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Il giorno della civetta

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Academic year: 2021

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Seconda Parte

Il giorno della civetta

I.

I.

I.

I.

Il romanzo

Il romanzo: introduzione

Il romanzo

Il romanzo

: introduzione

: introduzione

: introduzione

I.1 Genesi e critica

Gentile Einaudi,

rispondo con ritardo alla Sua lettera perché mi è stata indirizzata a Roma dove non risiedo più.

La ringrazio molto. La “promozione”, da gettone a corallo, degli Zii di Sicilia mi ha fatto molto piacere; l’edizione è molto bella.

Il lungo racconto sulla mafia cui per ora lavoro (benché fin dalla scorsa estate l’abbia praticamente ultimato) conto inviarlo tra qualche mese. Ho dovuto, tenendo conto delle leggi purtroppo in vigore, ricorrere a un accorgimento tecnico: muovere cioè la narrazione su due piani, il primo dell’inchiesta ufficiale su un delitto di mafia (il racconto è, strutturalmente, un “giallo”), e il piano degli interessi nascosti e dei segreti interventi in cui gli interlocutori sono anonimi ma, da parte del lettore, facilmente individuabili nell’autorità che rappresentano e negli interessi che muovono. Ora è appunto questo secondo piano che continuerà a preoccuparmi finché non ne avrò eliminato il carattere di trovata, di accorgimento, che in qualche parte traluce. E mi pare di poter riuscire.

Poiché ho kafkiano terrore della burocrazia (anche di quella di una casa editrice), colgo l’occasione per pregarLa di voler disporre una sistemazione contrattuale relativa al recente

corallo, e di voler farmi conoscere le condizioni per il prossimo (se, mi auguro, il racconto

Le parrà degno di essere pubblicato).

Mi creda, con i più cordiali ringraziamenti e saluti, suo Leonardo Sciascia1.

Illuminante questa lettera al suo editore del 24 marzo 1960: traspaiono l’idiosincrasia dello scrittore per la burocrazia e la naturale refrattarietà a parlare di denaro, ma soprattutto la motivazione dei due piani di scrittura prescelti, l’ansia di autocorrezione2 e quel carattere di “trovata” degli inserti dialogici in cui rintracceremo le tecniche del montaggio cinematografico.

1

La lettera è contenuta nell’archivio Einaudi e nel catalogo della mostra “Libri e carte di un archivio editoriale”. Einaudi, 1933-1991. Antonietta Italia la riporta integralmente nel suo testo di commento all’opera. Cfr. A.ITALIA (a cura di), Il giorno della civetta, Milano, Mursia, 1994, pp. 83-84.

2 Nella nota al libro, Sciascia informa di aver impiegato un anno per alleggerire il testo, dargli ritmo ed essenzialità,

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Interessante anche l’opinione espressa vent’anni dopo dall’autore, che preciserà di aver scritto il racconto «come essemplo (direbbe Bernardino da Siena) di quel che la mafia era nel passaggio dalla campagna alla città, da fenomeno rurale a fenomeno urbano»3.

Quando pubblica Il giorno della civetta4, nel 1961, lo scrittore ha quarant’anni: esperienze di vita e di lavoro lo hanno maturato, vicissitudini familiari lo hanno temprato, mentre alcuni libri, come Le parrocchie di Regalpetra (1956) e la raccolta di novelle Gli zii di Sicilia (1958), lo hanno già segnalato all’attenzione degli studiosi, del pubblico e dei media.

Il libro (che Sciascia dice ispirato all’assassinio del sindacalista Accursio Miraglia, caduto nel 1949, in pieno dopoguerra, sotto i colpi di una mafia legata al latifondo, che diffidava dei moti contadini e del ruolo del sindacato, ponendosi come di fronte al nemico da abbattere) avrà una risonanza immediata e internazionale, con una tiratura da best seller5 e traduzioni in una ventina di lingue.

Risvolto della medaglia, una sgradita reputazione di mafiologo6 e un fastidio crescente da parte dell’autore per le irritanti e fuorvianti letture del testo sulla falsariga del ragguaglio folcloristico o, peggio, di una visione romantica della figura del mafioso7. Egli non lo rinnega, anzi lo considera uno dei pochi suoi scritti ai quali può tornare ad accostarsi senza ripensamenti e senza insofferenza; malgrado i cambiamenti che «i continui rovelli dell’animo inquieto»8 comportano in

3 L.S

CIASCIA,Conversazione in una stanza chiusa, intervista di Davide Lajolo, Milano, Sperling & Kupfer, 1981, p. 55.

4 Il testo cui si farà riferimento (annotando le pagine in parentesi) durante tutto il percorso di analisi è quello pubblicato

dall’Einaudi nel 1972, con un’avvertenza al testo dell’autore e note di Sebastiano Vassalli: L.SCIASCIA, Il giorno della

civetta, Torino, Einaudi, 1972.

5 Il documentatissimo Giuseppe Traina riferisce dettagliatamente della tiratura di ogni singola edizione, almeno fino alla

quarta: 13 ristampe nella prima edizione “I Coralli” (1961), a cui si riferisce la lettera, con 93.000 copie vendute; 22 ristampe nell’edizione de “I nuovi Coralli” (1972) con 350.000 copie vendute; 4 ristampe nella terza edizione dei “tascabili Einaudi” (1990) con 122.000 copie vendute; 9 ristampe nella quarta edizione “Fabula” di Adelphi con 125.000 copie vendute, senza contare il grande successo delle varie edizioni per le scuole. Cfr. G.TRAINA, Leonardo

Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, pp. 131-132. Poiché le cifre sono poco indicative se non vengono

confrontate, va precisato che le precedenti prove letterarie dello scrittore avevano avuto vicende diverse: le prime due erano state pubblicate a sue spese (per Le favole della dittatura del 1950 e la raccolta di poesie La Sicilia, il suo cuore del 1952, aveva investito 80.000 lire l’una, che costituiva una cifra ragguardevole, visto che lo stipendio di maestro elementare era di sole 30.000 lire al mese), ma le 111 copie delle poesie, che esibivano disegni di Emilio Greco, furono agevolmente esaurite, anche grazie al sostegno degli amici, tra cui Stefano Vilardo che ne acquistò dodici; de Le

parrocchie di Regalpetra (1956) la Laterza fece preparare duemila copie che furono vendute in due-tre anni circa (fino

al 1958, anno della seconda edizione), mentre solo mille copie preparò Einaudi per Gli zii di Sicilia (1958), terminate in circa quattro anni. (Cfr. M.COLLURA, Il maestro di Regalpetra – Vita di Leonardo Sciascia, Milano, TEA, 2000, pp. 139-147). Tanto più esaltante appare, pertanto, il successo editoriale de Il giorno della civetta, benché l’autore, in una lettera a Giulio Bollati, dell’ufficio diritti dell’Einaudi, lamenti «l’inadeguatezza del comportamento dell’editore nella gestione delle vendite». G.LOMBARDO, Il critico collaterale. Leonardo Sciascia e i suoi editori, Milano, La vita felice, 2008, p. 81.

6 «Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’essere considerato un esperto di mafia, o, come oggi si usa dire, un

“mafiologo”». L.SCIASCIA, Mafia: così è (anche se non vi pare), in “Corriere della Sera”, 19 settembre 1982.

7 Interpretazione improbabile, tanto più che Sciascia stesso, nell’avvertenza alla nuova edizione del suo libro, critica la

rappresentazione dei mafiosi come «non privi di sentimento e suscettibili di redenzione», che ravvisava nella produzione letteraria precedente. L.SCIASCIA, Il giorno della civetta, cit., p. 6.

8 È quanto scrive Sciascia in Scrittori e fotografie, a proposito del suo articolo sulla fotografia come entelechia. «È uno

dei pochi miei scritti che riesco a rileggere senza insofferenza: poiché anche quel che scriviamo scorre come il fiume di Eraclito. A testimoniare i continui rovelli dell’animo inquieto». L.SCIASCIA, Scrittori e fotografie, in ID., Fatti diversi

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lui, lo ritiene «un buon racconto»9, ma tutto sommato non lo ama, forse ritenendolo la causa dei fraintendimenti del suo pensiero e dei tentativi di imbrigliamento del suo spirito libero da parte degli opinionisti.

