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Democrazia e politica estera.

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Academic year: 2021

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Democrazia e politica estera.

Per il neoconservatorismo, la politica estera non è un ambito particolare, con sue regole proprie, in cui lo statista debba preoccuparsi solo dei principi della Realpolitik, prescindendo da ogni considerazione morale; o cercare accordi senza curarsi della legittimità del suo interlocutore o del suo rispetto dei diritti umani; non è un mondo a sé, dove ci si disinteressa cinicamente delle sofferenze e dell’oppressione provocate dalle proprie azioni.

Il realismo in politica estera conduce inevitabilmente, per i neoconservatori, a questo esito: ad una politica del tutto amorale, condannata a finire in un vicolo cieco, causando la perdita di ogni credibilità al paese che la conduce.

Questo è in sostanza quello che avrebbe fatto Henry Kissinger: la sua disponibilità ad accordarsi con totalitarismi e dittature, pur vantaggiosa a breve termine, a lungo andare mortificava la legittimità morale del primato USA sul mondo libero.

Non ci può essere una politica estera sana senza coinvolgere i principi guida della repubblica statunitense, la cui natura

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democratica deve informare ogni aspetto dell’esistenza della nazione.

La democrazia è infatti il valore fondamentale e persino la stessa ragion d’essere degli Stati Uniti, e la loro politica estera può essere credibile solo se non si accettano compromessi su questa basilare questione di principio.

In questa ottica il grido di Reagan, che richiedeva la caduta del Muro di Berlino, acquista un valore non solo ideale, ma anche

concretamente dirompente1; al contrario i machiavellismi di

Kissinger, invece di contribuire alla sconfitta del nemico, hanno il duplice, e negativo, risultato di rafforzarne la legittimità e di suscitare indignazione e discredito nel proprio campo.

“La Fine della Storia” di Fukuyama.

Una chiave per comprendere meglio il ruolo che, nella visione neoconservatrice, sarebbe riservato alla democrazia la

possiamo trovare nel noto saggio di Francis Fukuyama2 (edito

nel 19923) ed intitolato la Fine della Storia e l’Ultimo Uomo4.

1

Naturalmente i neoconservatori tendono a sottacere che anche il curriculum democratico di Reagan presenta alcune macchie, soprattutto riguardo alla politica condotta nei riguardi del Centroamerica.

2

Francis Fukuyama è un noto politologo statunitense, nato nel 1952, ha lavorato alla RAND Corporation, prestigioso think tank dell’USAF; è noto per diversi suoi saggi, tra cui, oltre alla Fine

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Fukuyama, in questo suo lavoro, attribuisce un grandissimo valore alla democrazia liberale: essa non è un modello politico come tanti altri, con pregi e difetti propri, e destinata un giorno ad essere sostituita da qualcos’altro, per ora ancora inimmaginabile; al contrario le sue caratteristiche le assegnano uno status particolare.

I sistemi politici che l’hanno preceduta (compresi quelli che, pur affiancandola nel presente, derivano da fasi precedenti della storia, come il totalitarismo) erano in definitiva tutti soggetti ad un inevitabile crollo finale: ognuno di questi sistemi possedeva infatti delle contraddizioni interne ad esso strutturalmente connesse.

Riprendendo Hegel, Fukuyama attribuisce lo sviluppo storico al meccanismo dialettico causato da queste contraddizioni: quando un sistema diventava inadeguato e crollava a causa di esse, veniva sostituito da un altro e così via.

Fukuyama, come del resto faceva anche Hegel, non vede in questo processo un motivo per guardare con cinico relativismo

nuove forme di comunicazione sulla società contemporanea e del prossimo futuro) e Our

Posthuman Future (sul pericolo che ingegneria genetica e biogenetica possano cambiare l’uomo a

tal punto da mettere in discussione la democrazia liberale).

3

E quindi all’apice del prestigio globale USA post guerra fredda: con l’URSS disgregata (ed il comunismo svanito), la Guerra del Golfo vinta, e nessun nemico (e neanche possibile rivale) all’orizzonte, gli statunitensi non percepiscono limiti al loro potere materiale ed ideologico.

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alle varie fasi della storia, compresa quella in cui viviamo: questo processo non è un cieco movimento all’infinito, segnato da continui cambiamenti, ma in definitiva privo di un senso ultimo.

Le tragedie e le guerre del XX° secolo ci hanno porta to, ammette Fukuyama, a rifiutare ogni prospettiva di una Storia universale come quella tentata da Hegel: la prospettiva hegeliana di un continuo progresso è a noi del tutto estranea, dopo un secolo che ci ha fatto conoscere le guerre più terribili mai combattute dall’umanità, i campi di sterminio nazisti ed i gulag sovietici, gli orrori delle ideologie portate agli estremi, le guerre civili etnico-religiose combattute con le armi sofisticate fornite dalla modernità e dal progresso tecnico.

L’idea di un movimento verso un progresso sempre maggiore viene messa in ridicolo: addirittura nelle nostre società è il progresso stesso ad essere spesso sul banco d’accusa, con richieste di un suo rallentamento, o perfino di un ritorno alle tradizioni per evitare di esserne spazzati via.

Ma, si chiede Fukuyama, non è forse che tutti questi problemi e tragedie possono sviarci? Non rischiano cioè di farci percepire la situazione come molto peggiore di quanto essa in effetti sia?

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Nel 1992 infatti la situazione era notevolmente migliorata dal 1945: basti pensare al crollo del comunismo in Unione Sovietica e nell’Europa Orientale, alla liberalizzazione cinese, alla fine dell’apartheid, alla fine della maggior parte delle dittature mondiali.

Regimi che apparivano fortissimi si erano sfaldati come castelli di carte, nonostante fossero spesso presentati come più efficienti e solidi della democrazia liberale, messa in difficoltà da

stagnazioni economiche, crisi petrolifere, contestazioni

studentesche, disoccupazione e così via.

Il pessimismo che il XX° secolo aveva inoculato nelle n ostre società, nel 1992 appariva del tutto insensato di fronte ai grandi successi che la democrazia liberale aveva inanellato in un decennio scarso: tutto il mondo ne era affascinato e voleva prendervi parte.

L’idea di una Storia Universale, diretta verso un sempre maggiore progresso, non appariva più, dice Fukuyama, ridicola ed eccessivamente ottimistica. Al contrario diventava possibile inquadrare in un sistema unico l’intero sviluppo della società umana.

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La fase finale, secondo il pensiero di questo studioso, consisterebbe proprio nell’avvento della democrazia liberale, la quale, pur essendo convissuta a lungo con altri sistemi di governo, ha dimostrato una maggiore resistenza ed efficacia, tanto da poter essere ritenuta a buona ragione il sistema politico a cui tutte le società, prima o poi, giungeranno.

