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IV. Analisi del testo

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Academic year: 2021

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IV. Analisi del testo

I have crossed an ocean

I have lost my tongue

from the root of the old one

a new one has sprung

(Grace Nichols, “Epilogue”)

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1. La struttura del testo

Il romanzo The Polished Hoe è stato pubblicato nel 2002, ma è frutto di anni di lavoro e revisioni da parte dell'autore e può essere considerato una sorta di summa del suo pensiero. Dal punto di vista cronologico, si pone dopo le prime opere ambientate nei Caraibi, la trilogia di Toronto, i romanzi sulla disillusione del ritorno in patria, i racconti brevi sull'esperienza degli emigrati caraibici e le memorie autobiografiche.

L'opera di Clarke non è facilmente ascrivibile a un singolo genere o a una singola corrente letteraria, poiché il carattere eclettico dell'autore e la sua capacità di osservazione delle realtà con cui entra a contatto lo hanno portato a occuparsi di una vasta gamma di tematiche e a cimentarsi in diversi generi sia di prosa che di poesia. Tuttavia, si può affermare che The Polished Hoe riflette la tendenza degli scrittori delle generazioni successive a quella degli anni Cinquanta, che portano a compimento il processo di presa di coscienza iniziato a metà del XX secolo. Sarà questo processo a portare, a fine secolo, alla percezione e definizione di sé, alla conquista di una propria identità autonoma dalle influenze del colonialismo e al riconoscimento dei danni provocati dalla dominazione imperiale.

Il romanzo si sviluppa nell'arco temporale di una notte, ma copre la vita intera di una donna e l'esperienza collettiva di un'intera comunità segnata dalla schiavitù, dalla dominazione e dallo sfruttamento coloniale. Il romanzo è ambientato in una piantagione di canne da zucchero nell'isola di Bimshire (pseudonimo di Barbados) attorno agli anni Cinquanta del Novecento. Mary-Mathilda, una donna mulatta di quasi sessant'anni, amante e protetta dell'amministratore della piantagione, il signor Bellfeels, una sera telefona alla polizia e chiede al sergente e suo amico d'infanzia Percy di venire a casa sua perché deve confessare un crimine. Durante tutta la notte, Mary-Mathilda racconta la sua storia di violenza e abusi fisici e mentali, assieme alla storia di

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sua madre May e della gente del suo villaggio, vittime dell'arroganza e avidità dell'élite bianca al potere, portando alla luce, in questo modo, i mali del colonialismo e l'eredità lasciata dalla schiavitù.

Il romanzo è diviso in tre parti e la narrazione si svolge in parte nella casa in cui abita Mary-Mathilda, la Great House, e in parte all'esterno, in particolare nel North Field e nel tunnel sotterraneo, un passaggio segreto che consentiva di uscire di nascosto dalla casa.

Nella prima parte del romanzo, Mary-Mathilda racconta prima a Constable, un agente mandato a prendere la deposizione preliminare in attesa che il sergente arrivi, poi a Percy stesso, come ha raggiunto la sua posizione all'interno della piantagione, dove vivono i bianchi e i creoli al potere e del villaggio, dove vive la gente di classe più umile (braccianti e artigiani). Mary, da bambina, era una bracciante come sua madre; in seguito, è stata “promossa” a cameriera presso la Main House, abitazione del signor Bellfeels e della sua famiglia.

La protagonista parla anche del fatto che fin da piccola è stata trattata dal signor Bellfeels come un oggetto sessuale: racconta del loro primo incontro, quando May l'ha di fatto offerta a quest'uomo potente affinché la prendesse sotto la sua protezione; parla dei figli che ha avuto da lui e di come, in virtù di loro madre, le è stato concesso di vivere nella Great House; dei privilegi che le sono stati accordati per poter provvedere a lei e all'unico figlio superstite.

In questa parte della storia, che si svolge prevalentemente nel lussuoso soggiorno della Great House, emerge l'orgoglio di Mary-Mathilda in quanto signora della casa, padrona di mobili pregiati e oggetti preziosi. Tuttavia, si tratta di un orgoglio intaccato dalla rabbia e dal risentimento per l'eredità di abusi e violenze che ha ereditato da sua madre, dato che il signor Bellfeels abusava anche di lei.

La seconda parte si svolge sempre nel soggiorno: la narrazione assume un tono più intimo, dato che Constable è stato congedato e Mary è rimasta da sola con il sergente; Mary-Mathilda racconta altri episodi di violenza sessuale e di

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abusi e Percy racconta alcuni episodi della sua vita, legati all'infanzia nella piantagione e in particolare alla scuola elementare. La confessione diventa quasi una conversazione tra due vecchi amici che cercano di trovare complicità nella condivisione delle proprie esperienze.

Nella terza parte, Mary-Mathilda conduce Percy in altri luoghi della casa e all'esterno di essa e, mentre si muovono, il lettore entra nella parte più inquietante della storia: il signor Bellfeels è il padre biologico di Mary e ha abusato di lei fin da quando era bambina, trattandola come un oggetto di sua proprietà per tutta la vita. Mary non ha avuto scelta: May ha scelto per lei, pensando che fosse preferibile alla vita nei campi, al lavoro massacrante e alla povertà.

Tornati nella Great House, finalmente Mary inizia la sua deposizione: quella sera, si è recata a piedi alla Main House portando con sé la sua zappa; ha ucciso e castrato il signor Bellfeels; è ritornata a casa e ha chiamato la polizia. La questione attorno alla quale ruota tutto il romanzo non è quale crimine è stato commesso o chi è il colpevole, dati che il lettore intuisce già nella prima parte della narrazione; la vera domanda è perché Mary-Mathilda ha fatto quello che ha fatto. Non è stata una vendetta, ma una rivendicazione, un tentativo di affermazione di sé, della propria identità e dignità al di fuori della morsa del signor Bellfeels, al di fuori del colonialismo e dei poteri imperiali; non è stato un omicidio, ripete più volte Mary, ma un sacrificio e un atto di auto difesa. Mary-Mathilda insiste affinchè la sua deposizione venga trascritta parola per parola perché vuole che la sua storia non sia dimenticata, ma soprattutto che non sia travisata, modificata o reinterpretata da nessuno.

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2. I personaggi

2.1 Mary-Mathilda

Mary-Mathilda è l'amante “ufficiale” del signor Bellfeels. La sua storia inizia all'età di otto anni, quando lo incontra per la prima volta nel cimitero accanto alla chiesa: Bellfeels passa il suo frustino sul corpo della bambina e questo gesto la traumatizza, imprimendosi per sempre nella sua memoria. I movimenti del frustino hanno un chiaro significato sessuale: attraverso di esso, Mary viene reclamata come proprietà di Bellfeels e le viene posto il marchio di vittima, di oggetto sessuale.

Il frustino, inoltre, impone il silenzio alla madre: nel testo, infatti, il gesto che l'uomo fa con questo oggetto viene paragonato alla sua mano che chiude la bocca di May, la quale durante l'incontro dice pochissime parole e fissa lo sguardo sulle tombe, come se in esse fosse sepolta la sua voce. La violenza e le implicazioni dell'episodio non sono comprensibili nell'immediato, ma la protagonista li capirà nel corso della vita, arrivando quasi a giustificare il comportamento della madre: essa la offre al suo stesso aguzzino perchè è consapevole che non esiste altro modo, nella piantagione, per avere una vita migliore, se non sfruttando la propria sessualità.

In questo episodio, tuttavia, si accenna anche a una possibile redenzione per Mary: le parole della Colletta di quella domenica le risuonano in mente “that through the grave, and the gate of hell, we may pass to our joyful resurrection…”.1 Rappresentano per lei una specie di monito o profezia: dovrà

compiere un viaggio attraverso l'inferno, ma che si concluderà con una gloriosa resurrezione.

1 Austin, Clarke, The Polished Hoe, Toronto, Thomas Allen Publishers, 2002, p. 19. Da qui in avanti i riferimenti del romanzo saranno indicati nel testo, tra parentesi, con il cognome dell'autore e il numero di pagina.

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L'episodio del frustino la accompagnerà per il resto della vita e sancisce allo stesso tempo l'inizio sia degli abusi da parte del signor Bellfeels, sia della sua “ascesa” sociale: da lavoratrice nei campi di canne da zucchero, viene promossa a domestica della Main House; in seguito, viene “messa” nella Great House, seconda casa più importante della piantagione, assieme a May e Wilberforce, il figlio avuto da Bellfeels. In quanto mistress della Great House, Mary gode di molti benefici, è circondata dalla ricchezza ed è oggetto del rispetto e del timore da parte di tutto il villaggio; tutto questo però ha un prezzo, che Mary-Mathilda paga con la libertà, la rinuncia alla propria identità e la condanna a una vita di totale reclusione e isolamento: “This Great House is bigger and definitely nicer and prettier than the shack I was born in. Than any in the Village. But is it a happier place to live in?” (Clarke, 304).