La ragione di tanto clamore è generalmente ascritta alla novità del romanzo, che per la prima volta affronta, con icastico vigore, una tematica “nuova” qual era allora in ambito letterario la mafia10, fenomeno colpevolmente misconosciuto o sottaciuto, anche come realtà storica, talvolta pure dalle autorità politiche ed ecclesiastiche11. La battuta tragicomica che lo scrittore pone sulla bocca di un’eminenza grigia, forse un arcivescovo, testimonia un sentire comune: «È stato mai trovato un documento, una testimonianza, una prova qualsiasi che costituisca sicura relazione tra un fatto criminale e la cosiddetta mafia? Mancando questa relazione, e ammettendo che la mafia esista, io posso dirvi: è una associazione di mutuo soccorso, né più né meno che la massoneria» (p. 76).

Se, dunque, buona parte della critica riconosce al romanzo il pregio della novità, è pur vero che alcuni, scorgendo una qualche mitizzazione nella raffigurazione del boss mafioso, disapprovano l’insufficiente fermezza della denuncia. Lo scrittore, dal canto suo, alimenta, con la consueta ironia che forse non tutti colsero, l’idea di un coraggio “controllato”, precisando, nella nota esplicativa, di non sentirsi «eroico al punto da sfidare imputazioni di oltraggio e vilipendio», ma non dovrebbe sfuggire la puntualizzazione di chiusura («non mi sento di farlo deliberatamente»), che, a mio avviso, denota la piena consapevolezza della sfida di Sciascia, il quale lamenta le restrizioni alla libertà di parola, che lo hanno costretto a sfrondare il testo12.

È indubbio, in ogni caso, che anche a distanza di un cinquantennio Il giorno della civetta appare un romanzo diverso, innovativo, a suo modo di rottura col passato, oltre che di sconvolgente attualità: già all’indomani della pubblicazione sorse un vivace dibattito, che ha poi continuato a svilupparsi e che non si è ancora spento.

Consideriamone rapidamente i temi centrali.

9 È in chiusura della nota all’edizione del 1972 che Sciascia si pronunzia in tal modo, sia pure attenuando il giudizio con

un «forse» e ponendolo dopo la chiarificazione di cosa rappresenti questo libro per lui: una esemplificazione della definizione di mafia come «borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma soltanto sfrutta». L.SCIASCIA, Il

giorno della civetta, cit., p. 6.

10 Sulla mafia erano incentrati due testi drammaturgici, l’uno in dialetto, dal titolo I mafiusi di la Vicaria (1863), di

Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, e l’altro in italiano, Mafia, di Giovanni Alfredo Cesareo (1921). In entrambe le commedie traspariva una visione edulcorata del fenomeno, essendo gli appartenenti all’organizzazione criminale descritti come uomini a loro modo valenti e coraggiosi, sostenuti nelle loro azioni da un’aspirazione alla giustizia (per quanto rozza, soggettiva e, per lo più, riparatrice di torti sessuali) e comunque sempre rispettosi di un codice comportamentale non privo di valori. Sciascia riscrisse e rovesciò il dramma di Rizzotto e di Mosca, sviluppando soprattutto la parte in cui il capomafia diventa il grande elettore dell’Incognito: I mafiosi fu rappresentato per la prima volta nel 1965. La sua caustica ironia irrideva le teorie abborracciate che esaltavano l’“onorata società”.

11 Perfino il cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini (1946-1967), riteneva la mafia una mistificazione dei comunisti. 12 «Questo racconto, cui ancora lavoro, mi dà tanto fastidio per quel che posso e non posso dire. Parliamo tanto, in

astratto, della libertà della cultura: vorrei se ne parlasse un po’ terra terra – dire che vogliamo il diritto di rappresentare il poliziotto imbecille, il questore fascista (o mafioso), il magistrato corrotto, il carabiniere che ha paura» così scrive Sciascia a Italo Calvino in una lettera del 2 ottobre del 1959: il desiderio si realizzerà trent’anni dopo, con la stesura di

Una storia semplice e il suo campionario di discutibili esponenti delle Forze dell’Ordine. Lo stralcio riportato è tratto da

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Ho già accennato all’analisi del personaggio di don Mariano, il quale è stato studiato costantemente insieme al suo antagonista e presentato come emblema del male, in lotta con il bene13: i comportamenti di entrambi sono stati osservati al microscopio, alla ricerca della motivazione che ha spinto Sciascia a raccontare, tra cronaca e fantasia, una prima storia di mafia “di comportamenti”, oltre che di azioni, infrangendo il silenzio sull’argomento.

Altri critici, invece, imputano all’autore una qualche “ingenuità”, una certa idealizzazione, sia pure inconscia, della mafia, attraverso il ritratto del vecchio antagonista, come fa Luigi Malerba14, contraddetto con convinzione da Matteo Collura15, o come fa Sandro De Feo, puntualmente contestato da Filippo Cilluffo che trova «l’immagine della mafia, presentataci dallo scrittore agrigentino […] forse la più attendibile ed articolata fra quelle pervenuteci dal fronte letterario»16. Vito Amoruso17, dal canto suo, aggiudica all’intellettuale Sciascia «la scoperta del dovere civile», che non consente all’immobilità e al conformismo di prevalere. Ed è ciò che gli riconosce oggi lo scrittore Giuseppe Bonura18 che parla de Il giorno della civetta come di un romanzo epocale, definendolo «un giallo politico, morale, letterario, e di denuncia», iniziatore della fortuna del giallo in Italia.

Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna, visto che nel dibattito sono intervenuti autorevoli esponenti della cultura nazionale, quali Pier Paolo Pasolini, Walter Pedullà, Walter

13 Dibattuta anche la questione relativa al personaggio reale al quale si sarebbe ispirato Sciascia nella creazione di

Bellodi. Questa volta lo scrittore toglie ogni dubbio alle illazioni, in un articolo su “L’Espresso” del 20 febbraio 1983, in cui si giustifica dall’accusa mossagli dal figlio del generale Dalla Chiesa di non aver smentito, finché il generale era in vita, che il suo Bellodi, capitano dei carabinieri, fosse ispirato all’alto ufficiale: in realtà nel ’61 egli non lo conosceva. Il vero ispiratore fu, pertanto, il capitano Renato Candida (del quale aveva recensito il libro Questa mafia, la cui pubblicazione nel 1957 causò al suo autore il trasferimento a Torino) e se aveva taciuto era perché gli faceva piacere che il generale si identificasse nel capitano Bellodi; se dopo la morte di Dalla Chiesa aveva deciso di chiarire, era stato anche perché il suo editore aveva rilanciato Il giorno della civetta come profetico. «Io detesto passare per profeta: sono uno che sommando due più due dice che fa quattro» scrisse, infatti, in quella circostanza. E, a proposito della tesi sostenuta dal Candida nel libro menzionato, invece: «Tutti i delitti “oscuri” in cui l’identificazione del colpevole è difficile se non addirittura impossibile, sono compiuti, o almeno avallati, dalla mafia. Questi delitti godono di una rete protettiva – omertà, alibi e garanzie economiche – quasi inestricabile; mentre altri delitti restano, nel senso proprio della parola, scoperti. Conseguenza di ciò [ma di questa conseguenza il Candida tace] è che una polizia non modernamente attrezzata è costretta, per tentare di ridurre l’altissimo coefficiente di impunità, a servirsi di “confidenze” provenienti dall’ambiente stesso della mafia». Praticamente già in nuce Il giorno della civetta. L. SCIASCIA, La mafia, in ID.,

Pirandello e la Sicilia, in C.AMBROISE (a cura di), Leonardo Sciascia, Opere (1984-1989), cit., pp. 1180-1181. 14

P.DI STEFANO, Malerba: Sciascia fece della mafia un mito, in “Corriere della sera”, 31 maggio 2005.

15 M.C

OLLURA, Ma chi dice certe cose non ha capito la sua denuncia, in “Corriere della Sera”, 31 maggio 2005.

16

F.CILLUFFO, Leonardo Sciascia: cinque immagini della Sicilia, in ID., Due scrittori siciliani. Brancati e Sciascia, Caltanissetta-Roma, Edizioni Salvatore Sciacca, 1974, p. 79. È lo stesso Cilluffo a citare De Feo e il giudizio da questi espresso, a proposito della versione teatrale de Il giorno della civetta.

17 V.A

MORUSO, Il giorno della civetta, in “Nuova corrente”, n. 22, aprile-giugno 1961.