Nel 1992 le dittature sembravano ormai essere delle cittadelle assediate: un numero davvero esiguo di paesi mantenevano tale poco invidiabile status; persino la Cina (grazie alle recenti riforme economiche di Deng Xiaoping) sembrava avviata verso una progressiva liberalizzazione economica (ed in futuro, secondo i politologi occidentali, anche politica). Solo paesi come la Corea del Nord rimanevano tagliati fuori da questi progressi; ma seppure ne rimanevano fuori, non potevano certo costituire una minaccia ideologica alla democrazia liberale: la Corea del Nord era (ed è) un paese poverissimo e privo di autonome capacità tecnologiche, e persino incapace di impedire carestie interne (tragedie che il mondo occidentale ha ormai bandito fin dal ‘700); non poteva certo essere un faro ideologico alternativo, o perlomeno non un faro in grado di attrarre qualcuno.

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Come il fascismo (a suo tempo sconfitto militarmente, ma per Fukuyama comunque destinato a crollare per le sue contraddizioni strutturali) anche l’autoritarismo di destra, presente in Sudamerica ed in alcuni paesi dell’Europa meridionale, quali Grecia, Portogallo e Spagna, era stato completamente spazzato via nel giro di poco più di 15 anni, e nel 1992 era stato quasi ovunque sostituito da regimi democratici.

Ma se l’autoritarismo di destra non costituiva una vera e propria minaccia ideologica (in quanto espressione di ceti ed ambienti ultraconservatori e retrivi, destinati quindi ad una sempre maggiore marginalizzazione all’interno della società civile), diverso era stato per il comunismo: esso infatti non si era

presentato con l’immagine meschina dell’autoritarismo

sudamericano, ed anzi, per milioni di cittadini occidentali, fino a tutti gli anni ’60 il comunismo aveva rappresentato un’alternativa più che credibile, e finanche preferibile, al liberalismo delle democrazie atlantiche.

Come spiegare un crollo così repentino come quello avvenuto tra il 1989 ed il 1991? Per Fukuyama le ragioni principali sono sostanzialmente due: una economica ed una politica.

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La prima dipendeva dalla sostanziale incapacità del dirigismo sovietico di gestire l’economia in maniera sufficientemente efficace: non solo i cittadini godevano di un livello di vita incomparabilmente più basso dei più poveri dei paesi occidentali (escludendo naturalmente il Terzo Mondo); ma l’intera infrastruttura industriale sovietica (con le rimarchevoli eccezioni del settore militare e spaziale) era assolutamente incapace di produrre beni di qualità in quantità sufficiente, oppressa com’era da un dirigismo centralizzato e asfittico. Non solo poi l’economia sovietica aveva registrato dagli anni ’60 in poi livelli di crescita del PIL sostanzialmente vicini allo zero, ma le sue defaillances riguardavano ambiti ancora più importanti: infatti l’URSS si rivelò incapace di seguire la stessa evoluzione post-industriale, che dagli anni ’60 in poi fu avviata nei paesi occidentali, con l’incredibile sviluppo nella microelettronica, nei computer, in tutta una serie di nuove tecnologie che i sovietici dovevano quasi totalmente acquistare all’estero, in quanto il

loro sistema industriale era incapace di padroneggiarle5. In

pratica l’economia dell’URSS non solo era in ritardo rispetto ai

5

Questo alla lunga avrebbe anche danneggiato gli sforzi sovietici tesi a mantenere una parità o superiorità nel campo militare (che pure era una delle principali preoccupazioni dei loro massimi dirigenti): negli anni ’80, per esempio, dovettero acquistare dalla giapponese Toshiba alcune tecnologie necessarie nella costruzione dei sottomarini. Ciò a causa della radicale arretratezza della tecnologia sovietica nelle macchine utensili per cantieristica.

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paesi occidentali, ma non aveva neanche la minima possibilità di raggiungerli. A tutti gli effetti era tagliata fuori dal futuro. A questa stagnazione economica e tecnologica si aggiungeva un problema meno visibile, ma per Fukuyama, forse ancora più importante e profondo: l’incapacità totalitaria di avere un controllo effettivamente “totalitario” sulla mente dei propri cittadini. Buona parte dei cittadini sovietici aveva infatti ben compreso le menzogne che il governo propinava loro, e come la presunta società senza classi avesse ricostituito un sistema gerarchico non meno corrotto ed inefficiente di quello precedente alla Rivoluzione d’Ottobre, ma molto più ipocrita, teso com’era a negare pubblicamente questa realtà, ed a magnificare il progresso raggiunto.

Questa comprensione negava radicalmente ogni legittimità a tale forma di governo, e, non appena la dirigenza sovietica si dimostrò sempre più restia ad utilizzare la violenza ed il terrore per mantenersi al potere (cosa che avrebbe comunque disperso gli ultimi residui di legittimità ideologica di cui disponeva di fronte all’opinione pubblica mondiale, come il caso ungherese e cecoslovacco avevano dimostrato), questo atteggiamento di gran parte del popolo sovietico rese

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fragilissima tutta l’impalcatura, fino a farla crollare con una velocità che sorprese tutto l’Occidente.

Con la scomparsa di ogni possibile alternativa, la democrazia liberale diviene, per esclusione, l’unica forma di governo possibile. Non ci interessa parlare in questa sede del perché per Fukuyama essa sia priva di quelle contraddizioni interne che portarono al crollo le sue rivali: l’interesse maggiore che la sua tesi riveste per noi dipende da come si sia intrecciata con il movimento neoconservatore.

La visione di Fukuyama di un mondo inesorabilmente diretto

verso una confederazione mondiale di democrazie liberali6,

quale quella prospettata da Kant nella sua Idea per una Storia

Universale dal punto di vista cosmopolitico7, necessita di alcune

precisazioni (del resto abbondantemente fatte da Fukuyama

stesso8): in Kant la creazione di una confederazione di stati

liberi avveniva gradualmente in maniera omogenea, a causa della generale comprensione dell’insensatezza e della pericolosità della guerra per la società umana, portando i singoli Stati, divenuti sempre più liberi e illuminati, ad unirsi

6

Francis Fukuyama, La Fine della…. op.cit., p. 296.

7

Immanuel Kant, Scritti di Storia, Politica e Diritto, Editori Laterza, Bari 1995, pp. 29-43.

8

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consensualmente a questo organismo; in Fukuyama le cose sono inquadrate in una diversa prospettiva, dato che la velocità di sviluppo delle singole nazioni (a causa delle diverse velocità di sviluppo economiche e culturali) è differente, tenderanno inevitabilmente a crearsi degli squilibri, con il mondo spaccato in due campi: il mondo post-storico della democrazia liberale, ed un secondo mondo ancora legato a precedenti forme di governo.

