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Capitolo 2 Artroprotesi totale d’anca

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Capitolo 2

Artroprotesi totale d’anca

2.1 Classificazione delle protesi d’anca

Le protesi vengono classificate prendendo in considerazione principalmente due aspetti: le superfici articolari sostituite e il tipo di fissazione dell’impianto protesico all’osso. In base al primo metodo di classificazione si distinguono:

 protesi totale o artroprotesi  protesi parziali o endoprotesi  protesi di rivestimento

L'artroprotesi consiste nell'asportazione e sostituzione protesica di entrambi i versanti articolari della coxo-femorale. Questo tipo di protesi è formato da una componente acetabolare (o cotiloidea) e da una femorale. Trova indicazione nelle persone per le quali si prevede un uso frequente, seppur scevro di sforzi eccessivi, della propria articolazione. Si parla di artroprotesi ibrida quando si combina uno stelo femorale cementato con una coppa acetabolare non cementata, e di artroprotesi ibrida inversa quando, al contrario, la componente acetabolare è cementata mentre lo stelo è posizionato tramite press-fit.

L'endoprotesi sostituisce, con una superficie artificiale, solo metà dell’articolazione dell'anca, solitamente la componente femorale. Per endoprotesi si intende quindi la sostituzione parziale della sola componente femorale e l'accoppiamento dell'impianto

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con l'acetabolo fisiologico del bacino; ne deriva che la protesi consta solo di una testa, di un collo e di uno stelo femorale che può essere di tipo cementato o non cementato. L’indicazione più frequente all’intervento sono le fratture le collo del femore in pazienti anziani27. La prevalenza dell’osteoporosi nel sesso femminile spiega perché i pazienti operati siano soprattutto donne. In questo caso il tempo di attesa dal momento dell’incidente non dovrebbe superare le 24 ore. Questo intervento viene eseguito su persone particolarmente anziane che non hanno un uso routinario dell’ articolazione o in pazienti con limitazioni funzionali gravi e/o con importanti malattie generali. La scelta di applicare un'endoprotesi riduce i tempi ed i rischi chirurgici e permette una veloce ripresa della verticalità e della deambulazione. In realtà, ciò che si utilizza oggi nella traumatologia dell’anziano e dei pazienti con scadenti condizioni generali, è la cosiddetta endoprotesi biarticolare (o bipolare) concepita con la finalità di ridurre l’attrito a livello acetabolare che si genera dall’accoppiamento testa protesica e superficie cartilaginea nativa dell’acetabolo. L’endoprotesi biarticolare è costituita da una coppa metallica alloggiata senza fissaggio nell’acetabolo nativo, all’interno della quale è inserita una componente in polietilene su cui va ad articolarsi la testa femorale artificiale: si vengono così a creare due superfici di scorrimento, una a livello acetabolare tra cavità articolare e coppa metallica ed una tra polietilene e testa femorale. Nel paziente giovane o comunque funzionalmente più attivo, non si ricorre ad endoprotesi in quanto la presenza della testa protesica (o della coppa metallica non fissata, nel caso dell’endoprotesi bipolare) a diretto contatto con il cotile osseo può portare ad un'usura precoce del cotile stesso. E' quindi necessario rioperare il paziente per “completare” l'intervento applicando un cotile protesico; in questo modo l'endoprotesi viene trasformata in un'artroprotesi. Nei pazienti giovani e/o più attivi quindi, anche in presenza di frattura, si procede subito all'applicazione di un'artroprotesi totale dell'anca, sostituendo sia il femore prossimale che il cotile.