Mary, quindi, si delinea come un personaggio complesso: da una parte, infatti, si mostra orgogliosa della casa, dei mobili, degli oggetti che possiede e della brillante carriera del figlio, il quale ha potuto studiare nelle migliori scuole dell'isola e all'estero ed è diventato un medico stimato e rispettato. Il suo orgoglio, tuttavia, non è privo di rabbia e risentimento, poiché tutto ciò che ha avuto è la ricompensa per la sua storia di abusi e violenze sessuali che Mary ha ereditato da sua madre.

Definizione dell'identità

Il romanzo si apre con la dichiarazione di Mary delle sue generalità a Constable, una normale procedura prevista nelle deposizioni. Il primo atto che quindi compie, è quello di definire la sua identità all'interno della famiglia e del villaggio; questo ci fa intuire che gran parte della storia verrà raccontata dalla prospettiva di Mary. Le sue molte identità mostrano la connessione tra i racconti personali e il modo in cui essi informano o indeboliscono la storia collettiva dell'isola.

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My name is Mary. People in this Village call me Mary-Mathilda. Or, Tilda, for short. To my mother I was Mary-girl. My names I am christen with are Mary Gertrude Mathilda, but I don't use Gertrude, because my maid has the same name. My surname that people 'bout-here uses, is either Paul, or Bellfeels, depending who you speak to . . . (Clarke, 11)

Mary insiste molto sul termine legale Statement e insiste nel voler fare la sua deposizione, la cui importanza viene sottolineata anche dall'uso della maiuscola; durante il colloquio con Constable, ripete più volte l'inizio della deposizione, ribadendo il suo nome. Più tardi, con Percy, spiega quali sono i motivi della sua insistenza: la deposizione le permette di lasciare la storia a Wilberforce e al villaggio, di impedire che venga interpretata in modo errato e di salvare la sua anima; per Mary la confessione è un bisogno impellente e imperativo, perché la narrazione diventa un atto liberatorio e di emancipazione.2

La tradizione orale

Nel definire se stessa, Mary-Mathilda rompe le restrizioni politiche e razziali associate all'inferiorità del ruolo che le è stato imposto dal colonialismo, un ruolo che non permette al colonizzato di parlare, di provare orgoglio per la propria storia e cultura, perché considerate inferiori e grottesche. Dichiarando il nome, la discendenza e lo status all'interno delle istituzioni colonialiste, Mary recupera gli antefatti storici, culturali e razziali e fonda la sua memoria sul senso di tradizione e appartenenza. Mary-Mathilda decide chi essere e cosa ha significato per lei la

2 Cfr. Mirosława, Buchholtz, “Public Statement: Austin Clarke's The Polished Hoe”, in

Canadian Passwords: diasporic Fictions in Twenty-First Century, Toruń, Wydawnictwo

Naukowe Uniwersytetu Mikołaja Kopernika, 2008, pp. 165-83.

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relazione con il signor Bellfeels non solo uccidendo il suo aguzzino, ma soprattutto raccontando la sua storia ad alta voce.

Quest'ultimo aspetto è fondamentale e si inserisce nel contesto più ampio della tradizione orale della realtà coloniale caraibica: gli africani che arrivavano nelle isole venivano sradicati dal loro paese natio, dalla propria famiglia e dalle proprie origini.3 Tuttavia, essi continuavano a tramandare le proprie conoscenze

alle nuove generazioni nate sotto la schiavitù attraverso i canti, la musica, le storie e le leggende, proprio per preservare l'identità culturale e come forma di sopravvivenza e di resistenza.

Si spiega in questo senso, allora, il bisogno di Mary-Mathilda di situare la propria esperienza all'interno dei contesti della schiavitù e delle ribellioni degli schiavi africani, della cultura europea e della storia barbadiana; questa operazione si realizza attraverso il ricostruirsi come soggetto deliberante che può agire e che agisce. Tutte le storie sul passato dell'isola che Mary racconta rispondono alla necessità di non dimenticare il passato e la propria identità, così da poterla ricostruire. Anche se gli schiavi erano privati di qualsiasi bene materiale, non potevano essere privati del ricordo della loro vita precedente, ricordo che gli dava la certezza di appartenere a una cultura ricca di tradizioni e conoscenze. È questa l'eredità che si tramandavano gli schiavi, come sottolinea anche Mary “These narratives are the only inheritances that poor people can hand down to their offsprings” (Clarke, 392).

Rapporto tra luogo e identità

I vari luoghi in cui si svolge la trama rispecchiano le identità che Mary assume in ciascuno di essi: essa è domestica nella Main House, mistress nella Great House e lavoratrice nei campi nel North Field. Mano a mano che il lettore

3 Durante il Middle Passage, tra gli schiavisti era diffusa la pratica di separare le famiglie al momento di imbarcarle, al fine di indebolire i prigionieri e renderli più mansueti.

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entra nei vari spazi, viene a conoscenza dei diversi capitoli della storia di Mary: ciascun luogo porta a galla ricordi di scene reali o immaginate, come piccoli frammenti che si aggiungono al mosaico della sua vita. Mary-Mathilda, infatti, ricostruisce il proprio passato usando sia la memoria che l'immaginazione, poiché, a causa dell'isolamento e dell'esilio autoimpostosi, per lei vita reale e immaginazione sono diventate la stessa cosa. Non si tratta dunque di una semplice narrazione, ma di un processo di reinterpretazione del passato nel tentativo di comprendere le ironie della vita e delle azioni.4

Il senso del luogo, di appartenenza e riappropriazione dello spazio (geografico e non) è un tema molto diffuso nella letteratura postcoloniale e, in quella caraibica, assume un carattere di unicità.5 Essa, infatti, nasce dalla rottura

radicale provocata dal Middle Passage, la schiavitù e l'indentured labour e dalla decimazione delle popolazioni autoctone, fenomeni che hanno portato alla frammentazione delle società caraibiche.

Fin dalla colonizzazione europea, i Caraibi sono stati visti con occhi europei, per cui i paesaggi venivano descritti o come luoghi paradisiaci o come terre selvagge e incivili. Al contempo, e ironicamente, il paesaggio caraibico è stato costruito dai colonizzatori a immagine e somiglianza di quelli europei, sia per quanto riguarda gli edifici e le strutture, sia per quanto riguarda la flora e la fauna. Questo paradosso è stato identificato come una delle cause della perdita dell'identità e del senso di alienazione provato dagli scrittori caraibici che riflettono lo stato d'animo di molti loro conterranei; la madre patria era identificata nel paese europeo che dominava la colonia.6

A partire dagli anni Cinquanta, comincia a decadere il mito della “madre patria” imperiale e gli scrittori si dedicano alla scoperta delle proprie origini e

4 Cfr. Elizabeth, Walcott-Hackshaw, “The Polished Hoe (review)”, in Callalo, Vol. 29, N 2, Spring 2006, pp. 680-2.

5 Cfr. Sarah Phillips, Casteel, “Location The Language of Landscape. A Lexicon of the Caribbean Spatial Imaginary”, in Michael A., Bucknor, Alison, Donnell (a cura di), The

Routledge Companion to Anglophone Caribbean Literature, London, Routledge, 2011, pp.

480-9.

6 Si veda anche Elizabeth, DeLoughrey, op. cit.

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della cultura dei loro antenati; ecco perché l'ambientazione favorita delle storie sono i territori caraibici e i paesaggi naturali locali. La natura si distacca dalla sua controparte coloniale e diventa profondamente storicizzata e politicizzata;7 il

paesaggio spesso raccoglie e conserva quelle storie che sono state messe a tacere e nascoste dai registri della storia ufficiale. Il paesaggio diventa protagonista, proprio come in The Polished Hoe i campi della piantagione sono il luogo dove avvengono gli abusi, gli stupri e le ingiustizie nei confronti degli abitanti; le canne sono “frecce” minacciose scagliate dall'alto, quasi a voler attaccare Mary-Mathilda:

I could make out the canes on both sides of me; and I could hear them shaking, as there was a steady wind the whole evening; the kind of wind that comes just before a heavy downpour of rain, like before a hurricane. They were “arrows” shooting-out from the tops of canes. (Clarke, 13)

La condizione di inbetweener

I diversi ruoli sociali assegnati a Mary la rendono una inbetweener, ossia un individuo che si trova a metà tra due realtà e che non appartiene completamente né alla comunità nera né a quella bianca; questa condizione le permette di raggiungere un livello di conoscenza e di consapevolezza maggiore rispetto agli altri. Potendo usufruire di una doppia prospettiva, sia all'interno che all'esterno di entrambe le realtà, Mary è in grado di prendere le distanze da ciò che ha vissuto, di poterlo guardare e analizzare con un certo distacco e perciò di capire con maggior chiarezza la realtà della sua condizione, che è poi la condizione non solo delle altre donne, ma di tutti gli abitanti del villaggio e, per estensione, del popolo caraibico.