18

Giuseppe Bonura, muovendo molte critiche ai narratori di oggi, immemori della «lezione di Sciascia» e di quella, sia pure «più modesta, di Fruttero & Lucentini», de La donna della domenica, innescò la miccia per un’accesa polemica sulle sorti e la qualità del giallo dei nostri giorni, in cui «il linguaggio letterario è stato soppiantato dal linguaggio massmediatico e fumettistico», i cui autori spuntano «come funghi dopo la pioggia», legittimati da una «cultura intrisa di valori pragmatici: più vendi e più hai ragione». Bonura nell’occasione tesse le lodi de Il giorno della civetta, secondo i termini ripresi nella disamina. G.BONURA, Ma i gialli sono romanzi?, in “Avvenire”, 25 settembre 2003. Nell’ambito della medesima querelle, Piero Colaprico ebbe a dire che «come lui [Sciascia] non ne nascono tanti in un secolo», in P. COLAPRICO, Il giallo: una forma d’indagine sulla realtà, in “Avvenire”, 26 settembre 2003.

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Mauro, Geno Pampaloni. È evidente che il primo poliziesco di Sciascia è una delle opere italiane contemporanee tra le più studiate e discusse19.

Ma, dato che altre sono le priorità della ricerca, ci si limita a citare il generoso giudizio di Italo Calvino, che gli scrive:

Caro Sciascia,

letto Il giorno della civetta. Sai fare qualcosa che nessuno sa fare in Italia: il racconto documentario, su di un problema, dando una compiuta informazione su questo problema, con vivezza visiva, finezza letteraria, abilità, scrittura sorvegliatissima, gusto saggistico quel tanto che ci vuole e non più, colore locale quel tanto che ci vuole e non più, inquadramento storico e nazionale e di tutto il mondo intorno che ti salva dal ristretto regionalismo e un polso morale che non viene mai meno. Si legge d’un fiato20.

È il 23 settembre del ’60 e l’entusiasmo di Calvino è già una consacrazione. Nella lettera successiva, nella quale lo avvisa che Il giorno della civetta sta arrivando alle stampe, l’illustre letterato si preoccupa di fare una scherzosa precisazione: l’affettuoso congedo, «Sta’ in guardia» della lettera precedente è un errore della segretaria, che ha battuto male il suo «Sta’ in gamba»; ma, aggiunge, non lo correggerà, perché «con la mafia che tira non è fuor di luogo»21. Dalla battuta si deduce la portata provocatoria del romanzo che stava per diventare un caso letterario.

I.2 Fabula e intreccio

La vicenda narrata è nota.

All’alba di un giorno imprecisato, in un paese imprecisato della Sicilia, si consuma l’omicidio, a colpi di lupara, di un piccolo imprenditore edile, Salvatore Colasberna, che si era rifiutato di sottostare alla cosiddetta “guardianìa”, una tangente imposta dalla cosca mafiosa che gestiva appalti di lavori pubblici e non si accontentava delle semplici estorsioni.

Dirige le indagini con solerzia e serietà il capitano Bellodi, parmense, che ha partecipato alla Resistenza e che crede nel diritto. I metodi investigativi ai quali ricorre per risolvere il caso sono tradizionali: interrogatori, anche incrociati, e le soffiate di un informatore. In più, la comparazione

19

Per completezza di informazione, aggiungo che numerose sono le pubblicazioni fiorite allo scopo di fornire strumenti esegetici atti a favorire una ricezione consapevole, tra le quali quella di Nicola Fano, che offre una disamina sugli aspetti considerevoli del romanzo. Cfr. N.FANO, Come leggere il giorno della civetta, Milano, Mursia, 1993. Vanno ricordati, inoltre, con propositi prevalentemente didattici, i lavori di Antonietta Italia, che raccoglie un’antologia della critica, e di Cinzia Crepaldi, che effettua una sintesi meticolosa. Cfr. A.ITALIA (a cura di), Il giorno della civetta, cit.; C.CREPALDI (a cura di) Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, Milano, Antonio Valladi, 2002.

20 I.C

ALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, p. 666.

21

Nel 2004, dai cassetti riordinati dalla vedova Sciascia, è emerso un carteggio, iniziato nel 1953 e terminato nel 1981, puntualmente consegnato alla Fondazione a lui intitolata, in cui compare, a testimonianza di un rapporto di stima e affetto reciproci, un’ultima lettera di Calvino, datata 26 maggio, che suona come un appello al vecchio amico a vedersi qualche volta, come ormai non succedeva da tanto tempo. Cfr. F.CAVALLARO, Quando Calvino bacchettava Sciascia, in “Corriere della Sera”, 26 novembre 2004.

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delle grafie e, all’occorrenza, l’astuzia “filologica” poco ortodossa di una confessione fasulla, ma presentata come giustificata dal fine e coronata dal successo, benché solo nell’immediato.

Presto le indagini sull’omicidio si intrecciano con quelle sulla scomparsa del potatore Nicolosi, che potrebbe essere stato testimone involontario del delitto e perciò, come si scoprirà presto, assassinato.

Il confidente Parrinieddu, dopo tentennamenti e resistenze, darà al capitano un indizio prezioso per imboccare la pista giusta e arrivare almeno a uno degli esecutori materiali (Zecchinetta, soprannome derivatogli da un gioco di carte, è colui che ha freddato Colasberna) e, soprattutto, al mandante: il potente capomafia del circondario, don Mariano Arena, che ha agganci molto in alto, nei palazzi romani del potere, come il lettore già sa grazie agli inserti dei dialoghi di alcune di queste personalità che discutono dei fatti della Sicilia, decidendo la salvezza dell’intoccabile boss da loro protetto e la sorte dello scomodo capitano, così ligio al dovere da intromettersi in questioni che toccano molto da vicino i loro interessi.

Bellodi riesce ad arrestare don Mariano, a interrogarlo e metterlo in galera, ma presto questi ne uscirà, grazie all’inquinamento delle prove ottenuto con le false testimonianze di «persone incensurate, assolutamente insospettabili, per censo e per cultura rispettabilissime» (p. 131), che smonteranno pezzo per pezzo l’impianto accusatorio.

La verità che verrà accreditata sarà quella mistificata, costruita ad hoc sulla falsariga ormai inflazionata del delitto passionale, che sarebbe scaturito da una relazione adulterina della giovane vedova del potatore. Così tutto alla fine ritornerà come prima, con il ripristino dell’“ordine” voluto dalla mafia.

Le tappe successive di questo epilogo si possono solo immaginare, poiché la vicenda si interrompe con l’allontanamento di Bellodi che, pur nella disillusione per lo smantellamento totale della sua perfetta ricostruzione dei fatti e delle colpe, pronuncerà, nella calma ovattata della natia Parma, l’ormai celebre, contestatissimo annuncio di un suo possibile ritorno in Sicilia, per riprendere la sua lotta contro la mafia.

L’intreccio non altera la cronologia progressiva della storia, benché la scomposizione in sequenze presenti, come si vedrà, aspetti molto particolari.

I.3 Titolo ed epigrafe

Tratterò congiuntamente il titolo e l’epigrafe de Il giorno della civetta, in quanto il significato del primo, che è di tipo tematico, stabilisce un rapporto simbolico col testo, che rimarrebbe indecifrabile se non lo si ricollegasse all’epigrafe: la matrice shakespeariana offre una chiave di lettura fondata, ma non del tutto chiarificatrice.

La civetta del titolo è in stretta connessione con quella che figura nei versi dell’Enrico VI di William Shakespeare riportati da Sciascia in esergo:

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«…come la civetta quando di giorno compare».

Il rimando intertestuale è per pochi iniziati, non ha valenza ecumenicamente rivelatrice, tant’è che ne discendono diverse ipotesi: quella meno circostanziata, che vorrebbe un semplice accostamento storico al clima torbido e spietato che accomunerebbe la Sicilia della mafia all’Inghilterra di Enrico VI; quella che risolve sbrigativamente l’arcano con la tesi del malaugurio portato dall’uccello così nella tragedia come nel romanzo; quella, più convincente, che evoca il richiamo simbolico al motivo funebre.

Nella scena quarta dell’atto III della tragedia, nella pianura presso Tewksbury si muovono vari personaggi: la regina Margherita; il giovane principe Edoardo, figlio di Enrico; il duca Somerset e Oxford, suoi sostenitori. Il momento è dei più drammatici. Dopo la brevissima tregua stipulata dal re Enrico VI e dal duca di York, Riccardo, infuria la contesa tra gli opposti schieramenti. Di lì a poco ci sarà un’ecatombe, nella quale saranno uccisi sia Edoardo che lo stesso Enrico VI.

