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CAPITOLO I L’ATTIVITÀ INTERPRETATIVA ‒ CREATIVA DEL GIUDICE COMUNE IN CASO DI INERZIA DEL LEGISLATORE ORDINARIO

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CAPITOLO I

L’ATTIVITÀ INTERPRETATIVA ‒ CREATIVA DEL

GIUDICE COMUNE IN CASO DI INERZIA DEL

LEGISLATORE ORDINARIO

SOMMARIO Sez. I POTERE POLITICO E POTERE GIURISPRUDENZIALE NELLA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI: –1. La produzione del diritto da parte del potere legislativo e giudiziario: forme, modalità e legittimazioni differenti –1.1. A chi spettano le decisioni politiche fondamentali sulle questioni eticamente controverse? –2. La collocazione del potere giudiziario nel sistema politico italiano

Sez. II RIMEDI GIURISDIZIONALI IN IPOTESI DI OMISSIONI LEGISLATIVE DI ADEMPIMENTI COSTITUZIONALI: –1. I presupposti dell’intervento giurisdizionale: grave ritardo o persistente inerzia del legislatore –1.1. L’incostituzionalità per omissioni dei silenzi del legislatore –2. Trasformazione della figura del giudice: da bouche del la loi a difensore dei diritti individuali –2.2. Lacuna legislativa, art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, divieto di non liquet, applicazione diretta dei princípi costituzionali nella soluzione della controversia

Sez. III “NUOVI DIRITTI”, ATTENZIONE AI CONFINI: –1. Emersione di nuovi interessi-valori coessenziali alla realizzazione della «persona» –2. La disputa sul carattere «chiuso» o «aperto» dell’art. 2 Cost. –2.1. Il problema dell’individuazione del fondamento normativo dei c.d. nuovi diritti della personalità –3. (segue) La possibile emersione di un nuovo interesse-valore della persona configurabile come «diritto all’oblio» [differenze e interrelazioni con figure affini]

Sezione I

POTERE POLITICO E POTERE GIURISPRUDENZIALE NELLA TUTELA DEI

DIRITTI FONDAMENTALI

1. La produzione del diritto da parte del potere legislativo e giudiziario: forme, modalità elegittimazioni differenti

Il diritto politico è quello derivante dagli organi politicamente rappresentativi, mentre il diritto giurisprudenziale (o “culturale”1) è quello dei magistrati, cioè degli organi titolari delle funzioni giudiziarie.

1

Secondo la definizione di PIZZORUSSO A., “Princípio democratico e princípio di legalità”, in Questione giustizia, Franco Angeli, Milano, 2003, n. 1, pp. 340-354.

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Parlando di diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale, dobbiamo definire il rapporto tra diritto legislativo e quello giudiziario, ed in ossequio al classico princípio della separazione dei poteri2, sembrerebbe portare ad una semplice ed ovvia soluzione: il momento della determinazione ed individuazione dei diritti fondamentali e del loro contenuto (precedente a livello temporale) spetta alla fonte politica, mentre quello della loro tutela, laddove un soggetto ritenga di essere stato leso in un suo diritto fondamentale (temporalmente successivo) configura la funzione che caratterizza il potere giudiziario. Ma la soluzione non è così facile ed immediata, poiché orientamenti3 assai distanti o addirittura opposti si sono venuti a formare sul classico princípio della separazione dei poteri4 e perché, in realtà, le due diverse forme di produzione del diritto si trovano tra loro strettamente intrecciate.

Sul primo punto è necessario raggiungere un’intesa: molti Autori danno per scontato che il princípio della separazione dei poteri costituisca un princípio fondamentale dell’ordinamento costituzionale italiano attualmente vigente, laddove altri assegnano a tale princípio una portata molto più limitata. L’opinione maggiormente condivisa è quella di A. Pizzorusso5, che ritiene che si possa ancóra oggi parlare del princípio della separazione dei poteri ma che la sua portata non sia quella di un princípio fondamentale alla stregua del princípio di eguaglianza, del princípio della partecipazione democratica, del princípio della sovranità popolare, ecc. La portata che deve essere riconosciuta al princípio della separazione dei poteri è, invece, soltanto quella di un princípio di organizzazione dello Stato, e in base a tale princípio

2

Già Montesquieu nello Spirito delle Leggi.

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Nell’attuale situazione molti parlano ancóra di separazione di tre poteri come se nulla fosse cambiato rispetto all’èra in cui l’art. 68 dello Statuto albertino stabiliva che “la giustizia emana dal re” e contrapponeva l’esecutivo al legislativo; mentre altri parlano di separazione di due poteri, quasi riconoscendo una nuova legittimità in capo ai giudici a subentrare agli antichi monarchi nel contrapporsi al potere democratico; ed altri ancóra negano semplicemente che il princípio della separazione dei poteri sia uno dei princípi espressi dalla Costituzione italiana repubblicana.

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Sul tema del princípio della separazione dei poteri si tornerà anche più avanti (infra, Cap. I, Sez. I, Par. 2.).

5

PIZZORUSSO A., “Intervento al Convegno di Senigallia 9-11 novembre 1979”, in Giustizia e Costituzione, Edizioni Nuove Ricerche, Milano, 1980, n. 3-4, p. 187.

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la macchina statale deve articolarsi in modo da permettere il migliore possibile esercizio delle varie funzioni pubbliche.

Abbiamo, poi, accennato al fatto che la definizione dei diritti fondamentali e la loro tutela, considerati, in astratto, come momenti separabili, sono in realtà fortemente connessi.

Da un lato (quello dell’identificazione), una prova di tale intreccio è dato dalla questione attinente alla definizione e delimitazione di quelli che sono definiti “i diritti nuovi”, i quali, in parte, sono frutto dell’elaborazione giurisprudenziale6.

Dall’altro lato (quello della garanzia), le forme di tutela, le condizioni ed i limiti del potere giudiziario sono derivanti da scelte del legislatore, ordinario o costituzionale.

L’intreccio tra il diritto politico e il diritto giurisprudenziale diviene ancóra più complesso se consideriamo che non esiste un unico legislatore ma una pluralità di legislatori e quindi di conseguenza di Carte a differente livello (Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Carta dei diritti dell’Unione europea, Costituzione, Statuti regionali), ai quali corrispondono una pluralità di giudici (Corte europea dei diritti dell’uomo, Corte di giustizia dell’Unione europea, Corte costituzionale), ciascuno dei quali ha come compito caratterizzante di tutelare i diritti riconosciuti in una Carta.

Nel rapporto tra diritto politico e diritto giurisprudenziale un punto di svolta è segnato dall’approvazione e dall’entrata in vigore di una costituzione rigida. Prima di tale momento, per lungo tempo7, si era vissuto nell’illusione di una legge che fosse sempre e comunque giusta, giacché espressione della sovranità popolare. La legge, essendo approvata dai diretti rappresentanti del corpo elettorale, non poteva che essere giusta e quindi non poteva essere posta in discussione da nessuno e tantomeno da parte dei giudici. In passato, le fonti del diritto si riducevano alla sola legge, e il compito di garante della effettività dei diritti fondamentali era riconosciuto in maniera

6

Come si vedrà meglio più avanti (infra, Cap. I, Sez. III).

7

Nello stato liberale monoclasse, il diritto si esprimeva mediante la legge formale del Parlamento, ed era questa che costituiva l’unica vera e più importante fonte del diritto. La legge, essendo espressione indiretta della sovranità popolare, era considerata per definizione giusta e per ciò non veniva previsto alcun sistema di controllo sulle leggi.

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prioritaria al soggetto politico, facendo così assumere al legislatore un ruolo centrale, arrivando a parlare di vera e propria onnipotenza del legislatore. Si aveva l’assoluto primato della legge rispetto alla giurisdizione e il giudice era di conseguenza visto come un soggetto chiamato ad applicare la legge, ricercando la volontà con essa espressa dal legislatore. Un giudice “bocca della legge” e meccanico applicatore di un sistema giuridico chiaro e completo8.

