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La grande catena degli esseri e l'economia della natura: la posizione dell'uomo nell'ordine naturale

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Academic year: 2021

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La grande catena degli esseri e l'economia

della natura: la posizione dell'uomo

nell'ordine naturale

Voltaire, nel suo Dizionario filosofico (edito per la prima volta in forma anonima del 1764), prese implicitamente di mira in un colpo solo sia Leibniz, riguardo al suo abuso del principio di ragion sufficiente, che Linné, criticando la posizione elevata dell'uomo nella catena degli esseri. Alla causalità lunga della catena degli esseri e degli avvenimenti, in cui ogni fatto è letto e inserito all'interno di una series rerum che inanella l'universo (arrivando a risolversi in una teo-ontodicea), Voltaire vi contrappone la causalità breve di avvenimenti la cui logica si inserisce nell'isolamento del loro esibirsi fenomenico. Il campo causale sembra ridursi e rescindere i nessi armonico-universali tra gli eventi, i quali non sono destinati a produrre effetti transitivi. Se ogni effetto ha una causa, non è altrettanto vero che ogni causa produce effetti: «Questo sistema della necessità e della fatalità è stato inventato ai giorni nostri da Leibniz, a quanto egli dice, sotto il nome di ragione sufficiente; ma è in realtà molto antico; non è da oggi soltanto

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che non c'è effetto senza causa, e la più piccola causa può produrre grandissimi effetti. […] Però sembra che si abusi stranamente della verità di questo principio. Se ne è concluso che non c'è atomo, per minuscolo che sia, che non abbia influito sulla sistemazione attuale del mondo intero; che non c'è accidente così piccolo, sia tra gli uomini che tra gli animali, che non sia un anello essenziale della grande catena del destino. Intendiamoci: ogni effetto ha evidentemente la sua causa nell'abisso dell'eternità; ma, se discendiamo fino alla fine dei secoli, non tutte le cause hanno avuto il loro effetto. Tutti gli avvenimenti sono prodotti gli uni dagli altri, lo riconosco: se il passato ha partorito il presente, il presente partorisce il futuro. Tutto ha un padre, ma non tutto ha sempre dei figli. […] Gli avvenimenti odierni non sono i figli di tutti gli avvenimenti di ieri; hanno le loro linee di discendenza diretta, ma mille piccole linee collaterali non servono loro a niente»1. Qui, in un certo senso Voltaire ha parlato anche di ciò che accade nelle genealogie: all'interno di ogni famiglia c'è chi muore senza lasciare discendenza. Infatti solitamente gli alberi genealogici si estinguono, oppure procedono tra rami troncati o sterili.

Per il filosofo parigino quindi non si può più vedere la serie dei viventi come un insieme di anelli provvidenzialmente concepiti in funzione di un progresso del bene e di un incremento dei valori da

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realizzare, ma come atomi che si aggregano o si annichilano in base a una casualità cieca e, soprattutto, ateleologica. Leibniz invece, da sostenitore della grande catena degli esseri e degli avvenimenti qual'era, ci offrì di quest'ultima una rappresentazione teoretica tra le più elaborate del pensiero classico e moderno e, proprio in nome della concatenazione degli eventi storici, ha conferito alle linee genealogiche un posto di prim'ordine nella sua storiografia. Difatti, per quanto la storia non debba ridursi ad esse, genealogie e cronologie costituiscono la nervatura e l'ossatura della storia stessa: esse sono le strutture costitutive della catena dell'essere storico.

Segue poi, in Voltaire, un tentativo di ridimensionamento della posizione dell'uomo nella grande catena degli esseri che probabilmente sfuggì a Linné, forse a causa della barriera linguistica, in quanto il botanico svedese leggeva e scriveva soltanto in svedese e latino: «C'è un po' più di distanza tra Dio e le sue più perfette creature, che fra il Santo Padre e il decano del sacro collegio; questo decano può diventare Papa, ma il più perfetto dei geni creati dall'Essere supremo non può diventare Dio: tra Dio e lui c'è l'infinito. Questa catena, questa pretesa gradazione, non esiste neppure tra i vegetali e gli animali; e la prova è che certe specie di piante e d'animali sono estinte. Oggi non si trovano più i murici»2. E anche Linné è servito,

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seppure in alcuni scritti, la Nemesis divina su tutti, alcune sue frasi sembrano concordare con le teorie di Voltaire.

Detto ciò, il primo argomento da affrontare riguarda il contesto nel quale è inserito l'uomo: nell'universo infinito mostratoci dalla nuova scienza Dio pensa ovviamente in grande, creando l'universo che maggiormente corrisponde all'infinità della sua potenza e della sua saggezza. Quindi Egli non poteva perseguire altro fine se non l'esaltazione di questi due suoi fondamentali attributi. Leibniz ha affermato più volte che l'uomo non è il fine della natura, ma soltanto uno dei mezzi posti all'interno di questo piano divino della creazione: «È vero che il regno della natura deve servire al regno della grazia, ma poiché tutto è collegato nel grande disegno di Dio, bisogna credere che il mondo della grazia sia in qualche modo accordato con quello della natura, in modo che quest'ultimo abbia il maggior grado possibile di ordine e di bellezza […]. Nessuna sostanza è, agli occhi di Dio, né assolutamente disprezzabile né assolutamente preziosa.[...] A rigori, non è vero (sebbene appaia plausibile) che i benefici che Dio trasmette alle creature capaci di felicità mirino unicamente alla loro beatitudine. Tutto è connesso nella natura, e se un abile artigiano, un ingegnere, un architetto, un saggio politico fanno spesso servire una stessa cosa a più fini, se prendono due piccioni con una fava quando questo sia