Esso sarebbe infatti ancora immerso nella Storia, e quindi teso alla politica di potenza, a perseguire egoisticamente i propri interessi, ad opprimere i propri cittadini ed in generale a comportarsi in quella maniera che il XX° secolo ci ha pu rtroppo insegnato a conoscere così bene.

Un'altra divergenza tra la visione di Fukuyama e di Kant è questa: se in Kant il rispetto della sovranità nazionale è centrale ed importantissimo, per Fukuyama lo è molto di meno; per Kant tutte le nazioni erano più o meno uguali per livello di sviluppo civile (prendevano tutte parte all’Illuminismo), ed ogni guerra mirava ad estenderle territorialmente, senza mutare in alcun modo la loro società; una guerra era quindi del tutto insensata, in quanto (con gravi perdite di uomini e di beni) si limitava a

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cambiare il governante di una data area di territorio, senza reale progresso: da qui la necessità di rispettare ad ogni costo la sovranità nazionale, data la futilità e immoralità dei motivi per violarla9.

Per Fukuyama invece vi sono grosse differenze tra mondo storico e post-storico, e la vittoria dell’uno sull’altro non può essere liquidata come un mero cambio di bandiera nazionale: la vittoria del mondo post-storico porta incredibili vantaggi per le popolazioni “storiche”, vantaggi che legittimano le eventuali sofferenze causate dall’intervento militare, senza contare che il mondo storico non è affatto innocuo, e costituisce un pericolo se protetto in assoluto dalla sovranità nazionale.

Questa divisione tra mondo storico e post-storico è destinata a perdurare a lungo, né ci si deve ragionevolmente aspettare che ogni dittatura o autocrazia sia sull’orlo del crollo (questa è anzi una prospettiva da cui lo stesso Fukuyama ci mette in guardia,

negandola esplicitamente10).

Due realtà così diverse non potranno che guardarsi vicendevolmente con grande sospetto, e conflitti e tensioni non saranno solo possibili, ma più che probabili. I motivi di conflitto

9

Immanuel Kant, Scritti di Storia…. , op.cit. , p. 37.

10

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saranno infatti moltissimi, quali le lotte per il controllo di risorse come il petrolio, che il mondo post-storico (quello occidentale) non possiede che in quantità minime; altri motivi di conflitto potrebbero derivare anche dalle catastrofi ecologiche causate dal mondo storico (retto da autocrazie noncuranti), nel caso mettessero a rischio lo stesso equilibrio ecologico mondiale; il motivo principale di conflitto sarà, sempre secondo Fukuyama, la volontà del mondo post-storico di evitare che quello storico arrivi a possedere determinati tipi di tecnologia: per esempio missili balistici intercontinentali, armi di distruzione di massa (biologiche, chimiche o nucleari), armi orbitali e così via.

Per Fukuyama infatti, il mondo post-storico, se è pacifico al suo

interno (dato che le democrazie non si fanno la guerra11), tende

a guardare con sospetto l’aggressività del suo rivale storico, e la sua frenetica accumulazione e ricerca di potenza. Di conseguenza se non è certo pensabile una guerra aperta fra i due mondi, una continua pressione militare ed economica sulla parte del pianeta rimasta “storica” è senz’altro necessaria.

11

Un intero capitolo della Fine della Storia è infatti dedicato a dimostrare come le guerre del XX° secolo tra paesi con governi eletti siano dovute alla notevole forza che il nazionalismo aggressivo conservava in quelle società, e di come nell’Occidente moderno tale forza sia ormai indebolita od in procinto di esserlo. Cfr. Francis Fukuyama, La Fine della…., op.cit. , pp. 281-290

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Il mondo post-storico deve quindi fare sua una politica estera che dia moltissimo spazio ai valori democratici ed al rispetto dei

diritti umani, in quanto solo una progressiva

democraticizzazione dell’intero globo andrebbe a rispondere alla necessità di una sicurezza globale e definitiva.

Un atteggiamento cinicamente machiavellico e realista (Fukuyama fa in proposito un esplicito richiamo alla politica di

Kissinger12) metterebbe invece a rischio l’unità di azione delle

democrazie liberali, e andrebbe in definitiva a svantaggio di chi lo fa.

Le alleanze ed i rapporti di politica estera andrebbero invece

decisi e stabiliti sulla base di considerazioni ideologiche13,

guardando quindi al rispetto dei diritti umani, e considerando come aspetto primario l’adesione ai valori democratici.

Una politica che decidesse le alleanze in base alla comunanza d’interessi oppure al mantenimento dello status quo (magari perché particolarmente favorevole, per esempio come ai tempi della Santa Alleanza, oppure di Kissinger), sarebbe non solo immorale, ma garantirebbe solo in maniera illusoria gli interessi nazionali di un paese: in un mondo sempre più globalizzato ed

12

Ibid. , p. 294.

13

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interconnesso, è del tutto irrealistico pensare al perseguimento di interessi nazionali singoli, come se fosse possibile perseguirli ai danni di propri vicini e partner. Un esempio classico di ciò è il rapporto tra Francia e Germania post-1945: la fine della continua lotta per la supremazia (resa possibile dalla radicale sconfitta di una delle due) ha permesso da allora il

perseguimento di una politica sempre più tesa al

raggiungimento di interessi comuni, piuttosto che alla ricerca egoistica del particolare interesse nazionale, ricerca alla fine dannosa per entrambi i paesi.

La visione di Fukuyama è quindi molto diversa da quella di Kant: lungi dallo scongiurare le tensioni ed i conflitti, la diffusione della democrazia liberale (che fa le veci dell’illuminismo kantiano), in un certo senso li amplifica.

La politica estera non sarebbe più il terreno dello statista spregiudicato e noncurante delle sofferenze degli oppressi, ma tendenzialmente pronto a difendere l’ordine e lo status quo, e comunque alieno dal compiere scelte rischiose (per timore di mettere in pericolo la stabilità di tutto il sistema internazionale). Mentre infatti l’illuminismo kantiano avrebbe dovuto portare i troni a stemperare i conflitti ed a rispettare l’altrui sovranità, nel

(16)

presente (o futuro prossimo) di Fukuyama, le democrazie guardano ai regimi non liberali con ostilità malcelata e sospetto: forse non sono disposte a fargli direttamente la guerra, ma sono pronte a sfruttare ogni sua debolezza, ad imporgli sanzioni, ed in generale a mostrare poco riguardo per l’intero concetto di sovranità nazionale, che, come abbiamo detto, era

invece un elemento importante nel discorso di Kant14.

Un governo autocratico, secondo questo modo di vedere, esiste di fatto, ma non di diritto, e non ha alcuna legittimità che non sia

quella datagli dalla sua effettiva forza materiale15.

Naturalmente questo atteggiamento da parte del mondo post-storico, come si è già detto, non può che esacerbare ogni tensione, perché non si può pensare che i regimi autocratici accettino di scomparire con tranquillità nell’immondezzaio della Storia o che guardino con benevolenza all’ostilità dei paesi liberali.

