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Le fattispecie confusorie in rete C .

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C

APITOLO

SECONDO

Le fattispecie confusorie in rete.

SOMMARIO: 1. Meta-tag, sistemi pay per click e parole-chiave. — 2. Gli illeciti associati all’utilizzo scorretto dei sistemi di ricerca. — 3. Le parole-chiave ed il rischio di confusione. — 3.1. Le tipologie di meta-tag. — 3.2. (Segue) L’utilizzazione impropria dei meta-tag. — 3.3. (Segue) Gli orientamenti giurisprudenziali in materia di meta-tag. — 3.4. Le inserzioni sponsorizzate. — 3.5. Alcune conclusioni in tema di confondibilità. — 3.6. Le parole-chiave e l’assenza della componente grafica del marchio. — 4. La diffusione di immagini riproducenti prodotti altrui.

1. - Meta-tag, sistemi pay per click e

parole-chiave.

Quanto abbiamo detto circa lo sviamento di utenza vale anche,

mutatis mutandis, per quei meccanismi di indicizzazione propri dei

motori di ricerca, e in generale, per quelli utilizzati dalle piattaforme che aggregano ed ospitano contenuti digitali caricati dagli utenti, come gli annunci e le inserzioni relative all’offerta di prodotti e sevizi provenienti da soggetti terzi, anche imprenditori. Nell’ordinare l’elenco di risultati forniti, questi meccanismi possono attribuire rilevanza ad una serie di informazioni che si suppongono essere rivelatrici di una pertinenza con la ricerca effettuata dall’utente: si tratta dei cosiddetti meta-tag . Su alcune piattaforme telematiche, 1

Cfr. LISI-DIURISI, Web marketing e tutela del consumatore telematico, in Cassano

1

(2)

invece, una porzione di questo elenco di risultati è dedicata ai collegamenti o alle risorse che sono oggetto di sponsorizzazione: in questo caso l’indicizzazione solitamente si basa un servizio detto di

pay per click, il quale, specialmente per quanto attiene ai motori di

ricerca, consente di acquistare spazi pubblicitari posti in una sezione appositamente dedicata ai link sponsorizzati . 2

In entrambi i casi, un fenomeno di agganciamento parassitario si manifesta a causa dell’uso scorretto delle parole-chiave. Questi termini infatti, hanno la funzione di attrarre il maggior numero di contatti, e si attivano nel momento in cui gli utenti digitano delle parole all’interno di una barra di ricerca: ciò non accade soltanto per i tradizionali “search engine”, ossia i motori di ricerca; a ben vedere, praticamente qualsiasi portale o sito web dispone di un software che consente all’utente di esplorare le proprie risorse attraverso la digitazione per caratteri alfanumerici. Così facendo, la selezione e l’indicizzazione di risultati operata da questi software necessita sempre di un certo numero fattori ed informazioni a cui assegnare rilevanza, in modo tale da poter fornire un elenco di risultati il cui ordine rispecchi il più possibile gli interessi dell’utente e il tipo di ricerca che egli effettua. Nei social network ad esempio, la lista di

post, pagine ed altre risorse restituiti dall’interrogazione del sistema

è ordinata, oltre che in base ad alcune parole-chiave , secondo 3 criteri che attribuiscono una certa priorità a quei contenuti che vantano il maggior numero di interazioni da parte degli utenti iscritti alla piattaforma. Tra queste interazioni viene poi attribuito un certo rilievo a quelle che provengono da soggetti con cui l’utente che effettua la ricerca condivide una rete di contatti.

TURINI, Link sponsorizzati e meta-tag, tra liceità e violazione di marchio, in Diritto

2

dell’Internet, 2008, 303.

Per una recentissima pronuncia in cui è stato considerato l’uso di tali

parole-3

chiave anche con riferimento ad una “piattaforma social”, si veda Trib. Milano 9 novembre 2017, RG n. 76328/2014, reperibile sul sito www.ilcaso.it .

(3)

Per quanto riguarda i meta-tag, essi non sono altro che dei contenitori di parole-chiave e stringhe di testo appositamente inseriti all’interno del codice HTML di una qualsiasi pagina web. Senza voler scendere eccessivamente nei dettagli tecnici, basta qui ricordare che quest’ultimo codice non è altro che un complesso di istruzioni, definite anche codice sorgente, che il sito rivolge al

browser, ossia al programma con cui è possibile navigare attraverso

le risorse della rete, mentre resta essenzialmente nascosto all’utente che procede nella navigazione. Così, attraverso la stesura di questo codice — che ovviamente segue una precisa sintassi utilizzata convenzionalmente in tutto il mondo — il creatore di un sito web può fornire al sistema tutte le indicazioni necessarie alla formattazione e all’impaginazione grafica dei contenuti presenti sul sito stesso, distribuiti fra le varie pagine di cui quel sito si compone .4