Ma in questo frangente, che prelude alla spannung della tragedia, vengono pronunciate battute solenni. Per prima la regina Margherita ricorda ai presenti che non c’è da attendersi clemenza dal nemico crudele e che solo il coraggio può sostenere la loro povera navicella. Le parole della regina infiammano il giovane figlio che esalta il valore della madre: «una donna così valorosa ispirerebbe magnanimità nel petto di un vile che l’udisse pronunciare queste parole e gli farebbe, anche inerme, tener testa a un armato». Interviene Oxford a lodare il coraggio della donna e del ragazzo e a esortare i guerrieri a non mostrarsi pusillanimi. È a questo punto che il duca di Somerset pronuncia la battuta ripresa da Sciascia: «e chi non vorrà oggi combattere per una simile speranza, se ne torni alla propria casa; si ponga a letto, e, se ardirà mostrarsi alla luce del giorno, sia fatto oggetto di scherno e di meraviglia, come avviene alla civetta quando fuor d’ora si mostra».

All’alto momento di solidarietà militante fa seguito un guizzo sprezzante che si carica di un alone sinistro attraverso la visione della tenebrosa civetta che si affaccia in un’ora insolita. Gli eventi precipiteranno e il coraggioso giovinetto troverà la morte per mano dei sostenitori degli York, che vilmente infieriranno in tre contro di lui; sarà poi la volta dello stesso Enrico VI, che verrà ucciso da Gloucester, non prima di avergli profetizzato sciagure e aver maledetto la sua nascita, mentre ricompare in scena una civetta a far sentire il suo «stridio di malaugurio».

Proviamo, dunque, a spiegare il senso della citazione e ad interpretare l’ermetico titolo. L’associazione di idee che scatta immediata lega quest’ultimo al motivo funebre, chiamato in causa dall’uccello notturno, anche se per quanto riguarda la Sicilia tale motivo appare connesso non al buio ma alla luce (i delitti di mafia consumati di giorno). Spostando il tiro, si perviene, piuttosto agevolmente, a una prima deduzione: la misteriosa civetta che compare nel titolo è quella che può divenire «oggetto di scherno e di meraviglia», se «si mostra fuor d’ora», qualora non si sia cimentata nella lotta giusta a tempo debito.

La metafora sembrerebbe di primo acchito allusiva al capitano Bellodi che, essendo estraneo al contesto e provando a lottare non solo contro gli errori dei singoli ma contro una mentalità

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diffusa e radicata, appare diverso, dissonante: il suo voler scoprire misfatti in Sicilia, addentrandosi nei meandri occulti della criminalità organizzata, scoprendo alla vista degli uomini quel che viene tenuto celato, si profila come un atteggiamento innaturale, come la condizione della civetta di giorno, che suscita derisione e stupore22.

E, difatti, l’intrepido capitano giunge assai vicino agli intoccabili potenti, e per questo viene sollecitamente mandato in licenza23 (e si presume allontanato per sempre); una volta rientrato nella calma ovattata e indolente della sua Parma, dopo qualche legittimo tentennamento, esprime il proposito di tornare, malgrado tutto, in quell’«incredibile» Sicilia, anche a costo di «romper[cisi] la testa»: un finale che, interpretato a lungo come un messaggio di speranza, suscita non poche perplessità tra i commentatori24, in quanto suona come un’ingenuità non del tutto credibile in un autore come Sciascia che, razionale e già privo di illusioni, parrebbe lusingato da una possibile redimibilità della sua terra ad opera di un estraneo alla mentalità siciliana, un settentrionale25 di sani principi e amante della sua terra, come se il riscatto potesse arrivare solo attraverso il ricorso a interventi dall’esterno.

La lotta che Bellodi vorrebbe continuare viene così, in virtù dell’epigrafe, messa in relazione a quella combattuta dai sostenitori di Enrico VI in suo favore: ma Enrico VI viene dipinto da Shakespeare come un re non proprio fermo e risoluto, non del tutto meritevole, insomma, di tanto sangue versato, così come viene descritto il microcosmo siciliano, impregnato di una biasimevole cultura mafiosa che lo rende altrettanto immeritevole di abnegazione, di altruistico sostegno, a meno che questo bisogno di emancipazione non nasca dal suo stesso seno.

Bellodi, dunque, secondo alcuni si mostra vanamente testardo, benché non sia apparso affatto sprovveduto, ma abile e astuto nel cogliere le debolezze altrui, oltre che stringente nelle deduzioni e accattivante nei modi; altri, invece, connotandolo come eroico paladino del bene, gli assegnano il merito di riscattare la miseria morale e spirituale di coloro che gli stanno intorno e

22 Cfr. E.C

ATALANO, Un cruciverba memorabile, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 82. Ettore Catalano, regista e scrittore, è nipote di Leonardo Sciascia.

23 In verità, nel libro si legge che era stato lo stesso Bellodi a chiedere una licenza per malattia, perché stanco e provato

dalle vicende recenti, ma si ha subito sentore che la licenza preluda a un suo allontanamento definitivo. Del resto, anche l’altro inquirente della storia, che aveva collaborato con Bellodi, «il comandante della Stazione di S., maresciallo maggiore Arturo Ferlisi, era stato trasferito, a sua domanda, ad Ancona» (L.SCIASCIA, Il giorno della civetta, cit., p. 133). Forse oggettiva «stanchezza di nervi» anche per lui e desiderio di una vita tranquilla, lontano dalla trincea della lotta alla mafia, ma più probabilmente pressioni dall’alto, dopo l’arresto di don Mariano, come la prolessi che segue annunciava: «ebbe visione dell’iliade di guai che da un gradino all’altro, giù giù come una palla di gomma, sarebbe finita col rimbalzare in faccia a lui, maresciallo maggiore Arturo Ferlisi, comandante la stazione di S.: e non per molto tempo ancora, dal modo come le cose stavano mettendosi» (p. 71).

24 Walter Pedullà, ad esempio, sostiene che ritenere che «il ritorno di un ufficiale onesto possa servire in modo decisivo

alla causa siciliana » sia un segno di «ingenua speranza, pur esigua». Cfr. in W.PEDULLÀ, in “Avanti”, 31 ottobre 1961.

25

Si è molto discusso sulla settentrionalità di Bellodi e c’è stato chi, come Walter Mauro, ha parlato di una «radicata convinzione di inferiorità del siciliano di fronte all’uomo del Nord, una sorta di complesso che tende a compiere una divisione arbitraria tra buoni al Settentrione e cattivi al Sud, cui neanche uno scrittore lucido come Sciascia riesce a sfuggire, sia pure con malcelata cautela» (cfr. W.MAURO, Leonardo Sciascia, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 54). Per sfatare ogni illazione analoga, basterà tener conto del fatto che la provenienza settentrionale costituisce il veicolo per trasmettere quelle informazioni disseminate nel testo a proposito della Sicilia, dei suoi costumi e della mentalità su cui attecchisce e prospera la mafia, a proposito del lessico e dei modi di dire, che non troverebbero una giustificazione plausibile se il protagonista fosse stato siciliano. È, pertanto, funzionale agli scopi del narratore.

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57

quello di indicare una strada per la soluzione26, forte della convinzione di poter trasferire – e fondare – nella società siciliana quei valori portanti della resistenza cui ha partecipato e nei quali crede.

Bellodi, in tal caso, si presterebbe anche ad essere oggetto di sola “meraviglia”, in quanto a stupire potrebbero essere la sua fermezza nel voler fare prevalere la giustizia, la sua determinazione nel provare a capire un mondo che gli è estraneo allo scopo di incidere sul cambiamento delle sue storture, il suo intrepido donchisciottismo. E la civetta alluderebbe forse, ribaltando il concetto in positivo, a quella collettività che deve unirsi a Bellodi al fine di «combattere per una simile speranza» – la medesima nutrita dal capitano parmense –, ovvero il riscatto dell’isola dalla piaga della mafia, ora che c’è qualcuno che intende convogliare le energie sane verso tale meta e che ha il coraggio o l’incoscienza per continuare a farlo, malgrado tutto, e non «fuor d’ora», quando rischierebbe lo scherno per l’inopportuna scelta dei tempi. Una sorta di chiamata a raccolta, di sollecitazione a guardare in faccia la realtà non per subirla passivamente, bensì per provare a fronteggiarla. Si spiegherebbe, così, l’esortazione all’impegno civile attribuita all’epigrafe da studiosi come Giuseppe Traina27, che richiama un motivo ben presente nella produzione dello scrittore di Racalmuto.

