organi, ovvero l’assemblea dei soci, l’organo amministrativo (amministratore unico o consiglio d’amministrazione) e il collegio sindacale. Esso, era prima della riforma, l’unico sistema di governo ammesso dal legislatore. Dopo la riforma, invece, è diventato il modello di default poiché viene automaticamente adottato in mancanza di diversa previsione statutaria;

- il c.d. sistema dualistico, di derivazione germanica, in cui oltre all’assemblea dei soci è presente un consiglio di gestione, cui spetta l’amministrazione della società, ed un consiglio di sorveglianza che esercita funzioni di controllo ed alcune delle competenze tipiche dell’assemblea dei soci del sistema latino;

- il c.d. sistema monistico, mutuato dai paesi anglosassoni, in cui sono presenti solo due organi sociali, l’assemblea dei soci e il consiglio di amministrazione, le funzioni di controllo sono esercitate da un comitato per il controllo sulla gestione costituito all’interno dello stesso consiglio di amministrazione.

Nella Relazione ministeriale al d.lgs. 6/2003, il sistema monistico viene descritto quale «modello di governance semplificato e più flessibile rispetto agli altri

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5 modelli», in quanto «tende a privilegiare la circolazione delle informazioni tra l’organo amministrativo e l’organo deputato al controllo, consentendo risparmi di tempo e costi». Per di più, «la circostanza che la vigilanza sull’amministrazione sia svolta, invece che dal collegio sindacale, da un comitato interno allo stesso consiglio, non determina un minor rigore dell’attività di controllo, poiché la professionalità, l’indipendenza, i doveri e poteri di tale comitato coincidono con quelli del collegio sindacale e possono essere integrati dai codici di comportamento (art. 2409 noviesdecies c.c. che richiama l’art. 2387 c.c.)». Le disposizioni legislative contenute sia nel codice civile sia nel t.u.f., volte a disciplinare tale modello, si caratterizzano per il ricorso frequente alla tecnica normativa di rinvio al sistema tradizionale. Proprio la mancanza di un corpus normativo autonomo e ben articolato, poiché determina il rinvio a norme già previste per il modello tradizionale che sono dichiarate applicabili “in quanto compatibili”, ha causato dubbi e incertezze da parte degli interpreti, viste le peculiarità gestionali ed organizzative di ciascuna realtà societaria.

Riguardo alla possibilità di scegliere uno dei modelli alternativi previsti - per quanto interessa il presente lavoro - il modello monistico, appare necessario analizzare due aspetti interdipendenti. Il primo riguarda l’equivalenza dei modelli sul piano dell’efficacia della governance societaria, relativamente all’obiettivo di assicurare adeguati e penetranti controlli al fine di individuare e/o prevenire comportamenti anomali. Pertanto, una valutazione in termini di equivalenza impone il confronto tra la disciplina dei controlli prevista per il modello monistico e quella caratteristica del modello tradizionale. Nel caso in cui si pervenisse ad una non equivalenza dei due sistemi, è prevedibile l’inclinazione delle società ad adottare regole meno efficaci di corporate governance.

L’altro aspetto da esaminare è l’effettiva differenziazione, ossia l’alternatività, dei principi di funzionamento dei sistemi di amministrazione e controllo. Ad esempio, nel caso del monistico gli ampi richiami alle norme dettate per il modello tradizionale ne hanno messo in dubbio l’effettiva originalità.

Ferma restando l’applicabilità a tutte le società per azioni della “disciplina” di base del codice civile che, ad eccezione di un’unica previsione (art. 2409

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octiesdecies co. 1, c.c.), non tiene conto delle peculiarità delle società “aperte” al

mercato, in seguito è necessario evidenziare i corrispondenti richiami del t.u.f., applicabili alla società con azioni quotate.

Del monistico non vi era traccia nel progetto predisposto dalla Commissione Mirone (schema di disegno di legge delega per la riforma del diritto societario) e un richiamo ad esso emerge, solo nell’art. 4 co. 8, l. delega di riforma societaria 3 ottobre 2001, n. 366. Tuttavia è possibile rinvenire un antecedente di tale modello, già prima della riforma del 2003 nell’art. 10 del codice di autodisciplina (c.d. codice Preda) redatto dal Comitato per la Corporate Governance delle società quotate alla fine del 1998, in tema di comitato per il controllo interno di cui è suggerita l’istituzione in seno al consiglio di amministrazione delle società quotate. Da questo momento emerge la necessità di assicurare alle imprese italiane, in particolare a quelle quotate, l’efficienza e affidabilità di un sistema di

corporate governance allineato con la pratica internazionale.