I meta-tag trovano la loro precipua collocazione all’interno di questi codici sorgente, tuttavia essi non rivestono alcuna funzione per quanto riguarda l’elaborazione grafica della pagina: i vari termini e le stringhe di testo in essi inclusi hanno piuttosto un carattere descrittivo, in grado di riassumere i contenuti e le informazioni che quella pagina riporta, in maniera tale da rendere la pagina stessa più facilmente individuabile e identificabile per un motore di ricerca. I

software con cui quest’ultimi procedono nell’indicizzazione dei siti

operano infatti una duplice lettura: da un lato rilevano quei contenuti che sono «evidenti», come le porzioni di testo di un documento

online, visualizzabili dalla generalità degli utenti nel momento in cui

si connettono al relativo sito; dall’altro, questi software sono in grado

HTML è l’acronimo di hypertext markup language, e costituisce appunto il

4

linguaggio software che permette all’utente di «saltare» da una pagina all’altra, sia all’interno dello stesso sito, che fra siti diversi: così si svolge quella che è volgarmente detta «navigazione», o net surfing, del «mare cibernetico». In questi termini, TOSI, Contraffazione di marchio e concorrenza sleale in Internet: dal

classico «domain grabbing» all’innovativo «key-word» marketing confusorio, in Riv. dir. ind., 2009, II, 397-398.

(4)

di leggere ed attribuire rilevanza anche alle cosiddette meta

informazioni, tra cui appunto i meta-tag inseriti all’interno dei codici

HTML.

Ciò accadeva specialmente in passato, quando i rudimentali algoritmi di lavoro dei sistemi di ricerca non erano ancora in grado 5 di considerare un alto numero di variabili e si limitavano perciò ad analizzare poche informazioni, tra cui appunto quelle parole o stringhe di testo che, all’interno del codici HTML potevano fungere da metadati. Quest’ultimi divenivano così uno degli strumenti principali per influire sull’indicizzazione dei risultati e rendere più facile l’individuazione ed il posizionamento ricevuto da determinato

link. Ciò consentiva ai creatori di siti web di conferire una maggior

visibilità alle relative pagine, senza alcuna necessità di sostenere alcun costo: per ottenere una priorità all’interno della pagina dei risultati era infatti sufficiente inserire nei vari tag il maggior numero di parole-chiave che corrispondessero ai termini digitati dagli utenti. Si comprende facilmente come questa possibilità si sia prestata ad essere ampiamente sfruttata, sino al punto che per ottenere un buon posizionamento dei propri collegamenti, la scelta delle parole-chiave e dei testi da inserire nei vari tag ricadeva spesso, per non dire sistematicamente, su dei termini senza alcuna attinenza con il contenuto delle pagine. La strategia normalmente seguita era infatti quella di utilizzare termini generici, legati agli argomenti di maggior interesse da parte della generalità degli utenti o, peggio ancora, di inserire come meta-tag delle denominazioni simili ai marchi altrui oppure già utilizzate dai propri concorrenti in funzione di segni distintivi.

Ad oggi questa prassi è stata in parte abbandonata, complice la progressiva raffinazione degli algoritmi dei motori di ricerca e l’introduzione di contromisure automatiche con cui i sistemi di ricerca

Detti anche crawler o spider. Cfr. SCORZA, Il diritto dei Consumatori e della

5

(5)

sono in grado di penalizzare gli autori di queste scorrettezze, peraltro sicuramente contrarie alla già menzionata netiquette.

Oltre ai meta-tag e alle varie strategie che consentono di ottimizzare il posizionamento dei propri siti, modificandone la struttura interna, una maggior visibilità per i propri collegamenti telematici può essere ottenuta anche semplicemente dietro il versamento di un corrispettivo. In generale infatti, tutte le moderne piattaforme di ricerca offrono un servizio che consente di evidenziare i propri link rispetto agli altri, facendoli comparire in una sezione a parte della pagina dei risultati, appositamente dedicata alle cosiddette «inserzioni sponsorizzate». Ciò avviene ovviamente dietro versamento una certa somma, il cui importo è calcolato secondo vari criteri, come il numero di click ricevuti, il numero di visualizzazioni, etc.. Per poter usufruire di questo posizionamento privilegiato, che normalmente si trova nella parte superiore dello schermo, ovvero a destra dell’elenco dei link che sono frutto dei cosiddetti “risultati naturali” della ricerca , occorre, nella maggior 6 parte dei casi, «acquistare» delle parole-chiave. Per dare l’opportunità di sfruttare la medesima parola a chiunque vi abbia interesse, spesso l’acquisto si effettua attraverso un’asta telematica. In questo modo, l’inserzionista aggiudicatario può far comparire uno o più collegamenti sponsorizzati che rinviano al proprio sito ogniqualvolta le parole acquistate coincidano con quelle effettivamente digitate dall’utente nella richiesta rivolta al motore di ricerca. Il software del motore farà infatti comparire in posizione di evidenza tali collegamenti, avvertendo l’utente che si tratta di inserzioni a pagamento o di

«

link sponsorizzati

»

. Peraltro, in alcuni

TOGO-MÜLLER, Responsabilità dell’inserzionista nell’ambito del keyword

6

advertising: quadro comunitario e nazionale, in Cassano-Scorza-Vaciago (a cura di), Diritto dell’internet. Manuale operativo. Casi, legislazione, giurisprudenza, 2013, Trento, 488.

