• Non ci sono risultati.

Capitolo 1 – L’ Analisi Conoscitiva 1.1 Cenni Storici sulla Città di Taviano

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Capitolo 1 – L’ Analisi Conoscitiva 1.1 Cenni Storici sulla Città di Taviano"

Copied!
13
0
0

Testo completo

(1)

Capitolo 1 – L’ Analisi Conoscitiva

1.1 Cenni Storici sulla Città di Taviano

La città di Taviano si raccoglie in una vallata posta sull’arco ionico a 6 Km dal mare a e circa 12 Km da Gallipoli. Si estende dalla punta del Pizzo a Gallipoli, sullo Ionio, fin sotto le colline di Casarano e Matino ad est e le colline di Ugento a sud. Ancora oggi si possono riconoscere con una certa facilità le tracce, sottoforma di resti megalitici, lasciate da insediamenti risalenti al periodo neolitico.

L’origine vera e propria del centro urbano, così come del nome stesso di Taviano, è ancora oggi oggetto di discussione. Tra i vari studiosi, cittadini e non, che hanno affrontato l’argomento si ritiene che due possano essere le teorie principali, entrambe appaiono plausibili, attribuiscono origini romane, e trovano un riscontro simbolico nello stemma civico del paese, raffigurante un tralcio di palma.

Secondo Padre Bonaventura da Lama, infatti, l’origine romana di Taviano è da attribuire all’epoca della repubblica (267 a.C.), quando l’intero Salento venne conquistato e sottomesso a Roma.

L’Arditi invece posticipa la fondazione del paese al I sec. d.C. e ne fa risalire il nome direttamente al passaggio dello stesso imperatore Cesare Ottaviano.

Di conseguenza il tralcio di palme contenuto nell’effigie, che secondo l’araldica rappresenta vittoria, ascesa, rinascita, potrebbe relazionarsi sia alle vittorie militari ottenute da un centurione romano di nome Octavianus, al seguito del console Paolo Emilio all’epoca della

(2)

repubblica, che grazie ai suoi meriti sarebbe entrato in possesso di parte dei territori conquistati e ivi fondato il sito al quale avrebbe dato il suo nome; sia ancora in omaggio alla grandezza dello stesso imperatore Ottaviano.

In ogni caso del nome “Ottaviano” il paese si è fregiato per secoli. Se ne trovano tracce in alcune iscrizioni fino al 1506, ma già nel 1714, in una carta geografica realizzata da Domenico De Rossi e dalla sua officina calcografica, troviamo la dizione dialettale e per aferesi “Taianu”, da cui Taviano.

Ai romani succedettero longobardi e bizantini e tutta la regione in quel periodo (700 d.C. circa) subì l’influenza dei monaci Basiliani; cenobiti che, per sfuggire alle persecuzioni e alle accuse di iconoclastia mosse da Leone III Isaurico, Imperatore Romano d’Oriente e capo anche della Chiesa Orientale, che emanò un editto secondo il quale: dovevano essere distrutte tutte le immagini di qualsiasi genere (pitture, statue, affreschi, ecc.) raffiguranti Dio ed i Santi, e non se ne potevano produrre di nuove.

I monaci che non vollero accettare questa drastica imposizione erano destinati al martirio, mentre quelli che capirono le evidenti finalità politiche e non teologiche dell’editto, peraltro continuate dai successori di Leone III, fuggirono verso l’Impero d’Occidente e si stanziarono principalmente nel Salento e sulle coste ioniche dell’Italia meridionale determinando significativi cambiamenti in campo religioso, culturale e artistico: fu tramite loro che si diffuse il rito greco e l’architettura bizantina delle abbazie.

Infatti erano dei monaci molto colti, sapevano leggere e scrivere, circostanza rarissima per quelle epoche buie, amavano la vita meditativa e frugale e grazie alla protezione ed all’aiuto che ricevettero dalla Chiesa

(3)

occidentale, a partire dal Papa, i monaci poterono fare velocemente proseliti in loco ed innervare un tessuto religioso, sociale ed economico che, nonostante le devastazioni barbariche ed altre calamità si rafforzò col passare del tempo man mano che si rafforzava l’organizzazione feudale, così che tra il X e XI secolo nel Salento vi sono solo ed esclusivamente comunità in tutto e per tutto greche, dove si parla il greco, in greco si redigevano gli atti ufficiali ed in greco erano il diritto ed i costumi.