La situazione subisce un radicale cambiamento con la Costituzione successiva alla seconda guerra mondiale, la quale, avendo natura di fonte del diritto, è rivolta anche ai giudici e da questi è direttamente applicabile. L’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ha una forte incidenza sul ruolo assunto dal giudice comune nel nostro ordinamento e sulla sua attività creativa di diritto, infatti, l’attività giurisdizionale non deve essere più vista solo come meramente applicativa del dettato normativo, ma anche creativa del diritto. Quest’evoluzione della natura dell’attività giurisprudenziale si rifà al rapporto fra il giudice e la legge, espresso chiaramente nell’art. 101, 2° comma Cost. mediante la formula secondo cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, una affermazione che è influenzata nel suo significato dalle caratteristiche generali dell’ordinamento giuridico in cui i giudici sono concretamente chiamati ad operare9.

Il mio discorso ha preso le mosse dalla differenza circa forme, modalità, responsabilità e legittimazione democratica della produzione del diritto da parte dei soggetti politici rispetto alla produzione del diritto ad opera dei giudici.

Diversa è, appunto, la fonte di legittimazione dell’attività normativa da parte del legislatore e del giudice.

La legittimazione per il legislatore si ricollega al rapporto di rappresentanza diretta del corpo elettorale, ed è proprio al corpo elettorale che il soggetto

8

ROMBOLI R., Modelli di giudice e complessità sociale: bocca della legge, interprete, mediatore di conflitti o difensore dei diritti?, Relazione all’incontro di studio organizzato dal CSM su L’interpretazione giudiziale fra certezza del diritto ed effettività delle tutele (Agrigento 17 e 18 settembre 2010), all’indirizzo http://www.appinter.csm.it (ultima visita: 12 maggio 2016).

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politico risponderà delle proprie scelte. Questo si ripercuote inevitabilmente sulle modalità dell’intervento, perché è solo al legislatore che spetta decidere se intervenire, quando farlo e come farlo10. Diversa è la legittimazione dell’attività di produzione del diritto da parte del giudice, il quale deve prendere atto di una serie di limiti. Tali vincoli sono il rispetto della lettera della legge a cui si aggiunge quella che A. Ross definisce la “tradizione culturale”, cioè il giudice nel momento in cui è chiamato a giudicare e a decidere deve tener conto dei fattori politici, culturali, economici e morali di un paese.

Ma c’è un qualcosa di più che differenzia l’azione del legislatore da quella del giudice, ed è quella che M. Cappelletti definisce la “processualità” dell’agire del giudice11. Si tratta del princípio per cui il giudice deve agire solo dietro richiesta degli interessati (ne procedat iudex ex officio), nel rispetto della imparzialità, della tutela del contraddittorio e della necessaria motivazione delle sue decisioni12.

A questo punto possiamo soffermarci sulla fondamentale differenza che sussiste fra un atto legislativo ed un atto giurisdizionale. Il primo, come è stato osservato13, ha per suo principale scopo quello di imporre ai propri destinatari l’osservanza di una certa regola, normalmente soltanto pro futuro; mentre il secondo ha come suo principale obiettivo quello di risolvere, sulla base di norme già vigenti anteriormente, una controversia fra due o più “parti”.

La produzione normativa, pertanto, costituisce un effetto diretto e previsto dell’atto normativo, mentre non costituisce un effetto diretto e previsto dell’atto giurisdizionale.

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Come si dirà infra, Cap. I, Sez. II, Par. 1., un intervento del legislatore appare, di norma, “opportuno” e, quando ciò si verifichi, senz’altro “rilevante” per la realizzazione del diritto fondamentale, anche se “non sempre indispensabile”.

11

Così CAPPELLETTI M., Giudici legislatori?, A. Giuffrè, Milano, 1984, p. 126.

12

Come osserva BIN R., Lo Stato di diritto, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 115 e ss. “In tutto questo può ritenersi che si sostanzia oggi il significato del princípio della soggezione del giudice alla legge (rectius al diritto)”.

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E, mentre l’atto legislativo è fondato sulla volontà politica, l’atto giurisdizionale trova il suo fondamento nella forza della ragione, ed è qualificabile come fonte culturale14.

Si deve, però, tenere presente che quando i giudici si trovano, come spesso accade, a dover decidere sulla base di disposizioni legislative ambigue o in presenza di vuoti legislativi (le c.d. lacune), anche la giurisdizione viene dunque a configurarsi come una funzione almeno parzialmente produttiva di diritto, poiché non integralmente vincolata, anche se limitatamente ai casi decisi15.

Se da un lato la logica è quella di ricorrere al giudice come strumento “di riserva”, al quale delegare decisioni che la politica non è in grado di articolare, se non a livello assolutamente generico, dall’altro lato essendo i giudici sempre più i principali destinatari di “richieste sociali” a causa del ritardo del legislatore nel provvedere alla richiesta di formazione, dobbiamo prendere atto del carattere sempre più creativo del ruolo dei giudici. In una parola, stiamo assistendo ad un’accresciuta creatività giurisprudenziale16, ad un maggior attivismo degli organi di garanzia in tema di diritti inviolabili: il giudice come punto di riferimento nella soluzione della problematica della garanzia dei diritti fondamentali.

Con la “rivoluzione”, rispetto all’ordinamento precedente, apportata dalla Costituzione si assiste così ad un ampliamento del potere interpretativo dei giudici e ad una valorizzazione del ruolo e dell’incidenza del diritto giurisprudenziale.

La valorizzazione del diritto giurisprudenziale introduce importanti novità circa la tutela dei diritti fondamentali. In tema di diritti, infatti, si prende

14

Ibidem, come accennato in apertura del presente elaborato.

15

Cfr. BARTOLE S., Il potere giudiziario, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 15.

16

Affermare la natura creativa della giurisprudenza significa riconoscere che anche i giudici, rispettando i limiti e le forme stabiliti dall’ordinamento, concorrono alla produzione del diritto. Riconoscere ai giudici un ruolo attivo nella determinazione del diritto non significa, ovviamente, porre questi ultimi sullo stesso piano del legislatore. Abbiamo già ricordato l’art. 101, 2° comma Cost. che formula il princípio di soggezione del giudice alla legge, ma tale soggezione, come da tempo affermato da Alessandro Pizzorusso (PIZZORUSSO A., op. cit. supra, nota n. 5, pp. 183-187), è da intendere come soggezione al diritto. Il rapporto tra legislatore e giudici è di assoluta parità nella determinazione dell’ordinamento giuridico, non sussistendo alcuna gerarchia tra questi due soggetti, ovviamente, ciascuno secondo il proprio ruolo (come dimostrato da C. Esposito e S. Satta).

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parte ad un sempre maggiore attivismo degli organi di garanzia, e una progressiva emarginazione degli organi politici.

Come scrive E. Lamarque, si è ormai consolidato un orientamento giurisprudenziale caratterizzato dall’uso giurisprudenziale della Costituzione, che ha inciso sul ruolo del giudice comune e sui rapporti di quest’ultimo sia con la Corte costituzionale che con il legislatore. La prassi di affidare all’autorità giudiziaria il compito di tutore dei diritti costituzionali individuali, finisce per erodere le parallele attribuzioni della Corte costituzionale, la quale sta perdendo sempre più il ruolo di «giudice dei diritti» a favore del ruolo di «giudice delle leggi». Ma la Consulta non è la sola a subire erosioni, andando queste a colpire anche il legislatore, le cui omissioni nell’attuazione dei diritti costituzionali vengono compensate dalla tutela rimediale fornita dai giudici, i quali si rendono “per così dire autosufficienti nella tutela dei diritti”17, essendo più capaci a fornire un’immediatezza della tutela e una sicura garanzia di protezione.

Nel campo dell’attuazione dei diritti umani si assiste alla tendenza ad esaltare l’operato dei giudici, e questo non solo a livello di ordinamenti nazionali, ma è presente anche a livello sovranazionale e internazionale. Questa tendenza, però, non è priva di rischi, in primis il pericolo che i giudici possano assumere un’egemonia sul diritto e sulla società, sottraendo ai legislatori la principale opera di bilanciamento dei diritti e degli interessi contrapposti18.