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facilmente possibile, si può dire che Dio, la cui saggezza e potenza sono perfette, lo faccia sempre. Questo è amministrar bene il terreno, il tempo, il luogo, la materia, che costituiscono, per così dire, la sua spesa. Quindi Dio ha più di uno scopo nei suoi progetti. La felicità di tutte le creature razionali è uno dei fini verso il quale mira; ma non è affatto né l'unico né l'ultimo suo fine»3. Anzi: «Il genere umano,per quel che ne sappiamo, non è altro che un frammento, che una piccola parte della città di Dio»4. In questa prospettiva viene a prodursi una frattura tra uomo e natura, un'incongruenza che raramente si era presentata in modo così netto. E, oltre che all'esterno, questa frattura si trova anche all'interno della natura umana: l'uomo in quanto corpo rientra completamente entro i limiti stabiliti dall'ordine della natura e, in quanto fenomeno naturale, non può che sottostare alle leggi che regolano qualsiasi altro evento presente nel mondo; in questo ordine nulla può dirsi buono, cattivo, bello, brutto, giusto o ingiusto. L'uomo però non è solo regolato dalla natura, ma, grazie alla propria storia e alla propria evoluzione, è arrivato a iscrivere la sua vita all'interno della società civile dove buono, brutto e ingiusto vengono a costituire i valori fondamentali sui quali basare la convivenza. E proprio a questo punto sorge un primo problema: come conciliare l'ordine meccanico dell'universo con l'ordine civile, morale e religioso che sembra regolare

3 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte terza, pp. 250-251. 4 G.W. v. Leibniz, Saggi di Teodicea, cit., Parte seconda, p. 289.

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la natura umana?

In questo universo, dove l'uomo è o un semplice fenomeno naturale, oppure è un ente dalla duplice essenza appartenente a due regni diversi, che senso ha parlare di una sua natura corrotta per un presunto peccato originale, e quindi di una degradazione corporea, quando per qualsiasi corpo è fuori luogo parlare di corruzione, peccato, santità? D'altronde, a questo punto si impone anche la necessità di ripensare la posizione che l'uomo deve assumere relativamente agli altri animali. Davvero si può pensare all'uomo come al più alto ministro di Dio nel mondo animale, diretto sottoposto dell'Onnipotente in una gerarchia calcolata in base alla perfezione, oppure la superiorità è semplicemente un residuo della vanagloria antropocentrica della nostra specie, ogni volta messa in discussione dal mutare delle circostanze e delle forze presenti in natura?

Se prendiamo il problema da un altro punto di vista notiamo un accrescimento della distanza tra l'uomo e il resto del mondo animale. Difatti, se la scienza moderna poteva fornire il modello di un mondo corporeo capace di procedere da solo senza la presenza di alcuna forma o anima, dall'altro essa offriva anche la strumentazione concettuale per arrivare a una rigorosa definizione di ciò che è anima, spirito, mente. Tra anima e corpo infatti intercorre una differenza

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assoluta, un'opposizione di sostanze dall'antico sapore cartesiano. Se l'antichità ci ha lasciato in eredità la concezione di un universo da considerarsi come un cosmo, un organismo vivente dotato di anima e di respiro, nel trionfo della scienza galileiana prima, cartesiana poi e infine newtoniana, il grande animale cosmico perde ogni sua forma e si trasforma in una immensa macchina universale, di cui tutte le singole parti, compresi gli animali e gli stessi corpi degli uomini, non sono altro che banali ingranaggi. Ma le macchine non pensano né tantomeno sentono. Quindi, tutto ciò che fa parte della sfera dell'affettività non può derivare dalla corporeità: pensieri e sentimenti non hanno estensione e il loro essere si posiziona su un piano decisamente differente rispetto a quello della corporeità. Di conseguenza gli animali non sono affatto ciò che il loro nome ci porterebbe a pensare, cioè corpi dotati di un'anima, ma, nella visione leibniziana, sono considerati alla stregua di macchine, mentre l'uomo può permettersi di sommare anche una mente alla presenza del corpo-macchina. Inoltre gli animali sono immuni da sofferenze e, allo stesso tempo, godono molto limitatamente dei piaceri. Solo l'uomo può soffrire proprio perché può peccare: «Credo, se vogliamo essere esatti, che la percezione non sia sufficiente a causare l'infelicità, quando non sia accompagnata da riflessione. […] Non si può ragionevolmente dubitare che vi sia dolore

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negli animali; ma si ritiene che i loro piaceri e i loro dolori non siano altrettanto vivi quanto nell'uomo, dal momento che, non essendo capaci di riflessione, non sono soggetti né all'afflizione che accompagna il dolore, né alla gioia che accompagna il piacere. Gli uomini si trovano talvolta in uno stato che li avvicina alle bestie, e nel quale agiscono quasi unicamente per istinto, per le sole impressioni delle esperienze sensibili: in questo stato, dunque, i loro piaceri e i loro dolori sono molto attenuati»5.

Dopo aver preso in considerazione gli animali è il momento di analizzare un aspetto del creato che diverrà molto importante anche nei lavori di Linné: l'armonia, l'equilibrio che vige nel mondo naturale. Leibniz, anticipando la posizione del botanico svedese, aveva già utilizzato questo equilibrio per giustificare l'azione di Dio messa in relazione con la giustizia: l'agire dell'Onnipotente non è inteso come giusto per il semplice fatto che sia compiuto da Lui (ciò significherebbe ridurre la giustizia da importante norma a mero fatto), ma per la sua conformità con l'armonia universale. In questo modo la posizione di un criterio razionale di valutazione, del quale l'utile continua comunque ad essere l'elemento di gran lunga decisivo, consente di sottrarre l'ambito morale a ogni dipendenza dall'arbitrio, fosse anche solo quello divino. Quindi Dio non si prefigge necessariamente di ottenere l'amore degli

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uomini, ma ha piuttosto come principio del proprio agire l'armonia universale. Ancora anticipando le posizioni di Linné, Leibniz sostiene che la certezza della giustizia divina e della bontà della legge viene protetta da qualsiasi controesempio empirico. Essa poggia sulla certezza a priori dell'esistenza di Dio e della sua provvidenza, quindi sull'esistenza di un tribunale ultraterreno capace di elargire ricompense e comminare castighi secondo giustizia. In queste prime posizioni leibniziane possiamo notare come a Dio sia grato ciò che è in sé armonico. Il giusto è di conseguenza una cosa voluta da Dio, ma solo in quanto viene riconosciuta come ottima per l'universo.