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Le protesi di rivestimento sono protesi in cui la componente femorale consiste in un cappuccio di rivestimento della testa femorale. Le nuove protesi di rivestimento, interamente in metallo, soddisfano i due obiettivi a cui la chirurgia protesica dell’anca mirava da tempo: una maggiore conservazione dell'anatomia articolare e delle sue inserzioni muscolari ed una durata maggiore dell'impianto. Ciò è reso possibile dalle caratteristiche intrinseche di questo tipo di protesi. A differenza delle protesi tradizionali, che prevedono l’osteotomia del collo del femore, le nuove protesi rivestono la superficie danneggiata dall'artrosi e lasciano intatte le altre strutture articolari. Inoltre la coppia di movimento di queste protesi (ovvero i materiali che scorrono l’uno sull’altro per garantire il movimento articolare) è formata da metallo verso metallo, una soluzione che riduce al minimo gli attriti. Il rivestimento delle superfici articolari viene eseguito previa loro preparazione: un’ apposita fresa circolare asporta un sottile strato di tessuto artrosico lasciando una superficie sferica e regolare. La testa del femore così preparata viene incapsulata con un cappuccio metallico sferico che riproduce le dimensioni originarie del femore. Identica preparazione viene compiuta sull'altro versante articolare, quello cotiloideo. Le due parti vengono infine accoppiate per ricreare il normale movimento dell'anca. Ne risulta che il femore e le sue inserzioni muscolari sono state mantenute integre e, fatto ancora più apprezzabile, l'asse di carico del femore risulta essere quello naturale. I benefici sono evidenti già dopo ventiquattro ore: il paziente è in grado di camminare con l'uso delle stampelle e torna alle sue attività lavorative dopo solo sei settimane. Indicazione ulteriore alla protesi di rivestimento è rappresentata dai pazienti sportivi che non intendono abbandonare lo sport, che dopo solo tre mesi possono tornare a praticare la loro disciplina preferita, anche se intensa o traumatica.

I vantaggi connessi all'uso di questo tipo di protesi sono:

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 la conservazione del collo del femore e della testa femorale (quindi, nel caso di un eventuale fallimento della protesi, a prescindere dalla causa che l’ha determinato, si potrà impiantare una protesi standard come se fosse il primo intervento);

 la preservazione della propriocettività dell'anca, il paziente infatti non avverte la sensazione di “arto estraneo” o “arto senza controllo”, come spesso accade con le protesi tradizionali);

 testa femorale di grandi dimensioni in metallo che si articola con una coppa acetabolare in metallo. La testa di grandi dimensioni riduce il rischio di lussazione della protesi e l’accoppiamento metallo-metallo riduce la produzione di particolato da usura e quindi i rischi di mobilizzazione della protesi.

Gli svantaggi sono invece legati:  all'uso del cemento;

 al tempo operatorio più lungo;

 al rischio di fratture del collo del femore;

 all'incisione più ampia di quella utilizzata in una protesi convenzionale (20cm circa);

 Al fatto che la testa protesica di grande dimensioni determini la maggiore usura delle componenti: questo fenomeno rappresentava, infatti, la causa principale di fallimento delle protesi di superficie di prima generazione28. Oggi, in teoria, lo sviluppo di nuove leghe metalliche dovrebbe aver ridotto questo fenomeno, ma in realtà alcuni modelli protesici stanno dimostrando, in una percentuale rilevante di casi una eccessiva e soprattutto inaspettata usura del metallo, tale da poter inficiare il risultato della protesi e richiederne una revisione. Altra possibile ragione del fallimento di questa tipologia di protesi è da ricercare nel tipo di cemento utilizzato, in quanto studi hanno descritto che l’uso di cemento a

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bassa viscosità determina una distribuzione disomogenea dello stesso nell’ambito della testa femorale, con una massima concentrazione in regione polare, tale da poter determinare sia necrosi degli osteociti, da elevata reazione esotermica locale generata dalla polarizzazione del cemento, che alterazione della distribuzione delle forze di carico29. Esiste tuttavia un importante criterio di selezione che limita l'uso di questa protesi: la resistenza dell'osso. Sono esclusi da questa possibilità chirurgica tutti coloro che presentano un osso osteoporotico: di norma tutti i maschi che hanno più di sessanta anni e le femmine che ne hanno più di cinquanta. Inoltre la protesi di rivestimento non è applicabile a tutte le forme di artrosi dell’anca. Qualora infatti la deformazione dei capi articolari o la loro morfologia si allontanasse troppo dall’anatomia normale, questo tipo di protesi non rappresenterebbe la scelta più adeguata. Le protesi di rivestimento hanno avuto un recente sviluppo ma le casistiche internazionali più accreditate hanno denunciato alcune complicazioni poco tollerabili per i pazienti, soprattutto per quelli giovani (ad esempio la frattura del collo del femore). Una seconda possibilità per i soggetti giovani è rappresentata dalle protesi non cementate anatomiche o su misura che devono essere impiantate con ricostruzione del corretto centro di rotazione dell’anca.