Le cose cambiarono bruscamente allorquando nel clero latino, con in testa anche diversi Papi, come ricorda anche Dante, iniziarono a riversarsi sempre più soggetti inqualificabili assetati di potere e privi di ogni scrupolo, fortemente ostili a qualsiasi cosa ostacolasse le loro brame. Nel Salento questo mutamento significò che il clero latino fino ad allora inesistente o insignificante potè lentamente lanciarsi all’attacco del potere religioso ed in parte economico fino ad allora in mano agli odiatissimi Basiliani.

Il clero greco perdette gran parte del suo potere sopravvivendo solo nelle zone comprese tra Otranto, Gallipoli, Nardò e Calimera, cos’ che nei primi del 1900 l’idioma greco sopravviveva ormai solo in tredici comuni.

In tutto questo a Taviano dalla seconda metà del XI secolo, a Taviano si sono alternate e succedute varie dinastie, dai Bizantini ai Normanni, dagli Svevi agli Angioini. Nel 1190, in epoca normanna, Tancredi D’Altavilla, conte di Lecce, concesse in feudo Taviano al capitano, ed in seguito barone, Ottavio Foggetta, per i servigi resi in difesa della contea. Nel 1300 il feudo venne tolto ai Foggetta e concesso all’angioino Ugone Del Balzo. Successivamente fu incorporato al Principato di Taranto e donato come ricompensa agli Orsini Del Balzo.

(4)

Dal 1463 fino al 1806, anno in cui venne pubblicata la legge che stabiliva l’abolizione dei diritti feudali in tutto il meridione, ad opera di Giuseppe Bonaparte, il feudo di Taviano visse alterne vicende, ricadendo più volte nella disponibilità del Regio Fisco a causa di assenza di eredi e venduto ad altrettante signorie: I Foggetta, I De Franchis, che effettuarono numerose opere di restauro, di incremento della rete viaria e di riassetto urbanistico del paese, incrementando l’agricoltura e il benessere medio degli abitanti. Infine ai Caracciolo i quali, per converso, non si prodigarono molto a migliorare le condizioni di vita e alleviare le sofferenze della popolazione (in quel tempo vessata da carestia ed epidemie).

Dopo il 1806 Taviano seguì le vicende del Regno di Napoli. Nel 1806 venne eletto il primo Sindaco nella storia del paese ed attualmente, dal 2000, Taviano fa parte dell’Unione dei Comuni insieme ai comuni di Melissano, Racale e Alliste.

Taviano ha un'economia che si basa prevalentemente sull'agricoltura. Si producono patate, ortaggi e soprattutto fiori, quest’ultimi rappresentano tuttora una risorsa importante in quanto attualmente risulta come terza “Città dei Fiori” in Italia per volume d’Affari dopo le città di Sanremo e Pescia.

Quì in fatti la floricoltura è diventata arte tanto da studiare alcune mutazioni genetiche e praticando nelle piante particolari innesti, i vivaisti locali hanno ottenuto specie di eccezionale bellezza e qualità: i lilium, le gerbere le rose, i gladioli tavianesi tappezzano di colori l'intera Europa.

Oltre ai fiori, alcune opere d'arte fanno bella la cittadina; la Chiesa di Santa Lucia, edificata nel XIV Secolo; il Palazzo Marchesale dei signori De Franchis; la Parrocchia dedicata a San Martino, costruita nel

(5)

1635, nel cui interno si trovano uno splendido mosaico, due fastosi altari in stile barocco e alcuni dipinti del pittore locale Luigi Coppola; “La Cappeddhuzza”, antica chiesetta ora sconsacrata ed adibita a biblioteca comunale; appena fuori dal paese si dovrebbe sostare un attimo sui ruderi della Chiesa di Santa Maria del Civo di epoca Basiliana, accanto ai quali si può ammirare la nuova Chiesa ricostruita nel 1507 dal vescovo De Balzo.

(6)

1.2 Il Mercato Agroalimentare

I mercati hanno da sempre rappresentato un elemento fondamentale e caratterizzante delle città. Essi svolgevano l’indispensabile ruolo di punti per l’approvvigionamento quotidiano, a prezzi contenuti, delle popolazioni che vivevano dentro le mura cittadine e che non godeva di rendite agricole proprie: per tanta gente il mercato era il luogo di acquisto dei beni di prima necessità.