L’espansione del ruolo del giudice ha determinato una serie di reazioni soprattutto con riferimento alla c.d. attività “creativa” del giudice. Le reazioni all’espansione della funzione interpretativa del giudice sono volte a ricordare come al giudice spetterebbe la protezione, e non anche la individuazione, dei diritti, e l’affermazione di una sorta di imperialismo giudiziario

17

LAMARQUE E., “L’attuazione giudiziaria dei diritti costituzionali”, in Quaderni costituzionali, Il Mulino, Bologna, 2008, I, n. 2, p. 278.

18

Alcuni studiosi denunciano questa tendenza di consegnare ai giudici il governo dei diritti, sottraendolo alle decisioni democratiche, e ricordano che nello Stato costituzionale di diritto al ceto dei giudici spetti soltanto la garanzia dei diritti fondamentali, e non anche la creazione, mentre sono gli organi rappresentativi che devono giungere ad una necessaria decisione politica sui diritti (così, in particolare, ROLLA G., “Le prospettive dei diritti della persona alla luce delle recenti tendenze costituzionali”, in Quaderni costituzionali, Il Mulino, Bologna, 1997, n. 3, p. 440).

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porterebbe all’emarginazione dei soggetti politici-rappresentativi, con il conseguente svuotamento del potere legislativo e la realizzazione di un unico potere giudiziario, dove i giudici e la Corte costituzionale, lavorando fianco a fianco e in modo compatto finirebbero per contrapporsi al potere politico in funzione antimaggioritaria19.

Responsabile di questa tendenza è la Corte costituzionale, che da molto tempo segue una strategia precisa, ossia quella di valorizzare l’autorità giudiziaria. Tale valorizzazione viene posta in essere con strumenti tra loro eterogenei, ma tutti destinati ad accrescere i poteri dell’autorità giudiziaria, o tramite una delega di proprie funzioni oppure attraverso la rinuncia a svolgere alcune funzioni con il risultato di incoraggiare lo svolgimento di esse da parte della magistratura stessa.

Si pensi, ad esempio, al fatto che la Corte costituzionale ha devoluto ai giudici comuni il compito di procedere all’interpretazione conforme a Costituzione.

Oppure, si pensi alla circostanza che la Corte costituzionale non ha mai ostacolato i fenomeni di applicazione diretta della Costituzione da parte dei giudici20.

In tema di diritti fondamentali, uno dei profili più rilevanti è dato dalla tutela accordata a tali diritti dal nostro ordinamento. Spesso ci dimentichiamo che “affinché le solenni dichiarazioni costituzionali non restino delle inutili frasi vuote, è necessaria, dunque, in primo luogo, una ricognizione seria degli strumenti offerti dal nostro sistema a difesa dei diritti violati o in grave pericolo di esserlo”21.

Si rende necessaria una considerazione, quali sono gli organi deputati alla difesa dei diritti costituzionalmente previsti? Il ruolo centrale è svolto dal Giudice costituzionale, la cui attività può essere qualificata «giurisdizione

19

Espressione emblematica di un simile atteggiamento è la vicenda che ha visto le Camere sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nel caso giudiziario di Eluana Englaro, si veda infra, Cap. V, Par. 2.3..

20

Per una disamina più dettagliata del fenomeno dell’applicazione diretta della Costituzione da parte dei giudici rimandiamo infra, Cap. II, Sez. II.

21

Così CARLASSARE L., Introduzione, in Le garanzie giurisdizionali dei diritti fondamentali, CEDAM, Padova, 1988, p. 2 e ss.

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costituzionale delle libertà»22. Però, la sede naturale è la giurisdizione ordinaria, la quale deve garantire un effettivo rispetto dei diritti fondamentali e il suo buon funzionamento configura il segnale della reale protezione dei diritti del cittadino.

L’ambito della tutela giurisdizionale, però, ha un limite, che è quello della sua efficacia, la quale rimane circoscritta al singolo rapporto in esame, con effetti limitati al caso deciso. La protezione dei diritti, invece, necessita molto spesso di un intervento avente un raggio di azione molto più ampio, ed è per questa ragione che la Corte costituzionale viene considerata la sede più idonea, in quanto le sue pronunce, avendo carattere erga omnes, incidono sul sistema di tutela con effetti di portata generale.

In uno Stato costituzionale di diritto, è costante la ricerca dell’equilibrio fra il potere del legislatore e quello del giudice. Pur essendo riusciti a raggiungere il delicato equilibrio fra giurisdizione e legislazione, esso non ha escluso un ruolo attivo della giurisdizione nella costruzione di regole giuridiche, talvolta quasi «in alternativa» a quelle stabilite dal legislatore23. E questo è dimostrato in maniera evidente dall’«uso alternativo» del diritto condotto attraverso l’estrazione diretta, da parte del giudice, dai princípi costituzionali, di regole direttamente applicabili a livello giudiziale.

Fin quando sullo sfondo si aveva uno Stato costituzionale di diritto

strutturato24, pur riconoscendo ai giudici un ruolo di garanti della

complessità del diritto, il modo di essere del giudice doveva sempre fare i conti con un diritto legislativo che era il prodotto di un organo politico-rappresentativo unitario, al quale spettava il ruolo di dirigere l’intera società. Per cui in uno Stato costituzionale di diritto strutturato al giudice spettava il compito di essere l’intermediario fra il potere politico-legislativo e la società. È nel momento in cui l’ordinamento si destruttura e la legge statale perde la sua caratteristica di fonte avente una competenza generale nel dare

22

Secondo la nota definizione di CAPPELLETTI M., La giurisdizione costituzionale delle libertà, A. Giuffrè, Milano, 1995.

23

Secondo ZAGREBELSKY G., Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, UTET, Torino, 1984, p. 90.

24

Come lo definisce PIZZETTI F. G., Il giudice nell’ordinamento complesso, A. Giuffrè, Milano, 2003, pp. 246-247.

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attuazione integrale a tutti i diritti garantiti dalla Carta costituzionale, che il ruolo del giudice si espande. Oggi il potere giudiziario si trova ad assumere un ruolo sempre più affine a quello da sempre tenuto dal giudice nell’esperienza americana di giudice dei diritti. Tanto che, nelle contemporanee democrazie, si è giunti ad affermare che il custode dei diritti non debba essere considerato il potere legislativo, ma quello giudiziario. Nell’attuale quadro, al giudice non spetta più soltanto il compito di garantire l’equilibrio fra la legge e la società, di fronte ad un legislatore unitario a competenza generale.

Al giudice spetta anche il compito di salvaguardare, nell’ordinamento complesso e destrutturato e a fronte della molteplicità dei legislatori e del conseguente pluralismo legislativo, il contenuto fondamentale di tutela dei diritti.

Per concludere, come scrive G. Zagrebelsky, chiudendo il suo notissimo scritto sul diritto mite, “il legislatore deve rassegnarsi a vedere le proprie leggi trattate come «parti» del diritto, non come «tutto il diritto»”25. Sicuramente oggi è fortemente aumentata la responsabilità dei giudici nella vita del diritto, “ma i giudici non sono i padroni del diritto nello stesso senso in cui il legislatore lo era nel secolo scorso. Tra Stato costituzionale e qualunque «padrone del diritto» c’è una radicale incompatibilità. Il diritto non è oggetto in proprietà di uno ma deve essere oggetto delle cure di tanti, e come non ci sono «padroni», così simmetricamente non ci sono «servi» del diritto”26.

1.1. A chi spettano le decisioni politiche fondamentali sulle questioni eticamente controverse?

Ora la domanda che pare opportuno porsi è chi debba assumere le decisioni politiche fondamentali sulle questioni eticamente controverse27.

L’alternativa che si pone è tra il «governo del buon legislatore» e il «governo del buon giudice».

25

ZAGREBELSKY G., op. cit. supra, nota n. 8, p. 212.

26

Ibidem, p. 213.

27

Incluse quelle che riguardano il vivere ed il morire, di cui daremo maggior conto infra nel Cap. IV, Sez. II, Par. 1. del presente elaborato.

