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CCaappiittoolloo II CCooiinnvvoollggiimmeennttoo rreecciipprrooccoo ffrraa lliinngguuaaggggiioo ee ppeennssiieerroo:: uunnaa ssppiirraallee sseennzzaa ffiinnee ttrraa uunniivveerrssaalliissmmoo ee rreellaattiivviissmmoo

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1. Il pensiero come riflesso del linguaggio

1.1

L’idea di linguaggio sottostante il relativismo

Edward Sapir apre la sua indagine sul linguaggio specificandone la natura intrinseca: “Language is primarily a system of phonetic symbols for the expression of communicable thought and feeling”1. L’allacciamento al pensiero è dunque un qualcosa di imprescindibile e racchiuso nell’essenza stessa della lingua. Al di là delle sue caratteristiche formali, essa detiene delle importanti qualità psicologiche, che la rendono capace di maneggiare ogni tipo di significato o di riferimento che la cultura sottostante produce, sia in forma di comunicazione attiva che di concetto mentale: “the content of every culture is expressible in its language and there are no linguistic materials whether as to content or form which are not felt to symbolize actual meanings, whatever may be the attitude of those who belong to other cultures”2. Nuove esperienze culturali, difatti, ci inducono alla necessità di allargare le risorse linguistiche di partenza, sempre in accordo con la forma e il materiale già a disposizione. Il linguaggio è ciò che, in questa ottica, ci predispone ad un certo tipo di interpretazione della realtà, ad un certo tipo di interazione sociale, a certi tipi di scelte e di esperienze. Gli esseri umani non vivono nel mondo come singoli individui, ma incarnano una società in virtù del loro stesso unirsi a formare una comunità linguistica. Sapir lamenta spesso un’errata considerazione dell’apparato sociale come elemento statico, definito dalla tradizione e sovrastante un’intricata rete di relazioni complesse fra i membri cha la costituiscono. La staticità nel suo pensiero non esiste, è solo apparente e

1 Sapir (1973), parte I, cap. 1, p. 7, cit. 2 Ivi, p. 10, cit.

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determinata dall’illusione che creano gli atti comunicativi del quotidiano, realizzati dai singoli individui. In questo senso si accosta al pensiero di Wierzbicka e alla sua teoria dei “Cultural Scripts”, secondo cui esistono dei modelli conversazionali specifici di ciascuna cultura che si realizzano nell’interazione comune fra i vari individui e che, però, non rappresentano delle rigide norme di assoluta omologazione, ma, piuttosto, delle semplici caratteristiche avvertite come consuetudine da ciascun membro di tale contesto culturale. 3.

Secondo Sapir sussistono delle connessioni profonde fra linguaggio, cultura e psicologia, che non si esplicano solo in un banale arrangiamento dei dati empirici e in una loro catalogazione secondo precise norme linguistiche, ma anche in una vera e propria analisi dei fenomeni e dell’influenza stessa che questi subiscono per opera del mezzo che dà voce al nostro pensiero4. Per ciascun individuo, difatti, l’esperienza attuale o potenziale è imbevuta di verbalismo, in modo che il linguaggio si arricchisce di simbolismo e diviene esperienza esso stesso. Il primo compito che gli si associa è indubbiamente quello di permettere la comunicazione. Il linguista, però, sottolinea più volte come da questa intuibile circostanza sorgano nuovi ruoli ed interessi di cui questo mezzo si fa promotore. L’importanza, dal punto di vista sociale, di questa molteplicità di funzioni è inestimabile e va ben al di là dell’identificazione nazionale, culturale o politica di una comunità. L’elenco dei compiti fondamentali che interessano il linguaggio, dunque, è estremamente lungo: dalla raccolta di dati storici per la futura trasmissione della conoscenza alla capacità di veicolare le espressioni individuali

3 Presentata nel capitolo V.

4 Cfr. Whorf (1956) [1939], The relation of habitual thought and behaviour to language, cit.; e cfr. Sapir (1973), parte

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sotto la sua forza uniformante, come dal suo rendere possibile ogni esperienza umana al realizzarla esso stesso.

La tendenza comune, in accordo a questa prospettiva di studio, è quella di considerare molti aspetti della cultura umana come sotto il diretto influsso dell’ambiente esterno. Sapir non intende rovesciare questo assunto, né mostrare quanti altri fattori si incrociano in questo processo di trasmissione d’influenza. Quello che il linguista non condivide è il passaggio diretto dall’ambiente fisico alla cultura umana, tanto più che questo processo si configura, a suo parere, come determinato da un’interminabile serie di sottoprocessi essenzialmente rivolti verso l’individuo. Ciascun elemento reagisce alle circostanze esteriori sospinto, però, da un preciso set di forze sociali, a loro volta condensate nel linguaggio, unico canale capace di plasmarle attraverso dei connotati espliciti5. Per ambiente circostante si intende la contestualizzazione del quadro generale in cui l’individuo si ritrova, considerando precisi fattori climatici, geografici, topografici, morfologici, per non parlare delle forze sociali di fondo, come i canoni etici, religiosi, giuridici, politici, artistici ed economici. Secondo Sapir il linguaggio può risultare influenzato nel suo contenuto (come ad esempio nel suo lessico), nel suo sistema fonetico e nel suo sistema grammaticale (cioè nei suoi processi formali e nelle classificazioni logiche e psicologiche). Il lessico è l’aspetto che più riflette l’ambiente esterno del parlante, poiché si sviluppa proprio attorno ad esso, nominando le intenzioni, le occupazioni e gli interessi che catturano l’attenzione di quella comunità specifica: Sapir lo ritiene una sorta di “calco” della realtà adiacente. L’aspetto più curioso di queste considerazioni è che gli elementi salienti dell’ambiente fisico, pur nella loro

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variegata molteplicità e sfaccettatura, sono soggetti a dei limiti naturali. Il loro variare, pertanto, non può estendersi all’infinito: il numero di forme e possibilità è distribuito nel tempo e nello spazio secondo dei canoni precisi che si impongono ad esso. Ogni cultura può sviluppare e raggiungere diversi gradi di complessità, ma si costruirà sempre su concetti derivanti dal mondo esterno6: “Hence, we need not to be surprised to find that the vocabularies of peoples that differ widely in character or degree of culture share this wide difference”7. Stando a queste interessanti conclusioni, Sapir si avvicina all’idea di Wierzbicka8 di reciproco coinvolgimento di linguaggio e cultura9. Egli nota la possibilità che non solo le parole stesse divengano simboli di elementi culturali specifici, ma che anche le categorie grammaticali possano, in qualche modo, ricalcare il pensiero sottostante e l’attività della cultura da cui esso deriva. In questa prospettiva, il linguaggio e la cultura non rappresentano un’espressione diretta della psicologia e della morfologia soggiacente ad essi, ma dipendono dalla loro esistenza e dalla forza della tradizione che li caratterizza. Gli elementi culturali si insediano nella mente della società fin nei meandri della coscienza attribuendo un significato ad atteggiamenti, parole, attitudini,…10 Questo stretto legame fra cultura e linguaggio naturale si esplica nella corrispondenza fra i cambiamenti che si possono osservare fra i due, sebbene le mutazioni linguistiche si vadano a configurare assai più

6 In questo Sapir si accosta molto a quanto dirà Morris Swadesh riguardo alle comuni condizioni di vita

circostante e i comuni fenomeni naturali cui l’uomo è sottoposto. Questo aspetto verrà trattato in maniera approfondita più avanti, cfr. capitolo I, par. 2.2.