Basare i rapporti di politica estera su di una base ideologica, come fa Fukuyama (fiducioso nella vittoria finale della democrazia liberale), presenta notevoli rischi: non lascia infatti alcuno spazio di manovra e rende la leadership nazionale

14

Immanuel Kant, Scritti di Storia…. , op.cit. , p. 37.

15

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inflessibile ed incapace di reagire alla complessità della situazione globale; rende anche incapaci di comprendere le particolari situazioni dei vari paesi e delle differenti aree del mondo, poiché non si tenderebbe più alla comprensione, ma si

vorrebbe ricondurre tutto e tutti alla fondamentale

classificazione ideologica precedentemente studiata a tavolino. Una simile visione è già stata adottata nella politica estera degli USA, e consisteva proprio in quel Cold War Liberalism di cui si

è parlato nel primo capitolo di questo lavoro16.

Non per niente Fukuyama ha parole di apprezzamento per il tradizionale moralismo dei governi americani, così come per la

loro enfasi nel sostenere i diritti umani ed i valori democratici17:

tale atteggiamento, lungi dall’essere troppo rigido, risulterebbe invece, nella sua visionaria lungimiranza, molto saggio.

Queste tesi esposte dal politologo americano sono molto vicine a quelle espresse dai neoconservatori, anzi si può dire che lo stesso Fukuyama sia stato un neoconservatore (e lo era

16

Se è vero che simili tendenze sono state da sempre presenti nella tradizione statunitense, bisogna però rilevare come siano sempre state coniugate ad un fortissimo isolazionismo, che ne limitava il ruolo e la portata globale. Solo con la Seconda Guerra Mondiale e con la Guerra Fredda, tale isolazionismo è venuto meno.

17

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certamente al momento della scrittura della Fine della Storia),

cosa che del resto non esita ad ammettere lui stesso18.

Non solo è stato compagno di corso di William Kristol, ed ha scritto spesso per le riviste neoconservatrici; nel 1997 ha anche firmato lo Statement of Principles del Project for the New

American Century (PNAC), un’organizzazione il cui compito

statutario è quello di incentivare una politica estera statunitense molto attiva ed inflessibile con i regimi autoritari (i rogue states), allo scopo di perseguire la diffusione della democrazia e del rispetto dei diritti umani.

Sul PNAC si ritornerà in altre parti di questo lavoro, ma fin da adesso si può dire come il suo Statuto equivalga ad un vero e proprio “manifesto” della visione e delle politiche auspicate dai

neocon19, e di come esso sia stato firmato da molti esponenti

del movimento neoconservatore, compreso, come si è detto, lo stesso Fukuyama.

La sua adesione non pone alcun problema di coerenza: nello Statuto infatti non si può trovare alcun punto che contrasti o sia in contraddizione con quanto scritto nella Fine della Storia.

18

Francis Fukuyama, America al bivio, LINDAU, Torino, 2006, p. 5.

19

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Se da un lato nel libro di Fukuyama la parte dedicata all’uso della forza da parte delle democrazie (ed alla conseguente necessità di una forte potenza militare) è veramente minima, bisognerebbe d’altro canto ammettere come questo aspetto sia implicito nella stessa tesi del libro: se il mondo è spaccato ideologicamente tra democrazia e autocrazia, e se il mondo democratico nega ogni legittimità ai regimi non democratici (esclusa quella della loro esistenza di fatto), allora è inevitabile che vi siano tensioni diplomatiche e militari, con conseguenti sanzioni economiche, embarghi e persino guerre.

Se nel 1997 (e cioè al momento della nascita del PNAC), Fukuyama aderiva pienamente al movimento neoconservatore, condividendone quindi visione e presupposti, recentemente egli

se ne è pubblicamente dissociato20, proponendo un nuovo

approccio in politica estera che egli chiama “wilsonismo realista”21.

Questo nuovo approccio si distinguerebbe dalla precedente posizione in particolare riguardo a un aspetto, e cioè il ruolo da

attribuire alle organizzazioni internazionali22: esse sono

20

Francis Fukuyama, L’America al bivio, op. cit.

21

Ibid. , pp.21-22.

22

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necessarie per fare da tramite tra gli Stati nel contesto della globalizzazione; d’altra parte nelle stesse righe Fukuyama ribadisce l’assoluta inefficacia dell’ONU.

Il maggiore multilateralismo del nuovo atteggiamento di Fukuyama può però essere dovuto non ad un mutare del suo pensiero, ma a considerazioni tattiche: l’approccio neocon “classico” si è rivelato non molto efficace, ed in futuro operazioni unilaterali si riveleranno estremamente difficili a causa del precedente iracheno, e questo per parecchi anni; di

conseguenza accettare un maggiore ruolo per le

organizzazione internazionali non è una grande concessione: ciò sarà comunque inevitabile per le prossime amministrazioni statunitensi.

Anche il cambiamento di nome è dichiaratamente

un’operazione cosmetica23: ormai il nome di “neoconservatore”

è diventato così inviso che qualunque politica etichettata come tale verrebbe rigettata.

Il progetto di Fukuyama sarebbe in pratica di salvare il salvabile dal naufragio, mettendo il fondamentale principio guida del neoconservatorismo (che è e rimane la salvaguardia e

23

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diffusione della democrazia) al riparo dal rigetto che seguirà inevitabilmente all’insuccesso iracheno. Mutarne il nome costituirebbe quindi il prezzo da pagare per poterne assicurare la sopravvivenza.

Dato il probabile valore “tattico” del cambiamento di Fukuyama, non viene meno l’opportunità di utilizzare la Fine della Storia come strumento per comprendere meglio i neoconservatori, e possiamo considerare quest’opera come un’efficace compendio del loro modo di guardare alla democrazia.

Esportare la democrazia.

Per la maggior parte dei neoconservatori attendere

passivamente la diffusione della democrazia non è sufficiente, come non basterebbe neanche la semplice ostilità nei confronti dell’autoritarismo: la minaccia che la sola esistenza di questi regimi porterebbe ai paesi liberali è di per sé inaccettabile.

Anche Fukuyama24 aveva simili preoccupazioni, ma erano più

stemperate, e non avevano il carattere di urgenza presente negli altri neocon.

24

Il quale però, come si è visto, nutriva una così grande fiducia nel trionfo finale della democrazia, da fare passare in secondo piano l’eventuale pericolo posto dai cosiddetti rogue states.

(22)

Una delle caratteristiche degli interventi neoconservatori è sempre la paura dell’imminenza del pericolo, dell’insufficienza degli sforzi profusi fino a quel momento, e della necessità di un’azione più incisiva: nei loro editoriali ed articoli le minacce sono sempre chiare e delineate, ed il disastro sarebbe sempre inevitabile se non venissero presi provvedimenti.