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Per quanto riguarda il modello parlamentare, soggetto deputato ad assumere le decisioni che reggono la società è il Parlamento. La legge del Parlamento è considerata l’unico strumento offerto dal diritto in grado di compiere, in modo generale ed astratto, quelle scelte che la contemporaneità impone, grazie all’ampio dibattito pubblico che nelle aule del Parlamento dà voce a tutti i rappresentanti dei cittadini, prevalendo la scelta che intorno a sé riesce a raccogliere la maggioranza dei consensi. Il processo di formazione della legge si caratterizza per la pubblicità, e ciò rende chi l’ha compiuta politicamente responsabile di fronte ai suoi elettori. Per quanto riguarda, invece, il modello del «governo del buon giudice», il diritto legislativo, a causa della sua astrattezza e generalità e della sua rigidità e fissità, sarebbe inadeguato a disciplinare questioni eticamente controverse; mentre il diritto giurisprudenziale sarebbe capace di garantire la adattabilità a una realtà in continua trasformazione.

Anche perché la certezza del diritto, intesa come fissità dell’ordinamento in tutte le sue parti, “scaricherebbe sul legislatore un compito insopportabile di incessante modificazione del diritto vivente, un compito che si svolge invece nell’opera silenziosa e capillarmente diffusa delle aule dei tribunali e degli studi dei giuristi”28.

Se è vero che il modello del «governo del buon legislatore» è storicamente proprio della tradizione giuridica europea continentale, mentre quello del «buon giudice» è riconducibile alla tradizione dei paesi di common law, va constatato come in Italia, a partire dagli anni Settanta e soprattutto con riferimento ai diritti fondamentali, si stia vivendo un graduale slittamento dal primo al secondo modello, affidando ai giudici sempre più un ruolo di risalto, nell’assunzione delle decisioni riguardanti i diritti fondamentali.

Alla domanda che ci siamo posti ‒ a chi spettano le decisioni politiche fondamentali sulle questioni eticamente controverse? ‒ possiamo rispondere con un’altra domanda: il legislatore, è davvero intenzionato, sulle questioni eticamente sensibili, a tacere? A lasciare al potere giudiziario, sotto la pressione inarrestabile dei casi, la soluzione? Con i rischi in ciò insiti, non

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solo per il princípio democratico, ma anche per quello di uguaglianza, considerato che le soluzioni date dai giudici inevitabilmente determinano difformità e disuguaglianza. Oppure, nello Stato costituzionale, il Parlamento non ritiene sia giunta l’ora di riappropriarsi della sua funzione di attuare i princípi costituzionali garantendo i diritti con effetti erga omnes, smentendo in tal modo chi lo vuole destinato ad una inevitabile emarginazione?

Il Parlamento, solo riprendendo il proprio ruolo istituzionale, potrà difendere la sua potestà legislativa.

2. La collocazione del potere giudiziario nel sistema politico italiano

Per stabilire quale sia il ruolo riconosciuto alla magistratura nel sistema politico-costituzionale attualmente operante in Italia occorre rifarsi alla forma di governo realizzata in applicazione della Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio 1948.

La Carta costituzionale ha respinto l’applicazione rigida del princípio della separazione dei poteri.

Si rende opportuno ricordare come negli ultimi due secoli, nell’Europa continentale, l’ideale caldeggiato dagli amanti delle libertà civili fu un ideale di troppo rigida «séparation des pouvoirs», anziché di reciproci controlli e contrappesi. L’ideale della stretta separazione dei poteri ha avuto come sua conseguenza un giudiziario particolarmente debole, confinato ai conflitti “privati”. Quell’ideale ha significato, e significa ancóra oggi in non pochi paesi, l’esistenza di un legislativo del tutto incontrollato, oltre all’esistenza di un esecutivo anche esso praticamente incontrollato.

La coesistenza di un forte legislativo con un forte esecutivo ed un forte giudiziario, senza che ci sia pericolo per la libertà, è possibile soltanto mediante un sistema equilibrato di reciproci controlli. Ciò che essenzialmente minaccia la libertà è la concentrazione del potere di coercizione. È necessaria l’eliminazione di una simile concentrazione di potere per garantire la libertà; e quella parte di potere, che non può essere eliminato, deve essere distribuito: ossia un sistema di checks and balances.

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La forma di governo attualmente operante in Italia è definibile come un governo parlamentare monista funzionante in regime di accentuato multipartitismo e ciò comporta che il princípio della separazione dei poteri non possa venir assunto come canone fondamentale di organizzazione dello Stato e degli enti pubblici. Tale princípio, tuttavia, sembra stare alla base di alcune disposizioni costituzionali (come l’art. 104, 1° comma o l’art. 134), ma ad esso può essere riconosciuto solo il ruolo di un criterio di distinzione delle funzioni fra i diversi organi.

Nell’individuare la collocazione del potere giudiziario nel sistema politico italiano, la Costituzione configura tale potere come un sistema di organi a sé stante (art. 104, 1° comma)29, dotato di funzioni differenziate dalle altre. L’attività degli organi giudiziari deve essere considerata come una forma di esercizio della sovranità popolare, nella quale la Costituzione indica la sola possibile fonte di legittimazione dei pubblici poteri (come si nota nell’art. 101, 1° comma). Questo risulta dall’art. 1 Cost. che individua il popolo italiano come unico titolare della sovranità. Quindi, nel sistema politico attualmente vigente, la fonte di legittimazione del potere pubblico non può trovarsi che nella sovranità popolare e il princípio democratico che ne deriva riguarda la formazione ed il funzionamento di qualunque tipo di organo, sia esso legislativo, amministrativo o giurisdizionale. Esistendo la necessità di garantire l’indipendenza dei giudici, per quanto anche nell’ambito dell’ordinamento giudiziario il princípio ispiratore sia quello democratico, non si potrà mai giungere ad attribuire alla magistratura quel carattere rappresentativo che invece è proprio del sistema di organi ruotanti intorno al continuum Parlamento-Governo. Non è un caso che il nucleo principale del potere giudiziario sia costituito dai magistrati reclutati per concorso in base

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Il potere giudiziario è l’unico cui lo stesso testo della Costituzione riconosce la natura di ordine autonomo e indipendente.

In numerosi congressi organizzati dall’Associazione nazionale magistrati, si è a lungo discusso delle soluzioni più opportune per dare la più completa applicazione possibile ai princípi stabiliti dalla Costituzione circa il ruolo del potere giudiziario, a cominciare dalla regola che stabilisce l’indipendenza della magistratura e di ogni singolo magistrato. L’attuazione di tale regola mediante riforme della legislazione ordinaria ha incontrato non scarse difficoltà. Non si è mai pervenuti alla realizzazione di un nuovo ordinamento giudiziario che potesse ritenersi pienamente conforme all’indicazione contenuta nella VII disposizione transitoria della Costituzione, la quale esigeva l’adozione di una nuova legge, destinata a sostituire quella del Ministro fascista Grandi e che fosse pienamente conforme ai nuovi princípi.

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all’art. 106, 1° comma della Costituzione30, ma anche ai laici che esercitano funzioni giurisdizionali sono assicurate garanzie d’indipendenza, affinché essi non siano chiamati a rispondere delle loro sentenze di fronte a chicchessia. L’opera del giudice, non può essere ridotta a quella di un semplice esecutore della legge, ma egli esercita un ruolo importante ed autonomo nel processo di creazione ed applicazione del diritto.

Si può concludere che la posizione costituzionale del potere giudiziario trova la sua giustificazione nella funzione che è ad esso affidata, cioè quella di essere portatore, nel processo di creazione-attuazione del diritto, delle influenze politico-culturali che valgono ad assicurare il rispetto dei princípi fondamentali che danno vita alla Costituzione vigente nel nostro paese.

2.1. Rapporto del giudice con le fonti del diritto: soggetto alla Costituzione, non «soltanto alla legge»

Un ulteriore aspetto da prendere, pur rapidamente, in considerazione nell’individuazione del ruolo dei giudici, quali custodi della Costituzione, attiene al singolare rapporto con le fonti del diritto, fra le quali (o meglio al di sopra delle quali)31 va posta anche la Costituzione, per cui il giudice oggi è soggetto alla Costituzione, e non «soltanto alla legge».