7 Sapir (1973), parte I, cap. 1, p. 94, cit. 8 Cfr. Capitolo IV.

9 Cfr. Wierzbicka (1992a), parte VI, cap. 11, introduction, cit. 10 Cfr. Sapir (1973), parte I, cap. 1, cit.

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lentamente11. Quello che rappresenta, d’altro canto, il divario essenziale fra Sapir e l’universalismo (ripreso poi con più foga da Whorf) è enunciato bene da Wierzbicka, che elabora così il pensiero essenziale del linguista: “if every language provides its own set of lexicalized concepts, every language suggests its own categorisation and its own interpretation of the world-, consequently, every language is indeed a different “guide to reality””12.

1.2

Brevi accenni alla famosa ipotesi di Sapir-Whorf

In tutte queste considerazioni linguistiche si inserisce l’ipotesi primordiale della relatività linguistica, condotta a più ampio sviluppo da Benjamin Lee Whorf13. Tale idea si basa sulla convinzione che l’esistenza di relazioni sistematiche tra le categorie grammaticali della lingua parlata da una persona vada a determinare la maniera di scrutare il mondo e di comportarsi al suo interno da parte del soggetto in questione14.

La posizione secondo cui la lingua è ancorata al pensiero era stata teorizzata in modo convincente nel VI secolo da Bahartŗahari, secondo cui pensare, ovvero shabdanā, significa “creare linguaggio” e fu oggetto di secolari dibattiti nella tradizione linguistica indiana. Questo può ritenersi un approccio estremamente moderno al problema epistemologico del processo conoscitivo. Secondo tale antica teoria, tutto dipende dal linguaggio: la catalogazione del mondo come la forma della nostra stessa coscienza. Il processo cognitivo comincia con esso e non può

11 Cfr. ivi. In conclusione al primo capitolo dello scritto riguardante la natura del linguaggio, Sapir presenta

anche la sua convinzione che il grande sviluppo culturale che ha interessato l’occidente negli ultimi duemila anni sia motivato da un’insolita altrettanto rapida mutazione linguistica.

12 Wierzbicka (1992a), parte I, introduction, par. 5, p. 20, cit. 13 Per questo detta, appunto “l’ipotesi Sapir-Whorf”.

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sussistere senza il suo operare. Bahartŗahari riteneva che le parole fossero i semi del pensiero, capaci di sbocciare in una miriade di diverse elucubrazioni. In questa ottica, ogni oggetto acquisisce realtà in base alla sua potenziale verbalizzazione e al suo poter essere esternalizzato partendo dalle costruzioni immaginative della nostra mente fino ad arrivare a dei termini precisi: questa è la teoria della conoscenza, empiricamente strutturata dal linguaggio. Senza il lessico la nostra coscienza sarebbe impotente e incapace di rivelare o produrre alcuna riflessione. La verbalizzazione, difatti, non è altro che la conversione in parole distinte di un discorso implicito e interiore, sempre presente, a livello latente, in ogni nostro atto cognitivo. Già in questo tipo di primordiale considerazione del linguaggio rinveniamo un’interessante attenzione per l’apprendimento linguistico infantile: il filosofo indiano ritiene che ogni bambino utilizzi primariamente la lingua di cui dispone per imprimere nella memoria le scoperte rivelategli da ogni sua percezione. Esiste, allora, una stretta correlazione fra il linguaggio e la rappresentazione mentale, capace di dar senso alla progressione della conoscenza qualora una vera e propria verbalizzazione non abbia ancora preso del tutto forma. L’essenziale è che il linguaggio deve assolutamente essere presente perché sia possibile qualsiasi tipo di esperienza, sia esso in forma esteriorizzata o interiore. Come ogni scuola di pensiero orientale, anche questa afferma la sussistenza di un assoluto irraggiungibile che contempla tutto l’esistente. Bahartŗahari immagina che tale infinito, detto sadba-bhramam, giaccia dietro il linguaggio stesso e, proprio per questo motivo, non è esprimibile e dunque nemmeno concepibile. Il significato di tutto riposa, dunque, nell’espressione

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linguistica ed è da essa stessa creato15.

Questa antica dottrina ha indubbiamente rivelato tanti spunti allo sviluppo delle teorie che vedono il linguaggio come strettamente coinvolto nell’attività produttiva del pensiero stesso. Le lingue divengono dei veri e propri elementi di produzione della verità, più che semplici strumenti per indagare intorno ad essa.

Uno dei più illustri linguisti a raccogliere tale tradizione indiana, vissuto a cavallo fra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, è Wilhelm von Humboldt, il quale si è ampiamente dedicato allo studio della diversità delle lingue. Il suo contributo è soprattutto focalizzato sullo studio delle categorie grammaticali e sulla possibilità di una grammatica universale. La sua posizione, infatti, non assume una forma precisa, ma si trova ad essere caratterizzata da aspetti tipici sia del relativismo che dell’universalismo. Il suo pensiero si concentra sull’enfatizzare la diversità linguistica come elemento essenziale che contribuisce alla creazione di varie prospettive culturali. Il linguaggio è ciò che media fra l’individuo, le sue esperienze interiori e il mondo esterno. L’atto stesso che spinge l’uomo a estrapolare da se stesso la sua lingua, lo rende capace anche di conformarsi sempre più ad essa. Ogni idioma esistente disegna così un cerchio attorno alle persone, cercando di assimilarsi il più possibile ad esse16. Humboldt porta avanti la sua analisi a tal punto che immagina che vi siano pochi concetti ricorrenti in tutti i linguaggi, dotati, quindi, di controparti perfettamente equivalenti17. Wierzbicka si accosta molto a questo pensatore e al suo interesse per lo studio comparato di diverse lingue. A tale proposito la ricercatrice scrive: “I fully accept

15 Cfr. Matilal (2005), cap. 1, par. 4, cit. 16 Von Humboldt (2000), cit.

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the Humboldtian view that despite the presence of universals, on the whole the semantic system embodied in different languages are unique and culture-specific; and second, that the presence of “embodied” (that is, lexicalized) universals does not mean perfect equivalence in language use”18. Evidentemente, allora, ciò che Humboldt arriva a sottolineare, ovvero il necessario variare dei concetti lessicalizzati e degli aspetti culturali di fondo, è un fattore ineludibile del linguaggio, aspetto che verrà trattato meglio nel prossimo capitolo19.