7 Cfr. Ibidem, p. 482.

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Gli scrittori postcoloniali sono molto sensibili a questa condizione che percepiscono largamente diffusa e radicata nella loro società: i membri dei gruppi emarginati sono inbetweeners perché non appartengono al proprio passato, non hanno memoria di una cultura e un sistema di valori propri, ma hanno cercato di fare propria, non per loro volontà ma per imposizione, una cultura altra. Quest'ultima appartiene a un paese che ha imposto la sua presenza e il suo comando nel territorio, ma che non ha mai avuto intenzione di integrare la popolazione colonizzata, né di riconoscere una pari dignità alle relative cultura e tradizioni. Questo erano gli abitanti dei Caraibi quasi fino alla fine del XX secolo, né popolo caraibico, né popolo europeo.

Mary-Mathilda si spinge oltre e arriva a rappresentare anche le nuove generazioni di scrittori caraibici, poiché sia essi che Mary si volgono al passato con quel distacco necessario a comprendere i vari fenomeni che hanno determinato la storia e la società caraibica. Pertanto, tornando al romanzo, la narrazione di Mary pone l'omicidio del signor Bellfeels in prospettiva: il ricorso alla violenza può essere giustificato dal fatto che la degradazione di Mary, avvenuta a causa del sistema delle piantagioni, è irrimediabile, anche se ha ottenuto una qualche forma di compensazione per le atrocità subite. Mary ha compiuto il suo atto perché crede nella restituzione ed è ironico il fatto che si riappropri della sua moralità con un atto di violenza brutale.

Complessità del personaggio

Come si può vedere, Mary è un personaggio sfaccettato e non privo di contraddizioni: parla un inglese “substandard”, ma si sente superiore alla sua domestica Gertrude; insiste sulla differenza sociale tra lei e Gertrude, ma cucinano insieme e consuma i suoi pasti in cucina; è legata alla piantagione in cui vive, ma il suo orgoglio più grande è il figlio Wilberforce, dottore di medicina tropicale che ha studiato e viaggiato in Europa e che è cinicamente

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distaccato dalla vita della piantagione e dal suo retaggio culturale; vive in mezzo agli agi e privilegi, ma racconta una storia di sfruttamento e umiliazione.8

Infine, nel villaggio è conosciuta e rispettata come Miss Bellfeels, ma è riluttante nell'usare questo cognome: Bellfeels è il nome e il simbolo del colonialismo, la metafora dell'oppressione e colonizzazione di Mary. Adottare questo nome da parte sua equivale a dichiarare come propria la lingua del padrone e ad appropriarsi quindi dell'immagine di colonizzatore. Il rifiuto del nome Bellfeels rappresenta una dichiarazione di emancipazione e il rifiuto dell'immagine di inferiorità che il sistema delle piantagioni ha eletto come eredità per i neri; Mary-Mathilda rifiuta l'integrazione culturale, poiché nel contesto in cui vive significa la sottomissione agli standard culturali dei bianchi.

2.2 Sargeant Percy

Sargeant Percy DaCosta Benjamin Stuart è l'altro protagonista della storia e contribuisce a delineare il quadro della società barbadiana sotto il regime coloniale attraverso i suoi racconti e ricordi della vita nella piantagione.

Il rapporto tra Mary e Sargeant è articolato: sono amici di infanzia ed entrambi provano forti sentimenti reciproci, tuttavia non sono mai potuti stare insieme per via del signor Bellfeels. Durante il dialogo tra loro, emerge una tensione tra desiderio e rifiuto: Mary, consapevole del suo potere su Percy e del potere di lui in quanto poliziotto, conduce un gioco di seduzione che scandisce i momenti di rivelazione e occultamento della storia, privandolo in questo modo della sua mascolinità e usurpando il suo potenziale ruolo di difensore della virtù femminile.

In questa relazione particolare, in cui l'uomo si trova in una posizione sociale inferiore rispetto alla donna, è Mary che assume il ruolo dell'eroe maschile: per

8 Cfr. Mirosława, Buchholtz, op. cit., pp. 167-8.

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esempio, è lei che invita Percy a ballare ed è lei a condurre. Mary affronta e supera le stesse apprensioni e paure che affliggono e abbattono Sargeant e che affiorano nel corso del romanzo, sia nel contesto professionale dei doveri da poliziotto, sia nel contesto privato della sessualità. Un esempio significativo del diverso modo di affrontare le preoccupazioni è la paura del buio: quando Mary esce di casa da sola per andare a piedi fino alla Main House, attraversa la piantagione in totale oscurità, ma con determinazione e coraggio. Al contrario, quando Sargeant pattuglia il villaggio di notte, il narratore sottolinea con ironia il suo scarso coraggio e la mancanza di spirito:

Many nights, moving along the narrow track that separates the North Field from the South Field, he would pause often, imagining that he hears the sound of a man moving in the canes, trampling the dried trash; and this would make him grip his truncheon round its thick brown girth, its leather strap wrapped tight round his fingers, as he grips it now; and his body would become tense as steel; and so, stunted by fear, he would listen to the swishing sounds of footsteps deep within the vast, dark bowels of the thick cane fields, swaying in the South Field and the North Field; wondering all the time how he will apprehend this man who intrudes upon his peace, and who delays the pause for refreshment at the rum shop, for the shot glass of Mount Gay Rum whose taste is so enticing. (Clarke, 51-2)

Attraverso l'ironia, l'autore ci presenta un personaggio quasi comico, poiché l'idea che ha di se stesso, la figura che ha creato nella sua immaginazione, non coincide con le azioni e i comportamenti nella realtà:

He is a man on everlasting missions, usually in the dead of night, when all Christian-minded people are sleeping, leaving him to roam the Village, in the company of bugs and worms and centipedes, with the

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“unrighteous” as Manny calls them; in this kind of blackness, having to track down criminals; catch criminals; paint criminals' arse with blows from his bull-pistle, to assist them in confessing “and don't waste my blasted time”, lock up criminals; beat them some more; and “throw-'way the blasted key, if it was up to me. But it ain't up to me. I is only a lil Crown-Sargeant.” (Clarke, 408-9)

Sargeant si dimostra riluttante nell'eseguire il suo dovere di poliziotto: per esempio, ritarda l'arrivo alla Great House e più volte ripete a Mary che non ha bisogno di raccontare tutta la storia, che nessuno nel villaggio vuole sentirla, perché tutti la adorano e nessuno alzerebbe un dito contro di lei. Questo atteggiamento è dovuto alla complessità che caratterizza il rapporto tra Mary e Percy: egli è innamorato di Mary da anni, ma allo stesso tempo ha una relazione con Gertrude, la domestica di Mary nella Great House e la persona più vicina alla figura di amica per lei, tutto ciò inserito nella cornice della paura del signor Bellfeels.

Il comportamento di Sargeant nei confronti di Mary e della sua confessione è ambiguo, poiché manifesta da una parte il desiderio di ascoltare e documentare la storia, dall'altra quello di metterla a tacere e cancellarla. Questa ambiguità rispecchia la sua complicità con la corruzione del signor Bellfeels e della classe dominante e, di conseguenza, con il sistema coloniale. Alla riluttanza nel voler ascoltare le storie di violenza e abusi dell'isola corrisponde l'incredulità e lo scetticismo nell'accettare la presenza della schiavitù nell'isola di Barbados; questi atteggiamenti mostrano quanto il sistema coloniale abbia influenzato le società caraibiche plagiando e mistificando la storia.

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2.3 Personaggi secondari

Il signor Bellfeels

È l'antagonista del romanzo e la sua immagine viene costruita attraverso le parole degli altri personaggi; viene descritto come un uomo violento, ignorante, avaro, disonesto, crudele con la sua amante e con gli uomini che la desiderano e arrampicatore sociale. Costituisce l'emblema del male coloniale e la sua caduta rappresenta la fine della dominazione dell'uomo bianco e una nuova fase storica per Bimshire.