Inoltre, il nostro ordinamento preso atto della normativa comunitaria e in particolare del Regolamento UE 8 ottobre 2001, n. 2157 del Consiglio relativo allo statuto della Società Europea (SE), ha contemplato la possibilità di ricorrere al dualistico o monistico. Pertanto, trova applicazione in ambito comunitario la prima normativa comune per lo svolgimento delle attività d’impresa nella forma delle società di capitali, destinata ad essere applicata dalle società comunitarie che vogliano operare con un’unica struttura giuridica sull’intero territorio europeo. Di conseguenza, l’introduzione dei modelli alternativi rappresenta un tentativo del nostro legislatore di realizzare un mercato comune delle regole societarie, volto favorire una maggiore flessibilità ed efficienza nell’organizzazione interna di quelle società destinate a operare fuori dai confini nazionali. Appare sempre più fattibile l’obiettivo di configurare, attraverso il monistico, una governance semplificata e flessibile e una più rapida circolazione delle informazioni fra organo di amministrazione e organo di controllo, garantendo risparmio di tempo e costi, realizzando un’attività di vigilanza pervasiva dell’organo di controllo.

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7 Il monistico, come universalmente conosciuto, trae le sue origini dai sistemi giuridici angloamericani e riproduce l’assetto organizzativo one-tier boards statunitensi e inglesi, contraddistinti da una struttura proprietaria diffusa e dimensioni significative. In particolare, il modello italiano presenta delle somiglianze con quello delle public companies statunitensi, in cui il board of

director è tenuto a nominare al proprio interno un comitato di controllo (audit commette) con il compito di supervisionare la gestione della società e, al

contempo, svolgere una funzione essenzialmente consultiva per le scelte strategiche adottate dai directors e attuate dai managers. In tal caso, il principale problema di governance risiede nella capacità degli amministratori di controllare l’operato dei soggetti, tra cui managers e senior executivies, incaricati della gestione attiva. Quindi, il board delle società americane assume la configurazione di organo, la cui attività sembra essere maggiormente orientata al controllo di quei soggetti a cui viene delegata l’amministrazione che possono essere inseriti nell’ambito del consiglio d’amministrazione (Chief executive

officer o Chief financial officer) o collocati al di fuori del consiglio come per i managers di più alto livello. Sempre al board è attribuita la facoltà di nominare e

revocare managers ed executivies, in base ai risultati conseguiti e alle competenze necessarie per il perseguimento di taluni obiettivi prefissati in sede di pianificazione strategica. A tal fine, diviene essenziale realizzare una circolazione tempestiva delle informazioni per valutare l’operato degli

executivies, oltre ad un atteggiamento imparziale in merito alla revoca e

sostituzione dei managers per vanificare la possibile collusione tra i soggetti al vertice della struttura della società e il venire meno del controllo dei consiglieri. Difatti è ormai prescrizione regolamentare nominare amministratori cc.dd “outsiders” di provenienza esterna o “indipendenti”, estranei a legami con il management della società. Invece, l’audit committee è designato all’attività di controllo circoscritta agli aspetti di reporting finanziario, nonché ai rapporti con il soggetto incaricato della revisione contabile. Dunque, il comitato per il controllo sulla gestione delle società italiane che adottano il monistico opera secondo uno spettro più ampio; tale da coinvolgere il sistema di controllo interno,

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8 la valutazione degli obiettivi strategici e la definizione dei piani di lungo periodo. Infine, non è possibile attribuire al consiglio di amministrazione delle società italiane esclusivamente un ruolo di monitoraggio, essendo anche coinvolto nella gestione della società.