Le motivazioni di questo atteggiamento risiedono anche nel particolare ruolo di buona parte dei loro articoli e interventi: solitamente vengono scritti nell’ambito dei think tank, oppure diffusi su testate giornalistiche, con il deliberato scopo di porre dei problemi ai politici ed all’opinione pubblica e sollecitare soluzioni: affermare l’urgenza di queste questioni può favorire una più celere disamina del problema in questione, che altrimenti potrebbe essere rimandato od accantonato.

La fiducia espressa nel 1992 da Fukuyama, sull’inevitabilità di

un futuro democratico, nel 2000 viene infatti, dai

neoconservatori, ridimensionata, a causa della persistenza di governi autocratici e illiberali, come lamenta Robert Kagan in un articolo apparso sul PNAC nell’aprile di quell’anno, articolo in

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cui accusa il mondo democratico di non voler affrontare il

problema, e di dare così ossigeno a questi regimi25.

Secondo i neocon infatti uno dei più importanti fattori che impediscono il diffondersi della democrazia e dei valori democratici sta proprio nell’attitudine delle democrazie a non accettare le proprie responsabilità, ed a considerare la sovranità nazionale come un elemento di per sé sufficiente a

legittimare un governo26.

I neoconservatori non si limitano però ad intervenire nel pubblico dibattito: ultimamente infatti hanno avuto un notevole ruolo all’interno dell’amministrazione, e spesso i loro editoriali sono il riflesso di documenti e rapporti fatti a livello governativo. Da ciò deriva che le loro proposte non devono essere considerate unicamente come punti di vista idealistici, ma del tutto inapplicabili; al contrario esse sono presentate come realistiche e funzionali anche a salvaguardare l’interesse nazionale statunitense: ad esempio tramite l’esportazione della democrazia.

25

Cfr. Robert Kagan, Springtime for Dictators; http://www.newamericancentury.org/global_007.htm

26

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Essa non sarebbe infatti solo un modo di migliorare disinteressatamente le condizioni del genere umano: in effetti, nella visione neoconservatrice, sarebbe un modo di preservare meglio l’interesse nazionale americano; creando regimi democratici al posto di dittature ed autocrazie, si creerebbe automaticamente una costellazione di paesi amici (e naturalmente riconoscenti all’America per la libertà raggiunta), che naturalmente inaugurerebbero una nuova politica di alleanza, sulla base del fatto che i paesi democratici sono automaticamente portati a coalizzarsi.

In un mondo in cui la proliferazione delle armi di distruzione di

massa27 è ormai così diffusa, risulta infatti, secondo i politologi

neoconservatori, troppo rischioso fidarsi di regimi non sottoposti alla verifica democratica: i danni che le WMD sono in grado di infliggere ad una società moderna sarebbero gravissimi ed irrecuperabili28.

La tirannia autocratica non minaccia però il mondo libero solo direttamente: infatti l’ambiente che nasce in un regime

27

d’ora in poi abbreviate con la sigla WMD. Si intendono con essa tutte le armi chimiche, biologiche o nucleari.

28

Cfr. “La strategia per la sicurezza nazionale” del 2002; in Lucia Annunziata, “NO”, Interventi Donzelli, Roma 2002, pp.130-134.

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autocratico produrrebbe un velenoso effetto culturale29. Un esempio di questo processo sarebbero i paesi del Medio Oriente: ad una popolazione con un glorioso passato sarebbero negate infrastrutture adeguate, l’occasione di istruirsi, anche la stessa possibilità di sviluppare un’alternativa all’oppressione in cui vivono (dato che gli intellettuali e gli attivisti per la democrazia ed i diritti civili sono perseguitati ed imprigionati); di conseguenza i giovani di questi paesi vengono allevati da retrivi esponenti religiosi in un misto di “teologia medievale e

autocommiserazione nazionalista e terzomondista”30.

Ci si chiede a questo punto che cosa ci si potesse aspettare da questo cocktail micidiale se non “una popolazione infuriata,

pronta a trasformare ogni frustrazione della propria frustrante vita in odio fanatico per tutto ciò che non è islamico?31”.

Secondo i neocon, i realisti alla Kissinger hanno sempre utilizzato quest’alienazione delle popolazioni mediorientali come scusa per il loro appoggio ai regimi dispotici: poiché queste popolazioni sono caratterizzate da un forte odio verso i paesi occidentali, sarebbe folle destabilizzare o eliminare i regimi che

29

David Frum e Richard Perle, Estirpare il Terrore, LINDAU, Chivasso 2004, p.190.

30

Ibid. , p.191.

31

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le governano; che anzi sono l’unica cosa che ci separa dalla rabbia dei loro soggetti.

Ma l’11 settembre ha spazzato via il valore di queste obiezioni: l’alienazione dei sudditi dei regimi dispotici non è più controllabile; nessuno di questi governi è ormai in grado di tenere sotto controllo le rispettive popolazioni.

Non solo, ma ormai l’estremismo si sarebbe infiltrato negli stessi apparati statali che avrebbero dovuto contrastarlo, come

dimostrerebbe l’esempio di Pakistan e Arabia Saudita32; quando

anche tale “marciume” ideologico non arrivasse a coinvolgere le più alte sfere di queste nazioni, il risultato sarebbe poco diverso: diventerebbe infatti troppo pericoloso per questi regimi il contrastare ulteriormente l’estremismo, in quanto ciò avrebbe ricadute negative sulla stabilità del loro potere. Perché infatti dovrebbero correre simili rischi solo per proteggere l’Occidente dagli attentati?

Il realismo in politica estera perderebbe una delle sue principali giustificazioni: se ci si può mettere d’accordo con dittatori e regimi dispotici, è impossibile farlo con le loro popolazioni, ed è anche da esse che proviene il pericolo.

32

(27)

Ricapitolando, abbattere tali regimi sarebbe quindi necessario per eliminare non solo una loro minaccia diretta (a breve termine forse minima) al mondo occidentale, ma anche per disinnescare la minaccia indiretta causata dall’alienazione serpeggiante nelle loro popolazioni. Alienazione che andrebbe a sfociare in avvenimenti come l’11 settembre.

Queste considerazioni non sono, come si è già detto, solo un esercizio mentale dei soli neoconservatori, ma dopo la tragedia

del WTC si sono anche diffuse ai massimi livelli

dell’amministrazione federale statunitense, come ci prova il discorso fatto da Bush il 26 febbraio 2003 all’American

Enterprise Institute33: “Il mondo ha un chiaro interesse nella diffusione dei valori democratici, perché nazioni libere e stabili non producono ideologie omicide, bensì incoraggiano la ricerca

pacifica di una realtà migliore”34.

C’è poi il pericolo, a suo tempo identificato come il più grave di tutti, ed utilizzato per giustificare l’azione intrapresa contro il regime iracheno: questo pericolo deriverebbe da una fusione

33

Autorevole think tank neocon, e tribuna preferita dagli intellettuali neoconservatori per esprimersi e lanciare messaggi all’establishment ed all’opinione pubblica.