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2.2 Artroprotesi totale d’anca: morfologia

L'artroprotesi o protesi totale d'anca può essere concettualmente suddivisa in varie parti (figura 4):

Fig. 4

 COTILE (o coppa acetabolare o acetabolo protesico): è la parte che viene fissata al bacino mediante viti, cemento chirurgico, avvitamento o forzamento meccanico nell'acetabolo primario. Può essere: rivestito di idrossiapatite, che ne aumenta l'ancoraggio biologico, filettato o poroso. Normalmente è realizzato in UHMWPE (polietilene ad altissimo peso molecolare) o, più raramente, in ceramica o metallo. La coppa acetabolare può essere avvolta da un supporto metallico (metal back) che lo vincola alle ossa del bacino. E’ opportuno sottolineare che il metal back, necessario in caso di cotile in UHMPWE, serve ad evitare che i micromovimenti tra il cotile e l’osso generino l’usura massiccia del polietilene con elevata produzione di detriti; inoltre il UHMWPE, a causa della sua flessibilità, può trasmettere i carichi alle strutture ossee in modo non uniforme. Un modo per ovviare a tale inconveniente è rivestire il cotile con un

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rigido guscio metallico che può essere ancorato all’osso con cemento o con accoppiamento diretto.

 TESTINA (o epifisi protesica): è la parte terminale della componente femorale, normalmente di forma sferica, che si accoppia con la cavità interna del cotile per formare l'articolazione protesica. La testina può essere parte integrante dello stelo oppure modulare, cioè separata dallo stelo femorale e ad esso fissata durante l'intervento mediante accoppiamento conico. E' disponibile in diametri diversi: il diametro della testa influenza l’ampiezza dei movimenti concessi dalla protesi, in particolare teste di maggior diametro permettono movimenti più ampi e riducono il rischio di lussazione e contatto precoce dei componenti (impingement); a questi vantaggi si associano però maggiori forze di attrito, che aumentano all’aumentare del diametro della testa. Attualmente le testine più impiegate hanno un diametro pari a 28 o 32mm, ma esistono anche diametri inferiori o superiori (testine di diametro molto maggiori sono state impiegate in endoprotesi). La testa può essere realizzata in metallo o ceramica; nel caso di accoppiamento metallo-metallo, prove di laboratorio hanno dimostrato che il quantitativo di detriti dovuti all’usura diminuisce all’aumentare dei diametri.

 STELO: è la parte che viene inserita nel canale diafisario del femore ed è fissato mediante cemento chirurgico o meccanicamente (press-fit). E’ sempre realizzato in leghe metalliche e può essere rivestito da uno strato di idrossiapatite o da metallo (tecnica plasma spray ad esempio) per favorirne l’osteointegrazione. La lunghezza degli steli varia in relazione alla tipologia, in particolare negli ultimi anni l’attenzione è stata posta sugli steli corti, infatti è’ ormai superato il concetto che uno stelo lungo permetta una maggiore distribuzione dei carichi, in quanto è stato dimostrato che i carichi cambiano

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poco e che determinano maggiore stress shielding con maggior rischio di mobilizzazione 30. Oggi gli steli lunghi sono riservati agli interventi di reimpianto.  COLLO: può essere definito come la porzione di stelo che unisce la testina, o il

cono di fissaggio, al corpo dello stelo. Un collo snello permette una maggiore escursione di movimento ed adottando sezioni non circolari si può privilegiare il movimento in un piano senza compromettere la resistenza strutturale.