E che Bellodi si presti a essere oggetto di scherno, lui che è stato riconosciuto “un uomo” perfino dal suo antagonista, il più celebre tra i “cattivi” sciasciani, apparirebbe contraddittorio, visto che è rappresentato come un personaggio combattivo e positivo (tanto che a lungo è stato impropriamente indicato come alter ego dell’autore). Si potrebbe ipotizzare che Sciascia si sia affidato, nel titolo, al punto di vista altrui, come nel finale di A ciascuno il suo, dove l’epitaffio per Laurana è l’appellativo di cretino affibbiatogli dalla comunità e solo in parte condiviso dal suo creatore.

D’altronde uno dei maggiori conoscitori del pensiero di Sciascia, Claude Ambroise, dice espressamente: «un siciliano, ad esempio, sarà probabilmente portato a tacciare d’ingenuità, di esagerato idealismo l’uomo venuto dal Nord. Non è escluso che quel “polentone” moralista susciti irritazione e scherno»28.

A rinforzare la dose per provare a sfatare dubbi residui e dare una risposta, plausibile se non definitiva, interviene, a mio avviso, lo stesso Sciascia, il quale, subito dopo aver delineato un breve ritratto fisico del suo primo investigatore («era giovane, alto e di colorito chiaro», p. 20), racconta che «dalle prime parole che disse i soci della Santa Fara pensarono 'continentale' con sollievo e disprezzo insieme; i continentali sono gentili ma non capiscono niente» (p. 20).

26 Cfr. V.D

E MARTINIS, Il giorno della civetta, in “Letture”, n. 7, luglio 1961.

27 G.T

RAINA, Leonardo Sciascia, cit., p. 130.

28 C.A

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58

I.4 Il primo poliziesco: prove tecniche per una futura cifra stilistica

Almeno all’apparenza, Il giorno della civetta si conforma ai canoni del poliziesco, per quanto riguarda gli ingredienti principali. All’inizio, infatti, solo un flash descrittivo di una situazione consuetudinaria (l’autobus di linea col suo carico di passeggeri, il solito venditore di panelle e il solito metodico bigliettaio) e perciò “stabile” in forza proprio della ripetitività, in cui irrompe un elemento di disturbo rappresentato da un omicidio; disturbo al quale si viene presto ad aggiungere un altro elemento alieno: il capitano Bellodi, la cui oggettiva estraneità al contesto è subito chiara. Provenendo dal Nord d’Italia, costui non è né può essere integrato nel contesto socio-culturale della piccola località siciliana nella quale tenta di ristabilire l’ordine turbato dall’evento delittuoso, cercando di capire le dinamiche interne, malgrado le difficoltà che incontra perfino nel decodificare la lingua del posto.

Gli ingredienti del giallo ci sono tutti: il mistero delle morti da risolvere, la presenza di un inquirente dotato di un certo acume e che, sia pure con qualche semplificazione, rappresenta il bene, la descrizione delle indagini attraverso gli indizi, il rituale degli interrogatori e delle testimonianze, la ricostruzione del misfatto con la scoperta del colpevole29 dell’assassino materiale, la deduzione sul mandante e la volontà di salire più in alto, fino a incastrare i protettori politici del mafioso. Ma è qui che Bellodi incappa nella barriera di impenetrabilità del mondo mafioso e viene estromesso, rispedito nella sua Parma, sconfitto, come sconfitta sarà “la verità”.

Solitamente, nel prevedibile finale dei gialli, il colpevole non può sottrarsi all’ammissione di colpa e al riconoscimento della legittimità del suo antagonista, rappresentante delle istituzioni, degli inquirenti che lo mettono fuori gioco, condannandolo e recludendolo. Solitamente il detective agisce all’interno di uno Stato legittimo ed efficiente che richiede e favorisce la scoperta del colpevole, per poi ratificarne la punizione.

Su questo punto nevralgico, dunque, le convenzioni letterarie sono già infrante: nessuna rassicurazione sulla catarsi finale né sulla certezza della pena, ma la riacquistata libertà per i colpevoli, solo temporaneamente e brevemente assicurati alla giustizia; e soltanto un riconoscimento di valore al detective, non da parte della collettività che ha protetto, ma da parte del principale colpevole, don Mariano.

La regola più importante, quella che Chandler ritiene ineludibile, non trova applicazione né in questo né negli altri gialli di Sciascia:

9. Il romanzo poliziesco deve punire il criminale in un modo o nell’altro, non necessariamente mediante il giudizio di un tribunale […] Senza la punizione, il romanzo diventa simile a un accordo non risolto in musica. Lascia un senso di irritazione30.

29 In verità, il colpevole è reo confesso e già, pertanto, non obbedisce in toto alla prescrizione secondo la quale non va

affidata a una confessione lo scioglimento del mistero.

30 Cfr. R.C

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59

La giustizia non punisce chi ha infranto la legge degli uomini e la morale condivisa: il lettore non viene sollevato dall’ansia di un male che impera e che non può essere dominato o vinto.

Sciascia, in realtà, non era il primo ad abolire la punizione del colpevole: la narrativa contemporanea non la considerava più un punto imprescindibile, come attesta già nel 1940 Cesare Giardini, il quale fin da allora sosteneva che, più della punizione del reo, al lettore preme scoprire l’identità del colpevole e seguire le strategie investigative messe in atto dal detective31.

È innegabile, tuttavia, che i finali dei polizieschi dello scrittore siciliano lasciassero – e lascino – un senso di impotenza, più che di irritazione, forse anche «per i verminai che comunque sono stati scoperchiati nel corso dell’inchiesta»32 e che impediscono di distinguere chiaramente i colpevoli dagli innocenti, evocando a volte colpe collettive mai punite33.

Sciascia rispetta in questo romanzo buona parte delle regole del poliziesco, almeno quelle coerenti con la natura realistica del suo narrare perfettamente calato in una precisa situazione storica e sociale: per esempio, l’azione delittuosa si articola in tre omicidi, con un primo morto che cade all’indietro (cinematograficamente), mentre sta salendo sul predellino dell’autobus, un secondo morto del quale si presagisce la fine che avverrà sulla porta di casa, quando «due infallibili colpi lo colsero» e un terzo tragicamente ritrovato nel “chiarchiaro”. Lo scrittore dunque condivide la presa di posizione espressa dal settimo articolo del codice di Van Dine, che così recita:

7. Ci deve essere almeno un morto in un romanzo poliziesco e più il morto è morto, meglio è. Nessun delitto minore dell’assassinio è sufficiente. Trecento pagine sono troppe per una colpa minore. Il dispendio di energie del lettore deve essere remunerato!34

Sciascia conosce bene questa regola: in Breve storia del poliziesco, sottolineando la “perfezione” dei racconti di Poe, che ne La lettera rubata può perfino permettersi di rinunciare al morto, parla dell’omicidio come del «crimine assoluto e necessario da cui muoveranno tutti i romanzi polizieschi», e spiega che, con questa scelta di base, «il “giallo” risponde alla coscienza e nozione popolare del crimine come omicidio, soltanto omicidio»35. Rigorosamente conseguente al

31 L’informazione è riportata da Giuseppe Traina, il quale ritiene improbabile che a Sciascia, avido lettore dei “Gialli

Mondadori”, fosse sfuggito un romanzo dell’agrigentino Ezio D’Errico, in appendice al quale si trovava il saggio di Cesare Giardini, dedicato al fatto che al lettore, più che l’assegnazione della punizione, interessava conoscere l’identità del colpevole «e per quali vie l’investigatore giungerà a scoprirlo». G.TRAINA, In un destino di verità – Ipotesi su

Sciascia, Milano, La vita felice, 1999, p. 115. Traina, a sua volta, cita C.GIARDINI, Del leggere libri gialli, in E. D’ERRICO, Il naso di cartone, Milano, Mondadori, 1940, p. 238.

32 Così G.T

RAINA, In un destino di verità – Ipotesi su Sciascia, cit., p. 90.

33 In A ciascuno il suo, Benito, il personaggio folle e saggio insieme, per il quale Sciascia conia l’espressione suggestiva

quanto condivisibile che la pazzia sia «una specie di porto franco della verità», dice, a proposito del disastro della diga del Vajont: «E resterà impunito, appunto come i più bei delitti nostrani, come i più tipici» (p. 99).

34 S.S.V

AN DINE, Twenty rules for writing detective stories, in “The American Magazine”, settembre 1928. Sciascia, dal canto suo, non arriva mai a tediare il suo lettore con un racconto troppo lungo.

35 Sciascia motiva l’affermazione con un dotto ricorso al testo Politique et crime di Enzensberger, che a sua volta

illustra come «il crimine originale, il crimine capitale» faccia «scattare la legge del taglione», innescando il meccanismo della punizione come pena di morte. L.SCIASCIA, Breve storia del romanzo poliziesco, in ID., Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, pp. 219-220.