34

(28)

d’intenti tra il governi tirannici e i movimenti terroristici originati dall’alienazione mediorientale.

Questa fusione permetterebbe a questi regimi, spesso molto inferiori in potenza alle nazioni democratiche, di trovare un modo di colpirle ed indebolirle senza affrontarle direttamente. Secondo infatti le affermazioni di molti neocon (fatte prima del conflitto con l’Iraq) la potenza di organizzazioni come al-Qaida è inspiegabile, a meno che non siano attivamente sostenute dai

numerosi rogue states dell’area mediorientale35.

Timorosi di colpire direttamente l’America ed i suoi alleati, questi regimi sfrutterebbero l’incontrollabilità delle fazioni terroristiche a loro vantaggio: appoggiandole, rifornendole di armi, e garantendo loro i santuari sicuri da dove operare, questi regimi permetterebbero a queste organizzazioni di fare quello che essi non possono fare ufficialmente, e la segretezza (o comunque non la non dimostrabilità) di questo rapporto di simbiosi garantirebbe con buona sicurezza sull’assenza di rappresaglie.

Nella visione neocon, la formazione di questo tipo di alleanze diviene inevitabile: la diffusione dei valori democratici è infatti

35

Cfr. Michael Leeden, The Real Foe is Middle Eastern Tyranny, http://www.aei.org/publications/pubID.14297,filter.all/pub_detail.asp

(29)

l’attuale massimo pericolo sia per i regimi tirannici che per i gruppi terroristici come al-Qaida.

Infatti (come afferma anche Bush nel citato discorso all’AEI), se veramente la democrazia raggiungesse il Medio Oriente, allora sarebbe la fine per entrambi: da un lato il miglioramento delle condizioni materiali (che da Fukuyama, e da praticamente tutti i neocon, viene sistematicamente associato allo sviluppo della democrazia) delle popolazioni locali toglierebbe consenso ai gruppi terroristici (a causa della fine dell’alienazione popolare), dall’altro ovviamente significherebbe anche la fine dei governi tirannici.

Da questa consapevolezza nascerebbe l’esigenza di allearsi, che altrimenti suonerebbe persino innaturale, dato che fra gli obiettivi dichiarati di questi terroristi vi sono questi stessi regimi che, secondo i neocon, li appoggerebbero.

Uno dei più inquietanti possibili sviluppi di quest’alleanza si verificherebbe nel caso che questi rogue states fornissero a questi gruppi terroristici delle WMD: il pericolo di un nuovo 11 settembre a base di armi nucleari, biologiche o chimiche diverrebbe una realtà concreta.

(30)

Aspettare senza agire, tollerando passivamente l’esistenza di simili regimi illiberali, è divenuto quindi troppo pericoloso, e secondo i neocon i rischi derivanti dall’inazione sono diventati ormai molto superiori agli eventuali ed ipotetici rischi derivanti dal prendere l’iniziativa.

Ma una volta stabilito questo con sicurezza, e determinato il

perché la democrazia vada necessariamente esportata,

bisogna deliberare il come: se l’obiettivo è chiaro e semplice, molto meno lo sono le modalità.

Del resto gli stessi neocon ammettono implicitamente che, per quanto grande sia la potenza dell’America, la sottomissione

manu militari di tutti i regimi non democratici non può comunque

rappresentare una prospettiva realistica.

Questo naturalmente non significa che la forza militare non possa essere utilizzata, o che non venga poi effettivamente utilizzata: data la sproporzione di forze che esiste tra gli USA ed ogni possibile nemico risulta spesso vantaggioso, almeno apparentemente, il farvi ricorso.

Di come i neocon concepiscano l’uso della forza ci si occuperà successivamente in maniera più approfondita, data l’importanza della questione per il loro pensiero; per il momento si può però

(31)

già esaminare la cosa da un differente punto di vista: l’opzione militare è compatibile con l’esigenza di “democratizzare” il paese di cui si decide di deporre il regime?

Per i neoconservatori la risposta non può essere che sì (come prova anche il loro sostegno all’invasione dell’Iraq), ed anzi l’intervento militare può e deve svolgere un ruolo fondamentale nella diffusione della democrazia, interagendo con il “soft

power” (cioè quel miscuglio di libertà, potentissima cultura di

massa, benessere economico, avanzamento tecnologico e scientifico, che rende così appetibile, almeno teoricamente, il

sistema statunitense36), e potenziandone l’efficacia, come si

vedrà.

Del resto vi sono notevoli esempi nel passato che ci comprovano come l’uso della forza sia un non disprezzabile strumento di democratizzazione: la Germania, Il Giappone e l’Italia erano tutte dittature, e sono state tutte abbattute con la coercizione. La ricostruzione, in questi paesi, di un sistema postbellico basato sui valori democratici e sul rifiuto delle vecchie ideologie totalitarie, viene attribuita dai neocon (e non

36

Per una disamina delle potenzialità e dei limiti del soft power, si può fare riferimento al testo Soft Power di Joseph Nye, l’inventore del concetto stesso. Cfr. Joseph Nye, Soft Power, Einaudi, Torino 2005.

(32)

solo da loro: dalla maggior parte degli statunitensi) alle capacità statunitensi di nation-building.

L’idea che l’uso della forza renda l’occupante così inviso alla popolazione locale da impedire la successiva operazione di democratizzazione, è confutata dai neocon (non del tutto a torto) facendo riferimento ai casi sopraccitati.

Pensando alla Germania del 1945, ci troviamo di fronte un paese del tutto devastato: 4 milioni di militari morti sui vari fronti (un’intera generazione maschile perduta, dato che ancora nel 1960 il rapporto tra femmine e maschi nella Repubblica Federale Tedesca era di 126 a 100), 600000 civili periti sotto i bombardamenti, intere parti della Germania del 1938 (quali Pomerania, Prussia, Slesia, etc.) spopolate e destinate a

essere del tutto incorporate in altre nazioni37, tutte le maggiori

città completamente distrutte e praticamente inabitabili, senza

contare la divisione tra RDT e RFT e le mutilazioni territoriali38.

Nonostante uno scenario così disastroso, nessuno può negare come già nel 1955 (data del suo ingresso nella NATO) la

37

Compresa incidentalmente Koenigsberg, nella Prussia Orientale, città natale di Kant, oggi divenuta Kaliningrad, parte della Federazione Russa.

38

John Keegan, La Seconda Guerra Mondiale, BUR, Roma 2002; e Anthony Beevor, Berlino

(33)

Repubblica Federale Tedesca costituisse un ottimo esempio di nazione democratica.

Per il Giappone lo scenario è simile, con in più il dubbio onore di essere stata l’unica nazione nella storia umana ad essere stata fatta oggetto di attacchi nucleari.