Lo stimolo effettivo allo sviluppo dell’ipotesi relativista di Sapir e Whorf si presenta, però, con Franz Boas. Grazie ai suoi innumerevoli studi sulle antiche lingue dei nativi americani20, fu proprio Boas a rendersi conto di come gli stili di vita e le categorie grammaticali variassero ampiamente da un posto all'altro; di conseguenza, arrivò a credere che la cultura e le usanze tradizionali di un popolo si riflettessero nella lingua parlata.

Sapir fu uno degli studenti più brillanti del noto antropologo. Proseguì i suoi studi notando che le lingue sono insiemi sistematici e formalmente completi. In questa prospettiva non è, dunque, una particolare parola ad esprimere uno specifico modo di pensare o di agire, ma la natura coerente e ordinata della lingua stessa, capace, infatti, di interagire ad un livello più ampio con il pensiero e il comportamento. Mentre i suoi punti di vista cambiarono più volte nel corso del tempo, verso la fine della sua vita Sapir arrivò a credere che la lingua non rispecchiasse meramente la cultura e le abituali attitudini di un popolo, ma che

18 Wierzbicka (1996), cap. 1, par. 3, p. 15, cit. 19 Cfr. Capitolo II.

20 Passione trasferita all’allievo Sapir. E’ significativo che sia sorto questo problema proprio in un paese che

all’epoca viveva fortissimi contrasti culturali fra gli abitanti originari, con le loro tradizioni, e la società americana ormai pienamente affermata.

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potesse, in effetti, essere legata al pensiero in un rapporto di influenza reciproca o forse persino di vicendevole determinazione. Questa ipotesi si avvicina molto alle congetture di Wierzbicka che, sebbene si sia impegnata in una dura critica al relativismo, deve lo sviluppo della sua analisi interamente ad esso.

Whorf, allievo di Sapir, conferisce a questa idea una maggiore precisione, esaminando i particolari meccanismi grammaticali con cui il pensiero influenza, a suo parere, il linguaggio. Questo non è un banale strumento capace di riprodurre lessicalmente delle idee, ma è l’ingrediente stesso che le plasma, la guida all’intera attività mentale dell’individuo, che gli permette l’analisi delle impressioni che riceve dal mondo esterno21. Il relativismo linguistico, dunque, non poggia solo sugli assunti presentati in apertura da parte di Sapir, ovvero sul divario esistente fra i diversi ambienti circostanti e le forze sociali tradizionali del caso, ma è anche frutto di un diverso pensiero di fondo, a questo punto spiegabile solo attraverso la varietà linguistica. Whorf scrive, infatti: “We dissect nature along lines laid down by our native languages. The categories and types that we isolate from the world of phenomena we do not find there because they stare every observer in the face; on the contrary, the world is presented in a kaleidoscopic flux of impressions which has to be organized by our minds—and this means largely by the linguistic systems in our minds. We cut nature up, organize it into concepts, and ascribe significances as we do, largely because we are parties to an agreement to organize it in this way — an agreement that holds throughout our speech community and is codified in the patterns of our language... all observers are not led by the same physical evidence to the same picture of the universe, unless their linguistic

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backgrounds are similar, or can in some way be calibrated”22. Il pensiero e il comportamento sono imprigionati nella lingua stessa: ecco perché la distinzione fra le varie culture è insormontabile. Whorf cercò semplicemente di sostenere che l’azione e il pensiero erano linguisticamente e socialmente mediati, un argomento interessante, visto che contrasta fortemente con l’ipotesi più comune e naturale che immagina il linguaggio come un processo accidentale, allacciato strettamente alle esigenze comunicative, che prende parte alla formulazione delle idee perché queste sono essenzialmente frutto della nostra mente prima ancora che compaia il lessico: “Talking, or the use of language, is supposed only to “express” what is essentially already formulated nonlinguistically”23. Tale prospettiva comune si affida all’idea che la formulazione linguistica sia un processo ulteriore, indipendente e completamente slacciato dall’atto di pensare. Le regole grammaticali vedono così assai ridotto il loro ruolo, dal momento che solo il pensiero si fa guida razionale al buon uso della lingua. Secondo Whorf, però, la nostra attività cognitiva non dipende dalle leggi razionali, considerate universalmente valide, ed è proprio qui che riposa il suo atteggiamento critico che lo conduce all’assunzione relativista24.

L'accurata analisi condotta da tale linguista sulle differenze tra l'inglese e la lingua Hopi25, in un esempio ormai diventato famoso, gli suggerì come impostare l’indagine della relazione tra lingua, pensiero e realtà. In questo modo, Whorf scopre dei canoni assolutamente interessanti nel modo di leggere il mondo, che si riflettono, difatti, in linguaggi simili. Egli afferma che è proprio la somiglianza

22 Whorf (1956) [1940], Science and linguistics, pp. 212-213, cit. 23 Ivi, p. 207, cit.

24 Cfr. ivi.

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linguistica a tradursi in una specifica attitudine verso il mondo, come ad esempio l’immaginare la realtà come insieme di oggetti nello spazio e nel tempo, tipica della cultura europea.

A questo punto, appare chiara la prospettiva che dipinge il linguaggio come elemento determinante del pensiero. Questa ipotesi ha conservato il suo successo fino all’elaborazione di teorie computazionali della mente o dell’esistenza di una “lingua mentale”, il cosiddetto Mentalese26. Tralasciando questi ulteriori sviluppi moderni della teoria centrale, il cuore comune che tiene assieme il tutto è proprio il credere che la grammatica non sia, dunque, responsabile esclusivamente dell’elaborazione linguistica, della comprensione e della trasmissione di informazioni, ma anche della produzione stessa di queste e del nostro pensiero. Secondo Jaszczolt, Wittgenstein in questo era estremamente radicale con il suo escludere la possibilità di qualsiasi rappresentazione mentale che non muovesse dalla sua espressione, raffigurando, così, un complicato intreccio di linguaggio e pensiero perfettamente combaciante27. Possono elencarsi numerose critiche a tale approccio al linguaggio, ad esempio il fatto che, anche in un mancato sviluppo di questo, come nelle persone affette da sordità e da conseguente mutismo, si può osservare una discreta attività mentale ed un’eccellente capacità ad assumere i canoni di comportamento e di mentalità tipici del contesto sociale di fondo. Inoltre, vi sono casi dove si può dimostrare la sussistenza di un linguaggio senza

26 Idea teorizzata, in particolar modo, da J. Fodor, che immaginava la mente come una sorta di insieme di

moduli adibiti alle operazioni di input e output di informazioni. Cfr. Jaszczolt (2002), cap. 2, par. 5, cit.