La “soggezione del giudice alla legge” era definita con assoluta chiarezza già nella celebre opera di Montesquieu, e l’art. 101, 1° comma Cost. ribadisce che i giudici sono tutti egualmente soggetti «solo alla legge» e sono dunque abilitati ad interpretarla senza interferenze esterne; ma proprio alla luce dell’entrata in vigore della Carta costituzionale, si deve essere indotti a subordinare il giudice prima di tutto alla Costituzione e, poi, alla legge. Si giunge ad avere un vero e proprio ribaltamento concettuale della disposizione dell’art. 101, 1° comma Cost. secondo cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, giacché essi, senza alcun dubbio, sono e devono essere soggetti prima ancóra alla Costituzione, potendo arrivare ad

30

I membri dell’ordine giudiziario non sono eletti, ma ordinariamente vincono un pubblico concorso.

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affermare, come fa A. Spadaro, che “almeno per alcune situazioni particolari, il giudice oggi si trova piuttosto di fronte alla legge che non sotto di essa”32. La subordinazione del giudice alla legge è soltanto un mito della tradizione classica del diritto pubblico europeo, ed in particolare francese (si pensi alla formula: les juges bouches de la lois), che si fonda sulla rigida separazione fra i poteri ‒ come già detto oggi largamente superata tanto de facto quanto de iure ‒.

Il giudice, nell’attuale “scena” costituzionale, raramente viene elevato al rango di vero “protagonista”, ma non può neanche essere considerato una mera “comparsa”, è più uno degli “attori”, e lo è necessariamente, poiché nelle sue mani può finire gran parte del materiale normativo.

Concludendo, il processo di valorizzazione degli organi di garanzia è duplice. In primo luogo, esso ha realizzato progressivamente quella crescita del potere giudiziario nel suo complesso, che M. Cappelletti nel suo noto saggio sulla creatività giudiziale33, riteneva fosse l’ingrediente necessario per assicurare l’equilibrio dei poteri negli attuali ordinamenti. Questi ultimi non si caratterizzano più per un sistema di rigida separazione alla francese, di séparation des pouvoirs, caratterizzato da un potere giudiziario debole, ma tendono a trasformarsi in un sistema di reciproci controlli e contrappesi all’americana, di checks and balances come già detto, in cui il potere giudiziario si contrappone, per controllarli, agli organi politici. Il processo di valorizzazione degli organi di garanzia, oltre ad avere aumentato il peso complessivo degli stessi organi di garanzia nei confronti degli organi politici, ha anche accresciuto il ruolo dei giudici comuni come giudici dei diritti individuali34 e quello della Corte costituzionale come giudice delle leggi,

32

SPADARO A., Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1990, p. 244.

33

CAPPELLETTI M., op. cit. supra, nota n. 10. Si veda anche ONIDA V., Prolusione del Presidente della Corte costituzionale, per l’inaugurazione dell’anno accademico 2004-2005 dell’Università degli Studi di Roma Tre, all’indirizzo http://www.giurcost.org/cronache/index.html (ultima visita: 1° luglio 2016), che afferma che oggi “il vero significato costituzionale del princípio di divisione dei poteri consiste nella separazione e nella reciproca indipendenza fra poteri di governo o politici da un lato, poteri di garanzia dall’altro lato”.

34

Cfr. ROMBOLI R., Il ruolo del giudice in rapporto all’evoluzione del sistema delle fonti ed alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, in ASSOCIAZIONE PER GLI STUDI E LE RICERCHE PARLAMENTARI, Quaderno n. 16, G. Giappichelli, Torino, 2006, p. 75, nel senso che la

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confermando così che “i primi sono deputati alla ordinaria manutenzione dei diritti fondamentali dei consociati, mentre la seconda è incaricata dei soli interventi straordinari sulle leggi limitative dei diritti”35. Il processo di valorizzazione degli organi di garanzia, ha però un rischio, quello che i giudici comuni assumono così il monopolio nell’ordinamento delle scelte relative ai diritti, agendo prima ed indipendentemente dagli organi rappresentativi e al di fuori di ogni controllo superiore da parte del Giudice delle leggi.

Sezione II

RIMEDI GIURISDIZIONALI IN IPOTESI DI OMISSIONI LEGISLATIVE DI

ADEMPIMENTI COSTITUZIONALI

1. I presupposti dell’intervento giurisdizionale: grave ritardo o persistente inerzia del legislatore

Il legislatore, e quindi il potere politico, è riconosciuto come il soggetto, normalmente, più idoneo ad individuare i diritti fondamentali, nonché ad operare il bilanciamento tra i diversi diritti, qualora gli stessi non siano congiuntamente realizzabili.

Nessun dubbio sul fatto che un intervento del legislatore appare essere “opportuno”, ma è anche vero che il legislatore non può essere obbligato ad intervenire, non essendo, per lo più, oggetto di sanzione l’ipotesi di

valorizzazione del ruolo del giudice da parte della Corte costituzionale produce una progressiva espansione della sua funzione di «giudice dei diritti» a scapito della sua funzione di «giudice della legalità».

Cfr. anche ROMBOLI R., op. cit. supra, nota n. 7 “Il giudice viene a rivestire il ruolo di giudice della legalità dell’ordinamento, anche se rispetto ad esso viene ad avere sempre maggiore rilievo quello di giudice dei diritti; il giudice è il portiere (l’unico portiere potremmo aggiungere) della Corte costituzionale, ma deve evitare di aprire la porta quando il dubbio di costituzionalità può essere superato facendo ricorso ai poteri interpretativi (c.d. interpretazione conforme) e può, ricorrendone le condizioni, risolvere il caso applicando direttamente la Costituzione; il giudice deve pure perseguire un’interpretazione adeguatrice della normativa nazionale al diritto comunitario e, quando necessario, proporre la questione interpretativa alla Corte di giustizia di Lussemburgo, nonché, sulla base della risposta di quest’ultima, procedere alla diretta disapplicazione (o non applicazione) della legge nazionale ritenuta in contrasto con il diritto comunitario”. Inoltre, a proposito dell’interpretazione conforme, si deve ricordare un’affermazione importante, più volte ripetuta da parte del Giudice costituzionale, che è quella secondo cui una legge non può essere denunciata e dichiarata incostituzionale solo perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma deve esserlo solamente quando è impossibile darne interpretazioni costituzionalmente conformi.

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omissione legislativa. Anche perché, la scelta di non intervenire da parte del legislatore può rappresentare anche una decisione precisa e consapevole, attraverso la quale i soggetti politici dichiarano, implicitamente, di accettare che la regolamentazione della materia sia rilasciata al diritto giurisprudenziale, almeno momentaneamente. Il legislatore, quindi, può ritenere giusto il non operare una scelta e non intervenire a dettare una qualsiasi disciplina.

Si deve distinguere se il legislatore ritiene o meno di operare una scelta e di intervenire o non intervenire a dettare una qualsiasi disciplina.

Se il legislatore interviene dettando una disciplina normativa, l’attività interpretativa-creativa del giudice, anche se non può essere del tutto esclusa, sarà più o meno ampia a seconda della tecnica legislativa adoperata dal legislatore. Se il soggetto politico adotta una tecnica legislativa c.d. “a maglie larghe” o se il testo viene formulato in maniera oscura e contraddittoria, allora l’interpretazione del giudice sarà ampia. Se, invece, il legislatore adotta una tecnica legislativa specifica e puntuale o se il testo viene formulato in maniera chiara ed evidente, allora, all’intervento interpretativo del giudice sarà rilasciato un minor spazio.

Se il legislatore non interviene dettando una disciplina normativa, dobbiamo distinguere a seconda che il diritto di cui si chiede la tutela abbia un fondamento nel testo costituzionale oppure nella legge.

Se il diritto rivendicato ha fondamento nel testo costituzionale, non è possibile riconoscere alla maggioranza parlamentare di vanificare, con la sua inerzia, l’esistenza di un diritto costituzionale. È quanto avviene nel caso dei c.d. diritti accertati, ma non tutelati36.

Se il diritto reclamato ha fondamento in un testo avente forza di legge è l’ipotesi in cui la Costituzione “consente” una certa soluzione e disciplina, ma non la “impone”37. La concretizzazione di un determinato diritto è rimessa

36

Per un approfondimento sul tema, si rimanda infra, Cap. IV, Sez. II, Par. 2.2. e 3. del presente elaborato.