Lo sforzo stesso di regolamentazione dei mercati e anche del commercio ambulante o itinerante, che si ritrova periodicamente dal Medioevo in avanti, attesta dell’importanza rivestita da questi fenomeni nella vita cittadina. Contemporaneamente gli strettissimi rapporti tra le corporazioni rappresentavano gli interessi specifici di categorie di commercianti ed artigiani messi in relazione con le autorità cittadine. Rapporti che, di nuovo, confermano la rilevanza strategica del commercio per la vita e il benessere della città, e di conseguenza la necessità per gli amministratori pubblici di regolare, contrattare e concertare con le corporazioni le decisioni in merito ai tempi e luoghi degli scambi, alla trasparenza delle transazioni, alle norme igieniche da imporre ecc.

Altra caratteristica dominante è la capacità del commercio e dei mercati di porsi quale sistema distributivo flessibile, costantemente alla ricerca di compratori, capace più di ogni altro di adattarsi ai cambiamenti della domanda dei consumatori. Proprio per tali caratteristiche questo tipo di commercio, insieme alla sua manifestazione privilegiata che è il mercato inteso come luogo fisico di contrattazione, ha attraversato la storia senza perdere mai la propria rilevanza, e convive tuttora agevolmente con le più moderne forme distributive.

(7)

Ancora oggi la presenza dei mercati è un fattore qualificante per il commercio cittadino. I mercati completano e arricchiscono la gamma di tipologie distributive presenti, sono inoltre elementi distintivi e attrattivi poiché non ne esiste l’equivalente nella distribuzione moderna. Valorizzano una tradizione storica della mercatura, offrono uno spettacolo vivace ed attraente, consentono di “fare la spesa” in un modo diverso dal solito.

Per salvaguardare questa forma di scambio e vendita di merci unica e la lunga tradizione che essa incarna, le amministrazioni comunali spesso e volentieri si spendono con un continuo sforzo teso a valorizzare i mercati e fiere tradizionali.

Mille anni fa, quando in Europa circa 30 milioni d’abitanti vivevano dispersi entro un immenso territorio dominato da boschi, foreste, acquitrini, lagune e paludi, raccolti in piccoli gruppi attorno a rocche fortificate, a borghi cresciuti a ridosso dei grandi monasteri, a piccoli centri situati all’incrocio delle strade, sulle rive dei laghi e sulle sponde dei fiumi navigabili, in città fantasma, che erano state grandi ai tempi dell’impero romano, oppure in rari centri emporio, cresciuti sui bordi di insenature marine trasformate in porti, quasi tutta la ricchezza prodotta veniva dalla coltivazione dei campi, dall’allevamento semibrado di bovini, equini, suini ed ovini e dallo sfruttamento di sovrabbondanti risorse naturali con la caccia legale e di frodo, la pesca e la raccolta di frutti spontanei.

Gli storici dell’economia valutano che, a quell’epoca, ogni anno il reddito prodotto dipendesse sopratutto da un tempo clemente che aveva portato pioggia in autunno e in primavera, che nel pieno dell’inverno aveva ricoperto d’una spessa coltre nevosa le campagne e che aveva fatto

(8)

risplendere un caldo sole dai mesi primaverili alle settimane della mietitura e a quelle della vendemmia. Si trattava d’una ricchezza per nove decimi consumata nei luoghi stessi dov’era stata ottenuta e da quanti, a vario titolo, avevano avuto un qualche ruolo nel produrla e distribuirla. Solo piccole quote, non sempre e non tute tradotte in materia, raramente fuoriuscivano dai circuiti economici locali sotto forma di doni, d’imposte, di decime o di spese per l’acquisto di quelle materie prime e di quei manufatti che i campagnoli non erano in grado di produrre in proprio.

A partire dal secolo XI, nei due milioni di chilometri quadrati delle regioni occidentali della vecchia Europa, prese l’avvio un deciso processo di crescita sostenuta e costante della popolazione rurale favorita dall’ampliamento delle superfici destinate alle coltivazioni, dall’introduzione di aratri più pesanti ed efficienti e di strumenti di lavoro, come vanghe e zappe metalliche, adatti a lavorare i suoli più duri e resistenti e, infine, da miglioramenti qualitativi dei rendimenti delle principali coltivazioni (frumento, orzo, segale, fava e ceci).

Una dinamica altrettanto espansiva moltiplicò gli insediamenti urbani. Accanto a quelli di fondazione romana, risalenti a mille e più anni prima, che furono tutti rilasciati, ne sorsero di totalmente nuovi, che dalle campagne circostanti attrassero un crescente numero di persone: nobili, ecclesiastici e plebei, compreso quei servi della gleba che, trasferendosi in città, ottenevano la liberazione dal giogo dei signori ai quali appartenevano.