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che vi sia un pensiero sottostante28. Se ci basiamo su esempi di tal sorta, però, è facile anche ottenere anche dimostrazioni a favore dell’opinione opposta, quindi della riduzione dell’attività cognitiva al linguaggio. Jaszczolt presenta vari casi a supporto di questa tesi (senza necessariamente dare segno di condivisione di tale teoria), come quelli di persone costrette a condizioni di vita dove non si è avuta occasione di sviluppo della lingua. La completa incapacità ad articolare alcuna espressione è accompagnata e, in un certo senso, comporta uno sviluppo mentale pari a quello infantile. Da un’analisi psicologica di tali casi parrebbe proprio che, in mancanza di una lessicalizzazione dei concetti umani fondamentali, non si disponga affatto dei suddetti. Tuttavia, le ricerche in corso sono particolarmente numerose e accurate, tanto da rendere inopportuno ogni tentativo di semplificazione di tale questione29.

Ricapitolando, il linguaggio è il veicolo essenziale dell’affermazione di sé, della comunicazione, della possibilità di confronto e dunque, anche dell’acquisizione della capacità di strutturare la propria personalità, in accordo e in contrasto con l’ambiente esteriore e la diversità, secondo delle pratiche identificatorie ben precise di riconoscimento di certi canoni e costituzione di un’identità caratteristica30. Tuttavia, non è possibile ridurre l’emergere di un volto identitario a questo semplice processo di conformazione a norme esterne, difatti, pare che il nostro stesso ego non si accontenti di conformarsi ai valori ad esso proposti, ma che se ne impadronisca a tal punto da renderli simili a sé e veicolo

28 Jaszczolt cita il caso di un uomo capace di parlare e tradurre perfettamente dieci linguaggi senza capirne

assolutamente il significato. Tale patologia è detta Williams’syndrome e consiste proprio nell’abilità di sviluppare un ampio vocabolario senza saperlo utilizzare ragionevolmente. Cfr. ivi, cap. 2, par. 4, cit.

29 Cfr. ivi, cap. 2, par. 4, cit. 30 Cfr. Capitolo V e conclusioni.

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delle sue intenzioni come dei suoi desideri. Quindi, esiste la possibilità alternativa di immaginare il linguaggio, le tradizioni e gli ideali culturali come strumento umano plasmato dall’individuo sulle sue esigenze e sul suo pensiero più recondito. E’ in questa ottica che si inserisce la trattazione dei Cultural Scripts31 da parte di Wierzbicka e lo studio della diversità e familiarità delle strategie comunicative di un mondo culturale rispetto a tutti i suoi abitanti, in un processo attivo di scambio e configurazione reciproca, che associa alla visione del linguaggio qui proposta quella trattata nella sezione seguente.

2. Il linguaggio come riflesso del pensiero

2.1

Prospettiva storica da cui si sviluppa la “lingua mentalis” di

Wierzbicka

L’idea che gli uomini abbiano un linguaggio mentale al di sopra delle lingue orali è un tema ricorrente. Secondo Wierzbicka, risale a Platone lo studio della comparazione fra pensare e scrivere e quella fra parlare e leggere. Il filosofo greco immaginava l’esistenza di una sorta di libro della mente dove il pensiero scrive le sue elaborazioni. In questa ottica, il comunicare un’idea non è altro che il trarla ed esplicitarla verbalmente dal libro suddetto. Parrebbe, dunque, che non ci sia necessità di lessicalizzare niente, poiché è il pensiero stesso che, dando vita a delle immagini, le riproduce già sotto forma di scrittura32. Tale relazione è intrigante ma poco chiara, ci sono, infatti, molti quesiti insoluti. Non è chiaro se il linguaggio mentale sia uguale per tutti, diverso per ciascun individuo in quanto forma

31 Cfr. Capitolo IV, par.3.3.

32 Cfr Wierzbicka (1980), introduction, Sydney, Academic, 1980. Wierzbicka trae ispirazione del Philebus di

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espressiva della sua personalità interiore, oppure se esso corrisponda in tutto e per tutto al linguaggio naturale proprio del soggetto in questione.

Il postulato del cosiddetto “mentalese”33 è esposto più chiaramente da S. Agostino nella sua opera De Trinitate. Qui, la distinzione si fa estremamente chiara fra il linguaggio mentale, del tutto indipendente, e il discorso interiore specificatamente legato al linguaggio naturale. Sussiste, perciò, una netta differenziazione fra “il parlare con se stessi” e il pensiero della mente, costituito da caratteri distinti34: “La distinzione fra verbum interiore e carattere esteriore, gli consente […] di affermare da un lato il carattere secondario, subordinato del linguaggio, e la funzione meramente strumentale del linguaggio esteriore rispetto all’atto del pensiero, e d’altro lato l’essenziale intrinsecità del verbum mentis, cioè della parola interiore, al medesimo atto del pensiero”35. Il nucleo centrale, che resta immutato e che rende possibile la comunicazione e il pensiero, è allacciato all’intuizione della verità, a sua volta congiunta con il diretto pronunciamento del verbum mentis (la cosidetta lingua mentale), la cui teorizzazione segna il definitivo passaggio dall’idea iniziale di inadeguatezza del linguaggio rispetto al pensiero, presente già nel De Magistro. Tale ipotesi aveva, infatti, condotto il filosofo ad abbandonare l’uso del termine verbum per indicare la parola esteriore, preferendo ad esso quella di signum sonans o vox oris, in modo da poterla utilizzare esclusivamente per riferirsi alla “voce del pensiero”.

Il Medioevo presenta la lingua universale della mente come ormai ampiamente accettata. Essa ha una priorità non solo temporale rispetto al normale

33 Dall’ipotesi di Fodor riguardo al linguggio della mente. Cfr. Fodor (1975), The Language Of Thought, cit. 34 Cfr. Wierzbicka (1980), introduction, cit.

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linguaggio naturale, ma anche cognitiva. Il lessico si sviluppa dall’evoluzione dei nostri pensieri, che sono articolati secondo un processo per noi assolutamente naturale e innato. La nostra mente, dunque, è indipendente da ogni altro linguaggio ed ha uno status nettamente diverso. Una prova a supporto di tale argomentazione, estremamente diffusa all’epoca proprio per dimostrare l’antecedenza del pensiero sul linguaggio, è il fare riferimento ad una situazione abbastanza frequente nella vita quotidiana: l’avere in mente qualcosa e il non riuscire a trovare le parole per esprimerlo. Ockham si spinge molto oltre questo discorso, arrivando ad immaginare anche la possibilità di raccogliere il lessico della nostra attività cogitativa, ovvero di rintracciare quei concetti fondamentali, tramite i quali si realizza ogni tipo di riflessione o elucubrazione. Il suo scritto più importante, la Summa totius logicae, segue l'ordine dei trattati logici aristotelici, analizzando nel dettaglio le parti costitutive del linguaggio e del ragionamento. Lo studio dei termini è qui particolarmente indicativo: essi sono ciò che entra o può entrare a far parte di una proposizione. Ockham distingue fra termini mentali, orali e scritti. Tutti questi vocaboli designano direttamente le cose, ma quelli orali e scritti sono convenzionali, in quanto possono variare i suoni o le lettere dell'alfabeto con i quali una stessa cosa può essere designata in lingue diverse. Invece, il termine mentale é il segno naturale di una cosa e non ha pertanto alcuna convenzionalità. I termini si distinguono in categorematici, dotati di significato definito e sincategorematici, che posseggono significato solo in connessione ai primi. Diversamente dalle parole, che sono suoni convenzionali, i termini mentali o concetti sono segni naturali predicabili di più cose: in questo senso essi sono