Nello scritto del 1673 intitolato Confessio Philosophi Leibniz dà il suo primo abbozzo di teodicea partendo dalla ridefinizione delle categorie del discorso morale (bene, giusto) attraverso il concetto di armonia. La struttura di quest'opera ricorda quella dei dialoghi platonici, con un filosofo e un teologo che discutono riguardo a un precedente dialogo «sull'immortalità della mente e la necessità di un Reggitore nel mondo»6, identificato generalmente con la Confessio naturae contra atheistas, un trattatello che Leibniz compose nel 1668. Il dialogo tra il filosofo e il teologo è scandito in tre pause, ognuna delle quali segna un ulteriore approfondimento dell'argomentazione: la prima parte ribadisce l'assoluta determinazione di ogni evento, la seconda illustra

6 G.W. v. Leibniz, Confessio philosophi, in Confessio philosophi e altri scritti, tr. it. a c. di F. Piro, Napoli, Cronopio, 1992, p. 13.

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la nozione di armonia generale della serie delle cose e dimostra l'anteriorità delle idee dell'intelletto di Dio rispetto alla sua volontà, individuando in esse la causa dell'esistenza dei peccati. La terza introduce le nozioni di necessità, contingenza, possibilità e impossibilità. La presenza di un filosofo e di un teologo si spiega attraverso il duplice obiettivo di una teologia naturale che dimostri “geometricamente” l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima, nonché di una teologia scritturale che confuti le tendenze eterodosse, dal socinianesimo al molinismo.

Tornando ai concetti morali, per chiarire che cosa significhi che Dio è giusto, viene proposta una catena di definizioni:

«TEO: Per andar dritti al nodo della questione, credi che Dio sia giusto?

FIL: Lo credo. Anzi, lo so. TEO: Che cosa chiami Dio?

FIL: Una sostanza onnisciente e onnipotente. TEO: E che cosa intendi con giusto?

FIL: È giusto colui che ama tutti.

TEO: Che cosa intendi poi con amare? FIL: Il gioire della felicità altrui.

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FIL: È il sentire l'armonia.

TEO: E, infine, che cos'è l'armonia?

FIL: La similitudine nella varietà o la diversità compensata dall'identità. TEO: Data la tua definizione, sembra necessario che Dio, per esser giusto, debba amare tutti.

FIL: Certamente.»7

Secondo il pensiero di Leibniz quindi la giustizia è amore universale, ovvero il piacere per l'altrui piacere; il piacere è a sua volta frutto dell'intuizione dell'armonia da parte di una mente. E allora dire che Dio è giusto significa dire che Dio intuisce con gioia l'armonia delle menti, ovvero che egli è armonia universale manifestantesi attraverso infinite armonie particolari. L'ottimismo leibniziano, l'immagine del mondo come istituzione morale, si definisce completamente nell'orizzonte e nei limiti di quest'impostazione. Il problema si sposta perciò all'armonia: essa, come abbiamo appena visto, si fonda su relazioni, anzi, su relazioni tra relazioni. L'armonia non è quindi una perfezione inerente alle sostanze in quanto cosa, ma in quanto caratteristica pensabile, e consiste nella possibilità che l'oggetto venga unificato dal pensiero secondo una ben definita topologia. Il che non significa per forza che si tratti di un fenomeno solamente psicologico. Il pensiero “scopre” l'armonia ma non la crea, la ritrova come condizione già data per il

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proprio effettuarsi. L'armonia non ha dunque causa né nella cosa pensata né nel soggetto pensante, ma si costituisce di per se stessa come struttura della realtà.

Anche la tesi cruciale di un Dio che sceglie tra diversi mondi possibili, cioè tra insiemi di essenze già organizzati e costituiti in totalità, fa la sua prima comparsa in questo scritto. Nonostante quest'opera verrà inizialmente lasciata inedita, essa sarà menzionata nella Teodicea, a testimonianza della perdurante fiducia di Leibniz nel suo impianto di fondo. E infatti, per quanto riguarda gli aspetti “etico-giuridici” della teodicea e le sue implicazioni pratiche, si può affermare che la Confessio philosophi fornisce un quadro destinato a trovare molte conferme nella Teodicea (scritta oltre trent'anni dopo). E non è un caso se, proprio nella Teodicea, Leibniz afferma che la provvidenza ha il delicato ruolo di scrivere un «romanzo della vita umana – che costituisce la storia universale del genere umano», il quale «si trovava già formato, con un'infinità di altri, nell'intelletto divino, e che la volontà di Dio ne ha decretato soltanto l'esistenza, perché questa serie di eventi concordava meglio di ogni altra con il resto delle cose, affinché risultasse il meglio»8. Ovviamente la provvidenza è libera di aggiungere tutti i volumi che vuole a questo romanzo.

Appare difficile non rilevare la ventata di novità introdotta

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dall'impostazione leibniziana, per la quale la giustificazione (Rechtfertigung) ultima della storia universale, pur restando nel campo religioso, non appare più affidata alle Sacre Scritture, ma a una (già citata) teo-ontodicea filosofica – cioè a una teodicea, a una difesa della giustizia di Dio, che reca in sé anche un'ontodicea, ossia una difesa dell'essere mondano (sia naturale che storico) contro le apparenti disteleologie che sembrano minacciarne le strutture costitutive – la quale, in accordo con la ricerca leibniziana di un cristianesimo universale e razionale, fa di tutta la storia una storia religiosa.