37

Per una disamina più dettagliata sul ruolo del giudice di fronte all’inerzia del legislatore: quando la Costituzione “consente” e quando “impone” una determinata soluzione normativa rimandiamo infra al Cap. IV, Sez. I, Par. 1..

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alla decisione politica, ed è alla maggioranza parlamentare che competerà valutare l’evoluzione dei costumi, della coscienza sociale e della tecnologia. Fisiologicamente spetta ai soggetti politici garantire la effettività dei diritti costituzionali, per cui si è in una situazione patologica quando sono gli organi giurisdizionali a dover dare attuazione immediata dei disposti costituzionali, in costanza di un vuoto normativo; e tale rimedio adoperato dai giudici non può tramutarsi in uno strumento fisiologico e naturale.

Si è costretti, però, a constatare come in sede politica talvolta sia difficile raggiungere compromessi, capacità che invece non manca in sede giurisdizionale, dove data l’importanza della rapidità dell’intervenire in tempo, è la magistratura l’organo che produce soluzioni accettabili, ed anche accettate, che invece sono difficilmente conseguibili da parte degli organi formati attraverso la rappresentanza.

La nostra situazione costituzionale, avendo come fondamento il princípio di legalità e di subordinazione del giudice alla legge, farebbe pensare ad un ruolo limitato della giurisprudenza nella individuazione della norma vivente, ma ci sono tre ragioni che invece esaltano il ruolo creatore della stessa. La prima ragione è che il diritto posto dal legislatore è sempre più il prodotto di un compromesso poco preciso, e talvolta anche volutamente ambiguo, rimettendo così la scelta dell’equilibrio al giudice. Dove non decide il legislatore, decideranno i giudici e la funzione di regolatore del conflitto sociale, un tempo svolta direttamente dalla legge, oggi è sempre più caratterizzante la figura del giudice.

La seconda ragione è che, alla luce dell’esigenza costituzionale dell’eguaglianza sostanziale, il legislatore è indotto ad avvalersi sempre più dell’operato dei giudici, dotati di poteri più flessibili ed adeguati ai casi, a differenza del legislatore che è produttore di leggi generali ed astratte. La terza ragione è che il ritardo con il quale il legislatore è in grado di provvedere alla richiesta di formazione che proviene da rapporti sociali sempre più in movimento, induce i giudici ad usare le leggi per fini, costituzionalmente rilevanti, ai quali il legislatore non riesce a dare risposta.

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Questo scivolamento viene talora indicato come «supplenza» dei giudici rispetto al potere legislativo.

Oggi il giudice è visto come l’organo più idoneo per la tutela dei diritti, perché la sua celerità è da preferire alla lungaggine del legislatore.

1.1. L’incostituzionalità per omissioni del legislatore

Il problema della incostituzionalità per omissione legislativa richiede un cenno agli strumenti che l’ordinamento costituzionale predispone per porre rimedio alle omissioni incostituzionali del legislatore. La Corte costituzionale ha sperimentato nel tempo nuove tecniche decisorie per risolvere la problematica delle omissioni incostituzionali del legislatore.

In passato, il Giudice delle leggi suppliva direttamente alla inerzia del legislatore adottando le sentenze additive tradizionali (c.d. «di regola»), mentre con il passare degli anni la Corte ha sperimentato diverse soluzioni per costringere gli altri poteri dello Stato a risolvere da soli il problema. La Consulta, per instaurare un equilibrato rapporto con il legislatore e l’autorità giudiziaria, che sono i suoi principali interlocutori, ha raffinato le sue tecniche di decisione costituzionale. L’obiettivo del Giudice costituzionale è quello di raggiungere un bilanciamento istituzionale, bilanciamento che risulta non facile, perché la Corte costituzionale deve sfuggire dal rischio di essere accusata di denegare giustizia, avendo a mente le prerogative normative del legislatore da un lato e dall’altro le prerogative interpretative dei giudici comuni.

L’omissione legislativa è un problema avente rilevanza costituzionale esistendo disposizioni costituzionali la cui effettiva attuazione necessiti di una ulteriore attività normativa (la c.d. interpositio legislatoris). Infatti, le omissioni del legislatore sono incostituzionali solo presupponendo l’esistenza di disposizioni costituzionali ad efficacia diretta e disposizioni costituzionali ad efficacia indiretta, ossia disposizioni costituzionali che diventano operative solo a séguito di un intervento normativo. È l’assenza nell’ordinamento giuridico di una norma che concretizzi il princípio

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costituzionale che fa assumere ad una omissione legislativa il carattere di incostituzionale38.

Le omissioni legislative assumono il carattere incostituzionale quando il silenzio del legislatore determini la violazione di una norma costituzionale, cioè di un obbligo di legiferare imposto dalla Carta fondamentale: il legislatore deve aver omesso di dettare norme la cui emanazione sia prescritta da precetti costituzionali, e non già da meri impegni di ordine politico39. La mancanza di un intervento del legislatore dà luogo al formarsi di una lacuna incostituzionale nel sistema giuridico.

Ma il Giudice delle leggi può intervenire per sanzionare non solo le inadempienze del legislatore, ma anche quelle dei giudici, laddove non abbiano utilizzato i poteri interpretativi loro attribuiti. Sia il legislatore che i giudici comuni sono, infatti, chiamati a dare diretta ed immediata applicazione delle disposizioni costituzionali. Il Giudice costituzionale interviene a sanzionare entrambi questi soggetti laddove si astengono dall’esercitare i loro compiti, che sono, per il legislatore quello di intervenire con interventi normativi specifici, e per i giudici quello di usare le tecniche interpretative che potrebbero colmare le omissioni legislative laddove, appunto, manchi un’attività legislativa positiva40.

Davanti al problema delle omissioni legislative, l’intenzione della Corte costituzionale è quella di ristabilire un equilibrato rapporto con i suoi principali interlocutori. La Consulta, con le sue varie tipologie decisorie, vuole conseguire tre obiettivi: a) evitare la formazione del vuoto normativo; b) rispettare la sfera di discrezionalità del legislatore, infatti, la Corte costituzionale interviene, integrando il dettato normativo, solo laddove sia

38

L’omissione legislativa incostituzionale può consistere sia nell’assenza totale di un intervento di formazione ordinaria, sia nella presenza di una norma ritenuta tuttavia inidonea a soddisfare il princípio costituzionale. In tale seconda ipotesi la disposizione legislativa è allora sottoposta a censura nella parte in cui non dice qualcosa che invece avrebbe dovuto dire.

39

Sul tema, quando la costituzione “consente” e quando “impone” al legislatore di intervenire, si veda il Cap. IV, Sez. I, Par. 1. del presente elaborato.

40

Vedi ZAGREBELSKY G., Manuale di diritto costituzionale. Il sistema delle fonti del diritto, UTET, Torino, 1987, p. 107, il quale afferma che, benché la concretizzazione dei princípi sia un’attività positiva, che spetta al legislatore in primo luogo, “ciò non esclude, tuttavia, che (essa) possa essere compiuta direttamente, a prescindere dall’opera del legislatore, dall’interprete, e in particolare dal giudice. Ciò avviene quando lo svolgimento del princípio conduce a risultati obbligati, in un contesto operativo già definito”.

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possibile trovare un’unica soluzione costituzionalmente corretta; c) spingere il giudice, in attesa di uno specifico intervento legislativo, ad usufruire dei suoi poteri ermeneutici e a ricercare nell’ordinamento giuridico la regola del caso concreto.

Sull’ultimo aspetto si rende necessaria un’ulteriore considerazione. Pratica ormai consolidata è quella di trasferire al giudice comune il compito di porre rimedio alle inadempienze del legislatore, pratica che, però, potrebbe minare la discrezionalità del legislatore. Infatti, se da un lato la Corte, rinunciando a dettare la norma adatta, sembra voler proteggere l’ambito discrezionale del legislatore, dall’altro, proprio perché invita il giudice a dare una soluzione al caso concreto pendente di fronte a lui, determina un restringimento di quella discrezionalità legislativa che voleva garantire, tanto che, in extremis, parrebbe delegittimare il legislatore, come se del suo intervento se ne potesse anche fare a meno.