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universali. Di per sé, invece, ogni concetto è un’entità individuale: Ockham rifiuta tutte le forme di realismo, che considerano l’universale esistente realmente, anche se solo in potenza, nelle cose stesse. In questa ottica, gli universali non sono puri suoni, ma segni, e tali segni non sono istituiti arbitrariamente o deliberatamente, ma sono naturali, in quanto sono prodotti nell'anima da ciò di cui essi sono segno. Ciò non significa che i segni siano rappresentazioni o immagini delle cose, ossia che tra i segni e le cose significate esista necessariamente una somiglianza. Se fossero immagini, difatti, essi ci farebbero conoscere soltanto ciò che è già noto. Per identificare tali elementi, Ockham cerca di impostare una metodologia, sicuramente inadeguata allo scopo. La sua idea è che bisogna procedere partendo dal linguaggio naturale, unica rappresentazione tangibile che abbiamo come riflesso della nostra attività cogitativa, per poi tagliare tutto ciò che in esso non è strettamente necessario36. Certo è difficile riuscire, in questa prospettiva, a comprendere cosa è fondamentale e cosa no, soprattutto se non si amplia lo spettro d’azione fino ad includere il confronto con le lingue straniere, in modo da vedere cosa è sempre lessicalizzato e cosa invece può essere assente. Wierzbicka critica proprio questo ad Ockham, confidando nell’idea che, se dei concetti sono sempre presenti in ogni lingua del mondo e dotati di un vocabolo che li identifichi, la loro importanza ci appare più evidente e comprovata. Per questo motivo l’indagine inter-culturale è fondamentale nel lavoro della ricercatrice. Ciò nonostante, sussiste un altro problema nell’approccio medievale: esso si muove, difatti, alla ricerca di ciò che è removibile dal nostro linguaggio e,

36 Cfr Wierzbicka (1980), introduction, cit. Wierzbicka fa diretto riferimento ad Ockham, menzionando alcuni

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conseguentemente, anche dal nostro pensiero. Il procedere in questo modo non solo non funziona se non si apre lo sguardo anche a lingue differenti e a circostanze disparate per osservare ciò che è indubitabilmente umano in ogni situazione; ma non sarebbe nemmeno economico, giacché i concetti fondamentali umani sono sicuramente un apparato ristretto rispetto a tutto quello che si è sviluppato successivamente attraverso esperienza, ricerca e confronto. Questo è un altro assunto fondante della teoria di Wierzbicka: l’assoluta economia in seno ai concetti fondamentali, un minimalismo estremo che tende a valutare l’uguaglianza fra gli individui come estremamente più forte e attendibile37.

Questa ultima osservazione è precocemente avanzata già da Leibniz, il famoso ideatore de ”l’alfabeto dei pensieri umani”38. Il suo progetto, discusso in dettaglio nel prossimo capitolo39, si affianca moltissimo a quello della studiosa polacca. Egli parte dall’idea che esista numero assai ridotto di concetti basilari, in modo che risulti facilmente maneggiabile da ciascun individuo esattamente come accade alle lettere dell’alfabeto. Le potenzialità di tale armamentario sono inimmaginabilmente estese, dal momento che ci permettono l’elaborazione di qualsiasi tipo di pensiero, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi momento40. Leibniz, però, non è il solo pensatore del seicento che si concentra su questa tematica. Descartes fornisce un contributo estremamente interessante, che non può essere tralasciato. Il problema è estremamente chiaro per il filosofo francese: fra le nostre nozioni ve ne sono alcune che si impongono con forza estrema ed ovvietà,

37 Un’economia del genere ricalca erfettamente l’idea di evitare di introdurre più principi esplicativi di quanti

sono necessari, elemento chiave del famoso “rasoio di Ockham”. Cfr. ivi, cit.

38 Cfr. Leibniz, Opuscules et fragments inédits de Leibniz, p. 430, L. Couturat (ed.), Paris, 1903 (opera adottata da

Wierzbicka per tutte le citazioni), trad. e citato da Wierzbicka (1992a) Introduction, par. 2, cit.

39 Cfr. Capitolo II.

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cosicché non lasciano spazio al dubbio perché immediatamente comprensibili41, in questo senso sono proprio tali concetti ad essere universali e innati42. Le elaborazioni di Descartes ci forniscono alcuni dei requisiti fondamentali per l’identificazione dei cosiddetti semantic primes che Wierzbicka andrà cercando nelle sue indagini a livello inter-linguistico. La ricerca si è così ridotta alla volta di ciò che è irriducibile e autoevidente43. Leibniz crede fermamente nell’esistenza di questi concetti innati, ma ritiene che la chiarezza di cui Descartes parla non sia un requisito sufficiente alla loro individuazione e imposta, quindi, una metodologia estremamente simile a quella che poi adotterà Wierzbicka, basata proprio su tentativi ed errori.

E’ singolare notare come tale questione appassiona pensatori di correnti filosofiche anche estremamente contrastanti. Curiosamente, infatti, un altro filosofo che si interessa all’argomento, come molti altri empiristi inglesi dell’epoca, è John Locke. L’autrice polacca preferisce assumere le sue idee semplici come punto di riferimento piuttosto che altri aspetti, elaborati da altri esponenti della stessa corrente, come Hume o Berkeley. La motivazione della sua scelta sta nel fatto che Locke commette degli errori interessanti per la comprensione della metodologia e degli assunti fondamentali della teoria che Wierzbicka andrà con successo a sviluppare. Il pensatore inglese, infatti, immagina la sussistenza di alcune idee semplici, capaci di costruire ogni tipo di nozione complessa a seconda di precise modalità combinatorie. Tale considerazione sembrerebbe assolutamente convincente, il problema, però, sta nel fatto che, se si inquadrano le idee semplici

41 Un’esposizione più completa dei pensieri di Descartes e delle sue conquiste da questo punto di vista sarà

disponibile nel capitolo II, par 2.

42 Cfr. Descartes (2001), seconda meditazione, cit. 43 Cfr. Wierzbicka (1980), introduction, cit.

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come quelle fondamentalmente accolte attraverso la pura esperienza dovuta all’operare dei nostri cinque sensi, si ottiene un numero eccessivamente esteso di concetti fondamentali, aspetto assolutamente in disaccordo con quanto Wierzbicka sostiene44. Al di là di queste considerazioni metodologiche, quello che va sottolineato, in questa circostanza, è che il linguaggio naturale è divenuto, nel tempo, il punto di partenza per l’indagine volta alla scoperta dell’operare della nostra mente: esso è lo specchio della cognizione umana, secondo Leibniz.