La disciplina di riferimento del sistema di amministrazione e controllo monistico è costituita dagli artt. 2409 sexiesdecies - 2409 noviesdecies c.c. e, per le società quotate, integrata e modificata dall’art. 147 ter ss. t.u.f. Notevole importanza riveste, altresì, l’art. 223 septies disp.att. c.c, per il quale «Se non diversamente disposto, le norme del codice civile che fanno riferimento agli amministratori e ai sindaci trovano applicazione, in quanto compatibili, anche ai componenti del consiglio di gestione e del consiglio di sorveglianza, per le società che abbiano adottato il dualistico, e ai componenti del consiglio di amministrazione e ai componenti del comitato di controllo sulla gestione, per le società che abbiano adottato il sistema monistico. Ogni riferimento al collegio sindacale o ai sindaci presenti nelle leggi speciali è da intendersi effettuato anche al consiglio di sorveglianza e al comitato per il controllo sulla gestione o ai loro componenti, ove compatibile con le specificità di tali organi». Tale norma è replicata per le banche e gli altri soggetti regolati dal t.u.b. dall’art. 1, co. 3 ter, t.u.b.; per le società quotate, società di intermediazione mobiliare, delle società di gestione del risparmio e delle Sicav dall’art. 1, co. 6 quater, t.u.f.; per le società di assicurazione dall’art. 78, co. 2, cod. assicurazioni private.

Per quanto riguarda i possibili ambiti operativi, il sistema monistico sembra essere destinato ad essere adottato prevalentemente da società medio-grandi, soprattutto se quotate in mercati regolamentati; quest’ultime cercheranno di uniformare le proprie strutture societarie a quelle delle società operanti nei mercati stranieri, incrementando così la propria competitività e riconoscibilità all’estero. Al contrario le società di modeste dimensioni, caratterizzanti in misura prevalente il tessuto imprenditoriale italiano, continueranno presumibilmente a preferire il sistema tradizionale.

Pertanto, il successo del monistico dipenderà non soltanto dalle possibili correzioni del legislatore al testo normativo ma, dal contesto in cui l’impresa

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9 italiana si muoverà; da una possibile evoluzione della cultura d’impresa verso una maggiore propensione alla quotazione in borsa, un più elevato ricorso al capitale di rischio per finanziare l’attività d’impresa, l’abbandono di una diffusa gestione padronale a favore di un management indipendente dalla proprietà.

1.2 I principi di funzionamento

Il sistema monistico è disciplinato specificatamente dagli artt. 2409 sexiesdecies ss. c.c. e l’assenza di una disciplina autonoma obbliga gli operatori a districarsi tra i rinvii effettuati non solo nel codice civile, ma anche tra questi e quelli contenuti nel t.u.f., sfavorendone l’utilizzo.

La scelta di tale sistema deve avvenire con apposita disposizione statutaria, originaria o introdotta in sede di modificazione, in deroga al sistema tradizionale, imposta dalla legge in mancanza di diversa previsione essendo il prototipo normativo di riferimento ed in alternativa al dualistico (art. 2380 bis c.c.). Secondo la dottrina, la modificazione del sistema di amministrazione e controllo costituisce una giusta causa di cessazione anticipata e atipica del rapporto fra componenti degli organi di amministrazione e controllo e la società.

La gestione dell’impresa di cui è titolare la società che si avvale del sistema monistico spetta, ai sensi dell’art. 2409 septiesdecies, co. 1, c.c. – riprendendo l’espressione dell’art. 2380 bis co. 1, c.c. – «esclusivamente» al consiglio di amministrazione, al cui interno è costituito un comitato di amministratori dotati di peculiari requisiti di indipendenza fissati per legge, nonché di onorabilità e professionalità definiti dallo statuto, denominato comitato per il controllo sulla gestione e investito della funzione di controllo (art. 2409 sexiesdecies c.c). Sin da subito è possibile cogliere una sostanziale differenza rispetto al sistema tradizionale, vale a dire la necessaria collegialità dell’organo amministrativo e, di conseguenza, l’impossibilità di ricorrere ad un amministratore unico (in tal caso non potrebbe sostanzialmente costituirsi il comitato di controllo). Invece, è attuabile l’ipotesi di un consiglio d’amministrazione nel quale tutti i membri meno uno facciano parte del comitato di controllo sulla gestione. In tal caso, la

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10 gestione dell’impresa sociale è affidata all’intero consiglio, ma dal punto esecutivo, è svolta da un solo amministratore.