 COLLETTO: presente in alcuni modelli protesici, è una linguetta solidale con lo stelo che, una volta inserita nel canale femorale dovrebbe appoggiarsi a livello della porzione prossimale del femore, in particolare sul calcar, trasferendogli parte del carico, al fine di ridurre il riassorbimento osseo che si ha soprattutto in quest’area dopo il posizionamento di una protesi. Tutto questo è vero teoricamente ma, nella realtà risulta difficile realizzare un valido contatto tra calcar e colletto.

Generalmente le componenti sono modulari, cioè sono elementi distinti e perciò intercambiabili. La modularità rappresenta un grande passo in avanti nell’evoluzione delle protesi d’anca perché permette di combinare design e dimensioni diverse delle componenti in modo da adattare una protesi alle caratteristiche anatomo-morfologiche del paziente. L’obiettivo che si persegue è quello di ottenere una biomeccanica che si avvicini il più possibile a quella fisiologica, con un adeguato scarico delle forze ed una minima usura delle superfici articolari, in modo da garantire una maggiore stabilità nel tempo dell’impianto.

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2.3 Fissazione delle componenti protesiche

La modalità con cui si ottiene l’ancoraggio delle componenti protesiche all’osso incide sulla distribuzione delle forze all’interfaccia osso-protesi e, quindi, sulla risposta dell’osso alle nuove condizioni di carico. Esistono due modalità di fissare una protesi all’osso: cementazione e press-fit31,32.

 La cementazione: utilizza il Metilmetacrilato (cemento osseo: Il nome cemento per ossa indica una classe di materiali a base di Polimetilmetacrilato PMMA ottenuto per polimerizzazione radicalica del Metilmetacrilato MMA, utilizzando il Perossido di Benzoile come iniziatore radicalico) e sfrutta le variazioni delle proprietà fisiche della resina nel suo processo di polimerizzazione. Esso viene inserito nella sede ossea che deve ricevere la componente protesica quando è ancora plastico e malleabile, quindi viene introdotta la parte protesica e il cemento viene lasciato indurire. Così, il cemento riempie totalmente lo spazio tra protesi e osso, penetrando anche negli anfratti e nelle irregolarità dell’osso. L’uso del cemento permette una fissazione immediata, in quanto la presa sull’osso circostante è ampia e diffusa e le forze meccaniche possono essere trasferite dalla protesi alla leva scheletrica. Il cemento quindi non è un materiale adesivo: non aderisce né all’osso né al metallo dello stelo; la sua funzione primaria è quella di sostanza di riempimento degli spazi fra protesi e osso con lo scopo di migliorare la distribuzione degli sforzi trasmessi durante il carico e di assorbire gli urti. La migliore distribuzione degli sforzi trasmessi riduce la concentrazione degli sforzi stessi e la conseguente necrosi ossea che si osserva con una protesi non cementata mal impiantata. Il secondo scopo dell’uso del cemento è quello di ridurre il dolore dovuto ai micromovimenti relativi tra protesi ed osso. La fissazione immediata e la massimizzazione della superficie di contatto consentono un’ottima stabilizzazione primaria che permette il carico precoce sull’articolazione. Poiché l’osso è tessuto vivo

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vascolarizzato, è evidente che l’inserimento del cemento determina sempre e inevitabilmente un danno per il tessuto fino a formare zone di vera e propria necrosi. La presenza di queste aree sofferenti, unita all’alterazione della biomeccanica e del trasferimento dei fisiologici carichi, determina delle modificazioni dell’organizzazione dell’osso intorno all’impianto, che si svolgono in un lasso di tempo lungo, fino a 3-5 anni dall’intervento. A queste problematiche si sommano due aspetti che devono essere considerati, in quanto possono compromettere la stabilità futura e la resistenza alla fatica meccanica di una protesi cementata: I cementi commerciali hanno ritiri volumetrici dello 0,5-1% durante l’indurimento e nei successivi 30 giorni subiscono una espansione volumetrica del 1-2% a causa dell’assorbimento di acqua e lipidi. Qualora il ritiro volumetrico sia maggiore, l’ancoraggio atteso della protesi può venir meno. L’altro aspetto da considerare è la presenza di porosità che dipende molto dalla modalità di mescolamento della componente solida con quella liquida, in quanto tale operazione favorisce l’intrappolamento di aria nella miscela. In genere le porosità riducono le proprietà meccaniche del cemento fra cui la resistenza alla fatica meccanica.