In questa prospettiva si inseriscono, negli anni cinquanta, le riflessioni Chomskyane. L’idea innovativa dell’illustre linguista sta nell’immaginare il linguaggio non come ciò che plasma la nostra realtà o mondo esteriore, ma come un semplice set di schemi associati a concetti che sono universali e uguali per tutti, determinati biologicamente e non culturalmente45. La lingua che dà voce, quindi, alla nostra personalità, alle emozioni che proviamo e ai valori culturali che abbiamo non è vista, qui, come il “demiurgo” del nostro pensiero. Il processo è esattamente opposto, ovvero si immagina l’esistenza di una serie di elementi innati nella mente umana che poi si riversino nel linguaggio. Quello che cambia con l’adozione di una visione del genere è la perdita di importanza del presupposto relativista, nonostante sia così pregnante all’interno del pensiero di Wierzbicka. Non è fondamentale il fatto che i lessici siano tutti diversi e non confrontabili, quello che conta è che esiste un fondo comune in cui confidare e che tale elemento è un costituente fondamentale del nostro pensiero e della nostra umanità. Dunque, non vi sono solo dei caratteri fisici che ci fanno riconoscere

44 Cfr. ivi.

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come esseri umani al di là di barriere politiche, etniche, storiche, geografiche o culturali: anche nel nostro pensiero e nella modalità in cui esso si sviluppa sussiste una discreta somiglianza.

2.2

Pensiamo tutti allo stesso modo?

“Senza l’immaginazione non vi sarebbe somiglianza tra le cose”46: questa affermazione di Foucault in apertura alla sua indagine alla ricerca della somiglianza nell’universo umano, ci lascia intuire la necessità del far riferimento al nostro pensiero per riconoscere l’uguaglianza. Il partire dalla nostra attività mentale per poi rivolgerci al mondo circostante è, difatti, un requisito interessante per l’impostazione di un progetto universalista. Secondo Wierzbicka, non esiste niente di più sbagliato che un ragionamento alla maniera di quello che Herder, ripreso dall’autrice in questi termini: “thinking is essentially identical with speaking and therefore differs from language to language and from nation to nation”47. Dunque, l’uomo pensa con le parole, costruisce un suo linguaggio interiore, calcato perfettamente su quello esteriore. Quello che la ricercatrice non apprezza di questa visione non è il fatto che il linguaggio apra una sua prospettiva caratteristica del mondo circostante, o l’idea che esso funga da mediatore nel rapporto fra l’uomo e l’esteriorità, ma piuttosto l’idea che non vi sia alcun tipo di riflessione sulla possibilità dell’esistenza di un fondo comune umano, che ci permetta di poter instaurare un dialogo capace di estendersi oltre i confini della diversità. Wierzbicka muove da un’esigenza fondamentale dell’uomo: quella del

46 Foucault (2004), cap. III, par. 5, p. 85, cit. 47 Wierzbicka (1992a), introduction, par. 1, cit.

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confronto con “l’altro”, bisogno lei stessa ha personalmente vissuto, dovendosi adattare ad un contesto culturale diverso, in seguito alla sua immigrazione in Australia. Gli universali sono fondamentali proprio in ragione della necessità umana di dover comunicare e di dover trasmettere dei significati.

La stessa identità di cui l’uomo si ricopre (sia a livello di conformazione individuale con cui rivolgersi all’esterno, sia a livello di allacciamento ad un contesto di fondo che fa da nicchia protettiva di riconoscimento) si costruisce sul confronto, inteso come ingrediente principale della sua stessa sussistenza: non ci sarebbe bisogno di identificare un “io” o un “noi” se non esistesse un esterno da cui vogliamo emergere e da cui ci vogliamo diversificare48. Il problema, allora, in Wierzbicka assume una forma diversa: non si tratta più di indagare sull’esistenza o meno degli universali, ma di rintracciare la loro effettiva presenza da qualche parte. La possibilità di sviluppare dei valori specifici, il forte attaccamento alle proprie tradizioni e lo sviluppo di società multietniche sono prove a dimostrazione del fatto che l’alterità è comprensibile e che con essa è possibile, anzi, necessario, interagire e convivere.

Il linguista americano Swadesh aveva avanzato l’idea che le somiglianze da ricercare poggino sullo scenario esteriore cui tutti siamo sottoposti. Questa teoria è sviluppata a partire da delle interessanti considerazioni sulle comuni condizioni di vita dell’essere umano: esistono delle caratteristiche universali che contrassegnano l’esistenza umana e la natura circostante e questi aspetti possono ritenersi alla base

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dei concetti innati dell’uomo49. L’idea di Swadesh si riferisce principalmente alle percezioni fisiche dei fenomeni naturali basilari e alla coscienza del proprio corpo, ma questa prospettiva era destinata a fallire dal momento che si è certamente appurato che non si trattano e assimilano queste esperienze allo stesso modo e che il linguaggio riflette, a sua volta, la nostra concettualizzazione della realtà e non direttamente il mondo: tutto viene filtrato da credenze, superstizioni, conoscenze, costumi e rituali culturali diversi50. L’idea di Swadesh non ha funzionato proprio perché i linguaggi sono diversi e riflettono divergenze culturali estremamente idiosincratiche: questo è un assunto ineludibile, che non può smantellarsi, né ignorarsi. L’unica via d’uscita, allora, è immaginare che i costrutti essenziali che ci possano permettere la creazione di canoni universali di confronto siano nascosti da qualche altra parte, ovvero nell’unica parte umana da essere così profondamente interiore da subire meno gli influssi del cangiare esteriore: la nostra mente. La conclusione di Sapir, che fonda sulla diversità degli apparati concettuali lessicalizzati e sulla differenza d’interpretazione dell’esperienza umana il fatto che ogni lingua rappresenta un differente approccio alla vita e un peculiare modo di pensare, si è sempre appoggiata all’innegabile prova della varietà lessicale contro la difficoltà estrema del valutare l’uguaglianza concettuale. Wierzbicka segnala, però, che tali argomenti non sono sufficienti a distruggere del tutto l’ipotesi contraria, difatti l’assenza di prove non sempre va considerata come

49 Cfr. Swadesh, Towards greater accuracy in lexicostatistic dating, International Journal of American Linguistics

21, 1955, citato dalla stessa Wierzbicka (1992a), introduction, par. 2, p. 7, cit.

50 Tutto questo è in accordo con laprospettiva della teoria dei Cultural Scripts, presentata nel capitolo V.

Wierzbicka cita sempre molti casi risultanti dai suoi studi: ad esempio, non tutti i linguaggi hanno un termine generico per nuvola, il polacco, difatti, distingue fra le nubi grigie che preannunciano pioggia e quelle luminose. Se consideriamo, poi, la classificazione di animali e piante il tutto diviene assai più complesso: gli aborigeni australiani non hanno un termine generico per canguro, ma ne distinguono le specie; così come non esiste in giapponese distinzione fra il colore blu e il colore verde, in modo che l’erba (considerata umida) e il mare hanno lo stesso colore. Per tutto questo Cfr. Wierzbicka (1992a), cit.