In presenza di “inadempienze” del legislatore, il Giudice delle leggi invita il giudice comune «a fare da sé» e a realizzare un «bilanciamento in concreto». La delega di bilanciamento in concreto ha una notevole importanza, in quanto le esigenze di giustizia non possono venire meno di fronte al mancato intervento del legislatore. Di fronte alla assenza di regole legislative esplicite, si rende necessaria la ricerca delle soluzioni specifiche che siano adatte alla risoluzione dei casi concreti. È pur vero che, non manca una certa preoccupazione nell’affidare l’operazione di bilanciamento alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria e non del legislatore.

Alla luce del bilanciamento in concreto, in carenza di uno specifico intervento legislativo, il giudice può dare una soluzione al caso concreto attraverso la diretta applicabilità delle disposizioni costituzionali.

Come già detto, l’attuazione immediata dei disposti costituzionali da parte dei giudici comuni deve mantenere la sua configurazione di rimedio ad una situazione «patologica»41.

41

MARCENÒ V. G. F., “La Corte Costituzionale e le omissioni incostituzionali del legislatore: verso nuove tecniche decisorie”, in Giustizia costituzionale, A. Giuffrè, Milano, 2000, III, p. 2019.

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2. Trasformazione della figura del giudice: da bouche de la loi a difensore dei diritti individuali

Dobbiamo ormai fare i conti con quel fenomeno che è stato individuato come la «crisi della legge». La situazione attuale non è più quella del periodo settecentesco, del giudice «bouche de la loi»42. In passato, ogni decisione era concentrata nella legge, considerata come l’atto in cui si esauriva la razionalità del diritto, riservando così al giudice un compito solo passivo di applicazione della legge al caso concreto, attraverso il ragionamento logico-sillogistico (la legge pone la premessa maggiore, il fatto costituisce la minore, al giudice la conclusione). Le trasformazioni sociali hanno fatto vacillare questo schema, poiché mostrano l’inadeguatezza della premessa: tutto il diritto è contenuto nella legge. La legge, caratterizzata per la sua generalità ed astrattezza, apparve sempre più inadeguata a rappresentare e a dare voce alle molteplici variazioni della vita reale. Il diritto legislativo apparve non un ordinamento compiuto, ma una somma di lacune, che spettava al giudice colmare caso per caso43.

Il giudice oggi non è più un meccanico esecutore della legge, che ragiona per sillogismi, ma, nel nostro ordinamento costituzionale, egli è legittimato a produrre diritto, proprio al fine di garantire il livello minino di tutela. Nello Stato costituzionale il ruolo del giudice, non è quello di mero applicatore della legge: egli è chiamato a valutarne la costituzionalità e a dettare la regola del caso concreto, attraverso le tecniche del bilanciamento e l’applicazione diretta dei princípi costituzionali.

2.2. Lacuna legislativa, art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, divieto di non liquet, applicazione diretta dei princípi costituzionali nella soluzione della controversia

Quanto detto fin ora è tanto più vero quando, una legge approvata dal Parlamento non ci sia. Di fronte a questa lacuna, che è forse più giusto chiamare omissione del legislatore, per garantire i diritti, non ci sono che due soluzioni: l’applicazione diretta dei princípi costituzionali attraverso la

42

Secondo la celebre formula di Montesquieu.

43

Come scrive Livio Paladin (PALADIN L., Le fonti del diritto italiano, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 110).

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pronuncia di un giudice comune, con effetti inter partes, nel caso concreto, resta cioè circoscritta alle parti e lascia spazio ad un futuro intervento legislativo ordinario44, oppure l’intervento, erga omnes, in funzione di supplenza del legislatore, da parte della Corte costituzionale.

Già solo in base all’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, in presenza di «lacune» dell’ordinamento, si impone al giudice di decidere facendo ricorso vuoi all’analogia, vuoi ai princípi generali dell’ordinamento. Quando manca una puntuale disciplina legislativa, che palesa l’esistenza in una determinata materia di una lacuna normativa incostituzionale in violazione di princípi costituzionali, non spetta all’autorità giurisdizionale l’attuazione bilanciata di tali princípi, appartenendo tale compito primariamente alla valutazione del legislatore.

Il riconoscimento di un vuoto normativo impone l’attivazione di meccanismi di integrazione idonei a colmare la lacuna riscontrata nella fattispecie concreta. Proprio a tal fine, l’art. 12, 2° comma delle preleggi assegna all’autorità giudiziaria il potere di decidere secondo i princípi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, estrapolando la regola del caso concreto, non regolato, dal princípio generale. Viene così affermata l’idoneità dei princípi generali a riempire i vuoti normativi riscontrati; e il ricorso ai princípi generali, mancando i presupposti per l’analogia, non è dunque una facoltà del giudice, ma un suo dovere.

Ma c’è di più. Soprattutto attraverso il fenomeno della diretta applicabilità dei princípi costituzionali, si è venuta a formare nel tempo una competenza concorrente del legislatore e del continuum Corte-giudici, in forza della quale in caso di protratto silenzio del legislatore la competenza normativa può essere esercitata dalle giurisdizioni45. Tale competenza normativa concorrente è generata dal legislatore stesso che, con la sua latitanza nell’assumere decisioni generali ed astratte sulle questioni difficili, ha finito con l’autorizzare e legittimare indirettamente i giudici a supplire al suo ruolo.

44

Per una disamina più dettagliata sull’applicazione diretta dei princípi costituzionali da parte del giudice comune, che è una delle soluzioni in mancanza di una legge approvata dal Parlamento, rimandiamo infra, Cap. II, Sez. II, Par. 2..

45

M. Fioravanti ritiene che si sia affermata una vera e propria “pariordinazione” tra potere legislativo e potere giurisdizionale.

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Questa competenza normativa concorrente Parlamento-giudici ha per alcuni versi degli aspetti positivi, ma per converso anche dei profili negativi. Aspetto positivo è il fatto che il diritto cessi di essere proprietà di uno per divenire «oggetto delle cure di tanti»46. Il rischio negativo è che si possa cadere, nei singoli casi, in balía della volontà del giudice, e dunque del soggettivismo e dell’incertezza quale “uomo solo”. Non si può non constatare come la parcellizzazione di una giustizia costituzionale inter partes, da una parte mette in dubbio il princípio di uguaglianza, dall’altra parte finisce per scaricare sui giudici comuni i problemi di legittimazione, delegando loro scelte fortemente politiche.

Infine, la nozione di ordine giuridico del “divieto di non liquet” fu espresso con particolare chiarezza e perentorietà nell’art. 4 del Code Napoléon, per il quale “Le juge qui refusa de juger, sous prétexte du silence, de l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi, pourra être poursuivi comme coupable de déni ne justice”. Non vi è dubbio che il Code Napoléon non sia attualmente in vigore in Italia, ma non sembra dubbio che il divieto di non liquet da parte del giudice, costituisca un princípio che tuttora vige anche nel diritto italiano. Di “diniego di giustizia”, con traduzione letterale del termine usato dai francesi, parla adesso l’art. 3 della legge 13 aprile 1988, n. 117, che ha sostituto l’art. 55 del codice di procedura civile.

Sezione III

“NUOVI DIRITTI”, ATTENZIONE AI CONFINI

1. Emersione di nuovi interessi-valori coessenziali alla realizzazione della «persona»

Alle omissioni legislative e alle nuove istanze che non trovano riconoscimento nella legislazione civilistica è offerto rimedio dalla crescente sensibilità della magistratura ai nuovi princípi costituzionali. Tale rimedio consiste nell’applicazione diretta della Costituzione47 e le istanze sulle quali si

46

Si veda supra, nota n. 26.