 Press-Fit: questa modalità di fissazione è caratterizzata dall’inserimento diretto della componente protesica nel canale femorale (a pressione), realizzando un contatto diretto tra protesi e osso, senza interposizione di cemento. Anche con questa tecnica comunque si produce un danno tessutale iniziale, con necrosi e rimodellamento del tessuto osseo fino al raggiungimento di un equilibrio. Questo incastro avviene sia a livello macroscopico (design della protesi) che microscopico (trattamento delle superfici delle componenti). La quantità di superficie dello stelo a contatto con l’osso è un aspetto importante da valutare, in quanto essa condiziona non solo la stabilità primaria ma anche la stabilità secondaria, poiché si è visto che superfici rugose o porose favoriscono l’apposizione di nuovo osso intorno alla protesi, processo fondamentale per l’osteointegrazione. La stabilità primaria di una protesi non cementata (anche detta

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protesi a fissazione diretta) è influenzata dalla forma dello stelo, dalla finitura superficiale della protesi e dall’abilità del chirurgo. L’ancoraggio di questo tipo di protesi richiede una congruenza anatomica difficile da realizzare sia nel canale midollare, sia sulle superfici di osteotomia; questo spiega l’importanza di un planning preoperatorio che guidi alla corretta scelta del modello e della taglia della protesi da impiantare. Il particolare meccanismo che permette l’ancoraggio delle protesi non cementate è rappresentato dalla presenza di micro-incastri all’interfaccia osso-protesi che, aumentando l’attrito tra le due superfici, contrasta la generazione di movimenti relativi. La ricerca di adeguati tipi di finitura superficiale si basa su due diversi meccanismi che influenzano, rispettivamente, stabilità primaria e secondaria:

 stabilità meccanica iniziale (press-fit) per ottenere una salda fissazione già al momento dell’intervento, che si stabilizzerà in maniera completa in un secondo momento, mediante l’interposizione di tessuto fibroso;

 apposizione di osso neoformato (bone ingrowth) sulla superficie porosa di uno stelo metallico. È stato dimostrato che gli osteoblasti preferibilmente proliferano, si differenziano e producono la matrice mineralizzata negli alveoli e nelle scanalature di superfici non biologiche, di dimensioni simili a quelle prodotte dagli osteoclasti in vitro.

2.4 Stabilità primaria e secondaria delle protesi cementate e non

cementate

L’osteointegrazione delle protesi a fissazione diretta presenta aspetti analoghi al processo riparativo attivato nelle fratture, seppur con alcune differenze. La differenza

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fondamentale tra i due eventi è che l’osteointegrazione non interviene tra due parti di osso, ma tra un osso e la superficie di un impianto, per cui acquistano un’importanza preponderante il materiale (deve essere bioinerte, come il titanio), la superficie e la forma dell’impianto. Una volta avviata, l’osteointegrazione segue uno schema comune in cui si individuano tre stadi:

 Formazione di osso fibroso:

Il primo tessuto osseo che si forma è il cosiddetto osso fibroso. Si tratta di un tipo primitivo di tessuto osseo caratterizzato dall’orientamento casuale delle fibrille collagene e da una densità minerale relativamente bassa. La sua peculiarità è che cresce ad una velocità relativamente elevata, formando un’impalcatura di fibrille e lamine. La formazione di osso fibroso è il processo predominante nelle prime 4-6 settimane dopo l’intervento chirurgico.