Nel corso della narrazione, il lettore scopre che il signor Bellfeels non è un bianco “puro”, è nato nell'isola e viene da una classe sociale bassa; ha fatto carriera nella piantagione, partendo dal semplice incarico di capo squadra e arrivando alla carica più alta della piantagione. Attraverso questo personaggio, Clarke vuole sottolineare la profonda contraddizione in cui vive la società barbadiana, che è fondata sui preconcetti europei di razza e classe e non è in grado di vedere quanto i vari sottogruppi di cui essa si compone siano accomunati dalla medesima condizione morale.

In altre parole, la tanto esaltata superiorità sociale e morale della élite creola rispetto alla comunità nera, se guardata in un contesto coloniale più ampio, altro non è che un'ulteriore inferiorità rispetto alla purezza e supremazia imperiale. Lo stesso nome, Bellfeels, è una creolizzazione di Bellfield e rimarca come questo personaggio sia una versione creola dei proprietari inglesi che egli rappresenta; inoltre, questo nome è profondamente ironico, se messo in relazione alle brutalità evocate dai campi di canne da zucchero che dominano il paesaggio di Barbados dal punto di vista economico, fisico e mentale.

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Altri personaggi

Oltre ai personaggi descritti sopra, la narrazione è costellata da altre figure secondarie che non hanno un ruolo attivo nella storia, nella maggior parte dei casi non interagiscono e non parlano, ma le cui storie sono legate al racconto di Mary. A sua volta, Mary trova legittimazione nelle storie di altre vittime del sistema colonialista che vengono nascoste o mistificate agli abitanti del villaggio. In particolare, un punto di riferimento per Mary è costituito dal personaggio di Clotelle, la cui storia è un continuo monito sulla malvagità che soffoca la società. Le loro storie, infatti, spesso convergono. Per esempio, entrambe sono state lavoratrici nei campi e hanno subito abusi fisici e mentali, mentre si differenziano nel modo in cui decidono di ribellarsi e di resistere al male: Mary toglie la vita al suo aguzzino, Clotelle si toglie la vita impiccandosi a un albero nel giardino della Main House.

Sargeant, che si è occupato del caso, è convinto si sia trattato di omicidio; questa doppia versione rappresenta le tensioni tra la storia ufficiale e quella ufficiosa degli eventi dell'isola, proponendo un ulteriore esempio del tentativo da parte dei colonizzatori di soggiogare completamente i colonizzati, togliendo loro non solo la voce, ma anche la possibilità di giudicare gli avvenimenti e le situazioni in modo critico, dato che è stata imposta loro una sola realtà. Questo episodio evidenzia inoltre la necessità di recuperare e ricordare la storia ufficiosa, le origini, così da ridare autenticità alle voci dei subalterni.

Un aspetto importante, che emerge dall'insieme dei personaggi secondari, è la natura complicata del crimine: gli uomini che sostengono il signor Bellfeels costituiscono il gruppo indigeno dominante e l'autore, riferendosi a loro attraverso il loro ruolo invece dei nomi propri (Solicitor, Vicar, Governor, ecc.), evidenzia il loro controllo sulle istituzioni coloniali. Essi dovrebbero rappresentare il proprio gruppo e garantire il diritto alla conoscenza e alla giustizia nell'isola, ma in realtà appoggiano e aiutano la classe dominante dei

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colonizzatori.9

Inoltre, mentre il signor Bellfeels e i suoi amici sono presentati come gli istigatori e gli autori di molti crimini nell'isola, Clarke sottolinea anche l'altra faccia della medaglia, ossia la passività e complicità silenziosa dei membri del villaggio, i quali hanno sotto gli occhi la situazione di Mary e di altre donne della comunità, ma rimangono a guardare inermi, per la paura di ricevere ritorsioni e rappresaglie.

3. La questione della voce autentica

Uno dei temi dominanti dell'opera, comune ad altri romanzi dell'autore e in generale alla narrativa postcoloniale, è la questione dell'autenticità. Si pone rilievo sul fatto che il valore delle opere che raccontano l'oppressione razziale, risieda nel far narrare la storia da chi ha vissuto tali esperienze e, di conseguenza, la narrazione deve essere in prima persona e in forma autobiografica. In un tale contesto, il lavoro di Clarke evidenzia tutto il suo genio e la sua abilità di scrittore. Infatti, nonostante la voce narrante non sia autentica nel senso letterale della parola, poiché da una parte Clarke non ha avuto esperienza diretta del contesto femminile e dello sfruttamento coloniale e, dall'altra, la narrazione non si basa su fatti storici, cioè non si tratta di un romanzo storico, tuttavia l'autore è riuscito a creare una voce genuina, autorevole e affidabile.

Scegliendo il narratore in prima persona, attraverso i personaggi di Mary e Sargeant, e quello onnisciente in terza persona, Clarke dà voce agli invisibili, a coloro che sono stati emarginati e dimenticati dalla società coloniale. Per fare ciò, come ricorda Spivak nel saggio Can the Subaltern speak?,10 è necessario un

9 Cfr. Eve, Walsh Stoddard, “Plantation Geography, Gender, and Agency in Austin Clarke's The

Polished Hoe”, in Positioning Gender and Race in (Post)colonial Space, Connecting Ireland and the Caribbean, New York, Palgrave Macmillan, 2012, pp. 164-5.

10 Gayatri Chakravorty, Spivak, “Can the Subaltern Speak?”, in Michael A., Bucknor, Alison,

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cambiamento di prospettiva che permetta di riconoscere alla cultura del subalterno una rilevanza storica e una dignità pari alle altre culture.

Spivak sottolinea il fatto che il soggetto coloniale è stato costruito come “Altro” in base a una visione etnocentrica europea, per cui tutti gli elementi diversi, ma autentici, sono stati cancellati (si pensi per esempio al processo di degradazione delle lingue creole): la cultura e il bagaglio di conoscenze del soggetto colonizzato sono stati sminuiti sistematicamente e l'Altro viene identificato come l'ombra del Sé. Se parlare di mistificazione della realtà risulta eccessivo, è tuttavia innegabile che è avvenuta l'imposizione di una realtà, di pari passo con la riduzione al silenzio di tutte le altre.

Per questo motivo, in contrasto con l'ambiente coloniale e razzista che impone il silenzio ai subalterni, la narrazione si apre con la voce di Mary-Mathilda, la quale esprime la dignità di definire se stessa attraverso il proprio nome e di stabilire la discendenza e le relazioni con luogo, tempo e storia. Con questo atto, Mary esce dall'ombra del signor Bellfeels e diventa visibile, importante.

Nel corso della narrazione, Mary-Mathilda si paragona spesso a Nat Turner, uno schiavo statunitense che guidò una rivolta degli schiavi in Virginia nel 1831, la quale terminò con la sua cattura e condanna a morte. Poco dopo la sua esecuzione, l'avvocato che era stato incaricato di interrogarlo, Thomas Ruffin Gray, pubblicò The Confessions of Nat Turner, in cui riportava il racconto della vita fatta da Turner.

Nel saggio The Narrative that Define Us,11 Clarke si pone la domanda di

quanto sia autentica la confessione scritta da Gray. Secondo l'autore questa confessione non ha valore, poiché è nata da elementi tra loro inconciliabili che creano una situazione paradossale: la biografia di uno schiavo statunitense

Donnell (a cura di), The Routledge Companion to Anglophone Caribbean Literature, London, Routledge, 2011.

11 Austin, Clarke, “The Narrative that Defines Us”, in H., Trivedi, M., Mukherjee, C., Vijayasree, T. Vijay, Kumar, (a cura di), The Nation across the World: Postcolonial Literary

Representations, Oxford, Oxford University Press, 2007.

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trascritta da un avvocato bianco ai tempi in cui il fenomeno della schiavitù era in piena attività. Sembra quasi una contraddizione in termini, per non parlare del fatto che la schiavitù era un aspetto del colonialismo in cui la prospettiva degli schiavi, e più in generale dei subalterni, raramente veniva presa in considerazione.

È vero che, usando le parole di Fanon, “it is implicit that to speak is to exist absolutely fot the other”,12 cioè che l'atto di parlare costituisce già di per sé una

prova implicita dell'esistenza del parlante e del suo riconoscimento da parte di chi ascolta. Tuttavia, è vero anche che questo concetto, nel contesto coloniale, è complicato dal fatto che l'Altro non è un essere ben definito, ma implica sempre una giustapposizione di colonizzato e colonizzatore.