(6)

servizi di posizionamento , più inserzionisti possono riservarsi una 7 medesima parola-chiave: l’ordine con cui vengono visualizzati i loro

link è determinato in tal caso da altri fattori, tra cui quelli che

vedremo subito infra, unitamente alla qualità dei rispettivi annunci, come valutata dal provider.

Questo servizio di sponsorizzazione è normalmente è conosciuto col nome di pay per click, in quanto il corrispettivo percepito dal fornitore, anziché essere fisso, è calcolato sia in funzione del prezzo massimo convenuto dall’acquirente al momento della conclusione del contratto, sia in funzione del numero di click ricevuti dal collegamento sponsorizzato da parte degli utenti della rete .8

Anche il funzionamento di questo sistema comporta il rischio che le parole-chiave acquistate non abbiano nulla a che vedere con i contenuti riportati sul sito e sulle sue pagine, così come quello, ben più grave, che esse coincidano con marchi, nomi o segni distintivi altrui, specialmente qualora siano legittimamente in uso presso soggetti concorrenti. Coloro che per primi hanno interesse a reprimere queste forme d’uso scorretto del sistema sono ovviamente gli stessi provider, i quali puntano a preservare l’efficienza del servizio di sponsorizzazione e, soprattutto, i criteri di meritevolezza su cui si fonda. Tant’è che gli episodi di abuso il più delle volte sono messi al bando nelle disclaimer emanate dal prestatore del servizio di inserzione, mentre per le relative controversie viene predisposto un procedimento di composizione stragiudiziale, da attivare con la segnalazione al gestore dei comportamenti contrari alle linee guida.

Come quello offerto dalla piattaforma Google, denominato AdWords. Cfr. Corte di

7

Giustizia Ue 22 settembre 2011, C-323/09, caso “Interflora”, in Giur. dir. ind., 2013, 1291.

Cfr. Corte di Giustizia Ue 22 settembre 2011, C-323/09, caso “Interflora”, in Giur.

8

dir. ind., 2013, 1291; TURINI, Link sponsorizzati e meta-tag, tra liceità e violazione di marchio, in Diritto dell’Internet, 2008, 305.

(7)

2. - Gli illeciti associati all’utilizzo scorretto dei

sistemi di ricerca.

La possibilità di prevenire e risolvere efficacemente in sede stragiudiziale gli episodi collegati all’utilizzo improprio delle parole-chiave, non toglie che queste pratiche siano connotate da un certo grado di responsabilità giuridica, i cui profili emergono sia guardando alla disciplina delle proprietà industriali, che a quella della leale concorrenza. Oltre a queste discipline, possono poi sussistere gli estremi per l’applicazione della normativa posta a tutela del consumatore e quella in materia di pubblicità

ingannevole , le cui disposizioni sono oggi contenute, 9

rispettivamente, nel Codice del Consumo e nel d. lgs. n. 145 del 2007 . In questo senso, in dottrina, non sono mancati autori che 10 hanno addirittura sollevato qualche dubbio circa la liceità dell’utilizzo dei meta-tag in generale, a prescindere dai termini in essi inclusi : 11 qualora infatti le informazioni e le pagine web connotate con le parole-chiave abbiano natura commerciale o promozionale, essi potrebbero qualificarsi come messaggi pubblicitari non riconoscibili o

In senso contrario, si veda ad esempio, SAMMARCO, Sulla funzione distintiva e

9

promozionale delle denominazioni protette inserite nei meta tags, in Dir. inform., 2002, 559 e ss., spec. 567.

Cfr. LISI-DIURISI, Web marketing e tutela del consumatore telematico, in Cassano

10

(a cura di), Commercio elettronico e tutela del consumatore, 2003, Milano 104. CASSANO, Diritto dell’internet. Il sistema di tutele della persona, 2005, Milano,

206-207; PEYRON, I metatags di Internet come nuovo mezzo di contraffazione del marchio e di pubblicità nascosta: un caso statunitense, in Giur. it., 1998, I, 739 ss.; TOSI, Contraffazione di marchio e concorrenza sleale in Internet: dal classico

«domain grabbing» all’innovativo «key-word» marketing confusorio, in Riv. dir. ind., 2009, II, 393. Secondo questi autori, i meta-tag rileverebbero sia sotto il profilo della concorrenza sleale — e della violazione del diritto di marchio altrui — sia sotto quello della pubblicità occulta: quest’ultima disciplina sarebbe infatti applicabile almeno nelle ipotesi in cui essi configurano dei messaggi pubblicitari inseriti in un contesto commerciale.

Vedi autori citati in nota precedente.