 Adattamento della massa ossea al carico:

Nel secondo mese dopo l’intervento, l’osso acquista maggiore resistenza grazie alla deposizione di tessuto osseo lamellare ed a fibre parallele. Nessuno di questi due tipi di tessuto osseo è in grado di formare un’impalcatura come l’osso fibroso, quindi crescono semplicemente depositandosi su un substrato solido preesistente. Ci sono tre superfici che possono servire come substrato per la deposizione dell’osso a fibre parallele e lamellare: l’osso fibroso, formatosi nel primo stadio dell’ osteointegrazione, una superficie ossea preesistente od intatta e la superficie dell’impianto.

 Adattamento della struttura ossea al carico:

E’ questa la fase in cui si ha rimodellamento osseo che rappresenta l’ultimo stadio dell’ osteointegrazione. Esso inizia nel terzo mese circa e, dopo diverse settimane di attività sempre più intensa, rallenta per poi continuare per tutta la vita. Il rimodellamento osseo

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inizia con il riassorbimento osteoclastico, seguito dalla deposizione di osso lamellare. Dopo 2-4 mesi si è formato il nuovo osteone.

In uno scheletro sano il riassorbimento e la formazione di tessuto osseo non sono solo accoppiati ma anche in equilibrio, così da mantenere costante la massa scheletrica per un lungo periodo di tempo. Se si determina uno sbilanciamento tra i due a favore del riassorbimento, si ha un deficit locale di tessuto osseo che può progredire fino a determinare il quadro tipico dell’osteoporosi. Questa breve descrizione della biologia dell’osteointegrazione e del rimodellamento ha la finalità di introdurre un concetto alla base della stabilità sia delle protesi cementate che non cementate. Sebbene la risposta iniziale dell’osso ai due tipi di impianto sia diversa, in quanto il “bone ingrowth” si osserva esclusivamente negli impianti non cementati, nelle fasi successive l’organizzazione in osso lamellare segue percorsi identici nelle due situazioni. Questo fatto è perfettamente coerente con il principio che il rimodellamento è un adattamento della struttura ossea alle forze meccaniche che su di essa agiscono ed appare, pertanto, a distanza di tempo, analogo nei due tipi di fissazione. Ne deriva che la valutazione del supporto strutturale deve far riferimento all’organizzazione complessiva della struttura lamellare del segmento scheletrico che supporta l’impianto e questo vale per entrambi i tipi di protesi. Avere un contatto osso-stelo o osso-cemento molto esteso non vuol dire scongiurare il rischio di mobilizzazione della protesi, perché la misura della stabilità di una protesi è data dal numero e dalla consistenza dei setti ossei che uniscono la superficie endostale con la superficie dell’impianto, non dalla misura della superficie in sé. Non va dimenticato inoltre che la densità ossea periprotesica, risultante dall’adattamento dell’osso alle sollecitazioni meccaniche trasmesse dall’impianto, non è immutabile nel tempo: una modificazione del metabolismo dell’osso (osteoporosi, patologie primitive o secondarie) o variazioni delle forze applicate (peso, attività fisica…) possono modificare questo equilibrio dinamico, fino al

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cedimento meccanico. Questo spiega il razionale dell’utilizzo della DEXA nel follow-up degli impianti protesici.

Riassumendo si può concludere che la stabilità primaria è ottenuta al momento dell’impianto, mentre la stabilità secondaria è il risultato della riparazione e del rimodellamento osseo che avvengono durante e dopo il processo di guarigione33. I due tipi di protesi differiscono per i meccanismi che determinano la stabilità primaria34: l’uso del cemento comporta una fissazione immediata, ottenuta con la solidificazione del PMMA; la stabilità primaria delle protesi a fissazione biologica è garantita principalmente dalla forma dello stelo, quindi dal disegno macroscopico, ma anche dai micro-incastri osso-protesi, dipendenti dalla finitura superficiale della protesi; non a caso per questo tipo di protesi si parla di fissazione per incastro (press-fit) (Fig 5).

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