Per il resto la disciplina dell’organo amministrativo appare la medesima del consiglio d’amministrazione del sistema tradizionale, visto il rinvio corrispondente (art. 2409 noviesdecies c.c.). Salva diversa previsione statutaria, il mutamento di sistema ha effetto alla data dell’assemblea convocata per l’approvazione del bilancio relativo all’esercizio successivo a quello in cui è stata approvata la delibera in questione (art. 2380 co. 2, c.c.). L’approvazione di tale delibera non richiede maggioranze rafforzate in seconda convocazione, né da tale decisione discende un diritto di recesso per gli azionisti assenti o dissenzienti. Nondimeno, potrebbe accadere che vi sia una discordanza temporale tra l’efficacia della delibera di mutamento del modello e la scadenza naturale degli organi caratteristici del tradizionale o dualistico (di partenza). In tal caso, il passaggio dal modello di partenza al monistico verrebbe a configurarsi quale causa di cessazione anticipata degli organi di controllo. La conseguente decadenza dei componenti che ne fanno parte sarebbe assimilabile a fattispecie sui generis di revoca per giusta causa. Perciò, per assicurare il corretto fluire delle operazioni sociali è doveroso assicurare la continuità delle funzioni di monitoraggio ed evitare lacune nell’esercizio della funzione di controllo; tra il momento dell’accettazione da parte della maggioranza degli amministratori e il momento dell’insediamento del comitato di controllo. A tal fine, gli amministratori devono convocare immediatamente il consiglio per la nomina del comitato ed evitare il verificarsi di una giusta causa di revoca dell’organo amministrativo e, forse, anche una grave irregolarità rilevante ai sensi dell’art. 2409 c.c. Comunque, considerato il richiamo dell’art. 2385 c.c., compreso nell’art. 2409 noviesdecies co. 1 c.c., al monistico si applica il regime della

prorogatio, in base al quale la cessazione dei membri dell’organo amministrativo

ha effetto solo dal momento in cui l’organo gestorio monistico sia stato ricostituito e vi sia stata l’accettazione dell’incarico della maggioranza dei nuovi amministratori.

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11 Relativamente alla nomina, si desume il richiamo alla disciplina del modello tradizionale in quanto compatibile con l’art. 2409 noviesdecies co. 1, c.c. Rimane immutata la competenza assembleare alla nomina degli amministratori, anche di quelli che poi il consiglio designerà quali membri del comitato. Lo statuto può però prevedere la possibilità per i portatori di strumenti finanziari partecipativi di nominare un componente indipendente del consiglio d’amministrazione (art. 2351, co. 5., c.c., da ritenersi compatibile a norma dell’art.223 septies, co. 1, disp. att. c.c.) che non farà automaticamente parte dell’organo di controllo, salvo diversa previsione statutaria, potendo egli assumere incarichi esecutivi all’interno dell’organo amministrativo. Lo statuto può anche attribuire analoga facoltà, ma non limitata ad un amministratore indipendente, allo Stato azionista o altro ente pubblico azionista (art. 2449 co. 1, c.c.). La durata dell’incarico degli amministratori è relativa ad un periodo non superiore ai tre esercizi e sono rieleggibili salva diversa previsione statutaria (art. 2383, 2 co e 3 co., c.c., richiamati dall’art. 2409 noviesdecies, co.1, c.c.). Sono applicabili le medesime regole del tradizionale in tema di cause di ineleggibilità e decadenza (art. 2382 c.c.) e dei requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza che lo statuto può introdurre per tutti gli amministratori e non solo per i futuri componenti dell’organo preposto al controllo.

Il legislatore, invece, impone vincoli specifici per quanto riguarda la composizione del consiglio d’amministrazione. Infatti, a norma dell’art. 2409

septiesdecies co. 2 c.c., almeno un terzo dei componenti il consiglio

d’amministrazione deve possedere i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci (art. 2399, co. 1, c.c.) o, quelli statutariamente previsti, con rinvio ai codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati. Pertanto, è concessa la possibilità di integrare in via statutaria i requisiti di indipendenza, purché si tratti di requisiti aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla legge. Per le società quotate, sussiste il riferimento ai requisiti fissati dall’art. 148 ter, co. 3, t.u.f. e al possesso da parte di almeno un terzo dei consiglieri a norma dell’art. 147 ter, co. 3, t.u.f.