A mettere Leibniz sulle vie di una teodicea della storia è stato sicuramente l'argomento di Bayle (il principale interlocutore e avversario di tutta la Teodicea) secondo cui i cieli e l'universo annunciano la gloria e la sapienza di Dio, mentre l'uomo, il preteso capolavoro della creazione, offre l'occasione di avanzare le più gravi riserve contro l'unità e la giustizia divina. Dice Bayle, nel Dizionario storico-critico alla voce “Manichei”: «I cieli e tutto il resto dell'universo proclamano la gloria, la potenza, l'unità di Dio: solo l'uomo, questo capolavoro del suo creatore, fra tutte le cose visibili, l'uomo solo – dico – fornisce gravi obiezioni contro l'unità di Dio. L'uomo è cattivo e infelice: tutti lo sanno, osservando ciò che passa all'interno del proprio animo e le relazioni che sono costretti ad avere con il prossimo»9. Nei

9 P. Bayle, Dizionario storico-critico, voce “Manichei”, tr. it. a c. di G. Cantelli, Roma-Bari, Laterza, 1976, vol. I, pp. 17-18.

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paragrafi dal 146 al 149 della Teodicea Leibniz confuta questa disteleologia e questo pessimismo antropologico bayliani. Il primo argomento è di tipo estetico e consiste nel semplice richiamo al limitato angolo visuale dell'uomo rispetto all'infinità dell'universo e alla totalità della Città di Dio, che si allarga assai al di là della storia umana e della terra stessa, nonché alla parzialità dell'osservazione di alcuni mali e irregolarità troppo frettolosamente assolutizzati. All'affermazione di Bayle che la storia del genere umano non è che un resoconto di delitti e sventure, come mostrano ovunque prigioni e ospedali, occorre rispondere che «nella vita degli uomini vi è incomparabilmente più bene che male, così come vi sono incomparabilmente più case che prigioni»10. Il secondo argomento, di natura etica e di ascendenza agostiniana, fa riferimento al libero arbitrio operante nelle cose umane. L'uomo è una divinità in nuce e nel suo microcosmo, comportandosi come un “piccolo dio”, compie delle meraviglie, ma, se si abbandona alle passioni, anche dei grandi errori. Ciononostante, Dio sa trarre anche da simili deviazioni il miglior disegno possibile, tracciando delle linee diritte su quelle irregolari e imperfette scritte dagli uomini poiché il male non è un ostacolo al perfezionamento, anzi, la sua condizione è inclusa nelle strutture dell'esistente. Ma di questo parleremo più avanti.

Se già il filosofo di Lipsia si pose queste domande a partire dalla

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seconda metà del XVII secolo, non poteva di certo esimersi dal farlo un illustre naturalista come Linné. Nel pensiero del botanico svedese Dio viene ad occupare un ruolo ancora più importante rispetto a quello pensato da Leibniz: il regno della natura non è semplicemente sotto l'influenza di un Dio Pantocratore, ma culmina anche in un'antropologia sopra la quale la Nemesis regna sovrana. Si può comprendere meglio la posizione linneana se si va a leggere il brano inserito nella decima edizione del Systema Naturae (1758) e nell'appendice D della Nemesis Divina, l'atto definitivo per quanto concerne questo particolare insieme di appunti: «Roused as I was, I saw from the back, as He went forth, the everlasting, all-knowing, almighty God, and I reeled! I tracked his footsteps throughout the field of nature, and I found in each of them, even in those I could scarcely make out, an infinite wisdom and power, an unfathomable perfection! I saw there how animals were sustained by plants, plants by the soil, the soil by the Earth; how night and day the Earth revolved about the Sun, which gave it life; how the Sun and the Planets, together with the fixed Stars, turn as it were upon theri axis, in inconceivable numbers within infinite space; and that all was sustained within this empty nothingness by the incomprehensible First Mover, the Being of all Beings, the Cause and Steersman of all Causes, the Lord and Master of this World. To say that He is Fate is not

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to be mistaken, for everything hangs upon his finger; nor is it wrong to say that He is Nature, for all things are born of Him; and it is also right if we say that He is Providence, for everything happens in accordance with his will. He is wholly and completely Sense, He is also solely Himself. No human conjecture can discover His Form; suffice it that He is a Divine Being, eternal and unchanging, neither created or begotten, an Essence outside of which nothing made has being, which although It has founded and built all that shimmers here before our eyes, can Itself be seen only in thought; for so sublime a Majesty invents so holy a throne, that only the soul can have access to it»11.

Da questo corposo ragionamento si può notare l'importanza data all'anima umana, che in questo contesto si può concepire in maniera simile a ciò che Leibniz aveva chiamato mente, cioè qualcosa di caratteristico della nostra specie. Per Linné un'altra peculiarità della nostra specie e, in particolare, della sua sete di conoscenza, è la spinta alla classificazione: anche il pensatore svedese solleva la questione riguardante la relazione tra la parte fisica e quella mentale e, classificando l'uomo insieme agli altri animali, egli ci obbliga a interrogarci sul modo in cui le influenze fisiche e quelle mentali cooperano all'interno dell'uomo stesso. Collegando l'apparente fissità delle specie con l'idea di una creazione divina, egli pretende di farci

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riconsiderare l'importanza della nostra visione scientifica alla luce delle nostre convinzioni religiose. In una nota sull'uomo Linné lascia intuire che la nostra abilità nel classificare è effettivamente radicata nella nostra natura corporea e nelle nostre capacità psicologiche, e che ciò deriva la maggior parte della propria forza dalle nostre convinzioni religiose e morali. Linné giustifica questa posizione generale in una maniera estremamente tradizionale, invocando l'antico principio della grande catena degli esseri, all'interno del quale l'uomo occupa una posizione intermedia (e unica) decisamente importante, confinata nel mondo delle creature, ma in grado di comprenderlo: «Theologically, man is to be understood as the final purpose of the creation; placed on the globe as the masterpiece of the works of Omnipotence, contemplating the world by virtue of sapient reason, forming conclusions by means of his senses, it is in His works that man recognizes the almighty Creator, the all-knowing, immeasurable and eternal God, learning to live morally under His rule, convinced of the complete justice of His Nemesis»12.