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principio teorico, in questo poliziesco come negli altri Sciascia attua in pieno la regola del far gravitare la storia intorno al crimine per eccellenza.

I tre delitti, inoltre, sono stati commessi intenzionalmente, con predeterminazione (regola n. 19) e la loro risoluzione avviene sempre con metodi naturalistici e razionali, senza mai esulare dal campo del reale, così come accade per i crimini stessi, che non hanno mai connessioni col fantastico, secondo lo spirito della Poetica di Aristotele36, che vuole la verosimiglianza del racconto, le regole di Van Dine37 e l’orientamento di Chandler38 e, soprattutto, in ottemperanza al suo «loico» sentire.

Il personaggio “deduttore” è uno soltanto ed è incarnato da Bellodi, perché gli aiutanti non svolgono un ruolo significativo per la soluzione del caso, sebbene qualcuno di loro intervenga attivamente nel corso delle indagini. Il capitano è colui che mette a punto una strategia investigativa e che risolve l’enigma.

Rispettato è anche il canone relativo all’inevitabilità della soluzione, che anche Chandler vorrebbe inviolabile: a un’accorta rilettura, la soluzione proposta appare l’unica possibile, quella per la quale gli indizi erano davvero stati disseminati dallo scaltro giallista, ma in modo da «eludere un lettore ragionevolmente intelligente» (regola n. 6 di S.S. Van Dine). Qualche dubbio residuo anche in relazione a questo percorso è costituito dal finale dilatorio, ossia dall’ipotesi di un possibile ripristino delle giuste regole del vivere civile. Il ritorno in Sicilia, soltanto vagheggiato da parte di Bellodi, infatti, innescando comunque in un lettore fiducioso la congettura di una futura punizione dei colpevoli, parrebbe indicare un narratore per il momento ancora incerto se rappresentare il mondo reale, anche se poco confortante, intessuto di sconfitte del bene e del giusto, oppure lasciare uno spiraglio alla speranza, magari solo per non deludere troppo un pubblico viziato da finali rincuoranti, benché poco credibili. Scopriremo che non è così già in questo primo romanzo poliziesco, ma di sicuro nelle opere più mature non sorgeranno dubbi in proposito, mentre si

36 Riporto un estratto dal passo 15 della Poetica di Aristotele, di seguito:

«E anche nei caratteri, come nella struttura della vicenda, bisogna cercare sempre o il necessario o il verosimile, di modo che risulti o necessario o verosimile che un determinato personaggio dica o faccia determinate cose, così come deve apparire necessario o verosimile che un fatto avvenga dopo un altro. È chiaro quindi che anche le soluzioni del racconto debbono promanare dal racconto di per se stesso e non da un’invenzione artificiosa».

37 Di seguito le relative regole elaborate da S. S. Van Dine:

5. Il colpevole deve essere scoperto attraverso logiche deduzioni: non per caso, coincidenza o non motivata confessione.

8. Il problema del delitto deve essere risolto con metodi strettamente naturalistici. Apprendere la verità per mezzo di scritture medianiche, sedute spiritiche, lettura del pensiero, suggestione e magie è assolutamente proibito. Un lettore può gareggiare con un poliziotto che ricorre a metodi razionali: se deve competere anche con il mondo degli spiriti e con la metafisica è battuto ab initio.

14. I metodi del delinquente e i sistemi di indagine devono essere razionali e scientifici. Vanno cioè escluse la pseudoscienza e le astuzie puramente fantastiche, alla maniera di Jules Verne. Quando un autore ricorre a simili metodi può considerarsi evaso dai limiti del romanzo poliziesco, negli incontrollati domini del romanzo d’avventura.

38 Nella terza norma di Chandler troviamo più genericamente che «il romanzo poliziesco deve essere realistico per

quanto riguarda personaggi, ambiente e atmosfera. Deve trattare di persone vere in un mondo vero». E, perciò, non può concedere aperture al metafisico, al paranormale o ad altro che non sia il verosimile, nel significato etimologico.

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complicherà l’intreccio e si manifesterà una tendenza all’oscurità volutamente ermetica della narrazione39.

Il giorno della civetta può considerarsi acquiescente anche alla norma che prescrive un

colpevole non sconosciuto: «una persona che sia divenuta familiare al lettore, e lo abbia interessato» (regola n. 10 di Van Dine), e indubbiamente tale è don Mariano.

L’obbedienza alle norme, tuttavia, finisce qui.

Non si può certo classificare, infatti, don Mariano come «una persona di fiducia, uno di cui non si dovrebbe mai sospettare» che incarnerebbe il colpevole ideale nella regola n. 11 di Van Dine. Il boss di cosa nostra, inoltre, acuisce le discordanze con il suo contraddire la regola seguente:

17. Un delinquente di professione non deve mai essere preso come colpevole in un romanzo poliziesco. I delitti dei banditi riguardano la polizia, non gli scrittori e i brillanti investigatori dilettanti. Un delitto veramente affascinante non può che essere stato commesso da un personaggio molto pio o da una zitellona nota per le sue opere di beneficenza40.

Al di là della prescrizione sulle categorie da privilegiarsi quali serbatoi di potenziali assassini, che suona oggi piuttosto bizzarra, ricordiamo bene che don Mariano è più che un professionista del crimine, che ha addentellati molto robusti col potere statale e religioso, e che è membro del governo di un’«associazione a delinquere», bandita dalla regola n. 13. La sua colpa è «collegiale» non soltanto per questo, ma anche per la rete di “amicizie” e “protezioni”, fondata su un fuorviato senso del “rispetto”, oltre che per la tacita arrendevolezza della gente, la cui paura si traduce in una omertosa complicità collettiva.

La motivazione “politica”, che la regola n. 19 delegittima, è, invece, sottesa ai delitti, ben più di quella personale, che, viceversa, troverebbe il plauso di Van Dine.

Quanto all’attività investigativa, si registrano altre anomalie rispetto alla tradizione: la soluzione arriva sì attraverso logiche deduzioni, ma queste sopraggiungono piuttosto presto, non già frutto di cavillosi e rigorosi ragionamenti, quanto di accostamenti agevoli e precoci in rapporto allo svolgimento della storia, che proseguirà, di conseguenza, non nell’attesa di una rivelazione riservata alle ultime pagine, ma sulla ricerca dei modi necessari a non dare scampo ai colpevoli.

Già da questa prima prova si delineano le caratteristiche del patto narrativo di Sciascia con il suo lettore, patto sui generis perché l’autore prevede che il suo romanzo debba «veicolare anche qualcos’altro, non solo il piacere di una storia poliziesca ben costruita»41. Da parte sua, l’autore si serve di raffinate tecniche di scrittura poliziesca e l’inchiesta diventa «mezzo particolarmente efficace per suscitare la riflessione e la presa di coscienza»42 della realtà. «Più che la fiction dell’inchiesta per Sciascia è importante la passione dell’inchiesta sulla realtà, il bisogno ansioso di

39 Nelle successive soties e in Todo modo in particolare, talune oscurità, derivanti da omissioni ed ellissi impiegate dal

narratore, renderanno più esitante la comprensione piena della soluzione, ostacolando un’immediata individuazione dei responsabili dei tre omicidi.

40

S.S.VAN DINE, Twenty rules for writing detective stories, cit.

41 G.T

RAINA, In un destino di verità – Ipotesi su Sciascia, cit., p. 90.

42 M.F

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conoscere una verità […]. L’inchiesta non è per lui una cosa in sé; è, al contrario, il mezzo privilegiato d’una riflessione insieme politica e filosofica»43. Dal canto suo, il lettore impara a non aspettarsi da Sciascia “solo” dei polizieschi, ma anche denunce, intuizioni, avvertimenti.

Come dire: non solo letteratura.

II

II

II

II.... Il film

Il film

Il film

Il film: introduzione

: introduzione

: introduzione

: introduzione

II.1 Genesi e critica

Quando fu pubblicato, il libro di Sciascia solleticò i desideri di alcuni produttori cinematografici, che pensarono a una trasposizione filmica, trainata dal grande successo editoriale, ma trascorsero sette anni prima che il progetto si realizzasse. Il testo, intanto, era stato adattato per il teatro e Giancarlo Sbragia lo stava portando sulle scene. Era stato prodotto anche il film di Petri su

A ciascuno il suo e andava prendendo corpo l’idea (accantonata ma non abbandonata) di un film

tratto da Il giorno della civetta.