(8)

comunque non perfettamente distinguibili da altri contenuti ed informazioni di natura intellettuale o redazionale . Occorre 12 sottolineare, tuttavia, che un conto è parlare di pubblicità volutamente subliminale od occulta , altro è parlare di uno 13 strumento che pur potendo facilitare la diffusione di messaggi, anche commerciali, è fisiologicamente nascosto e non occultato ad arte .14

Inoltre, ove si ritenga condivisibile l’equiparazione ad una forma di comunicazione commerciale, la condotta consistente nell’inserimento di parole-chiave, ove attuata con modalità scorrette, può ben costituire anche una violazione delle disposizioni stabilite dalla cosiddetta Direttiva sul commercio elettronico, recepita nel nostro Paese con il d. lgs. n. 70 del 2003, che al suo art. 8 stabilisce degli obblighi informativi per “le comunicazioni commerciali che costituiscono un servizio della società dell’informazione o ne sono parte integrante”. Dunque, qualora la normativa appena richiamata si ritenesse applicabile alle fattispecie qui esaminate, all’imputabilità dell’autore materiale della condotta subentrerebbero le responsabilità che il decreto legislativo attribuisce, a vario titolo, alle numerose e controverse figure di Internet Service Provider.

In ottica puramente concorrenziale, così come sotto il profilo della tutela accordata al marchio non rinomato, le fattispecie

Al riguardo, all’art. 7 del Codice di autodisciplina della comunicazione

12

commerciale si stabilisce che qualora inserita nei mezzi e nelle forme di comunicazione d’altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti.

In questo senso, TOSI, Contraffazione di marchio e concorrenza sleale in Internet:

13

dal classico «domain grabbing» all’innovativo «key-word» marketing confusorio, in Riv. dir. ind., 2009, II, 393; FRANCIONE, La tutela giurisdizionale dell’utilizzo dei metatags di marchi registrati, in Giust. Civ., 2002, 2622 e ss..

In una delle prime ordinanze emesse in materia di impropria utilizzazione di

14

meta-tag si è esclusa l’assimilazione ad una forma di pubblicità occulta proprio per il motivo qui riportato: nel caso di specie ad essere occultato, ovvero reso non palese all’utente, “è solo il meccanismo tecnico della modalità di ricerca”, Trib. Milano 8 febbraio 2002, in Dir. inform., 2002, 557.

(9)

associate all’utilizzo improprio dei termini-chiave spesso si caratterizzano per l’assenza di un immediato riscontro dei loro effetti distorsivi da parte dell’utente. La situazione che si determina è infatti quella in cui il consumatore ne “subisce” tali effetti in modo del tutto inconsapevole: la parole-chiave infatti spesso restano del tutto invisibili agli occhi dei navigatori, i quali percepiscono esclusivamente l’effetto che esse determinano sull’indicizzazione dei risultati di una ricerca telematica. Ciò accade innanzitutto nel caso in cui siano codificate all’interno dell’HTML di una pagina: come si è già accennato supra, quest’ultimo rappresenta infatti un testo composto di caratteri alfanumerici, le cui informazioni sono destinate principalmente alla lettura svolta dai browser di navigazione o dai

software impiegati dai vari motori di ricerca: non a caso i meta-tag

sono spesso descritti come delle “etichette nascoste” ad uso esclusivo dei sistemi informatici .15

Analogamente, l’utilizzazione delle parole-chiave nei sistemi che gestiscono inserzioni sponsorizzate, tra cui il pay per click, talvolta non comporta alcuna modifica esteticamente apprezzabile del sito, della pagina web, o del link contenuto nell’inserzione pubblicitaria. L’unico elemento visivo percepibile, in tal caso, è costituito dall’avvertenza che alcuni link costituiscono degli annunci a pagamento: di quest’ultima circostanza l’utente è infatti messo effettivamente — non si dice efficacemente — al corrente tramite alcune diciture poste accanto ai vari collegamenti, e che ne specificano la natura di link sponsorizzati o di annunci a pagamento.

In entrambi i casi dunque, l’utente percepisce solamente il risultato finale, visualizzando una lista di collegamenti che è organizzata ed ordinata secondo criteri automatici, sui quali influisce

anche l’impiego di queste parole-chiave.

Così Trib. Roma 18 gennaio 2001, in AIDA, 2001, 628 e ss., con nota di

15

BOSSHARD; cfr. anche, TURINI, Link sponsorizzati e meta-tag, tra liceità e violazione

di marchio, in Diritto dell’Internet, 2008, 303; CASSANO, Diritto dell’internet. Il sistema di tutele della persona, 2005, Milano, 205.

(10)

3. - Le parole-chiave ed il rischio di confusione.

3.1. - Le tipologie di meta-tag.