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12 Sempre in merito ai requisiti d’indipendenza, l’art. 2409 septiesdicies co. 3, c.c. impone di rendere noti, prima dell’accettazione della carica, quali incarichi di amministrazione e controllo i consiglieri nominati ricoprono presso altre società. Tale norma non è prevista nel sistema tradizionale per gli amministratori, ma ricalca quanto previsto dall’art. 2401, co. 4, c.c. per la nomina dei sindaci, visto che ciascuno degli amministratori nominati se dotato dei requisiti prescritti può divenire componente dell’organo di controllo.

I componenti del consiglio di amministrazione dotati dei requisiti di indipendenza, oltre a rappresentare un terzo del consiglio, devono essere almeno due (necessaria collegialità del comitato per il controllo sulla gestione) o, nel caso di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, tre (art. 2409

octiesdecies, co. 1, c.c.)

Il funzionamento dell’organo amministrativo rimane inalterato rispetto a quello vigente nel sistema tradizionale, essendo richiamate le relative norme dall’art. 2409 noviesdecies co. 1, c.c., considerate compatibili con il suddetto modello. Il consiglio di amministrazione continua ad operare secondo le modalità consuete, nonostante la peculiare collocazione dell’organo deputato al controllo all’interno dello stesso organo amministrativo. Dunque, i componenti del comitato per il controllo sulla gestione continuano a rivestire la carica di consiglieri di amministrazione e, a partecipare a tutti gli atti concernenti la gestione dell’impresa, a cui consegue il corrispondente profilo di responsabilità. Si realizza una coesistenza tra attività di gestione e di controllo che consente di svolgere un’attività di controllo ex-ante, utile ad anticipare e prevenire profili di rischio e atti di mala gestione.

Il consiglio, salvo apposita previsione statutaria, potrà poi ripartire al proprio interno le funzioni gestorie e attribuire deleghe sia a uno o più amministratori delegati sia ad un comitato esecutivo (art. 2381, co. 2, c.c. richiamato dall’art. 2409 noviesdecies co. 1, c.c.). Esso, salvo che non vi abbia provveduto l’assemblea, deve provvedere a nominare il presidente (art. 2380 bis, co. 5, c.c.). Tale carica sembra essere incompatibile con un’eventuale partecipazione al comitato per il controllo sulla gestione, poiché l’attribuzione del potere di

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13 rappresentanza implicherebbe lo svolgimento di incarichi esecutivi tali da compromettere la sussistenza dei requisiti di indipendenza. Regole analoghe al sistema tradizionale valgono per l’attività deliberativa (art. 2388 c.c.), ossia il voto favorevole della maggioranza assoluta dei presenti, salvo diversa previsione statutaria, per la validità delle deliberazioni.

Anche la disciplina in tema di responsabilità degli amministratori non viene modificata rispetto al tradizionale, in quanto l’art. 2409 noviesdecies co. 1, c.c. richiama i corrispondenti artt. 2392-2395 c.c. Eppure, sorgono dubbi sulla compatibilità in capo al comitato per il controllo sulla gestione della eventuale legittimazione a promuove l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, essendo alcuni componenti del comitato direttamente coinvolti nella gestione sociale. Appare più probabile, l’esercizio di tale azione nei confronti dell’amministratore delegato o dei componenti del comitato esecutivo. Ai sensi dell’art. 2409 sexiesdecies c.c., se l’amministrazione è affidata al consiglio di amministrazione, il controllo è attribuito al comitato per il controllo sulla gestione, articolazione interna dello stesso organo amministrativo, la cui composizione numerica è espressamente fissata, soltanto per le società che fanno ricorso al mercato di capitale di rischio, in un minimo di tre membri. Invece per le società chiuse è necessaria la presenza di almeno due membri, essendo preclusa una struttura monocratica dello stesso organo. Sia la determinazione del numero dei componenti sia la nomina sono rimesse al consiglio di amministrazione, salvo diversa clausola statutaria che, potrebbe stabilire a priori il numero dei membri e la nomina assembleare per una sola parte del comitato e quella dei membri restanti al consiglio.