La convivenza e l'interazione di queste due entità e la conseguente nascita di una terza, quella creola, ha portato alla soppressione e cancellazione di una delle due voci e del relativo retaggio culturale. Il colonizzato identifica la propria voce con quella del colonizzatore, il quale a sua volta non riesce a distinguere la voce autentica del primo, perché ritenuta inferiore e messa a tacere da così tanto tempo che neanche il colonizzato la distingue più, oppure cerca di nasconderla. Gray, essendo immerso nel contesto culturale americano del colonialismo razzista, filtra la storia di Turner attraverso la parzialità e faziosità e usurpa la voce del prigioniero, dando al lettore non la confessione di Turner con le sue parole, ma i sentimenti di Gray, cioè del colonizzatore nella cultura colonialista.

Mary, essendo nata dopo la schiavitù, è in grado di discernere da essa e dalle atrocità inflitte alla sua gente e di guardarla con distacco; Turner, al contrario, è nato in quel contesto e non può scappare da esso, al punto che non riesce a definire se stesso al di fuori del sistema della piantagione. Mentre Mary apre la sua deposizione con l'affermazione della sua identità, Turner dichiara l'identità che la società schiavista gli ha assegnato “... I was born the property of Benj.

12 Frantz, Fanon, op. cit., p. 17.

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Turner, of this country”.13

Il parallelismo tra Mary e Turner emerge dai loro punti in comune: entrambi raccontano la confessione a un funzionario della giustizia, sono prigionieri dell'ambiente coloniale, agiscono guidati da una fede e sono in attesa di segni propizi che gli indichino il momento di agire; infine, entrambi fanno sfociare questi segni in atti di violenza. Mary si discosta dalla figura di Turner nel fatto che agisce da sola, ha un movente sessuale e cerca la redenzione attraverso la confessione; al contrario, Turner non ha avuto questa possibilità, poiché la sua storia è stata raccolta e filtrata attraverso il pregiudizio razziale.

4. Le tecniche narrative

Uno dei maggiori tratti stilistici del romanzo è l'uso della tecnica narrativa del flusso di coscienza: la narrazione si caratterizza per la presenza di lunghe digressioni, flashback e sogni, spesso generati da un'associazione di idee o da un ricordo, i quali a loro volta sono scaturiti da un suono, un'immagine o un odore.

Nel discorso sono inseriti molti periodi complessi; anche se si tratta di un dialogo, prima tra Mary e Constable, poi tra Mary e Sargeant, gli interventi dei personaggi spesso sono molto lunghi, tanto da assumere la forma di monologhi. Il narratore è alla terza persona ed è onnisciente, ma i dialoghi con lunghe battute fanno sì che il lettore trovi spesso un narratore in prima persona. Il discorso è frammentato, ricorsivo, a tratti illogico e farneticante; il narratore passa continuamente da un ricordo all'altro dei personaggi, mescolando non solo i piani del passato e del presente, ma anche quelli della realtà e dell'immaginazione.14

Come detto in precedenza, Clarke ha da sempre nutrito un forte interesse nei

13 Austin, Clarke, “The Narrative that Defines Us”, op. cit., p. 25.

14 Cfr. Camille A., Isaacs, “Caribbean-Canadian Reifungsroman: The Aging Female in Austin Clarke's Later Novels”, in Camille A., Isaacs (a cura di), Austin Clarke: Essays On His Work, Toronto, Guernica Editions Inc., 2013, pp. 366-8.

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confronti dei discriminati e degli oppressi; in questo romanzo, l'autore vuole dare voce a quei personaggi che nel corso della storia sono sempre rimasti in secondo piano e che nessuno voleva ascoltare. L'autore ha cercato di riprodurre la voce interiore dei personaggi, poiché sono figure che nella vita reale non avrebbero spazio per parlare e per esprimere i propri sentimenti.

Attraverso il flusso di coscienza, Mary-Mathilda compie un viaggio introspettivo che pone il crimine da lei commesso in prospettiva con la sua storia e con quella dell'isola. Mano a mano che la narrazione procede, al lettore vengono date informazioni e indizi utili per comprendere il carattere e la condizione di Mary, in modo tale che, arrivati alla fine della lunga notte durante la quale avviene la confessione, Mary si è trasformata. Ha terminato il suo lungo viaggio introspettivo e ha acquisito una nuova dignità e un nuovo rispetto, diverso da quello che godeva in quanto mistress, una dignità che è generata non dagli altri ma da sé, dal suo stesso essere, da Mary-Mathilda:15

This Mary-Mathilda's life. Paid for by Mr. Bellfeels. But in a more serious manner, in a more deep and romantic way, her life is paid for by her body. Has always been. It is therefore her life; and her life only. She owns it. (Clarke, 470)

4.1 Intertestualità

Nel testo c'è una lunga serie di riferimenti extratestuali a varie fonti, come opere letterarie, soprattutto Shakespeare, la Bibbia, con citazioni di salmi, lettere apostoliche e racconti del Vecchio Testamento, la storia e l'arte europee. Questi riferimenti hanno tre funzioni principali: in primo luogo, sottolineano ancora una

15 Cfr. Camille A., Isaacs, “Caribbean-Canadian Reifungsroman: The Aging Female in Austin Clarke's Later Novels”, op. cit., pp. 365-85.

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volta come la mente e gli orizzonti della conoscenza del popolo caraibico siano condizionati e plagiati dal potere coloniale attraverso il sistema educativo.

Gli individui non sono in grado di riflettere sulla propria storia e sugli eventi storici dell'isola perché non la conoscono; V.S. Naipaul, riferendosi alla natia Trinidad, dice “we lived in a society which denied itself heroes (…) our known past was buried and no one cared to dig it up”.16 Di conseguenza, si avverte la

mancanza di punti di riferimento propri; tutto viene analizzato e affrontato con un bagaglio culturale europeo e una mentalità europea. Per esempio, nel passo in cui Percy da bambino segue Mary mentre si allontana da una festa del villaggio per incontrarsi con il signor Bellfeels, nella sua fantasia si paragona a figure letterarie e storiche del mondo europeo come Gulliver, Napoleone e Riccardo Cuor di Leone.

In secondo luogo, questi riferimenti sono usati dall'autore per affermare la pari dignità e uguaglianza tra la cultura barbadiana, e in generale caraibica, e quella europea, ribadendo che anche la cultura bajan17 è depositaria di valori e

tradizioni al pari delle altre culture. Questa posizione è espressa anche da Walcott, secondo il quale non si tratta di rinnegare completamente i tratti culturali del colonizzatore, ma di assimilarli poiché anche essi appartengono ai propri antenati.18

Gli scrittori postcoloniali portano dentro di sé culture intere, ma non devono soccombere sotto il peso della storia, sostiene Walcott. La storia dei Caraibi, infatti, non è quella dell'Africa dei discendenti degli schiavi, che porta a una letteratura di recriminazione, né quella dell'Europa dei discendenti dei padroni,

16 Om P., Juneja, Post Colonial Novel: narratives of colonial consciousness, New Delhi, Creative Books, 1995, p. 57.

17 Bajan, come apposizione, indica tutto ciò che si riferisce all'isola di Barbados; il bajan, come sostantivo è l'abbreviazione di Barbadian Creole, uno dei più antichi creoli a base inglese che contribuì alla formazione di altri linguaggi creoli, poiché Barbados costituiva uno dei principali scali del commercio degli schiavi. Cfr. Maria Luisa, Maggioni, Paola, Tornaghi,

Arcipelago inglese. Diffusione e futuro delle lingue inglesi nel mondo, Milano, Sugarco,

2002, p. 248.

18 Cfr. Derek, Walcott, “The Muse of History”, in What the Twilight says, London, Faber and Faber, 1998, pp. 36-64.

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che produce una letteratura di rimorso; per Walcott la storia è amnesia, la vera eredità lasciata dagli antenati.

Pertanto, gli scrittori devono prendere coscienza che il modo più efficace per opporsi al colonialismo non è il rifiuto e il disconoscimento violento, ma la maturità che porta all'accettazione. Parlando della propria esperienza, Walcott dice: “I needed to become omnivorous about the art and literature of Europe to understand my own world. (…) I had not doubt that it was mine, that it was given to me, by God, not by history”,19 proprio come gli schiavi hanno adottato

la religione e la lingua dei padroni e li hanno trasformati in armi spirituali.