Prima di occuparci delle soluzioni adottate in dottrina ed in giurisprudenza in merito ai casi di improprio utilizzo delle parole-chiave, merita dedicare un breve cenno ad alcune classificazioni tecniche dei meta-tag come strumenti informatici. Senza alcuna pretesa di offrire un quadro preciso e completo dei meccanismi di indicizzazione che si celano dietro alla pagina di risultati 16 comunemente fornita da qualunque motore di ricerca, la cui complessità va di pari passo con lo sviluppo e l’affinamento dei

software deputati all’analisi dei contenuti della rete, è bene

descrivere sommariamente le due principali categorie di meta-tag, la cui distinzione acquista una certa rilevanza non solo dal punto di vista informatico, ma soprattutto sotto il profilo giuridico.

I cosiddetti description metatag sono quelle meta informazioni che consentono al motore di ricerca di acquisire una descrizione della pagina web o del sito internet. Si tratta di una descrizione che viene predisposta dal titolare del sito, o comunque dal suo creatore. Spesso questa porzione di testo è destinata ad essere visualizzata dagli utenti nella pagina dei risultati, in una sorta di didascalia che compare accanto al singolo link ed offre all’utente qualche dettaglio circa i contenuti a cui quest’ultimo rimanda.

Ai nostri fini la caratteristica più interessante di questa categoria di meta-tag è che il loro contenuto non solo viene letto dal software di ricerca, ma è perfettamente visibile anche dai consumatori, una

Nel gergo tecnico questa pagina viene definita SERP, acronimo che sta per

16

Search Engine Report Page, letteralmente «pagina dei risultati del motore di ricerca».

(11)

volta effettuata l’interrogazione del motore e prima di accedere alle varie pagine indicizzate attraverso i rispettivi collegamenti.

L’altra categoria è rappresentata dai keyword meta-tag. Queste meta informazioni sono ad uso esclusivo dei motori di ricerca: una volta inserite nel codice sorgente di una pagina web, esse potranno infatti essere rilevate soltanto dagli algoritmi di indicizzazione. Così, questi marcatori non sono affatto affatto riprodotti nella schermata che si presenta all’utente. Ne deriva che solo per questa categoria di marcatori si può effettivamente parlare, come abbiamo detto supra, di etichette nascoste ad uso esclusivo dei sistemi informatici.

Nonostante le diverse fattispecie di cui fino ad oggi è stata chiamata ad occuparsi la giurisprudenza italiana, la distinzione tra le due categorie di meta-tag appena riportate non sembra ancora essere emersa: per alcuni autori ciò è sintomatico della difficoltà di rinvenire soluzioni appaganti nell’attuale quadro normativo . Un 17 problema al quale, come avremo modo di vedere infra, si può senz’altro aggiungere quello della complessità tecnica delle singole situazioni, che spesso richiedono al giudicante di esaminare compiutamente tutte le peculiarità presenti dal singolo caso, al fine di constatare la concreta ed effettiva presenza di elementi confusori od ingannevoli per il consumatore.

Si pensi all’utilizzo di un marchio altrui all’interno di un meta-tag. Se quest’ultimo appartiene alla categoria dei description il segno sarebbe agevolmente ed immediatamente percepibile dall’utente: specialmente nel caso in cui sia inserito all’interno del titolo della pagina, questo emergerà con una certa evidenza all’interno dell’elenco dei risultati. Basti pensare all’effetto prodotto da una condotta di questo tipo: qualunque utente si rivolga ad un motore di ricerca digitando nell’apposito campo un’espressione coincidente con il marchio in questione, si vedrebbe restituita una serie di

Cfr. SCORZA, Il diritto dei Consumatori e della Concorrenza in Internet, Padova,

17

(12)

risultati che include, oltre al titolo del sito ufficiale del titolare del marchio, o quello di un distributore autorizzato al suo utilizzo, anche il link al sito di un terzo — magari concorrente —, il cui titolo o la cui descrizione fanno chiaramente riferimento all’altrui marchio. In simili circostanze, anche la dottrina più risalente si è mostrata ferma nel constatare una chiara ipotesi di contraffazione, in quanto il segno distintivo che si assume contraffatto è agevolmente ed immediatamente percepibile dal consumatore, specialmente se il

meta-tag in cui è inserito determina il titolo della pagina a cui si

riferisce il link visualizzato dall’utente.

Si è così ritenuto che per dirimere le liti aventi oggetto queste fattispecie si potesse utilmente ricorrere alla disciplina posta a tutela del marchio, ed in particolare, a quelle disposizioni che mirano alla tutela della sua funzione distintiva o di indicazione dell’origine: compromettendo la possibilità che il pubblico sia in grado di riconoscere la provenienza imprenditoriale di prodotti o servizi offerti o pubblicizzati attraverso i siti web, queste modalità d’uso dei

description meta-tag si risolvono indubbiamente in un atto di

contraffazione .18

Quest’ultima conclusione risulta sicuramente condivisibile almeno nelle ipotesi in cui il terzo sfrutti un marchio altrui all’interno di quei particolari description meta-tag che incidono sui titoli del link riportati nella pagina dei risultati. I titoli dei collegamenti compaiono infatti con una certa evidenza all’interno dell’elenco dei risultati visualizzato dall’utente, tanto che sembra indubitabile che nei casi in cui quest’ultimo possa leggere un’espressione coincidente con il marchio altrui proprio nel “nome” che è attribuito a quel collegamento, questi incorra in un rischio di confusione riguardo al soggetto titolare di quel sito web, o comunque riguardo alla

MEANI, Possibili tutele contro l’uso distorto di termini corrispondenti a marchi altrui

18

(13)

provenienza imprenditoriale dei prodotti e i servizi che sono offerti attraverso quella vetrina telematica.