Le antiche città tornate a risplendere e quelle nuove di recente fondazione, per due secoli non cessarono di crescere di mole fino all’inizio del Trecento, quando nel mondo europeo giunse al culmine un insediamento quasi continuo nello spazio che toccò densità dell’ordine di

(9)

30-40 abitanti per chilometro quadrato, eliminando ogni precedente condizione di isolamento. Le relazioni culturali, sociali ed economiche fra comunità confinanti ne furono rafforzate producendo una crescita dei commerci a breve, a media e a lunga distanza di una estesa gamma di mercanzie.

Si calcola che, attorno al 1340, l’Europa contasse da 92 a 97 milioni di abitanti, con un incremento complessivo di due volte e mezzo circa rispetto all’anno Mille, seppure con dinamiche regionali assai differenziate. A quell’epoca la popolazione europea aveva raggiunto un tetto invalicabile perché le risorse agricole non erano più aumentabili e non si era in grado di migliorare le tecniche agronomiche. Per di più, nonostante fossero stati costruiti numerosi canali per facilitare i trasporti nelle pianure interne, i trasferimenti di derrate agricole da luoghi e per luoghi distanti dai porti di mare o dai corsi d’acqua navigabili comportavano costi proibitivi. La crescente densità delle popolazioni urbane fra l’altro moltiplicò anche le occasioni di diffusione delle malattie infettive che si fecero più intense e distruttive.

Gli effetti cumulativi di una dinamica demografica costantemente orientata alla crescita avevano prodotto la moltiplicazione dei centri urbani e, insieme, l’aumento della percentuale di quella parte della popolazione che nelle città viveva, lavorava e consumava, aumentando in termini esponenziali anche il traffico commerciale.

Dall’XI secolo in avanti quindi, come in molte regioni europee, anche in Italia – soprattutto nelle regioni centro settentrionali – si profilò una solida ripresa demografica sostenuta da progressivi ampliamenti dei suoli coltivati, ottenuti con poderoso sforzo collettivo eliminando piante

(10)

d’alto fusto, disboscando estesissimi intrichi d’arbusti, drenando con lo scavo di fossati e di canali vasti comprensori acquitrinosi e paludosi.

Tornate ad essere, nel XII secolo, le naturali sedi di mercati periodici e di fiere, le città attrassero le eccedenze dei raccolti rispetto alle scorte per seminare e garantire l’approvvigionamento alimentare dei contadini. Nell’interesse degli abitanti che si occupavano di attività altre rispetto all’agricoltura, spesso i comuni arrivarono a costringere i nobili grandi proprietari fondiari e produttori di grani a trascorrere almeno sei mesi all’anno entro le mura cittadine con le loro famiglie allargate ai servi, fantesche e clienti per attirare in città scorte alimentari che altrimenti non vi sarebbero giunte. La porzione eccedentaria rispetto ai normali fabbisogni domestici dei ricchi avrebbe preso la via del mercato a beneficio di quanti, privi di terreni e di scorte, acquistavano quotidianamente in piazza i generi alimentari indispensabili alla sopravvivenza.

Con la nascita e lo sviluppo delle corporazioni le autorità comunali cominciarono ad occuparsi del funzionamento del mercato dei beni di prima necessità stabilendo luogo e tempo degli scambi, assicurando la massima trasparenza delle transazioni, annotando e divulgando i prezzi più ricorrenti per le merci di largo consumo, calmierandoli, e controllando tanto la regolarità degli strumenti di peso e di misura, quanto la legalità delle monete utilizzate per i pagamenti nonché, per alcuni settori, il rispetto delle regole di carattere igienico predisposte.

La misura in particolare rappresentava, e rappresenta tutt’oggi, il fondamentale mezzo di apprezzamento d’ogni genere di grandezza. Essa permette d’attribuire un valore ad ogni oggetto che si compra e che si vende, cioè esprime con un numero il mondo delle cose reali. A partire da una misura è possibile contare, comparare fra loro le cose, enumerarle

(11)

secondo una scala numerica stabile che permette di fare confronti nel tempo e nello spazio. Una prima osservazione banale riguarda il modello di riferimento delle misure lineari: il corpo umano era il ragguaglio d’obbligo per bracci, piedi, palmi e pollici.