Anche in questo caso però, bisogna rimarcare che non vi furono sostanziali difficoltà nel democratizzare il paese, e che già 20 anni dopo esso costituiva una stabile presenza nel consesso delle nazioni aderenti ai valori democratici.

Di conseguenza la pretesa neocon di esportare la democrazia non è così insensata come si potrebbe pensare, e si basa su esperienze passate di grande successo, come testimonia la stessa Repubblica Italiana.

Dopo tutto, gli alleati anglosassoni cosa hanno fatto nella Seconda Guerra Mondiale? Non hanno di fatto esportato la democrazia con la forza? Questo parallelismo viene esplicitamente esposto dai neoconservatori in molti loro articoli

e libri precedenti al 20 marzo 200339, e anche a seguito di

quella data.

39

(34)

Per esempio in Estirpare il Male di David Frum e Richard Perle, si proclama orgogliosamente come la democratizzazione di una nazione sia “un lavoro che abbiamo già compiuto in passato in

Europa Occidentale”40; Simili parallelismi vengono fatti anche

da Michael Leeden41 in una intervista dell’ottobre 2002, dove

egli assimila la situazione dei popoli mediorientali a quella della popolazione europea occidentale della prima metà del secolo, postulando implicitamente che la democrazia è un desiderio universale e che le possibilità di successo della futura operazione irachena (che allora era al di là di venire) sono almeno paragonabili a quelle di democratizzare Italia e

Germania nel 194542; e gli esempi potrebbero continuare.

Un altro elemento in comune fra l’occupazione irachena, e quella delle due potenze dell’Asse sconfitte risiede senz’altro nel processo di debaathificazione: cioè nella volontà di marginalizzare dalla vita politica del nuovo Iraq tutte le personalità coinvolte nel vecchio regime, ovvero il partito Baath. In Germania si era avviato un processo analogo, chiamato di denazificazione, con lo stesso scopo.

40

Cfr. David Frum e Richard Perle, Estirpare il Male, op.cit. , p.192.

41

Neocon di lunga data, noto anche al pubblico italiano per il suo ruolo durante la crisi di Sigonella nel 1985.

42

Cfr. Michael Leeden, Regime Change Shouldn't Be Only Goal of U.S. in Mideast, in http://www.aei.org/publications/pubID.15539,filter.all/pub_detail.asp

(35)

Anche lo scioglimento dell’esercito iracheno ricalca un precedente in Germania: lo scioglimento della Wehrmacht e delle Waffen SS.

Non è questa la sede per dilungarsi a discutere l’efficacia di questi provvedimenti nell’Iraq odierno: basti far notare come siano stati disastrosi, e abbiano contribuito moltissimo a peggiorare la stabilità del paese.

Più interessante è l’atteggiamento dei neoconservatori al riguardo: entrambi i provvedimenti in questione sono stati infatti da loro strenuamente difesi.

La concezione che hanno sviluppato della democrazia, e che sta alla base della stessa possibilità di esportarla, la qualifica come valore universale, cui tutti gli esseri umani aspirano. Ammettere differenze culturali, o ammettere la possibilità che la società civile di una nazione possa non essere in grado (per esempio a causa di una frammentazione etnico-religiosa) di accoglierla, sarebbe del tutto inaccettabile.

Tutto quello che i neocon sono disposti a concedere, a questo riguardo, è che in certi casi la costituzione di una salda democrazia sia più difficile e più lunga.

(36)

L’idea sottintesa è questa: e cioè che ogni essere umano, di qualunque etnia o religione sia, ha il desiderio di vivere in una democrazia; dato però che spesso esso si trova a vivere sotto un regime tirannico ed oppressivo, troppo forte perché egli se ne possa liberare da solo, diviene necessario un intervento esterno; ma tale intervento deve avere solo lo scopo di distruggere le suddette strutture (per esempio il partito Baath e le Forze Armate), in quanto una volta fatto questo, la società civile sarà pienamente in grado di costruire una stabile democrazia quasi da sola.

Come infatti affermano David Frum e Richard Perle: “non siamo venuti in Iraq per governarlo, ma per restituire loro

l’autogoverno che gli era stato sottratto da decenni di tirannia”43.

Questa convinzione ideologica ha impedito ai neocon di stabilire piani di occupazione efficaci, dato che una volta crollato il regime, ritenevano di doversi occupare di pochi compiti, perlopiù di facciata, mentre il grosso del lavoro di ricostruzione e stabilizzazione sarebbe andato agli iracheni stessi44.

43

Cfr. David Frum e Richard Perle, Estirpare il Male, op.cit. , p.195

44

(37)

Un altro elemento da notare: se per un neocon (e per la maggior parte degli statunitensi) le due situazioni (Iraq nel 2003 e Germania\Giappone nel 1945) sono apparentemente molto simili, per un europeo appaiono diversissime ed assolutamente non compatibili.

Di ciò deriva anche che la prospettiva di democratizzare società così diverse dal punto di vista etnico, storico e religioso, ipotesi azzardata per un cittadino europeo, risulta invece ragionevole e possibile per un neoconservatore.

Né vale affermare come alla guerra in Iraq abbiano partecipato anche paesi europei, dato che questa partecipazione è dovuta ad una volontà di seguire la “nazione leader dell’Occidente”, piuttosto che ad una reale considerazione della situazione, come una frase dell’ex premier italiano Silvio Berlusconi sembra suggerire: “siamo comunque con l’America”. Similari anche le parole di Tony Blair all’ONU il 12 settembre del 2002: “le ragioni degli Stati Uniti non possono essere messe in dubbio”.

La tradizionale amicizia con gli USA e il ricordo dell’11 settembre possono avere portato molti paesi europei a contribuire alle operazioni belliche, ma è molto dubbio che politici europei potessero assumere l’iniziativa proponendo una

(38)

democratizzazione “forzata” manu militari di un paese mediorientale, ed assumendola come proposta concreta e fattibile.

Tutto quanto abbiamo finora detto non ci deve però portare a pensare che l’accento posto dai neocon sull’esportazione della democrazia con la forza li porti a negare qualsiasi attenzione al concetto di “soft power”: al contrario esso svolge un ruolo essenziale nel pensiero neocon.

Sebbene auspichino l’uso della forza per eliminare i regimi dittatoriali, ciò non significa che altri metodi non siano applicabili e opportuni, oppure che hard power e soft power non possano essere usati entrambi, allo scopo di rafforzarsi a vicenda: l’invasione dell’Iraq, ad esempio, avrebbe dovuto essere il catalizzatore di un immenso movimento di democratizzazione in tutto il Medio Oriente. Ma come doveva svilupparsi tutto questo?