Altra cosa è invece valutare la confusorietà dell’uso di un termine riproducente il marchio altrui quando quest’ultimo, pur essendo immediatamente percepibile dall’utente, compare all’interno della descrizione sintetica che la pagina dei risultati spesso permette di visualizzare accanto a ciascun link. In questo caso il rischio di confusione non può essere assunto a priori ed in modo assoluto: come è stato rilevato, in tal caso la liceità o l’illiceità dell’uso del marchio altrui dipende inesorabilmente dallo specifico contenuto riassuntivo del description meta-tag, dalle eventuali logiche commerciali a cui risponde la descrizione del link e, soprattutto, dal tipologia del sito in questione . 19

Come avremo modo di vedere infra, sembra peraltro muoversi in tal senso anche la giurisprudenza più recente, su impulso della Corte di Giustizia dell’Ue. A differenza dei provvedimenti più risalenti, le ultime decisioni emesse in materia di utilizzazione di parole-chiave all’interno dei servizi di sponsorizzazione di link, sembrano infatti mostrare un qualche margine di tolleranza nel valutare l’impiego di termini coincidenti con marchio altrui, finanche quando tra le parti coinvolte venga accertata la sussistenza di un rapporto concorrenziale.

3.2. - (Segue) L’utilizzazione impropria dei meta-tag.

Ora, quanto appena detto presenta qualche implicazione nella qualificazione giuridica all’interno di una delle tre tipologie di atti descritti dall’art. 2598 c.c., nonché sotto il profilo della contraffazione: talvolta l’utilizzo illegittimo delle parole-chiave non si manifesta in alcun modo agli occhi degli utenti, escludendo in radice

Cfr. SCORZA, Il diritto dei Consumatori e della Concorrenza in Internet, Padova,

19

(14)

la possibilità che su questi termini possa vertere il cosiddetto

giudizio di sintesi del consumatore di media avvedutezza, ossia

quell’esame globale e non analitico che dottrina e giurisprudenza prevalenti assumono, ormai da tempo, come parametro della confondibilità . 20

Ciò detto, anche in dottrina si è sottolineato come pur non essendo direttamente percepibile, la procedura e l’articolazione che si celano dietro al risultato informativo offerto dal motore di ricerca non sono del tutto sconosciute all’utente, che spesso non è completamente all’oscuro delle funzioni attrattive e di richiamo che sono in grado di esplicare le parole-chiave nei confronti dei sistemi di ricerca. Ed anzi, con precipuo riferimento ai termini inseriti come

meta-tag all’interno dei codici HTML delle pagine web, a ben vedere,

non si può neanche affermare che essi siano del tutto invisibili: qualsiasi browser di navigazione dispone infatti di una funzione che consente all’utente di visualizzare l’intero complesso di istruzioni di programmazione contenute nei codici sorgente, comprese le stringhe di testo che contengono i meta-tag e le denominazioni in essi riportate. Teoricamente, quindi, è sempre possibile individuare le parole che, di volta in volta, richiamano l’attenzione del software di ricerca . In dottrina si è peraltro ritenuto che queste circostanze 21 denotino una percezione incompleta o una non immediata visibilità

In materia di concorrenza sleale, per il giudizio di sintesi utile a ravvisare

20

un’ipotesi di imitazione servile, e quindi, di confondibilità tra prodotti, si veda, Cass. 21 novembre 1998, n. 11795, in Riv. Dir. Ind., 2000, II, 95; per la valutazione non analitica e non globale sull’aspetto dei segni distintivi, al fine di stabilirne la confondibilità, si veda invece, App. Milano 14 maggio 2004, in Foro It., 2004, I, 2491.