Allo stesso modo, Clarke parte dal confronto con la cultura e il mondo europeo imperialista per superarlo, usando i loro strumenti. In un certo senso, è come se Mary cercasse di ribaltare la situazione usando gli stessi mezzi di condizionamento e sottomissione usati contro di lei, ritorcendoli contro il potere coloniale. Un esempio è quando Mary, parlando dell'arte europea di cui lei ha molte fotografie e riproduzioni nella Great House, paragona la Pietà di Sebastiano del Piombo con la storia di Clotelle:

And if you see this picture as a example for pity that people in the outside-world make so much fuss over, I ask you, as a educated man, you don't see more better examples of pity right here in this Island? (…) If somebody had-had the time and the paint and the colours and the right time o' day, and if the rain wasn't falling so hard the last few days, and if the person doing the painting had the inclination, such a person, with a touch o' talent, couldda drawn a more authentic picture of Pity, which would be a close-up image of Clotelle's face. And Clotelle's body. And Clotelle's life. (...) So, Europe can't teach we nothing about Pity! (Clarke, 199-200)

19 Ibidem, p. 63.

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Infine, la serie di riferimenti ha la funzione di espandere la dimensione collettiva del romanzo fino a un contesto ancora più ampio, si potrebbe dire “globale”; Mary, parlando dai margini della storia globale in quanto abitante delle colonie e dai margini dell'esperienza umana in quanto donna in una società patriarcale, arriva a collegare realtà che sono molto distanti tra loro. Ciò costituisce un tentativo di affermare l'esistenza di una storia e di una sofferenza che sono proprie dell'isola; i riferimenti, quindi, sono riportati quasi per dimostrare la veridicità di questa convinzione e per dare fondamento alla propria storia. È sotto questa luce che può essere letto il seguente passaggio in cui Mary paragona le sofferenze subite dagli abitanti del villaggio e dell'isola sotto il sistema delle piantagioni con le sofferenze inflitte durante la II Guerra mondiale:

Those bad things happened in the outside-world; in Europe. But in this part of the universe, the Wessindies, nobody didn't torture nobody, nor squeeze nobody balls, by applying pliers, or lectricity to anybody testicles to pull the truth from outta him. Nobody down here suffer-so. Nor behave brutal-so. But, according to the ironies of life, as Wilberforce would say, it was the same suffering, historically speaking, between living on this Plantation and living-through the War in Europe. Much of a muchness. When you think of it. The same War. The same taking of prisoners. The same bloodshed. (Clarke, 27-8)

4.2 Tropi e metafore

Una delle metafore centrali del romanzo è costituita dalla zappa; anzitutto, è il simbolo della relazione con il signor Bellfeels a cui si contrappongono le immagini-simbolo del suo frustino. In quanto attrezzo agricolo, rappresenta il lavoro nei campi della piantagione e, per sineddoche, la dominazione coloniale: Mary, infatti, paragona l'odore del signor Bellfeels con quello della terra, creando

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un'associazione tra la sua confessione e l'immagine del lavoro nei campi, il rivoltare la terra con la zappa, lo scavare sotto la superficie, svelando le verità più viscide e crude:20

And through those encounters, mostly on dark-nights, I started to carry this lasting smell of mould … it is the smell of mould, that closeness to the soil, that can't be separated from natural things, nor from the stench of the soil itself. … The closeness to the mould and the dung and the horse-shit and the cane trash and the hard ground, and the soft muddy ground – in the rainy season – this closeness left their taint on my acts with Mr. Bellfeels, and on my clothes, on my skin, on my natural smell, on my mind. In my pores. (Clarke, 78)

La zappa quindi, da strumento di oppressione, diventa lo strumento di liberazione con cui Mary elimina il suo oppressore.

Clarke crea nel titolo del romanzo un gioco di parole: hoe in inglese britannico significa zappa, ma in inglese caraibico è anche sinonimo di whore. La zappa quindi rappresenta Mary stessa, la quale è stata per tutta la vita la

mistress del signor Bellfeels; alla fine, Mary diventa la zappa lucidata e la

puttana raffinata del titolo. La zappa lucidata, quindi, è sia l'oggetto che il soggetto del crimine, dato che il signor Bellfeels viene ucciso da Mary con la sua zappa; definendosi “a woman handled by another man” (Clarke, 267), incorpora in sé il doppio senso del titolo del romanzo.21

La zappa rappresenta anche la condizione delle donne nella società barbadiana; è l'attrezzo che Mary ha ereditato da sua madre, la quale l'ha ricevuta a sua volta dalla madre. In questo modo, la storia di abusi e oppressioni è un qualcosa che Mary, e di conseguenza tutte le donne dell'isola, hanno ereditato dal

20 Cfr. Mirosława, Buchholtz, op. cit., p. 170.

21 Cfr. Elizabeth, Walcott-Hackshaw, op. cit., pp. 680-2.

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passato, da quando sono state deportate come schiave. Quando la protagonista realizza che nell'eredità di vergogna e umiliazione lasciatale da May è racchiuso il potere e la forza di generazioni di donne, capisce anche che questo semplice attrezzo può diventare un'arma e comincia quindi a proteggerlo e a prepararlo per l'uso, lucidandone il manico e affilandone la lama. Questa attenzione e cura per la zappa diventano un'analogia del processo che essa ha compiuto verso la consapevolezza e legittimazione di sé, del proprio essere.

Durante la conversazione con Constable, Mary cita a modo suo le parole di Churchill “Give we the tools, and we will do the rest” (Clarke, 67),22 quasi per

legittimare la sua azione estrema: la zappa è il simbolo non solo della sottomissione sessuale delle donne, ma rappresenta anche la loro volontà di diventare soggetti attivi, di volersi impadronire dell'azione. In questo senso, quindi la zappa è da considerarsi uno strumento e Mary si sente in dovere di tenerlo sempre pronto all'uso.

All'immagine della zappa, infine, si collega quella dell'osso della fortuna che Mary porta con sé da bambina; associati insieme, costituiscono uno la premessa e l'altra la realizzazione del proposito: l'osso è un talismano che Mary porta nascosto con sé per non dimenticare il primo incontro con il signor Bellfeels, mentre la zappa è lo strumento con cui essa cerca di riappropriarsi della propria vita. L'osso è un segno invisibile e segreto della prigionia e della speranza di un'azione futura; la zappa è l'arma e si muove al di là della narrazione e del linguaggio per rompere l'egemonia della piantagione.

Metafore e dimensione collettiva

Nel romanzo, ricorrono frequentemente alcuni tropi che sono usati dall'autore per esprimere la dimensione collettiva del testo. Queste immagini hanno la

22 La citazione originale è “Give us the tools and we will finish the job”.

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funzione di evidenziare la pressione esercitata dai fattori storici e collettivi sulla soggettività e sull'azione individuale.

Una figura ricorrente nel romanzo è la caratterizzazione dei campi di canne da zucchero come oceano e onde: questa metafora enfatizza da una parte la continuità della condizione degli abitanti dell'isola nel tempo e dall'altra mette in rilievo la collettività nell'identità. Inoltre, l'uso frequente di questa metafora lega il paesaggio fisico con gli orizzonti conoscitivi e strutturanti che hanno determinato le possibilità di vita di Mary.23

Un'altra figura ricorrente è il calypso composto in memoria di Clotelle e che costituisce una metafora per l'intero romanzo: come il romanzo racconta al mondo la brutalità dell'esperienza nei campi di canna da zucchero, della schiavitù e del colonialismo attraverso la storia di Mary, così il calypso è il modo della gente del villaggio di raccontare al mondo i propri avvenimenti.

4.3 Il linguaggio

Il linguaggio è un elemento fondamentale nella scrittura di Clarke, poiché anche in esso si avverte la dimensione collettiva: la narrazione, infatti, è raccontata con la lingua dell'isola. L'autore definisce il vernacolo come la lingua franca di Bimshire, il mezzo con cui prendere le distanze dai colonizzatori inglesi e dalla loro lingua all'interno del processo di presa di coscienza di sé come individuo e come membro del popolo caraibico. Ciascuna lingua riflette una mentalità, un sistema di valori e dei parametri di giudizio propri; pertanto, quando Mary parla, il lettore non percepisce solo un inglese diverso, ma scopre un mondo altro, fatto di tante voci che esprimono esperienze condivise dagli altri membri della comunità.

Quando uno scrittore entra nello spazio creativo della lingua, crea un nuovo

23 Cfr. Eve, Walsh Stoddard, op. cit., pp. 154-5.

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linguaggio: Ashcroft chiama “englishes” le varietà di inglese e le contrappone a “English”, che indica invece l'inglese britannico. Brathwaite lo chiama nation

language e descrive i modi in cui il carattere della lingua, non solo l'ortografia e

la grammatica, possa essere trasformato.24

La lingua ha la funzione di operare da metonimia della cultura: secondo Brathwaite, nei Caraibi, l'inglese standard (Standard English) crea una disgiunzione tra lingua ed esperienza, in quanto questa lingua non è in grado di descrivere l'ambiente sociale e culturale dei territori né di esprimere le emozioni che esso suscita nei suoi abitanti. Pertanto, lo scrittore interviene per produrre un inglese trasformato, modellato e plasmato dagli effetti del creole continuum.