Questa capacità classificatoria dell'uomo non può non rimandarci alle Sacre Scritture, che Linné leggeva con un certa insistenza. Non è quindi difficile rinvenire un importante parallelismo con l'Antico Testamento, dove il linguaggio ha un ruolo fondamentale nella

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creazione: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

Dio disse: -Sia la luce!- E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: giorno primo»13. Jhwh, come si può vedere dall'incipit dell'Antico Testamento, è un Dio che parla, che crea tramite la parola. In ebraico il termine esatto è Tavar, traducibile sia con parola che con fatto, cosa: è quindi lampante la concezione pragmatica, operativa, persino produttiva del linguaggio. Per dare maggior risalto all'importanza della parola-λόγος alcuni cabalisti hanno dato un'interpretazione ancora più estrema dell'introduzione veterotestamentaria: il nostro “in principio Dio creò il cielo” in ebraico antico può essere “Bereshit bara Elohim et hashamayim”14. In questo caso è stato tralasciato et, che in ebraico è composto dalle lettere א e ת, Alef e Tav, cioè l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine, la A e la Z. Dal momento che questo et è il primo complemento oggetto che compare nella frase, alcuni ermeneuti hanno affermato che, ancor prima di creare il cielo, Elohim creò l'alfabeto: secondo questa interpretazione le lettere dell'alfabeto ebraico sono i

13 La Sacra Bibbia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, Genesi 1,1-5, p. 20. 14 È stato qui evidenziato il carattere ipotetico della frase ebraica perché non esiste una versione univoca e oggettiva del testo in esame. Sono disponibili numerose variazioni in quanto furono i Masoreti, dei grammatici attivi nella seconda metà del primo millennio (V-VI secolo d.C.), ad applicare al testo biblico le vocali e gli accenti.

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mattoni su cui è costruito l'universo.

La centralità del linguaggio, come si è visto, è manifesta fin dal terzo versetto: ogni volta che Elohim crea qualcosa viene usata la formula “Dio disse”. Nella Genesi ci sono due diverse versioni della creazione: nella prima Dio, dopo la terra, le piante e gli animali, creò a sua immagine e somiglianza l'uomo e la donna. Ma è la seconda versione15 quella per noi più interessante. Qui si parla di terra (Adamà), e di donne create dalle costole dell'uomo: «E il Signore Dio disse: -Non è bene che l'uomo sia solo: voglio fagli un aiuto che gli corrisponda-. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli essere viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l'uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli animali selvatici, ma per l'uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo»16. L'importanza data in questo brano al nominare e al classificare gli animali può essere più facilmente compresa se si tiene conto del fatto che nell'Antico

15 La Sacra Bibbia, cit., Genesi 2,4-23.

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Testamento i nomi hanno una valenza molto forte: dare il nome a qualcuno o a qualcosa significa comandarlo, porsi in una situazione di superiorità. Non è solo mettere un'etichetta, ma cogliere l'essenza di ciò che si nomina.

Inoltre c'è un nesso tra la creazione della donna e l'azione di nominare gli animali: nel versetto 18 e nel versetto 20 si trova il verbo corrispondere, che in ebraico è keneghedò. Questo termine delimita l'esistenza di una “controparte”: sembra che l'uomo, nominando gli animali, non trovi nessuno che gli risponda e, visto che l'intento di Dio era trovare qualcuno per tenere compagnia all'uomo, poiché «non è bene che l'uomo sia solo», è necessario che si venga a creare un essere sullo stesso piano dell'uomo, che gli risponda per le rime senza farsi sottomettere: la donna, appunto.

Questo tema del linguaggio fornisce importanti spunti riguardo l'aniconismo presente nella Torah: grazie al divieto di creare immagini sale in cattedra l'importanza della parola. E Linné non tarda a comprendere l'importanza di ciò: egli raccomandava sempre ai suoi studenti di non fermarsi di fronte alle immagini delle piante da studiare, ma di analizzarle a partire dalle descrizioni scritte, sempre se fatte nella maniera giusta. Proprio su questo tema ci fu una disputa tra i seguaci di Buffon e quelli di Linné che ebbe una vasta influenza anche

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su pensatori più tardi come Condorcet: il pensatore di Ribemont «parla della stringatezza di Linné, di un uso forse troppo frequente dei termini tecnici, della mania di riportare tutto in tabelle: le sue opere vanno studiate piuttosto che lette. Condorcet pensa senza dubbio a Buffon quando afferma che l'eloquenza linneana è la più rara di tutte e l'unica che si addica veramente alle opere filosofiche»17.

Dopo questo excursus sull'importanza della catalogazione possiamo tornare al tema principale della nostra indagine: Linné distingue più gradi da utilizzare per comprendere la natura umana e li ordina dai più elementari e limitati fino a quelli maggiormente elevati e completi. Se consideriamo tutti quelli contenuti negli scritti di Uppsala, li possiamo ricondurre a tre gruppi principali.

Al livello più elementare l'uomo è da comprendersi prevalentemente nelle sue caratteristiche biologiche, prendendo in esame quelle fisiologiche, i suoi bisogni alimentari e le incertezze della sua crescita e del suo sviluppo (ciò che Linné chiama “aspetto patologico dell'esistenza”). Nell'ultima versione della Nemesis Divina il materiale direttamente collegato con questo livello riflette la natura dell'uomo in quanto tale, prima ancora che il suo rapporto con le altre specie. Nel tentativo di chiarire ciò, si è cercato di stabilire una progressione a partire da questioni essenzialmente fisiche, come

17 W. Lepenis, La fine della storia naturale: la trasformazione di forme di cultura nelle scienze del XVIII

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nascita, vita e morte, per arrivare al risveglio della spiritualità di un uomo diventato consapevole della propria vita interiore.

Al secondo livello l'uomo è da comprendersi nelle sue condizioni sociali, prendendo in considerazione ciò che Linné caratterizza come il suo stato naturale, ovvero la psicologia individuale e collettiva delle sue attività in gruppo. Nella Nemesis Divina questo aspetto è particolarmente ampio: riflette le limitate preoccupazioni della società civile prima che essa si organizzasse in attività politica. Il punto di partenza è l'indagine di Linné sulla sfrenata attività sessuale che indebolisce gli affetti e distrugge la vita delle famiglie. Ciò porta comunque alla sua analisi delle relazioni (ben più costruttive) tra genitori e figli. Le passioni che disturbano e disperdono lo spiegamento della vita sociale sono prese in considerazione insieme ai principi delle leggi dalle quali sono ristrette e regolate. Tutto ciò pone le basi per la fase finale del trattamento dell'uomo come animale sociale, cioè la complessità del processo decisionale individuale e legale implicato nella distribuzione del benessere, visto da Linné come un'enigmatica azione reciproca della fortuna e della sfortuna (così caratteristica nella società civile).