Cfr. SAMMARCO, Sulla funzione distintiva e promozionale delle denominazioni

21

(15)

di questi “marcatori” : ciò sarebbe quindi sufficiente ad escludere 22 l’assimilazione ad una forma di pubblicità ingannevole .23

Invero, sembra innegabile che per acquisire le informazioni appena richiamate occorrerebbe adoperarsi con un’indagine molto più approfondita rispetto all’esame sintetico compiuto, a prima vista, dal consumatore medio. Si tratterebbe, inoltre, di un’indagine piuttosto difficoltosa per un utente di media esperienza: nella quasi totalità dei casi l’attenzione degli internauti è rivolta al contenuto testuale e multimediale delle pagine o dei siti, e non a ciò che si cela dietro questi contenuti. In mancanza di un tale riscontro, sembra dunque da escludere l’esistenza del tipico fraintendimento su cui si fonda il concetto di confondibilità, ossia l’erronea attribuzione di qualcosa a qualcun altro a causa dalla presenza di un elemento ingannevole: nessun atto confusorio ai sensi del n. 1 dell’art. 2598 può dunque dirsi integrato, neanche con riguardo alla clausola finale che menziona gli “altri mezzi idonei a creare confusione”. Stesso vale per i cosiddetti atti confusori atipici, richiamati dall’ultima disposizione citata con la locuzione di “qualsiasi altro mezzo idoneo a creare confusione con i prodotti e l’attività di un concorrente”: in mancanza di elementi che siano concretamente percepibili ed almeno potenzialmente idonei a trarre in inganno il consumatore, appare impossibile dedurre la presenza di quel caratteristico errore sull’origine che da questi elementi, di fatto, dipende, configurandosi come una sorta di posterius logico.

Di diverso avviso una parte della dottrina che si è occupata del tema, evidenziando come sia del tutto irrilevante che a cadere confusione non sia l’utente o il consumatore, ma bensì il software

Termine usato, anche in giurisprudenza, come sinonimo di meta-tag. Trib.

22

Palermo 7 giugno 2013, in Giur. comm., 2015, 1, 179.

Cfr. SAMMARCO, Sulla funzione distintiva e promozionale delle denominazioni

23

protette inserite nei meta tags, in Dir. inform., 2002, 567. In senso contrario, cfr. FRANCIONE, La tutela giurisdizionale dell’utilizzo dei metatags di marchi registrati, in Giust. Civ., 2002, 2622 e ss..

(16)

che restituisce l’elenco di risultati: di fatto, il computer andrebbe considerato solamente come un mezzo attraverso il quale l’illecito si determina . 24

Parimenti, in altri contesti è stato sostenuto che i meta-tag, pur essendo invisibili, svolgono comunque una funzione identificativa a livello interno: una funzione che, seppur indirettamente, è idonea ad influenzare le scelte del consumatore . L’orientamento qui 25 considerato suggerisce dunque l’idea che il meta-tag possa qualificarsi come un segno distintivo atipico . Ne consegue che 26 sotto il profilo della contraffazione, nonostante l’assenza dei presupposti che consentono di parlare propriamente di violazione della privativa altrui, la funzione appena detta giungerebbe ad esteriorizzarsi nel momento in cui l’utente effettua la ricerca, assumendo quindi i contorni del cosiddetto invisible trademark

infringement, ossia quel valore lesivo dell’esclusiva sul marchio che

nel nostro ordinamento forma oggetto di divieto ex art. 21/2 c.p.i.. Per questa via, l’Autore citato conclude affermando che nel caso in cui un meta-tag sia identico o simile ad un marchio registrato, il suo utilizzo rileverebbe senz’altro come atto di contraffazione, mentre per quanto riguarda la disciplina della concorrenza, la condotta sarebbe potenzialmente riconducibile ad una qualunque delle

PEYRON, I metatags di Internet come nuovo mezzo di contraffazione del marchio

24

e di pubblicità nascosta: un caso statunitense, in Giur. it., 1998, I, 739 ss.; sembra di questo avviso anche FRANCIONE, La tutela giurisdizionale dell’utilizzo dei

metatags di marchi registrati, in Giust. Civ., 2002, 2622 e ss.

TOSI, Contraffazione di marchio e concorrenza sleale in Internet: dal classico

25

«domain grabbing» all’innovativo «key-word» marketing confusorio, in Riv. dir. ind., 2009, II, 397-398.

In senso contrario si veda invece SCORZA, Il diritto dei Consumatori e della

26

Concorrenza in Internet, Padova, 2006, 195, secondo cui l’inserimento di un meta-tag all’interno del codice sorgente di una pagina web che reca un’espressione corrispondente ad un marchio altrui, non è idoneo a svolgere alcuna funzione distintiva dei prodotti e servizi eventualmente commercializzati all’interno del sito internet in questione.

(17)

fattispecie legali descritte dall’art. 2598 c.c., i cui requisiti andrebbero perciò valutati caso per caso .27

Aderendo a queste tesi dunque, si potrebbe prospettare un doppio titolo di responsabilità in capo a chi agisce scorrettamente attraverso l’impiego di meta-tag: egli si esporrebbe infatti al cumulo di azioni da parte dei soggetti lesi, legittimati ad agire nei suoi confronti sia in base alla normativa concorrenziale, che in base a quella sul marchio, ovviamente purché il segno contraffatto si fondi su un titolo conferito dalla registrazione . Ciò conferma quanto si è 28 già visto supra a proposito della confondibilità: le due discipline, concorrenziale e contraffattoria, sembrano infatti condividere il medesimo concetto e la medesima estensione del rischio di confusione, a fronte del quale non dovrebbe sussistere alcun ostacolo nell’adottare gli stessi criteri di valutazione del pericolo in questione . Trova poi conferma quanto si è detto circa l’attitudine 29 dannosa della confondibilità, che oltre che consistere nel possibile sviamento di clientela, può ben sostanziarsi anche in quello di utenza.