Questo nuovo linguaggio, o nation language, è un continuum di “intersezioni” in cui i tratti tipici della lingua parlata nelle varie comunità sono intervenuti per ricostruire la lingua. Questa “ricostruzione” accade in due modi: da una parte, le varietà inglesi regionali introducono parole del proprio lessico che diventano familiari a tutti i parlanti inglesi; dall'altra, le varietà stesse producono particolarità regionali e nazionali che le distinguono dalle altre forme di inglese.25

In questa prospettiva, cade l'idea, diffusa agli inizi dei cultural e translation

studies, secondo cui la lingua si identifichi con la cultura, ossia che la prima

incarni la seconda. Infatti, in base a questo presupposto, non sarebbe possibile tradurre alcun testo, né far conoscere nessuna identità culturale altra. Al contrario, basandosi sul concetto di “ricostruzione” della lingua e sul riconoscimento dell'esistenza distinta degli “englishes”, il linguaggio assume nuove connotazioni: esso, infatti, è trasformativo e diventa uno spazio di traduzione. In questo senso, anche il concetto stesso di traduzione cambia e si sviluppa: non è più un processo di negoziazione tra due o più lingue, poiché il linguaggio è esso stesso un luogo di traduzione infinita e, in quanto tale, è

24 Cfr. E. Kamau, Brathwaite, op. cit. 25 Cfr. Bill, Ashcroft, op. cit., pp. 172-4.

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continuamente e produttivamente instabile.26

Homi K. Bhabha definisce “Third Space” la condizione di dinamismo in cui si trova la lingua, uno spazio che emerge dall'ambivalenza della cultura. È lo spazio dell'essere ibrido, in cui i significati e le identità culturali contengono sempre tracce di altri significati e identità; pertanto, dice Bhabha, diventa insostenibile l'affermazione riguardo l'originalità o la purezza delle culture,27 e la

traduzione si caratterizza come performativa in quanto luogo della differenza culturale.28

Nelle letterature postcoloniali, avviene una sovrapposizione tra la traduzione, intesa come movimento di un testo da una lingua di partenza a una lingua d'arrivo e la trasformazione, intesa come rimodellamento del testo in una lingua d'arrivo attraverso le sfumature culturali della lingua di partenza. Questa intersezione di traduzione e trasformazione si verifica perché il contesto dello scrittore postcoloniale è profondamente transculturale.29

In questo caso, si può parlare di traduzione in senso lato; le definizioni odierne di traduzione, infatti, prendono in considerazione non solo il fenomeno di fine Novecento della migrazione di massa di persone da tutte le parti dell'ex impero, ma anche la migrazione dei testi e dei discorsi tra la madre patria e le sue ex colonie. Rushdie, riferendosi a se stesso, afferma “I, too, am a translated man”: lo scrittore postcoloniale è un «uomo tradotto» perché ha scelto volontariamente di tradursi da un territorio geografico in un altro, portando con sé la sua scrittura che viene tradotta da un territorio culturale in un altro. Questo fattore rende i testi degli autori postcoloniali dei testi già di per sé tradotti.30

Gli autori postcoloniali hanno ridefinito radicalmente i concetti tradizionali

26 Cfr. Ibidem, pp. 160-1.

27 Cfr. Homi K., Bhabha, The Location of Culture, London, Routledge, 1995.

28 Cfr. Monika, Gomille, “Translating the Caribbean: Issues of Literary and Postcolonial Translation”, in Klaus, Stierstorfer, (a cura di), Reading the Caribbean: Approaches to

Anglophone Caribbean literature and culture, Heidelberg, Universitätsverlag Winter, 2007,

pp. 282-3.

29 Cfr. Bill, Ashscroft, op. cit., p. 159. 30 Cfr. Franca, Cavagnoli, op. cit., pp. 53-54.

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di traduzione; se, da una parte, la sganciano dal suo precedente ruolo strumentale nel processo di trasferimento linguistico, dall'altra, hanno ampliato le sue funzioni, al punto che nelle teorie postcoloniali recenti, la traduzione è considerata l'attività fondamentale che sta alla base di qualsiasi forma di contatto culturale.31

L'ambiente transculturale delle società postcoloniali offre un'opportunità considerevole per osservare la sovrapposizione tra traduzione e trasformazione. Lo scrittore di un testo postcoloniale, infatti, ha molte più occasioni per manovrare lo sviluppo del testo, più libertà di decidere il tipo di lettore a cui indirizzare la sua opera e più opportunità di compiere scelte creative originali.32

Alcuni degli sviluppi linguistici più interessanti nelle letterature postcoloniali hanno avuto luogo proprio nei Caraibi: essendo stati testimoni del primo incontro tra Europa e America, questi territori rappresentano lo scenario archetipo della traduzione, mettendo in evidenza il suo ruolo ambiguo nella storia. Da un lato, è stata lo strumento nei processi di colonizzazione e soppressione dei territori “scoperti” dalle potenze europee; dall'altro, è stata fondamentale, in quanto atto creativo, per la formazione di una cultura e letteratura caraibici indipendenti, costruite dagli scrittori delle ex colonie durante le ultime decadi del Novecento.33

5. Le conseguenze del colonialismo

Il romanzo mostra con forza come le relazioni sociali instauratesi durante la schiavitù siano rimaste intatte fino quasi al XX secolo; queste relazioni hanno modellato la struttura della famiglia e della società e hanno condizionato tutte le interazioni fisiche e verbali.

31 Cfr. Monika, Gomille, op. cit., pp. 282-3. 32 Cfr. Bill, Ashcroft, op. cit., p. 172. 33 Cfr. Monika, Gomille, op. cit., pp. 282-3.

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Il primo incontro tra il signor Bellfeels e Mary-Mathilda è un esempio significativo di quanto detto sopra.

“The sun was bright that Sunday morning of Easter Even. And it was in my face. So, I couldn't see his eyes. Mr. Bellfeels looked so tall, like the pulpit or the water tower, that I had to hold my head back, back, back, to look in his face. And still, I couldn't see his face, clear. This man who looked so tall, and me, a little girl, in pain from wearing his own daughter's shoes that was killing me.

(…) “Then, Mr. Bellfeels put his riding-crop under my chin, and raise my face to meet his face, using the riding-crop; and when his eyes and my eyes made four, he passed the riding-crop down my neck, right down the front of my dress, until it reach my waist. And then he move the riding-crop right back up again, as if he was drawing something on my body.

“And Ma, stanning-up beside me, with her two eyes looking down at the loose marl in the Church Yard, looking at the graves covered by slabs of marble, looking at the ground. Ma had her attention focused on something on the ground. My mother. Not on me, her own daughter.

(…) “That Sunday morning, in the bright shining sun, with Ma stanning-up there, voiceless, as if the riding-crop was Mr. Bellfeels finger clasped to her lips, clamped to her mouth to strike her dumb to keep her silence, to keep her peace. From that Sunday morning, the meaning of poverty was driven into my head. The sickening power of poverty. (Clarke, 20-21)

L'interazione fisica è stabilita anzitutto attraverso lo sguardo: Mary che guarda verso l'alto, lo sguardo verso il basso del signor Bellfeels, May che volge lo sguardo altrove, per terra. L'interazione verbale è ridotta al minimo: la bambina rimane in silenzio, il signor Bellfeels dice poche frasi rivolte alla madre,

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la quale a sua volta è senza parole, attonita.34 Questo episodio rispecchia le

interazioni ereditate dal contesto coloniale, in cui i subalterni non hanno la libertà di parlare e la donna si trova in una posizione ulteriormente svantaggiata, come sottolinea anche Spivak: “If, in the context of colonial production, the subaltern has no history and cannot speak, the subaltern as female is even more deeply in shadow.”35

Il brano in questione mostra con evidenza come i poteri del patriarchismo e del colonialismo associati insieme siano talmente repressivi e assoluti che ammutoliscono le proprie vittime. Si comprende ulteriormente come la narrazione di Mary costituisca un tentativo di dare voce a una condizione che finora è passata sotto silenzio; la scelta di parlare è un atto di auto legittimazione e non a caso Clarke usa il discorso diretto, per permettere a coloro che sono stati sottomessi da sempre di parlare per se stessi.