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un punto a valore dell’avversario, proprio perché, come la storia della scienza ci insegna, spesso la loro carenza è dovuta alla mancanza di una strumentazione o di una metodologia adatta a reperirle. L’idea che gli universali appartengano ad un mondo interiore compare già con Leibniz51, con il suo “alfabeto dei pensieri umani”. Il filosofo riteneva che gli universali non fossero da ricercare nella realtà esterna: affermazione interessante, priva però della caratterizzazione necessaria a confermarla. Se dovessimo basarci solo sulla constatazione pratica della diversità linguistica senza formulare altre ipotesi per intraprendere strade diverse, nemmeno Leibniz avrebbe speso tempo e parole alla ricerca della sua lista di elementi semplici appartenenti al pensiero dell’umanità tutta. Le esigenze che alimentavano questa idea non avevano nulla a che fare con quelle socio-antropologiche che propone Wierzbicka: lo scopo, difatti, ruotava attorno alla conoscenza tutta e alle necessità gnoseologiche del nostro sapere, che non poteva immaginarsi come fondato su un linguaggio confuso, oscuro e frammentato.

Dunque, sono molti gli stimoli che ci conducono verso il desiderio di universalità e somiglianza, e questi, a loro volta, non fanno altro che sviluppare una notevole varietà di interessi: da quelli sociali a quelli euristici. Il metodo semplice per rendersi conto del fondo comune che sussiste dietro ogni usanza, tradizione, termine, identità o valore è l’assumere una diversa prospettiva, che non contempli il linguaggio come punto assoluto di partenza dello sviluppo cognitivo umano. Certo, non possiamo sottovalutare l’importanza del contributo linguistico alla civilizzazione come anche alla differenziazione dell’umanità, ma non è da questo che ogni nostro pensiero necessariamente prende forma.

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Wierzbicka vuole indurci a credere che, forse, la strada va percorsa in senso inverso: muovendo dal pensiero alla lingua e immaginando che questa sia la più vivida esplicazione della nostra cognizione e di tutto ciò che siamo. Così facendo, si potrebbe allora affermare l’effettiva presenza di alcuni elementi comuni in ciascuna mente umana, che, seppur poi soggetti ad un reciproco coinvolgimento con l’esteriorità, conservino il loro status intrinseco. Questa considerazione non deve farci giungere alla conclusione che il linguaggio stia in posizione secondaria nel processo conoscitivo o di realizzazione identitaria dell’uomo, ma semplicemente che esso si fa veicolo di tutto questo. L’espressione linguistica, perciò, si configura come il punto di massima concentrazione dell’essenza umana, dei valori culturali, delle credenze e di molto altro ancora: essa funge da recipiente di tutto ciò che siamo e di tutto il decorso della configurazione della personalità individuale e del suo sviluppo tramite un costante confronto con l’esterno. La lingua è il mezzo di tale processo e non la miccia che lo innesca o il punto di partenza di questa evoluzione. Tutto comincia, quindi, con il pensiero e con i concetti umani innati e fondamentali e tutto si esplica poi in quello che diviene il fulcro perfetto dell’equilibrio fra diversità e uguaglianza: il linguaggio52.

3. “Lingua mentalis” e “Linguistic thinking”: Wierzbicka e Whorf

tra relativismo e universalismo.

Quello che stupisce di Whorf e Wierzbicka è il loro partire da assunti estremamente simili nonostante condizioni di vita, circostanze e interessi

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profondamente divergenti53. L’argomentazione che impostano muove da tre aspetti essenziali: la convinzione che tutte le lingue varino enormemente nella loro organizzazione semantica sia per quanto riguarda il lessico che per la grammatica; l’idea che tale constatazione si possa dimostrare empiricamente attraverso l’analisi comparata di lingue diverse; e, infine, la credenza che tali divergenze linguistiche determinino una differenza nel modo di pensare dei parlanti. I due autori si allontanano proprio nel momento in cui sorge il problema della relazione fra pensiero e linguaggio. Whorf intesse un complesso rapporto fra i due, che ci conduce ad avvertire la presenza di una sorta di “linguistic thinking”54. Dunque, la sua convinzione fondamentale è che: “…the background linguistic system (in other words, the grammar) of each language is not merely a reproducing instrument for voicing ideas but rather is itself the shaper of ideas, the program and guide for the individual’s mental activity… Formulation of ideas is not an independent process, strictly rational in the old sense, but is part of a particular grammar, and differs, slightly or greatly, between different languages”55. Questo non significa che Whorf riduce tutta la nostra attività mentale al linguaggio, ma che il fenomeno più distintivo della cognizione umana è quello che egli definiva “linguistic thinking”, piuttosto che i processi non-linguistici come, ad esempio, la memoria. Lo spunto principale di queste riflessioni si rinviene ovviamente in Sapir: “the feeling entertained by many that they can think, or even reason,

53 Per una sintetica trattazione delle biografie e della carriera accademica dei due si rimanda a Goddard (2003),

introduction, cit.

54 Cfr ivi. Tratto dall’interpretazione di Whorf che ci dà N. J. Enfield, On Linguocentrism, in: M. Pütz e M.

Verspoor (eds.), Explorations in Linguistic Relativity, John Benjamins, Amsterdam, 2000, citato da Goddard (2003), cit.

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without language is an illusion. The illusion is due to a number of factors. The simplest of these is the failure to distinguish between imagery and thought”56.

Il rischio, però, è di semplificare eccessivamente il discorso whorfiano. Egli, infatti, non pare tanto chiedersi fino a che punto il linguaggio influenzi il pensiero, ma, piuttosto, come differisce questo tipo di influenza a livello inter-linguistico57. E’ in questo aspetto che va ad inserirsi il lavoro di Wierzbicka. Entrambi questi studiosi mostrano un caloroso interesse per la semantica linguistica e comprendono l’importanza del ruolo che essa riveste nello sviluppo del pensiero. Cos’è che, allora, rende l’approccio dell’autrice polacca estremamente innovativo e volto alla promozione di una nuova sorta di universalismo? Indubbiamente l’originalità risiede nel prodotto di maggior successo della sua analisi: il Natural Semantic Metalanguage. Tutta l’importanza che Whorf conferisce al linguaggio, difatti, non manca in Wierzbicka, che non a caso tratta di “lingua mentalis” per evidenziare il diretto e naturale processo di lessicalizzazione dei primitivi innati del nostro pensiero in espressioni linguistiche. Vi sono pochissimi elementi condivisi a livello grammaticale e semantico dall’intera umanità, in modo che “…they can be used as a kind of semantic bridge between the vastly different conceptual worlds embodied in full natural languages”58. Il “NSM” rappresenta un notevole passo avanti, che ci permette di districare la complessa matassa di relazioni sussistente fra pensiero e linguaggio. Esso condensa assieme in un’unica forma: i primitivi semantici, ovvero quei concetti fondamentali del pensiero, globalmente condivisi, e gli universali lessicali, i quali incarnano tali nozioni in