L’estensione dei requisiti di indipendenza, stabiliti per i sindaci ai componenti del comitato che sono essi stessi amministratori, delinea l’indipendenza quale presupposto fondamentale per un corretto esercizio delle funzioni di controllo, a tutela delle minoranze e dei terzi. In questo caso, il legislatore non ha provveduto a delineare una nozione specifica ma si è limitato ad un richiamo dell’art. 2399 c.c., creando dei problemi circa il necessario coordinamento dell’esercizio di determinate funzioni esercitate dal singolo amministratore che partecipa anche al

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14 comitato di controllo. Anche il t.u.f. nella sua versione attuale non attribuisce una definizione specifica del campo d’azione del comitato per il controllo, replicando apparentemente la disciplina prevista per il collegio sindacale. In seguito, per meglio delineare il confine del potere e doveri di tale organo, vista la sua peculiare natura, merita attenzione l’indipendenza effettiva dei soggetti che ne fanno parte e chiamati a svolgere una funzione di controllo. Pertanto, i membri del comitato pur dovendo possedere i requisiti di autonomia come singoli, possono non essere in grado di esercitare la funzione in modo indipendente come organo collegiale. A tal proposito, l’art. 2409 septiesdecies co. 3, c.c. impone di rendere noti, prima dell’accettazione della carica, quali incarichi di amministrazione e controllo i consiglieri nominati ricoprono presso altre società. In aggiunta, a norma dell’art. 2409 octiesdecies co. 2, c.c. è richiesto a ciascun membro del comitato di controllo sulla gestione di non esercitare «deleghe o particolari cariche» e non svolgere «anche di mero fatto, funzioni attinenti alla gestione dell’impresa sociale o di società che la controllano o ne sono controllate» oltre alla preclusione a far parte del comitato esecutivo. Secondo parte della dottrina, gli amministratori esecutivi sebbene possano essere in via di principio anche indipendenti, ne è comunque preclusa la partecipazione al comitato di controllo (combinato disposto di cui agli artt. 2399 e 2409

septiesdecies e 2409 octiesdecies c.c.). Altri ritengono opportuno far confluire la

titolarità di incarichi esecutivi tra i «rapporti di natura patrimoniale», tali da compromettere l’indipendenza ai sensi degli artt. 2399, co. 1, lett. c), c.c. e 148 co. 3, lett. c), t.u.f. Quindi, oltre all’accertata ineleggibilità a componente del comitato di controllo nel caso in cui sussiste il «possesso di particolari cariche», si determina l’impossibilità per un componente del comitato per il controllo sulla gestione di essere presidente del consiglio di amministrazione e titolare del potere rappresentativo della società. Dubbi interpretativi emergono anche a proposito della remunerazione dei componenti il comitato che, in quanto consiglieri di amministrazione, beneficiano della relativa remunerazione stabilita dall’assemblea ex art. 2389 co. 1 c.c. Se si ritiene applicabile quanto previsto per il collegio sindacale all’art. 2402 c.c., il compenso deve essere stabilito

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15 dall’assemblea dei soci o dallo statuto ed è immodificabile per tutta la durata del mandato. In alternativa a tale ipotesi, in quanto incaricati della funzione di monitoraggio, potrebbero essere soggetti in base all’art. 2389 co. 3 c.c. ad un incremento di remunerazione, come accade per «gli amministratori investiti di particolari cariche» in relazione alle funzioni loro affidate. Sarebbe anche plausibile, tramite delibera assembleare, prevedere un innalzamento della base retributiva per tutti i consiglieri e parallelamente dei membri del comitato. A presidio della tutela dell’indipendenza si ritiene preferibile la prima ipotesi, prevedendo l’immutabilità della remunerazione per tutta la durata del mandato, in forza dell’art. 223 septies co.1 disp.att, come prescrive per i sindaci l’art. 2402 c.c. e per i consiglieri di sorveglianza l’art. 2409 quaterdecies co. 1, c.c. Infine, almeno uno dei componenti del comitato per il controllo sulla gestione deve essere scelto fra i revisori legali iscritti nell’apposito registro (art. 2409

octiesdecies, co. 3, c.c.).