Nel terzo livello il punto centrale è un crescente grado di chiarezza nella distinzione tra ciò che inizialmente sembra essere il

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fato (l'evidente imperscrutabilità di fortuna e sfortuna) e ciò che alla fine è visto come provvidenza, cioè il completo controllo da parte di Dio su ogni aspetto della Sua creazione. L'uomo considerato come animale politico tende a vivere seguendo le consuetudini piuttosto che la ragione, ma è anche capace di agire moralmente: può liberarsi dagli atti promiscui, dall'ambizione, dalla malizia e vivere irreprensibilmente. Ed è solamente questo potenziale morale che rende l'uomo completamente accettabile alla vista di Dio, che apre le porte alla possibilità di rifiutare le illusioni di un fato cieco e di una fortuna capricciosa e di considerare maggiormente il potere della provvidenza.

È vero che da una parte Linné esalta il genere umano, sia visto in rapporto con gli altri esseri viventi che di per sé, ma è altrettanto vero che non si lascia incantare dagli aspetti positivi della scimmia nuda18, sottoponendo l'Homo sapiens sapiens a un'aspra critica e limitandone le capacità e la centralità nell'universo: questo brano si pone decisamente in antitesi con le precedenti posizioni del botanico svedese, tradizionalmente “partigiano” in favore della nostra specie. Forse sarebbe dovuto servire a Linné per ammorbidire un poco le proprie posizioni, o forse il suo obiettivo era mettere in guardia il proprio figlio dall'essere vivente più pericoloso (che comunque non può non rimanere a un livello superiore rispetto a tutti gli altri viventi):

18 Definizione presa in prestito da: D. Morris, La scimmia nuda, trad. it. M. Bergami, Milano, Bompiani, 2009.

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«I conceive of man as being a waxen candle. The sun illumines the body, wisdom the soul. The world is a palace for omnipotent wisdom. God lights every soul with His fire.

So it is that all, in that God has formed them, shine on this stage with their own wisdom. Some He has made into a great light, others He has made into tallow. They burn as long as they exist. When they have burnt out, God sets others in their place, that there may always be candles giving light.

Man can no more say that the world has been made for his sake, than the candle can say that it is the reason for the existence of the palace. Everything within omniscence contributes to the majesty of God»19.

E, se da un lato l'uomo può dirsi sicuramente superiore alle altre creature, proprio questa superiorità lo porta ad atteggiamenti violenti che non hanno eguali nel regno animale, soprattutto perché sono fini a se stessi:

«Man is a constant threat to man. Man is ever ready to harm man,

There is no evil more frequent, persistent or insinuating. Wild beasts are only aggressive when driven to it,

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But man delights in ruining man»20.

Se si legge tra le righe si può vedere l'avvertimento lasciatoci da Linné: tenuto conto della sua storia e delle sue caratteristiche non si può non porre l'uomo sul più alto gradino del mondo naturale, ma al tempo stesso non lo si può considerare alla stregua della divinità che lo ha scelto come suo referente terreno. L'uomo è al tempo stesso all'interno e al di sopra della natura.

Un altro problema che sorge quando si analizzano le opere del botanico di Rashult riguarda l'astoricità del suo pensiero: si potrebbe facilmente sostenere che la concezione linneana della relazione tra morale e religione sia indipendente da qualsiasi implicazione storica. Difatti, dal modo in cui elabora alcune citazioni dal Vecchio Testamento, si nota immediatamente che Linné è interessato maggiormente alle indicazioni per il corretto comportamento morale più che alla storia del popolo che ha ricevuto l'investitura divina. Inoltre, se volgiamo lo sguardo al Nuovo Testamento, è facile rilevare la ricerca di altri supporti per i precetti morali, piuttosto che considerare il contesto storico della rivelazione divina, o tracciare la via nella quale questa rivelazione fu universalizzata dagli insegnamenti della prima Chiesa. È da questi spunti che più d'uno in passato ritenne che, nelle questioni di morale e di religione, come in molti altri aspetti dei suoi lavori scientifici,

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egli fu un pensatore essenzialmente astorico.

La questione va però presa con molta più attenzione. Fin dall'inizio della sua carriera, Linné era ben consapevole dell'importanza della distinzione tra sistemi di classificazione artificiali e naturali. Egli comprese certamente che, anche se una tassonomia formale o artificiale è un problema riguardante la necessità pratica dello scienziato, essa è solo un mezzo per arrivare a un (oppure a una) fine. I dati raccolti tramite l'uso di concetti tassonomici devono essere analizzati costantemente, per potersi avvicinare sempre più all'equivalente naturale. Tutte le classificazioni scientifiche, quindi, devono essere considerate come processi di sviluppo storico. Inoltre, il suo lavoro tassonomico, svolto all'interno di ogni campo d'indagine, si va a collocare sempre all'interno di un più ampio contesto: il mondo naturale in tutta la sua interezza.

Come abbiamo letto nel passo citato, Linné distingue, all'interno della natura, i tre regni, i quali si sostengono l'un l'altro: «animals are sustained by plants, plants by the soil, the soil by the Earth». Difficilmente potrà sorprendere il fatto che Linné si sentì giustificato ad ammettere, partendo dal concetto della grande catena degli esseri (che venne interpretata sulla base della crescente perfezione delle creature), una sorta di onnipervasiva economia della natura. Di

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conseguenza non può mancare, tra gli essenziali prerequisiti di una tale creazione, la strategia divina di mantenere un esatto equilibrio tra i vari aspetti della natura. E, anche se il metodo scientifico di Linné e la sua concezione della relazione tra il Creatore e la natura può essere difficilmente etichettato come storico, esso implica di pensare in termini di sviluppo e processi viventi. In questo modo risulta tuttavia difficile scartarlo come completamente astorico.