Sotto questa luce, la confessione diventa un momento in cui Mary esce dall'identità fissa che le è stata imposta dal sistema e in cui è vista dagli altri e può far emergere il suo vero io; la confessione presuppone però la presenza di un ascoltatore, poiché anche la definizione del proprio io si attua in relazione all'altro. I personaggi secondari, quindi, giocano un ruolo attivo nel modo in cui la protagonista è percepita dagli altri e in cui definisce se stessa; le loro voci vengono inserite nel testo tramite l'uso di una vasta gamma di discorso riportato, dal discorso diretto a quello indiretto, al flusso di coscienza e al discorso libero indiretto.36

34 Cfr. Judith, Misrahi-Barak, “Skeletons in Caribbean Closets: Family Secrets and Silences in Austin Clarke's The Polished Hoe and Denise Harris's Web of Secrets”, in CDS Research Report 2005 Aug; 23: 53-64.

35 Gayatri Chakravorty, Spivak, op. cit., p. 28. 36 Cfr. Judith, Misrahi-Barak, op. cit., p. 62.

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5.1 La connivenza con il potere

Gli effetti del colonialismo nella società caraibica emergono soprattutto negli atteggiamenti di complicità e inconscia adesione al sistema di valori imposti dal potere coloniale, che nel tempo hanno rafforzato gli stereotipi coloniali. Questo concetto è comune negli studi postcoloniali e ciascun intellettuale ha aggiunto la propria connotazione: Fanon ad esempio, lo ha espresso in termini di maschere bianche, Bhabha proponendo la nozione di mimica coloniale.37

Nell'opera Black Skin, White Masks, Fanon spiega che il nero ha due dimensioni, una con i suoi compagni e l'altra con l'uomo bianco. Ciò significa che si comporta diversamente a seconda del colore della pelle del suo interlocutore. Questa divisione del proprio essere è la conseguenza diretta della sottomissione al sistema colonialista. Nel soggetto colonizzato è stato instillato il complesso di inferiorità rispetto al colonizzatore, che è correlativo all'idea di superiorità di quest'ultimo, per cui egli può riacquisire dignità e affermare la sua esistenza solo se rinuncia ai tratti culturali propri e assume i tratti estranianti della potenza imperialista.

In altre parole, per poter parlare e per far sì che la sua voce venga ascoltata, deve indossare la maschera dei bianchi e convincere quest'ultimi che anche lui è un essere umano. Questa condizione lo ha trasformato in un oggetto passivo, la cui unica salvezza è quella di aderire alla cultura del dominatore coloniale. Secondo Fanon, è necessaria una presa di coscienza da parte dei neri, i quali devono realizzare che è possibile esistere al di fuori delle identità assegnate loro dai bianchi e che non si tratta di scegliere tra diventare bianchi o sparire. Per poter intervenire nella società, quindi, è necessario passare dall'essere degli oggetti passivi a soggetti attivi.

Pertanto, nel soggetto coloniale è intrinseca una certa duplicità. Anche

37 Homi K., Bhabha, “Of Mimicry and man”, in The Location of culture, London, Routledge, 1995, pp. 85-92.

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Bhabha condivide quest'affermazione e, nel suo ragionamento sulla mimica coloniale, parte proprio dalla critica alle nozioni di Fanon; la differenza tra i due teorici postcoloniali è che secondo Fanon i neri hanno nascosto la propria identità per farsi accettare dai bianchi, mentre secondo Bhabha il nero non ha altra identità se non quella impostagli dal sistema colonialista.

La mimica, ossia l'imitazione del discorso coloniale, altro non è che una strategia di controllo e sottomissione messa in atto dai colonizzatori. Si basa sull'ambivalenza “almost the same, but not quite”:38 da un lato, la mimica

significa somiglianza e impone un'identificazione dei neri con i bianchi, che porta a uno stato di dipendenza del soggetto coloniale; dall'altro, accentua la differenza che sta alla base del rifiuto e della non accettazione del colonizzato da parte del colonizzatore. Questa ambivalenza nel discorso coloniale produce un'incertezza che inquadra il soggetto coloniale in presenze parziali, nel senso di incomplete e virtuali.

Queste presenze parziali fanno parte del sistema colonialista che impone una serie di versioni autorizzate di diversità ed è metonimia del desiderio coloniale. Il desiderio coloniale è anch'esso ambivalente: da una parte, è la volontà di affermare la propria identità attraverso il processo di imitazione, ossia si tratta di un compromesso ironico secondo cui il colonizzato per acquisire legittimità deve assumere quei tratti estranianti imposti dal sistema colonialista. Dall'altra, è l'ambizione di creare un Altro riformato e riconoscibile, un soggetto che sia quasi lo stesso, ma non del tutto.39

Alcuni esempi di presenze parziali e di accettazione del compromesso ironico della mimica coloniale sono i gruppi indigeni di cui parla anche Spivak, i quali, pur appartenendo alla comunità locale, curano gli interessi dei gruppi stranieri dominanti proprio perché non c'è un senso di identità o di appartenenza al di fuori di quello con la “madre patria” imperiale.

38 Ibidem, p. 89. 39 Cfr. Ibidem, p. 88.

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Facendo un rapido confronto tra gli autori fin qui citati, mi sembra che la questione di fondo sia sempre relativa all'autenticità della voce del soggetto coloniale. La famosa domanda di Spivak “Can the subaltern speak?”, che a prima vista può sembrare semplice, si potrebbe tradurre con la domanda, il subalterno può parlare veramente per sé e di sé? In altre parole, anche se viene liberato dall'oppressione coloniale del potere imperiale, è in grado di produrre pensieri indipendenti, nel senso che non siano contaminati dal colonialismo? Oppure il sistema di valori del colonizzatore è talmente intrecciato alla storia e cultura del colonizzato, che non si è più in grado di distinguerli? Bhabha e Spivak rispondono negativamente, mentre per Fanon è possibile solo se avviene una presa di coscienza da parte dei neri.

Nel caso di Austin Clarke, ritengo che un risveglio sia avvenuto grazie alla grandezza e varietà di esperienze che compongono il suo bagaglio culturale, che vanno dall'emigrazione ai rapporti e conoscenze con altre realtà (soprattutto dei movimenti di protesta neri statunitensi); è stato un processo lento ma progressivo, come è testimoniato dalla sua produzione letteraria e saggistica, che lo ha portato ad acquisire una visione critica e distaccata della situazione caraibica che analizza con profondità e che ritrae nei suoi romanzi e racconti con estrema vivacità e veridicità.

Alcuni esempi di imitazione coloniale tratti dal romanzo The Polished Hoe, sono il passaggio in cui si descrive l'usanza nell'isola di battezzare le case nuove. Oppure il momento in cui Mary racconta delle visite del signor Bellfeels alla Great House e dei balli che lei e Wilberforce facevano al ritmo delle canzoni popolari dei neri americani, quando essa ammette che all'epoca non era cosciente del ruolo che stava interpretando. Solo in seguito, grazie all'aiuto di Wilberforce, diventa più consapevole della condizione che le è stata imposta dalla società: “We carried on like slaves (…) like slaves on a plantation, we put on that pantomine to entertain that man, and were ignorant, and did not know the ironies in our behaviour” (Clarke, 41).

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5.2 I rapporti con la storia coloniale

Un altro aspetto da cui emerge il condizionamento del colonialismo si può cogliere quando il discorso si sposta sul contesto più ampio della storia coloniale: Sargeant si comporta in maniera ambigua, o forse confusa, riguardo alla questione. Quando egli esalta Trinidad come luogo in cui convivono pacificamente diverse etnie al contrario di Bimshire e Mary gli chiede perché, secondo lui, loro si trovano in tutt'altra situazione, Sargeant risponde:

“The Colonial Office.” “The who!?”

“A colony! A colony o' people. The people who run colonies.” “Isn't the three o' them the same thing?”

“Colonialism is the way things are done, the means. But if you want to know how we, as inhabitants, are arranged the way we are, black on one side, and white on the next side, with no Chinee, Indian, Porchageeze nor Syrians in-between, not even a douglah, ask the Colonial Office.” (Clarke, 276)

Tuttavia, in seguito, all'affermazione provocatoria di Mary sul fatto che la società di Bimishire sia frutto della schiavitù, Sargeant è sorpreso, quasi scandalizzato che si possa pensare una cosa del genere ed è molto riluttante a riconoscere che nell'isola ci sia mai stata la schiavitù, o perlomeno non ai livelli che il fenomeno ha raggiunto negli Stati Uniti. Sargeant giustifica la sua sorpresa basandosi sul presupposto che la società inglese sia troppo “civilizzata” per compiere simili atti di crudeltà: “But whole-scale slavery like what they have in Amurca, no! Not in a English colony, Jesus Christ. I know the English. The English won't do a thing like that.” (Clarke, 364).

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