Proseguendo nella disamina del comitato per il controllo sulla gestione, una volta accertata la peculiare posizione assunta nell’organigramma gestionale del modello monistico e i poteri ad esso riconosciuti anche tramite clausole statutarie, merita attenzione la possibile revoca dei suoi componenti. Nel silenzio legislativo, tale atto competerebbe esclusivamente all’assemblea, in applicazione dell’art. 2383 co. 3, c.c. richiamato dall’art. 2409 noviesdecies co. 1, c.c. Bisogna però distinguere le due fattispecie, da un lato, della revoca della “sola” carica di componente dell’organo di controllo e dall’altro, della revoca “altresì” dalla carica di consigliere di amministrazione. Mentre in quest’ultimo caso la competenza è dell’assemblea, nell’ipotesi di revoca dalle sole funzioni di membro del comitato senza contestuale rimozione dalla carica di consigliere di amministrazione, occorrerà distinguere ulteriormente a seconda che lo statuto conservi la competenza alla nomina e alla revoca del comitato in capo al consiglio di amministrazione, secondo il modello legale, ovvero la attribuisca all’assemblea dei soci. Il nodo cruciale riguarda la possibilità di revoca delle sole funzioni di controllo, cioè dell’appartenenza del consigliere al comitato, senza che essa determini simultaneamente la sua rimozione dal consiglio di

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16 amministrazione. Si pone il problema interpretativo dell’applicabilità della disciplina dettata per i sindaci dall’art. 2400 c.c., in forza del rinvio contenuto nell’art. 223- septies disp.att c.c., della regola che impone la giusta causa ai fini della revoca dal collegio sindacale ed il ricorso al preventivo vaglio giudiziale sulla sussistenza della stessa. È tuttavia possibile ipotizzare clausole statutarie volte a tutelare la stabilità dell’organo di controllo richiedendo che la deliberazione consiliare di revoca: a) contenga una motivazione delle ragioni della revoca nella deliberazione; b) sia assunta con il voto favorevole di una maggioranza qualificata dei consiglieri o c) a seguito di una procedura aggravata (richiesta, ad esempio, preventivamente del parere del comitato per le proposte di nomina o altro comitato di amministratori indipendenti istituito presso lo stesso consiglio) o d) escludendo la legittimazione al voto dell’amministratore delegato o dei consiglieri investiti di funzioni esecutive e, infine, e) preveda la sussistenza di una giusta causa riferibile all’amministratore che si intende revocare dal comitato per il controllo sulla gestione. Anche nel caso in cui lo statuto attribuisca la competenza della revoca all’assemblea, sono ammissibili clausole volte all’esplicitazione nella delibera di revoca della motivazione e/o alla sussistenza di una giusta causa, allorquando tale revoca determini anche la cessazione dalla carica di consigliere di amministrazione. Poi, un’analisi approfondita è necessaria per la deliberazione assembleare di revoca dalla carica di consigliere di amministrazione degli amministratori indipendenti membri del comitato per il controllo sulla gestione. Al riguardo è opportuno il riferimento all’art. 2383 c.c., richiamato dall’art. 2409 noviesdecies c.c., relativo alla possibilità per l’assemblea nelle società a sistema tradizionale e monistico, il consiglio di sorveglianza nelle società a sistema dualistico, di revocare gli amministratori in qualunque tempo, non essendo necessaria il ricorrere di una giusta causa ai fini della validità ed efficacia della delibera di revoca, salvo il diritto al risarcimento del danno in capo al consigliere revocato. Sarà il componente del comitato per il controllo sulla gestione a richiedere eventualmente l’intervento dell’autorità giudiziaria, allorquando ritiene vi siano i presupposti per invocare l’invalidità della deliberazione in esame.

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17 Riguardo la sostituzione di un membro del comitato, l’art. 2409 octiesdecies co. 4, c.c. stabilisce che, “in caso di morte, rinunzia, revoca o decadenza” di un componente, il consiglio lo sostituisce scegliendo un altro membro dell’organo di amministrazione dotato dei requisiti prescritti, altrimenti procede ai sensi dell’art. 2386 c.c., ricorrendo al meccanismo della cooptazione di un consigliere idoneo. Se la cessazione dell’amministratore dalla carica di componente del comitato non fa venire meno il numero minimo di componenti del comitato stabilito dalla legge, dallo statuto o dall’assemblea, il consiglio può decidere di non sostituire il componente cessato dall’ufficio di controllo.