Il clima culturale del periodo, comunque, favorì senza dubbio lo sviluppo di questa teologia naturale composta da Linné. Il prestigio di Newton, connesso con la divulgazione delle sue dottrine per mezzo degli studi di Boyle, creò un'atmosfera intellettuale nella quale le matematiche e le scienze naturali si combinavano facilmente con la cultura religiosa professata dalla Chiesa, e la filosofia sperimentale divenne un normale aspetto della consapevolezza religiosa delle persone. Sempre restando all'interno del contesto culturale dell'epoca nella quale visse Linné, numerose fonti hanno sottolineato come l'utilitarismo e il razionalismo illuministico abbiano segnato il pensiero economico in Svezia. Questo razionalismo economico era inoltre profondamente radicato nelle convinzioni religiose: Carl Carlseon, fondatore di riviste come “Il Mercurio moralizzatore” (1730-1731) e “L'informatore finanziario” (1734-1735), auspicava un'espansione del

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commercio per un motivo alquanto singolare: egli pensava che Dio avesse sparso le varie risorse naturali in maniera diseguale per tutta la Terra semplicemente per fare in modo che ogni singola nazione fosse incentivata ad interagire con le altre nello scambio di beni21.

Successivamente Carl Gustav Loewenheim distinse tre forme di economia: Oeconomia divina (conosciuta anche come “grande economia naturale”), publica e privata; esse stavano l'una all'altra come le parti di un tutto e, nella prima, veniva ad esprimersi l'ordine mondano creato dall'Onnipotente nell'equilibrio di tutti i suoi aspetti. Per Linné l'Oeconomia Naturae è identica a quella divina: in essa, nella finalità e nel beneficio scambievole e reciproco degli enti naturali, si mostra la sapienza di Dio. Difatti la provvidenza non si occupa solo di conservare tutte le specie, ma anche e soprattutto di preservare la giusta proporzione tra le suddette: la superficie terrestre non può sostentare un numero illimitato o comunque troppo grande di abitanti, devono esserci delle regole e dei freni alla proliferazione incondizionata. Alla conservazione del delicato equilibrio naturale contribuiscono tutte le specie, anche i tipi di esseri viventi più umili e disprezzati. Ovviamente l'uomo non fa eccezione a tutto ciò, ma l'equilibrio nel quale troviamo il mondo è lontano dal potersi definire come statico: questo equilibrio viene continuamente mutato da eccessi

21 Per una trattazione più esauriente di questa tematica rimando a W. Lepenies, Natura e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1992.

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e trasgressioni. Ad esempio quando una determinata specie abbandona la propria nicchia ecologica per spostarsi in un altra (o in un altro habitat) essa porta confusione nell'ordine delle cose. Se quindi la natura è simile a un sistema statale in cui ogni individuo trova per sé una funzione e il necessario per la sussistenza, l'uomo è di sicuro il più alto ministro di questa composizione. Ai suoi vantaggi sono state subordinate tutte le cose, ma egli deve impegnarsi per essere a disposizione degli altri “ministri” e, per quanto in suo potere, egli condivide la responsabilità del mantenimento dell'equilibrio esistente. È facile scorgere in questa concezione dell'economia e della politica della natura un riflesso dell'assolutismo illuminato di Linné.

Il botanico di Rashult distingue tre diverse istanze che, grazie al loro influsso, salvaguardano l'equilibrio della natura da qualsiasi tentativo di prevaricazione: in primo luogo la natura stessa è capace di una certa autoregolazione; poi viene l'uomo, il quale può interferire in maniera di gran lunga più potente rispetto a qualsiasi altra specie con gli eventi naturali; infine Dio, dalla cui onnipotenza dipende tutto22.

La Nemesis Divina, da questo punto di vista, è insieme problematica e affascinante. Questo scritto molto particolare appartiene a quelle opere di Linné che suggeriscono una lettura “intermedia”: visto

22 Da questa spiegazione si possono notare facilmente due “prestiti” presi da Linné dalle tradizioni precedenti: se si pone l'accento sul riferimento al meccanismo naturale di autoregolazione è lampante la vicinanza a Darwin; se invece si analizza il ruolo di Dio è possibile vedere Linné come un seguace della fisico-teologia, di conseguenza come un seguace della trattazione teologica della natura.

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che si occupa principalmente dell'uomo, possiamo leggerla come un'antropologia; ma è possibile vederla anche come una filosofia sociale, in quanto cerca di riflettere sull'uomo visto come membro di una società. Il tentativo di conciliazione di Linné non era per niente facile: egli dovette restare fedele ai pensieri sulla nemesi e, allo stesso tempo, volle cercare di superare le difficoltà che si presentavano ad una dottrina dell'uomo, o ad una filosofia morale, concepita a partire da un'economia e da una politica della natura.

A questo proposito una forte influenza sulla Nemesis Divina viene sicuramente dai concetti della Stoà (ad esempio la concezione della provvidenza, oppure il reciproco sostegno che si danno l'importanza della dottrina etica e i principi fisici), le cui caratteristiche fondamentali si fondevano con gli insegnamenti dell'Antico Testamento. Anche l'effetto della poesia e della mitologia classica ebbe un forte influsso sull'opera. Purtroppo le scarse conoscenze linguistiche di Linné funsero da ostacolo alla recezione delle correnti di pensiero illuministiche. Molto probabilmente, stando alle fonti, Linné conobbe la filosofia leibniziano-wolffiana ad Uppsala, attraverso Celsius e Klingenstierna, matematico e scienziato svedese. Sicuramente più ricca di conseguenze fu per Linné la familiarità con alcuni esponenti della fisico-teologia: durante il suo soggiorno in Olanda conobbe il