I produttori Ermanno Donati e Luigi Carpentieri si misero in contatto con Damiano Damiani e Ugo Pirro, non senza suscitare nell’ambiente qualche pregiudiziale perplessità per il primo nominativo, già inviso a una parte della critica imperante, forse per una certa indipendenza intellettuale o forse per quel certo «anticipo sui tempi44» che oggi si è più propensi a riconoscergli.

Damiani ebbe qualche esitazione, come raccontò a distanza di molti anni:

Mi fu proposto Il giorno della civetta. Rimasi un poco perplesso, perché mi domandavo cosa conoscessi della Sicilia per poter fare Il giorno della civetta. In fondo non sono uno straniero, non è la parola giusta, ma sono un viaggiatore. E pensavo a Goethe e ai suoi viaggi. Facciamo dunque un viaggio, mi dicevo, però mi rendevo conto che esistono, per quanto riguarda l’analisi di una cultura, quelli che sono nati in un paese e quelli che lo visitano… È chiaro che io so sulla Sicilia neanche un centesimo di quello che sa un siciliano che è nato e cresciuto qui e quindi, in un certo senso, dovrei dire che non ho neanche il diritto di fare un film sulla Sicilia. D’altra parte però bisogna anche riconoscere che spesso quelli che nascono in un posto pensano che tutto il mondo sia fatto come il posto in cui sono nati e non sono portati a fare dei paragoni, mentre il viaggiatore fa più paragoni. E ciò può essere produttivo, anzi direi che il confronto è alla base della cultura, che se non ci fosse il confronto non ci sarebbe proprio nessun progresso. Quindi mi sono detto, forse riesco a farlo, anche perché il protagonista di questo romanzo di Sciascia è un capitano che viene da

43 G.T

RAINA, In un destino di verità – Ipotesi su Sciascia, cit., p. 90.

44 A.P

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Parma, quindi mi identificavo con il capitano Bellodi che viene in Sicilia e si guarda intorno e cerca di capire45.

Un approccio corretto, oltre che umile46 e intelligente, per l’individuazione del punto di vista più funzionale alla comunicazione con il lettore/spettatore, fondato sull’idea del film come viaggio di conoscenza e confronto.

Si può tranquillamente ipotizzare che alle perplessità iniziali abbia contribuito anche la consapevolezza di doversi confrontare con uno scrittore scomodo47, dalla vena fortemente polemica e caustica48, che appena l’anno prima aveva stroncato la rilettura di A ciascuno il suo di Petri e Pirro e con uno stuolo di lettori e studiosi pronti a svilire il prodotto cinematografico rispetto al libro.

Damiani, insomma, conosceva le incognite dell’operazione nell’accingersi alla trasposizione del testo e sapeva che il successo del libro recava con sé un vantaggio iniziale per la funzione di traino, ma soprattutto costituiva un rischio, dal momento che un’opera di «peso» qual era Il giorno

della civetta induceva a un maggiore rispetto che non un romanzo mediocre, forse addirittura a una

soggezione inibente e «quindi in fondo [avrebbe potuto determinare] una diminuzione artistica»49. Per lui, forse perfino più che per Pirro, accettare l’incarico era quasi una sfida50. Un po’ come la sfida di cui si narra nel film.

45

D.DAMIANI, Relazione, in A.ZAPPULLA (a cura di), La giustizia nella letteratura e nello spettacolo siciliani tra ‘800

e ‘900: da Verga a Sciascia, Atti del convegno di studi, Catania 15-18 dicembre 1994, Catania, La Cantinella, p. 458.

Damiani aggiunge: «Che cosa mi ha insegnato il giorno della civetta? Mi ha insegnato che la mafia, di cui si deve per forza parlare ad un certo punto, non è un fatto di criminalità, è un fatto di costume, cioè don Mariano Arena – se ne accorge il capitano Bellodi – non è un capobanda, rappresenta un’entità di ordine culturale proprio». Ibidem.

46

Damiani mostrerebbe «l’onestà di alcuni intellettuali di cinema e buoni artigiani che riconoscono all’autore letterario il merito e la qualità dell’impostazione e riservano, invece, per loro stessi, i margini della lettura e della traduzione». Si veda P.BERENGO GARDIN, Il giorno della civetta, in “Cinemasessanta”, nn. 67-68, 1967, p. 118.

47 «Sciascia, nei confronti di noi sceneggiatori dei suoi libri, era stato molto polemico, sfiduciato: ma gli scrittori, si sa,

sono sempre così» in A.PEZZOTTA, Regia Damiano Damiani, cit., p. 206.

48 «Ah, perché poi si fa questo film?» avrebbe detto Sciascia (cfr. A.P

EZZOTTA, Regia Damiano Damiani, cit., p. 209), tra il finto ingenuo e il disinteressato, al direttore de “L’ora” di Palermo, che lo aveva contattato per concordare un servizio prima delle riprese che stavano per cominciare; e ancora: «Vorrei solo che [Damiani] non facesse un film anacronistico: per lui, e non certo per me» (cfr. L.TERMINE, Sciascia, Dolci, Damiani e Il giorno della civetta, in “Cinema Nuovo”, n. 190, novembre-dicembre 1967, p. 445). Per vincere le resistenze di Sciascia non bastò al regista il garbo avuto nel recarsi in Sicilia per conoscerlo di persona ancor prima di iniziare le riprese: lo scrittore non si lasciò coinvolgere, come questa volta racconta lo stesso Damiani, che esprime, comunque, il rammarico per non aver poi approfondito quella conoscenza. Cfr. D.DAMIANI, Per Leonardo Sciascia, in S.GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, Catania, Maimone, 1992, p. 171.

49 M.D’A

VACK (a cura di), Cinema e letteratura, Roma, Canesi, 1964, p. 119. Damiani, intervistato da Massimo D’Avack nel 1963, parla in generale, e non di una circostanza in particolare (anche se ha già al suo attivo due film tratti dalla letteratura: L’isola di Arturo del 1962, tratto dalla Morante, e La noia del 1963, tratto da Moravia). Il concetto espresso, tuttavia, si attaglia perfettamente alla sua situazione futura, quando si accinge a girare la pellicola tratta da Sciascia.

50

L’aiuto regista, Mino Giarda, racconta che la lavorazione del film fu molto contrastata. Fin dal primo momento in cui si accingevano a iniziare le riprese ricevettero minacce dalla mafia: «Il giorno della civetta sarà il giorno della tua morte». Giarda e gli altri si intimorirono, ma il capitano dei carabinieri del posto, tale Zappalà, li tranquillizzò, mentre Damiani negò di avere paura con un monosillabo: un laconico “no”. Per sicurezza, in ogni caso, furono reclutati come comparse carabinieri veri. A.PEZZOTTA, Regia Damiano Damiani, cit., p. 207.

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Chissà se i due sceneggiatori hanno mai saputo che alla fine Sciascia si era espresso favorevolmente sull’opera cinematografica, con una dichiarazione che dovrebbe seppellire ogni polemica residua sul suo giudizio: «Eppure Il giorno della civetta era un buon film»51.

II.2 Il cast e il sistema dei personaggi

Una prima sfida, quella al botteghino, fu vinta: al successo contribuì in buona misura la capacità di attrazione di un cast attoriale di tutto rispetto, ma lo stile “americano”, fondato sulla corposa tessitura di una trama avvincente e sul ritmo sostenuto ebbe la sua importanza. Il film, infatti, incassò circa 500 milioni di lire, una cifra ragguardevole per l’epoca, se si pensa che il prezzo del biglietto si aggirava intorno alle 300 lire.

Tanto la coppia protagonista, infatti, (una Claudia Cardinale già musa degli intellettuali52 e un Franco Nero già affermato eroe western), quanto l’americano Lee J. Cobb, dal notevole vigore espressivo53, sperimentato in ruoli gangsteristici e western, e il siciliano Gaetano Cimarosa, caratterista egregio, si mostrano perfettamente calati nei personaggi.

Con un intervento vistoso sul testo, Damiani ne complicò la dicotomia, trasformandola in un robusto triangolo e dando rilevanza alla vedova Nicolosi. Franco Nero, nei panni di Bellodi, non persuase pienamente parte della critica, che lo trovò poco convincente54. A mio avviso, invece, egli si cala egregiamente nei panni dell’investigatore, con luci e ombre volute dal regista (e, in parte, dallo stesso Sciascia): condivisibile, perciò, l’apprezzamento di quei critici che gli conferirono il David di Donatello come migliore attore protagonista. Anche Claudia Cardinale vinse nella categoria per la migliore attrice protagonista, mentre l’antagonista americano, Lee J. Cobb, trovò numerosi consensi per l’interpretazione del cinico mafioso.