La visione di un Iraq libero e prospero, amico dell’America, e risorto dalle proprie ceneri, doveva spronare le masse mediorientali a scrollarsi di dosso i regimi che le opprimono, ad abbracciare i valori della democrazia ed a riconsiderare il loro conflittuale rapporto con gli USA (che lungi dal mostrarsi

(39)

oppressivi e tirannici, si sarebbero invece dimostrati i loro liberatori).

Quindi l’uso della forza da parte USA avrebbe contribuito ad amplificare notevolmente il proprio appeal presso queste popolazioni, e avrebbe reso molto più forte il soft power statunitense.

Il peso della diplomazia Usa sarebbe stato anche alimentato dal nuovo valore deterrente della forza militare americana: se Saddam Hussein negli anni ’90 poteva avere dubbi sull’effettiva volontà statunitense di abbattere il suo regime, un ipotetico despota odierno non ne avrebbe certo avuti. L’America non sarebbe stata più una “tigre di carta”, incapace di implementare efficacemente le proprie decisioni, ma un gigante da temere e rispettare, alla cui volontà bisogna obbedire, pena gravi ed immediate conseguenze (e non nebulose sanzioni senza alcuna efficacia).

In questo ipotetico Medio Oriente, i regimi si sarebbero trovati schiacciati da pressioni interne ed esterne: da un lato la propria popolazione, ansiosa di condividere le conquiste economiche e la libertà degli iracheni, e affascinata dal soft power americano; le pressioni esterne non sarebbero state meno forti: gli USA,

(40)

consci del rafforzamento del loro potere diplomatico e militare, non sarebbero stati infatti esitanti nell’usare tutti gli strumenti a loro disposizione per piegare questi regimi ad aprirsi ed a liberalizzarsi.

Sotto queste due pressioni, secondo i neocon, i regimi mediorientali non avrebbero potuto assolutamente resistere, e, uno dopo l’altro, sarebbero crollati, per venire sostituiti da democrazie liberali.

Naturalmente lo scenario che prospettavano si è rivelato totalmente erroneo, e la strategia neoconservarice per il Medio Oriente è oggi in completa bancarotta.

Ritornando al rapporto fra soft power e hard power nei neoconservatori, è pertanto interessante rilevare come, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tale rapporto non sia completamente sbilanciato a favore del secondo dei due. Il soft power sarebbe in effetti da privilegiare rispetto all’hard

power, quando ad esempio l’avversario in questione risulta

troppo forte per essere intimidito dal potere americano, oppure quando le circostanze non risultino favorevoli ad un’azione diretta.

(41)

Michael Ledeen, per fare un esempio, considera opportuno un atteggiamento di questo tipo per eliminare la minaccia posta dal regime iraniano (che secondo lui è avversato da più del 70% della popolazione): nella fattispecie, non esita a dire che “I think

that Mr. Will45 got it wrong because he assumes that regime change implies military conquest”46.

Un simile regime, se sottoposto a forti pressioni, può crollare anche senza usare a fondo l’hard power, come la fine dell’URSS ha dimostrato: la teocrazia iraniana può essere sconfitta dalla sua stessa popolazione, purché vi sia un chiaro appoggio esterno dell’America, che incoraggi, con la forza dei propri valori e della propria libertà, gli iraniani alla ribellione contro il clericalismo dei mullah.

Come dice sempre Ledeen questa è una battaglia da combattere non con “missiles and bullets”, ma con “ideas and

passions”.

In generale, l’Iraq doveva fornire l’esempio: creando una democrazia salda e prospera nel cuore del Medio Oriente, si

45

George Frederick Will (cui si riferisce Leeden) è un noto editorialista, giornalista e autore americano. Di orientamento conservatore (e di continua militanza repubblicana), ha assunto posizioni critiche nei confronti dell’amministrazione Bush e dell’ottimismo e faciloneria con cui ha affrontato la questione irachena.

46

Cfr. Michael Ledeen, Iran, Impossible?,

(42)

forniva un’alternativa all’alienazione morale dei milioni di abitanti dell’area, oppressi e tiranneggiati. Questo faro di libertà doveva divenire un potente strumento di soft power, allo scopo di mostrare a quelle persone i concreti vantaggi del sistema americano.

La voglia di libertà di queste popolazioni avrebbe fatto il resto, facendo crollare tutte le autocrazie dell’area e trasformando una regione da molto tempo povera e oppressa in una cittadella della democrazia.

La visione neoconservatrice ci si presenta così nella sua potente e visionaria grandiosità, ma anche nella sua fatale ingenuità, e nel suo conseguente tragico fallimento.

Questo fallimento ha anche un aspetto paradossale: i neocon, sempre accusati di trascurare il ruolo del soft power, lo

avrebbero invece sopravvalutato moltissimo, e tale

sopravvalutazione avrebbe una parte non piccola nel provocare l’attuale disastro.

Non solo infatti si aspettavano che gli iracheni si conformassero molto rapidamente al modello della democrazia occidentale (o meglio americana), ma pensavano inoltre che questo modello

(43)

avesse un tale appeal da fare crollare buona parte dei regimi mediorientali sulla sola base dell’esempio iracheno.

Coniugare hard power e soft power, come hanno tentato di fare

i neocon, non è certo di per sé un’idea aberrante47; piuttosto si

può rimproverare loro di non avere ben compreso i limiti e l’efficacia del dispiegarsi del soft power; l’invasione dell’Iraq, da essi attivamente supportata, ha per giunta dilapidato un enorme patrimonio di soft power, accumulato a partire dal 1945.

Infatti, se prima dell’Iraq un presidente americano poteva creare un’enorme coalizione di alleati, solamente sulla base della propria parola (incredibile testimonianza del soft power statunitense), adesso l’occorrere di una simile eventualità risulta notevolmente più improbabile.

Non solo le politiche neocon hanno danneggiato molto gravemente il soft power americano, ma hanno anche colpito a morte la stessa idea di “esportazione della democrazia”.

A causa dell’Iraq infatti tale concetto è oggi divenuto sospetto, e, lungi dal suscitare aspettative nelle popolazioni che ne

47

Lo stesso inventore del concetto di soft power, il citato Joseph Nye, è del resto pronto a riconoscerne i limiti, e ad ammettere come esso non sia in grado di sostituire l’hard power: sono infatti ambedue necessari, e nessuno dei due può risolvere tutti i problemi o permettere di raggiungere tutti gli obiettivi, qualora venisse usato da solo. Cfr. Joseph S. Nye, Soft Power, op.cit.

(44)

dovevano beneficiare, suscita invece presso di esse odio e frustrazione.

Come ha percepito Francis Fukuyama, la sola possibilità di salvare questo concetto risulta ormai quella di svincolarlo dal movimento neoconservatore: che un ex-neoconservatore arrivi a dire questo suona davvero come un tragico epitaffio per coloro che dell’esportazione della democrazia avevano fatto un fattore centrale della propria visione del mondo.

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