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teologo tedesco Albert Fabricius e il fisico connazionale Peter van Muschenbroek; di particolare importanza per il botanico svedese fu sicuramente Derham (citato a più riprese da Linné), la cui Physico-Theology fu tradotta in svedese nel 1736 e poi di nuovo nel 1760. Ed è proprio all'interno della tradizione della teodicea e della fisico-teologia che deve essere vista in primo luogo la Nemesis Divina. Il termine teodicea fu coniato per la prima volta da Leibniz negli Essais de Théodicée sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme et l'origine du mal (Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male), opera redatta già nel 1705, ma data alle stampe solo nel 1710 ad Amsterdam. Il suo significato deriva dai lemmi greci théos (dio) e dike (giustizia): quindi “dottrina della giustizia di Dio”. Leibniz, tuttavia, utilizza il termine teodicea come significato generale per indicare la dottrina che tenta di giustificare razionalmente Dio per il male presente nel creato. Addirittura, dopo la pubblicazione dell'opera, in molti pensarono che il neologismo Théodicée fosse il nome dell'autore, andando a leggere il titolo in questo bizzarro modo: Saggio di Teodiceo sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male.

La fisico-teologia invece è, probabilmente, la più antica e ragguardevole prova dell'esistenza di Dio, ottenuta a partire dall'ordine presente nel mondo. É l'argomento che convinse Anassagora ad

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ammettere l'Intelligenza come causa ordinatrice del mondo già duemilacinquecento anni fa e sia Platone che Aristotele vi facevano continuamente riferimento. Per esempio il primo afferma: «Che l'Intelligenza ordini tutte le cose è affermazione degna dello spettacolo che il mondo, il sole, la luna e gli astri e tutte le rivoluzioni celesti ci offrono»23. Aristotele invece presuppone questa tesi quando paragona Dio al capo di una casa molto ordinata o di un esercito. Ovviamente, come noterà in seguito Kant, l'argomento esplicita l'esistenza di un Demiurgo, cioè del creatore dell'ordine del mondo, non del creatore del mondo. Ciò che è importante, comunque, è che tutto abbia la sua giusta misura e le proprie adeguate proporzioni, in modo da mantenere in vita le varie specie, ma evitando di sovraccaricare il “sistema-mondo”. Difatti, al principio della pienezza, che nell'argomentazione tradizionale della storia naturale gioca un ruolo decisamente significativo nella caratterizzazione del progetto di creazione divino, corrisponde anche, in questa teologia naturale, la paura della sovrappopolazione della terra, che potrebbe condurre al caos definitivo: «Thus the Balance of the Animal World is Throughout all Ages kept even, and by a curious Harmony, and just Proportion between the increase of all Animals, and the length of their Lives, the World is through all Ages well, but not overstored»24. Il tutto e le singole

23 Platone, Dialoghi, tr. it. a c. di M. Faggella, Bari, Laterza, 1931, p. 288.

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cose sono ordinate tra loro in una serie di rapporti, in modo da conformarsi al medesimo fine ultimo, anche se in verità questo fine è assecondato da una vasta gamma di fini intermedi. Ad ogni modo, affinché la natura e i suoi vari componenti persistano nel tempo secondo una serie continua, la sapienza della Somma Divinità ha disposto che tutti i viventi si adoperino ininterrottamente per la produzione di nuovi individui, e che tutte queste componenti della natura si porgano reciprocamente la mano per assecondare la conservazione di ogni specie.

Ma, se prendiamo il caso dell'uomo nella supposizione che Dio eserciti un governo morale nel mondo, l'analogia del Suo governo naturale suggerisce e rende credibile che il Suo governo morale debba essere uno schema completamente al di là della nostra comprensione, e ciò dà una risposta generale a tutte le obiezioni contro la sua giustizia e bontà. È del tutto ovvio che l'analogia renda altamente credibile che, nella supposizione di un governo morale, esso debba essere uno schema, poiché il mondo e l'intero suo governo naturale appaiono essere uno schema, o un sistema, le cui parti corrispondono l'una con l'altra e con il tutto, così come un'opera d'arte o qualsiasi particolare modello di governo e costituzione civile. È quindi molto probabile che il governo naturale sia costituito ed esercitato al servizio

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di quello morale, anche se Linné non afferma apertamente ciò, come farà qualche anno più tardi Kant.

Pare difficile sostenere fino a che punto Linné abbia approfondito la conoscenza di Leibniz, ma sembra abbastanza sensato un riferimento alla Teodicea leibniziana nell'ambito della discussione sulla nemesi. Difatti anche per Linné la bontà di Dio, la libertà dell'uomo e l'origine del male rappresentano i problemi decisivi. E, se Leibniz volle associare alla irriducibile influenza di Dio un Fatum Christianum (una fede nella provvidenza divina che si legasse alla fiducia in un Signore buono), non distante da questa concezione ci appare la posizione di Linné: nel capitolo Fate lo studioso svedese, riguardo alla problematica conciliazione del libero arbitrio dell'uomo con l'inevitabilità del destino, afferma: «A man is therefore at liberty to commit or not to commit a crime, but not to avoid the issue once he has committed it and been condemned»25. Su questo tema Leibniz concorda con Linné: «Il fatto è che è falso dire che l'evento accadrà qualunque cosa si faccia: esso accadrà perché si fa ciò che vi conduce, e se l'evento è scritto, è scritta pure la causa che lo farà accadere»26. Libero arbitrio e moralità dell'agire fanno in questo caso tutt'uno. Contro la “ragione pigra” entrambi i pensatori tentano di attenersi al principio per cui premio e castigo sono possibili solo in presenza di una volontà libera. Così

25 C. v. Linné, Nemesis Divina, cit., p. 217.

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fisico-teologia e teodicea sono atti di equilibrio, dottrine dell'armonia fiduciose o scettiche; in ciò consiste la loro parentela con i pensieri sulla nemesi. Linné ha formulato la rappresentazione della nemesi nella lingua della fisico-teologia e della teodicea; ha visto in essa l'elemento della vendetta, certo, ma ancora di più un simbolo dell'equilibrio e della giustizia distributiva. Per questo Elis Malmeström ha definito la Nemesis Divina una teodicea morale. E per questo, viene da aggiungere, la si deve pensare anche come un'economia morale.

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