Come già rilevato in precedenza, la legge attribuisce al comitato per il controllo sulla gestione natura di organo pluripersonale. Per quanto concerne il funzionamento di tale organo vi è il rinvio alla corrispondente disciplina del collegio sindacale (l’art. 2404 co. 1, 3 e 4). Di conseguenza, accertato il vaglio di compatibilità di tali norme, ne deriva che il comitato deve riunirsi, secondo le modalità statutarie, anche telematiche, almeno una volta ogni novanta giorni, con la relativa verbalizzazione delle riunioni. Con riferimento ai quorum, il comitato si costituisce con la maggioranza dei componenti e delibera a maggioranza assoluta dei membri presenti. Delle riunioni deve redigersi il verbale che una volta sottoscritto dagli intervenuti, verrà trascritto nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del comitato. L’art. 2409 octiesdecies co. 5, c.c. prescrive la nomina di un presidente che verrà eletto a maggioranza assoluta dallo stesso comitato, i cui poteri non sono espressamente specificati. È possibile attribuirgli sia poteri di impulso e organizzazione dei lavori del comitato sia le funzioni proprie del presidente del collegio sindacale, tra cui la legittimazione passiva al ricevimento delle dimissioni di un consigliere di amministrazione (art. 2385 co. 1, c.c.) o della dichiarazione di dissenso di un amministratore rispetto a decisioni consiliari (art. 2392, co. 3, c.c.) e, ancora, la legittimazione passiva per la notifica dell’azione di responsabilità esercitata dalle minoranze (2393- bis, co. 3, c.c.) Con riferimento all’attività di controllo, in base all’art. 2409 octiesdecies, co. 5 lett. b), c.c. il comitato per il controllo sulla gestione ha il compito di vigilare «sull’adeguatezza della struttura organizzativa della società, del sistema di

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18 controllo interno e del sistema amministrativo e contabile, nonché sulla sua idoneità a rappresentare correttamente i fatti di gestione». Emerge la differenza sostanziale rispetto all’art. 2403 c.c. valido per il collegio sindacale che, apparentemente determina una riduzione dei compiti di vigilanza, nel momento in cui si rinuncia ad attribuire al comitato il controllo “sull’osservanza della legge e dello statuto” nonché “sul rispetto dei principi di corretta amministrazione”. Tuttavia, la funzione di controllo di legalità e sulla corretta amministrazione si può considerare già implicita nell’incarico di amministratore, allorquando l’art. 2381 co. 3, c.c. si ricollega al compito di valutazione del “generale andamento della gestione”.

I membri del comitato per il controllo sulla gestione, hanno il “dovere di agire in modo informato” (art. 2381 co. 6, c.c.) e di adempiere i loro incarichi con la diligenza “richiesta dalla natura dell’incarico e delle loro specifiche competenze” (art. 2392 co. 2, c.c.). Quindi, l’azione di responsabilità verso i membri del comitato è analoga a quella prevista verso gli amministratori, vista l’applicabilità dell’art. 2407 co. 3, c.c.

È richiamata dall’art. 2408 c.c. la legittimazione passiva del comitato per il controllo sulla gestione a ricevere le denunce dei soci con il relativo dovere, sussistendo gli estremi, di indagare sui fatti denunciati e di coinvolgere eventualmente l’assemblea.

Il comitato per il controllo sulla gestione svolge anche “gli ulteriori compiti affidatigli dal consiglio di amministrazione con particolare riguardo ai rapporti con i soggetti incaricati del controllo contabile” (art. 2409 octiesdecies co. 5, lett. c) c.c.). Il consiglio di amministrazione può delegare lo svolgimento di attività di competenza dell’organo amministrativo, con esclusione di quelle di tipo esecutivo e, in particolare compiti di natura contabile, per assicurare una maggiore completezza dei flussi informativi tra i due organi. Infine, il controllo contabile è affidato in via esclusiva ad un revisore esterno, persona fisica o società di revisione iscritti nel registro istituito presso il ministero della Giustizia. Nel caso di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio è possibile solo la seconda opzione. La scelta di escludere la possibilità di affidare il

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19 controllo contabile all’organo di vigilanza interna è riconducibile alla particolare struttura organizzativa del sistema monistico che presuppone la necessità di affidarsi per quanto riguarda la verifica dell’attendibilità delle scritture contabili ad un controllo e giudizio esterno.

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