56 Sapir (1921), pp. 15-16, cit. 57 Goddard (2003), cit.

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termini precisi, ancorandole al linguaggio naturale e dando ad esse una sorta di interfaccia che ci permetta una loro visualizzazione. La fusione di questi due elementi ci autorizza a lavorare su un piano intermedio fra quello del pensiero, fondamentalmente astratto e generico, e quello del linguaggio, affetto da un incontrastabile relativismo: ecco realizzato l’equilibrio fra questi due ingredienti fondamentali dello sviluppo umano. Gli universali che ricerca Wierzbicka non si può dire che siano effettivamente presenti a livello linguistico, ma si può immaginare che proiettino proprio nella lingua che utilizziamo quotidianamente la loro ombra. Esattamente come Leibniz fantasticava: ciò che è condiviso da tutto il genere umano è una semplice serie di concetti basilari, questi però acquisiscono spessore proprio attraverso quel veicolo in cui il nostro pensiero si riversa, ovvero il linguaggio. Ecco perché, nel suo improntare una metodologia precisa per rintracciare gli universali, la studiosa polacca si orienta verso lo studio diretto della varietà linguistica.

A questo punto appare chiaro il motivo per cui Wierzbicka condivide molte assunzioni tipiche del relativismo, come il fatto che il linguaggio sia lo specchio delle culture sottostanti e che sia, in questo senso, capace di riflettere la specificità del mondo sottostante di norme e valori59. La sua intuizione si costruisce proprio sulla convinzione che le differenze siano un elemento esclusivamente di superficie, che è necessario dover scavalcare per raggiungere la somiglianza tanto auspicata dalle necessità comunicative interculturali60.

59 Cfr la trattazione del rapporto fra la lingua russa e i temi culturali di fondo che essa incarna, capitolo IV,

par. 2.1; e, cfr. Wierzbicka (1992a), parte IV, introduction, cap. 11, cit.

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Diverse parole indicano diversi modi di pensare? Wierzbicka ritiene che, se esiste un termine, non solo ne parliamo e lo usiamo per indicare qualcosa, ma lo pensiamo. Il lessico specifico di una comunità e la sua esperienza passata sono strumenti concettuali che riflettono una cultura e un modo di pensare particolare. La società è sicuramente influenzata dalla lingua di fondo, esattamente come la prospettiva della singola persona è influenzata a vita dalla sua lingua nativa. Whorf, del resto, dice che dissezioniamo il mondo tramite il nostro linguaggio originario: da questo punto di vista la somiglianza è evidente. Non esiste prova scientifica di come linguaggio plasmi, in questo senso, il pensiero dei parlanti, ma ci sono forti supposizioni a riguardo. Wierzbicka crede nella coesistenza di categorie innate e imposte dalla cultura61. Quello che emerge, allora, è un connubio di prospettive assolutamente diverse. Com’è possibile riuscire a lavorare su due piani distinti, concedendo punti sia alla dimensione relativista che a quella universalista? Tutto riposa sulla ricerca di un mezzo che ci permetta di lavorare con la diversità linguistica e che sia, al contempo, in grado di maneggiare dei concetti primitivi del pensiero umano. Occorre, quindi, proprio quella fusione che il “NSM” riesce a fornirci, offrendoci un binocolo per sormontare la lontananza e lo scarto della differenza e, al contempo, una lente d’ingrandimento per scrutare le uguaglianze sottostanti ad essa. Tali strumenti sono gli attrezzi rispettivamente partoriti dal linguaggio e dal pensiero per poter rendere intelligibile la loro interazione: si tratta degli universali lessicali, che ci portano lontano in qualsiasi linguaggio del mondo grazie alla loro traducibilità assoluta, dovuta, a sua volta, al loro essere riflesso di concetti innati umani; e dei primitivi semantici, ovvero gli

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elementi fondanti della mente umana, capaci di manifestarsi in ogni idioma esistente.

In conclusione, dunque, le diversità fra Whorf e Wierzbicka si assottigliano enormemente per diversi punti di vista, in quanto l’autrice polacca non sarebbe giunta ad una diversa destinazione se non avesse affinato gli strumenti per un’indagine empirica di successo. Quello che prima mancava, infatti, contribuiva ad allargare le basi della disuguaglianza e della divergenza culturale e linguistica di fondo, creando un alone d’impossibilità e di estrema difficoltà anche solo allo sviluppo dell’analisi comparata in proposito. Il risultato, a parere della studiosa polacca, era un relativismo forzato, incapace anche soltanto di descrivere fino a che punto la diversità arrivava, nonostante l’importanza che era riuscito a creare attorno alla questione. Con Wierzbicka si è colmato il vuoto che aveva generato tanta sfiducia nei confronti della prospettiva universale, poiché si è finalmente schiuso uno spazio condiviso per la creazione di un dialogo. Per generare questo “terreno franco”, alla fine sarebbe bastata semplicemente una presa di posizione meno avventata e radicale riguardo alla dura battaglia fra universalismo e relativismo; un po’ più di interesse per l’analisi delle esperienze personali di persone a stretta convivenza con tali diversità linguistiche e culturali62; e, infine, un pizzico in più di coraggio rispetto ai filosofi razionalisti settecenteschi, per non scoraggiarsi di fronte a quella che appariva come un’assoluta utopia63. E’indubbio

62 La convivenza a contatto con un forte contrasto rende la questione più visibile e abilità gli individui che la

sperimentano al raggiungimento della coscienza del contemporaneo sussistere di uguaglianza e differenza a livello di apparati concettuali. Il modo migliore, dunque, per accorgersi del confine fra diversità culturale e somiglianza è la vita a contatto con due estremità. Wierzbicka, oltre il suo caso, ama citare quello di Eva Hoffman (polacca-americana). Essa pone una speciale attenzione alle parole e differenze semantiche, fonte d’ispirazione per l’elaborazione delle teorie di Wierzbicka. Cfr. Wierzbicka (1997a), cap. 1, par. 3, cit.

63 Il rinvenimento dei concetti innati umani, fondanti di tutto il pensiero e la conoscenza, veniva considerato

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che la posizione dell’autrice appaia come assolutamente innovativa. Tuttavia, potremmo dubitare, come è lecito in ogni approccio strutturato come sintesi di posizioni estremamente contrastanti, del potenziale persuasivo delle sue stesse basi argomentative. Wierzbicka, del resto, non si schiera mai apertamente dalla parte dei relativisti, si preoccupa solo di mostrare gli esiti negativi di uno spietato etnocentrismo. Forse potremmo allora considerare il suo approccio come una semplice presa di coscienza degli errori in cui è possibile incappare attraverso il cieco sostegno a favore di un universalismo poco cosciente della realtà empirica in cui viviamo. In tal caso l’interpretazione qui fornita regalerebbe molto di più alle conclusioni dell’autrice polacca rispetto a quanto esse stesse meritano, sarebbe però possibile osservare meno confusione all’interno delle sue considerazioni, in modo da aprire una breccia meno capiente alle critiche.

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