Chi vendeva sul mercato, in un luogo pubblico al quale tutti potevano accedere, in una condizione di massima trasparenza per via del controllo sociale esercitato tacitamente dal gran numero di venditori e di compratori che vi convenivano, non poteva che attenersi alle regole. Chi viceversa vendeva nel proprio granaio, lontano dalla piazza o dal luogo deputato a mercato, fuori da ogni controllo istituzionale e, per di più, da una posizione di potere economico e di status sociale superiore, nel misurare la merce poteva facilmente avvantaggiarsi. Da parte loro, i compratori, per lo più gente che non disponeva di proprietà terriere e che era di bassa estrazione economica e sociale, versando in una condizione di soggezione politica, non potevano contrattare né i modi, né gli strumenti di misura, sicché restavano spesso danneggiati.

Tra le prime norme giuridiche adottate dai comuni risaltano infatti quelle di precisare standard pubblici dei pesi e delle misure universalmente utilizzati nelle contrattazioni che avvenivano entro i confini del territorio e periodicamente controllati da magistrati comunali, secondo principi di giustizia distributiva che garantissero una condizione d’effettiva parità dei contraenti.

Nelle città medioevali europee dunque la compravendita di derrate alimentari e prodotti agricoli era scrupolosamente regolamentata on l’assiduo intervento di apposite magistrature municipali la cui condotta era ispirata a principi etici tradotti in misure politiche e amministrative orientate a salvaguardare l’interesse dei consumatori meno abbienti, cioè di quei cittadini che, mancando del tutto di scorte alimentari proprie,

(12)

ogni giorno erano costretti a recarsi alla piazza del mercato per rifornirsene, pagando i prezzi che si formavano sulla base dell’antagonistico rapporto di norma esistente fra quantità offerte e quantità domandate d’ogni genere di prodotto agroalimentari. Il mercato davvero meno spontaneo e casuale ce si possa immaginare. Anzitutto c’era un luogo, e uno solo, destinato a quel genere di scambi: la piazza generalmente; e c’era un tempo: tutti i giorni non festivi, per durate diverse, secondo il levare e il tramonto del sole nei dodici mesi dell’anno. L’area di mercato, precisamente delimitata, pedonalizzata, per il tempo in cui il mercato era aperto godeva di uno speciale statuto tendente a favorire il confronto più trasparente possibile fra tutti i beni messi in vendita sui banchi,secondo una precisa disposizione gerarchica, e tutti i partecipanti – venditori e compratori – intenti a trattative antagonistiche.

I magistrati comunali mettevano a disposizione pesi e misure o ne controllavano la regolarità nel caso appartenessero ai venditori, verificavano le caratteristiche organolettiche delle derrate alimentari poste in vendita, esigevano la puntuale applicazione di precauzioni igieniche, con particolare riguardo alla macellazione degli animali e al taglio delle carni. Sorvegliavano che le trattative avvenissero pacificamente e solo nel luogo espressamente deputato e controllavano persino che le monete utilizzate non fossero tosate o bandite. Infine, raccoglievano informazioni circa i prezzi delle derrate di largo consumo come i cereali, il vino, le carni bovine, suine, ovine e caprine,, gli insaccati e il pesce in modo da pubblicare periodicamente listini che informavano venditori e compratori delle effettive condizioni di scambio.

(13)

I prezzi, raccolti e divulgati per iscritto e “gridati” agli angoli della piazza, erano le cosiddette “mete” o “calmieri”, cioè prezzi di riferimento per quei generi alimentari di qualità abbastanza buona da essere ammessi alla commercializzazione nella piazza.

Riferimenti

Documenti correlati

La politique marocaine de lutte contre la migration clandestine, dont la conséquence immédiate est le renforcement du contrôle des frontières, est une politique inscrite dans un

10. As we said before, the values of the triggers will depend on the expectations of the firms as regards the process governing the real exchange rate.An easy

El objetivo de este capitulo ha sido elaborar una nueva serie de emigración española sobre la base de las estadísticas de los principales países de destino de

I buddhisti avevano ereditato l’ idea, costante e diffusa a tutti i livelli della società durante l’ epoca Tokugawa, che da una parte gli scambi commerciali con i paesi

Sometimes changing the point of view of the problem could give interesting insights, for instance Ooka and Komamura [21] planned an optimal design method for building energy

I visitatori stranieri accolti alla sua corte, come ad esempio Thomas Roe (m. 1644), l’ambasciatore britannico, lo descrivono come la quintessenza del Gran Mogol 43

One size does not fit all, the research I did may give a general view of how R&D international- ization influences the firm’s innovation performance, help to understand

Rational participation thus requires that we accept as bases of our own reasoning as far as our participation in the collective activities is concerned, the relevant practical or