47

I giudici comuni, nel caso in cui si trovino di fronte ad una lacuna, ad un vuoto normativo, devono colmarlo utilizzando la Costituzione, nei suoi princípi generali, come fonte regolatrice di riferimento. È il fenomeno dell’utilizzo delle norme costituzionali da parte dell’autorità

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innesta tale fenomeno sono quasi sempre istanze sociali. Applicando direttamente i princípi costituzionali si è avuta la possibilità di dare copertura costituzionale a determinati diritti che, almeno apparentemente, non sembravano avere un collegamento con la Costituzione. Si è tentato di estendere le garanzie previste per i diritti costituzionali esistenti a nuove domande sociali che non godevano di questa copertura.

C’è chi, come A. Ruggeri48, sostiene che per la identificazione, concretizzazione e la successiva applicazione dei c.d. «nuovi diritti», sia necessaria una legge costituzionale che individui «un pugno di indicazioni essenziali», le quali devono essere specificate con legge ordinaria; e c’è chi, invece, come R. Romboli49, che non è favorevole a questo orientamento. Lo scopo è quello di garantire uguale tutela a diritti che non sono previsti nella Carta costituzionale o che non sono del tutto protetti dalla legislazione ordinaria.

Ad esempio più volte l’art. 2 Cost. è stato utilizzato come parametro di riferimento50, essendo innegabile che la sua formulazione abbia una portata molto generale che può essere collegata ai diritti «nuovi» che trovano fondamento e garanzia in tale norma51.

Lo stesso ragionamento è stato seguíto per altri articoli della Costituzione con il medesimo intento di allargare la tutela ricavabile dal loro contenuto, individuando princípi generali idonei a coprire nuove ed importanti esigenze. Ad esempio F. Modugno52 per garantire tutela ai «nuovi diritti» non enumerati fa leva su un’interpretazione larga degli enunciati costituzionali

giudiziaria allo scopo di garantire specifiche posizioni non riconosciute dalla legge.

48

RUGGERI A., “Il caso Englaro e il controllo contestato”, in Astrid Rassegna, n. 86, 13 febbraio 2009, all’indirizzo http://www.astrid-online.it/rassegna/index.html (ultima visita: 8 giugno 2016).

49

ROMBOLI R., Corte e diritti, in DAL CANTO F. e ROSSI E. (a cura di), Corte costituzionale e sistema istituzionale, G. Giappichelli, Torino, 2011, p. 22.

50

Sulla qualificazione dell’art. 2 Cost. come norma a fattispecie aperta o chiusa si rimanda infra, Cap. I, Sez. III, Par. 2. del presente elaborato.

51

Si veda LUCIANI M., Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in BRUNELLI G., PUGIOTTO A., VERONESI P., Scritti in onore di Lorenza Carlassare, E. Jovene, Napoli, III, 2009, che ritiene che l’art. 2 della Costituzione è una sorta di princípio-valvola che garantisce la dinamicità del patrimonio costituzionale dei diritti, ma sempre entro le coordinate fissate dal testo, nella giusta considerazione che l’individuazione di un “nuovo” diritto pone inevitabilmente la necessità che lo stesso venga bilanciato con gli altri “già esistenti”.

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contenuti dagli artt. 13 in poi53. Questo Autore fa rientrare nelle libertà di cui all’art. 13 Cost., relativa all’Habeas Corpus, gran parte dei diritti emergenti dalla giurisprudenza costituzionale, come i diritti all’identità personale, i diritti all’onore e i diritti alla reputazione.

Tesi criticata da A. Barbera54, il quale ritiene che l’apparente certezza, che si ottiene facendo riferimento agli enunciati dei diritti espressamente enumerati negli artt. 13 e ss., verrebbe poi meno forzando la loro interpretazione in modo da adeguarla alla espansione dei valori di libertà imposti dalle dinamiche evolutive della società. “Quello che esce dalla porta ‒ l’incertezza derivante dall’assenza di specifici enunciati normativi ‒ rientrerebbe dalla finestra attraverso la lettura «espansiva» degli enunciati”55.

In tema di tutela della persona dobbiamo soffermarci sui fenomeni di emersione di nuovi interessi-valori. Negli ordinamenti, come quello italiano, che assumono la persona umana come valore-fine e non come mero mezzo per la realizzazione degli interessi collettivi, l’evoluzione del costume, della cultura, della tecnologia, dei modelli di vita porta a fare emergere nuovi interessi-valori che il tessuto sociale avverte come “coessenziali” alla realizzazione della persona56.

La domanda da porsi è se questi nuovi valori emergenti debbano essere configurati come autonomi «nuovi diritti» della persona o come «nuove manifestazioni-facoltà» di un diritto unitario della personalità. Questa alternativa sfocia nelle due teorie, che sono state formulate in materia, quella “pluralista” o quella “monista”. Col tempo abbiamo assistito alla prevalenza delle posizioni “moniste”, cioè all’affermarsi del carattere unitario dei diritti della persona. La progressiva consolidazione delle posizioni “moniste” si pone in linea con la progressiva «costituzionalizzazione della

1995, p. 12 e ss.

53

Soluzione a cui aderisce anche CARETTI P., I diritti fondamentali: libertà e diritti sociali, G. Giappichelli, Torino, 2002.

54

BARBERA A., “Nuovi diritti”: attenzione ai confini, in CALIFANO L. (a cura di), Corte costituzionale e diritti fondamentali, G. Giappichelli, Torino, 2004, p. 28.

55

Ibidem.

56

Dei «nuovi diritti» rivendicati nel campo della bioetica, dove maggiore è la pressione dell’evoluzione tecnologica, dirò in séguito, infra, Cap. IV, Sez. II, Par. 1..

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personalità», volta più a offrire una tutela globale che a disciplinare singoli aspetti.

L’adesione alla impostazione “monista” viene affermata dalla Cassazione civile nel 1963, per la prima volta, e viene ribadita in due successive pronunce, la n. 3769 del 22 giugno 1985 e la n. 978 del 7 febbraio 199657. Due precisazioni. La prima per «nuovi diritti» non si intende “nuovi princípi”, come opportunamente precisato da A. Ruggeri58. La seconda è che la felice espressione dei «nuovi diritti» non deve essere presa alla lettera, perché si cadrebbe in errore se si pensasse che gli stessi, non essendo previsti dal testo costituzionale, vengono creati in modo ex novo dalla giurisprudenza dei giudici comuni o da quella costituzionale. La creazione più o meno ex novo non è possibile, perché una simile operazione, alla luce del carattere rigido della Costituzione, richiederebbe come necessario il procedimento della revisione costituzionale. Con l’espressione «nuovi diritti» si deve intendere “la possibilità che la nozione di “diritti inviolabili” o diritti fondamentali possa essere determinata, oltre che ovviamente attraverso l’intervento del legislatore ordinario, anche da parte della giurisprudenza seppure con modalità e limiti diversi, essendo chiaramente diversa la loro legittimazione alla creazione del diritto”59. Nella determinazione dei diritti fondamentali da parte del diritto giurisprudenziale si pone come limite quello del necessario rispetto del testo costituzionale.

2. La disputa sul carattere «chiuso» o «aperto» dell’art. 2 Cost.

Prima di passare ad individuare quale sia il preciso fondamento normativo delle esigenze esistenziali della persona umana, dobbiamo affrontare una questione di cui si discute da diversi anni in dottrina. Il problema di cui si

57

Di queste due sentenze dirò più ampiamente in séguito, infra, Cap. I, Sez. III, Par. 2.1.. Nella sentenza n. 978 del 7 febbraio 1996 della Cass. civ. Sez. I (che può leggersi in Foro italiano, Soc. Ed. del «Foro Italiano», Roma, 1996, I, n. 1, p. 1253) si afferma, testualmente, che “l’utilità soprattutto didascalica della distinzione tra i vari interessi della persona [al nome, all’onore, all’identità personale, ecc.] non deve far velo sul carattere solidale di tali interessi confluenti in un valore unitario che è quello della persona umana”.

58

Così RUGGERI A., “«Nuovi» diritti fondamentali e tecniche di positivizzazione”, in Politica del diritto, Il Mulino, Bologna, 1993, n. 2, p. 199.

59

Come efficacemente spiegato da ROMBOLI R., op. cit. supra, nota n. 49, p. 27. E ricordando che il potere politico e quello giudiziario producono entrambi diritto, ma con forme, modalità e legittimazione differenti.

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