«Un grande trittico di pienezza epico-visiva che abbisogna di palesi e debordanti figurazioni spettacolari», sintetizza Fernando Gioviale55, che mette anche in luce come, malgrado l’avvenenza dei due attori italiani, non vi sia nessun facile cedimento a uno scambio erotico tra i due personaggi, chiusi nelle loro diverse solitudini.

51 L.S

CIASCIA,La mafia: un fenomeno che non capisco più – Intervista a Leonardo Sciascia di Sebastiano Gesù, in S.

GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., p. 151.

52 Cfr. S.M

ASI, Il divismo europeo dagli anni sessanta, in G.P.BRUNETTA (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. I, L’Europa, 1. Miti, luoghi, divi, Torino, Einaudi, 1999, pp. 970-972.

53 Fernando Gioviale, in proposito, scrive, forse con troppa severità, che l’attore americano fu «puntualmente servito ma

anche banalizzato, in un’eterna routine vocale dal doppiaggio di Corrado Gaipa». Cfr. F.GIOVIALE, Damiani e il giorno

della civetta: dalle oblique ironie della scrittura alla pienezza epica dell’immagine, in S.GESÙ (a cura di), Leonardo

Sciascia, cit., p. 90.

54

Tullio Kezich, tuttavia, ritiene il personaggio debole già nel romanzo, perché «da siciliano autentico, lo scrittore si muove a disagio nel tratteggiare la psicologia di un continentale». Si veda T. KEZICH, Il Millefilm – Dieci anni al

cinema (1967-1977), vol. I, Milano, Mondadori, 1983, p. 289.

55 F.G

IOVIALE, Damiani e il giorno della civetta: dalle oblique ironie della scrittura alla pienezza epica dell’immagine, cit., p. 90.

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65

Riuscita anche l’interpretazione di Serge Reggiani nei panni del confidente Parrinieddu, che rende egregiamente i tremori, le palpitazioni e le doppiezze di un personaggio chiave, benché minore, consapevole fin dal principio del suo destino di morte, presentita, attesa e puntualmente arrivata: il testo già ne studiava la pulsione primaria della paura, che Reggiani porta sullo schermo da specialista del ruolo, qual era ormai diventato, dopo aver impersonato don Ciccio Tumeo, il confidente del principe di Salina, nel Gattopardo di Luchino Visconti (1963).

Generale approvazione suscitò anche l’esilarante performance del caratterista Tano Cimarosa (ex “puparo”), nella sequenza dell’interrogatorio e del successivo rilascio, e poi della nuova cattura del “picciotto” omicida Zecchinetta. Nel film il personaggio è istrionico, eccessivo e divertente, mentre nel romanzo il suo lavorio mentale emerge solo da un monologo interiore. Damiani ne valorizzò al massimo le potenzialità espressive: un grande pregio della sua regia sta nell’aver dato spessore e personalità anche ai personaggi minori, in realtà quasi tutti poco caratterizzati nel romanzo (unica eccezione il confidente, le cui fibrillazioni, i cui patemi erano già efficacemente rappresentati).

Da ricordare anche l’interpretazione di Nehemia Persoff, che, nel ruolo di Rosario Pizzuco, rende bene le due facce dell’uomo: la tracotanza della presunta impunità e gli stravolti terrori al primo vacillare delle antiche certezze.

La qualità della regia, premiata con la targa d’oro alla cerimonia del David di Donatello del 1968, trovò estimatori eccellenti, come il critico Gian Luigi Rondi, che ne apprezzò il realismo recitativo:

I personaggi gridano, urlano, esprimono passioni autentiche, autentici travagli; hanno, a volte, l’impeto di un western (la Sicilia della mafia se bene intesa e interpretata potrebbe essere la cornice più autentica, geografica e morale, di genuini western italiani) hanno incubi e terrori veri, vere paure56.

L’obiettivo del realismo fu perseguito anche sul piano della lingua, ricoperta da una patina di regionalismo, soprattutto nei personaggi di bassa levatura, come Rosa, che si esprime spesso in dialetto. Le stesse ambientazioni rispondono al medesimo criterio: il film fu girato quasi tutto in esterni ed esclusivamente in reali località siciliane (tra Partinico, Alcamo e Palermo), tranne che per qualche scena girata a Roma, dove fu ricostruita negli studi cinematografici di Cinecittà una stanza della caserma dei carabinieri. La scelta rispondeva in primo luogo alle esigenze e al rigore del direttore della fotografia, Tonino Delli Colli, che volle sfruttare al meglio la naturale solarità della terra siciliana e il rapporto tra esterno e interno, creando giochi di luce e di ombre, che realizzavano quell’effetto di intrigo, tra l’apparenza e il mistero, cui aspirava il regista.

Per completare il crew, Damiani si affidò a nomi di prestigio fra cui lo scenografo Sergio Canevari e la costumista Marilù Carteny, gli stessi che avevano collaborato nel 1962 al Salvatore

Giuliano tanto apprezzato da Sciascia. Come musicista venne chiamato Giovanni Fusco, che seppe

56 G.L.R

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integrare i suoi motivi con le esigenze espressive del regista, pur non essendo chiaro se fosse stato scelto dallo stesso Damiani o se fosse stato assegnato dalla produzione, secondo la consuetudine di quel periodo, che non lasciava liberi i cineasti di scegliere il musicista a loro o all’opera più congeniale57.

II.3 Dalla scrittura all’immagine: western di “cosa nostra”.

Come ho già anticipato, la scrittura di Sciascia, cinematograficamente costruita, non ha trovato in Damiani sintonie di un corrispettivo visivo o di intenti.

È evidente che il regista, forte anche del talento di Ugo Pirro, suo collaboratore alla sceneggiatura, ha voluto orientare la sua opera verso altri obiettivi, dando un’impronta propria e non limitandosi a effettuare quella che viene impropriamente definita una “mera trascrizione”. Nel passaggio dalla scrittura narrativa a quella filmica sono state, infatti, intenzionalmente eliminate molte ironie, le digressioni introspettive, le astrazioni dei ragionamenti, le allusioni, le ellissi temporali, le complicazioni costruttivistiche e disarmoniche del “montaggio” di cui si tratterà, a vantaggio di una narrazione corpulenta e lineare, caratterizzata dalla piena coincidenza «tra evento e analisi, tra fatti e ipotesi, tra causa ed effetto»58.

A Sciascia interessava non solo illustrare il come, ma anche provare a indagare il perché del fenomeno mafioso, osservandolo non solo in quanto organizzazione criminale, ma anche in quanto costume e cultura radicata nei secoli di invasioni e di soprusi, nell’isolamento geografico, nella sedimentazione della diffidenza quale arma di difesa, nel silenzio, come risposta originariamente di dignità. A Damiani, invece, preme innanzitutto realizzare una storia avvincente, moderna, a suo modo coraggiosa. Egli rende, infatti, la vicenda romanzesca di assassini, connivenze, rancori e vendette, secondo un criterio dualistico, quasi manicheo e di sicuro effetto: la lotta tra bene e male. Il bene è costituito dal potere legale, di uno Stato difeso da un degno rappresentante, incorrotto e robusto, sebbene alla fine perdente; il male è potentemente rappresentato da don Mariano, riuscita allegoria del contropotere mafioso: uno Stato nello Stato, fondato su ordinate gerarchie e leggi draconiane, forte di un tentacolare sistema di interessi, che può affermarsi soltanto in un contesto di tacita e tragica rassegnazione omertosa. E, in questo sistema, chi “sgarra” deve pagare: così Colasberna, che non ha voluto piegarsi alla guardiania; così Parrinieddu, il confidente incauto, il cui cadavere sarà rinvenuto, con una trovata spettacolare, sotto quella strada che fin dall’inizio del film si andava costruendo: messo a tacere per sempre, con un tappo in bocca, come monito e deterrente; così il capitano, che viene punito con l’allontanamento forzato; così pure lo sventurato potatore Nicolosi, che ha la sola colpa di aver visto ciò che non doveva. Provvidenziale la grande risorsa del

57 Si veda in proposito E.C

OMUZIO, Colonne sonore, in G.CANOVA (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. XI (1965-1969), Venezia, Marsilio, 2002, p. 274.

58 F.G

IOVIALE, Damiani e il giorno della civetta: dalle oblique ironie della scrittura alla pienezza epica dell’immagine, cit., p. 90.

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