Anche coloro che parlano di utilizzo confusorio di meta-tag, mostrano di ritenere che il rischio di confusione sollevato in queste fattispecie è da intendersi in senso lato: visualizzando un certo indirizzo tra i risultati forniti da un motore di ricerca — ma non sembra esservi differenza, lo si ripete, se la piattaforma digitale su

TOSI, Contraffazione di marchio e concorrenza sleale in Internet: dal classico

27

«domain grabbing» all’innovativo «key-word» marketing confusorio, in Riv. dir. ind., 2009, II.

VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., 49; cfr. anche AULETTA-MANGINI , in Commentario

28

del codice civile, 1977, Bologna, 115, secondo cui il diritto di marchio e il diritto ad una leale concorrenza avrebbero medesimo contenuto e costituirebbero quindi un solo diritto. Unica sarebbe allora l’azione posta a tutela di tale diritto, seppur identificata con i due nomi di “azione di contraffazione” e “azione di concorrenza sleale”.

Ciò trova conferma anche in quella parte di dottrina che si è occupata di

meta-29

(18)

cui viene effettuata la ricerca online con una digitazione per caratteri è di tutt’altro genere, e così pure se i risultati che essa restituisce non sono propriamente degli indirizzi telematici, bensì risorse di altro tipo — l’utente è indotto ad ipotizzare un qualche legame tra il link visualizzato e le parole digitate. Un legame che sotto il profilo della confondibilità acquisterebbe rilevanza nel caso in cui ad essere messe in correlazione siano delle denominazioni imprenditoriali: si verificherebbe così la possibilità che l’utente associ mentalmente dei segni, oppure che ipotizzi erroneamente dei collegamenti tra imprese. Il che è esattamente quanto evocato dalle due clausole finali dell’art. 20/1 lett. a c.p.i. . 30

Tuttavia, è bene notare che, nonostante queste circostanze possano comportare un’alterazione del processo decisionale del consumatore, o comunque uno sviamento di utenza, esse non si determinano a causa della comparazione mentale tra due segni che presentano qualche similitudine. L’unica somiglianza di rilievo, nelle fattispecie in esame, è infatti quella con la parola-chiave inserita, che talvolta resta del tutto nascosta agli occhi dell’utente, come nel caso del keyword meta-tag.

Ecco perché non risulta molto convincente il tentativo di riconoscere in queste peculiari fattispecie, considerate sia dal lato dell’utente navigatore, che da quello dell’attività informatica da cui esse traggono origine, una confondibilità in senso giuridico:

Come ha avuto modo di affermare, a più riprese, la giurisprudenza comunitaria,

30

le locuzioni “rischio di confusione” e “rischio di associazione tra due segni” devono essere ritenute quasi sinonimiche: in particolare, il rischio di associazione costituisce una specificazione delle ipotesi confusorie, e non può comprendere forme di agganciamento che vanno oltre tale rischio. Solitamente è quindi disattesa la tesi di un’associazione non confusoria. Emerge così la volontà di mantenere ben netta la distinzione fra la sfera di tutela propria dei marchi semplici e quella cosiddetta “allargata” che vige per i segni che godono di notorietà. Cfr. Corte di Giustizia Ce 11 novembre 1997, C-251/95, caso “Sabel”; Corte di Giustizia Ce 22 giugno 2000, C-425/98, caso “Marca Mode c. Adidas”. In dottrina, cfr. RICOLFI, in

AA.VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, 2009, Torino, 122; VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., 246-247.

(19)

comunque intesa, anche in senso lato, essa presuppone pur sempre un raffronto tra un segno somigliante da parte del consumatore. Una comparazione che all’utente, in queste peculiari circostanze, resta di fatto preclusa.

3.3. - (Segue) Gli orientamenti giurisprudenziali in

materia di meta-tag.

I dubbi finora espressi trovano conferma nel percorso interpretativo prevalentemente seguito dai tribunali italiani nel dirimere le controversie in materia di utilizzazione impropria di

meta-tag e, più in generale, di altre parole-chiave oggetto di rilevazione da

parte dei sistemi di ricerca. Finanche nel primo provvedimento giurisdizionale italiano emesso in materia di meta-tag si rileva infatti che, nonostante l’uso scorretto consenta di portare a conoscenza degli utenti l’esistenza offerte di prodotti o servizi analoghi o comparabili a quelle dei concorrenti, influenzando così le scelte d’acquisto dei consumatori, tale pratica non solleva un rischio confusorio, risolvendosi piuttosto in un agganciamento parassitario agli sforzi imprenditoriali profusi da un concorrente per guadagnarsi un certo posizionamento all’interno della lista dei risultati.

L’unica censura possibile viene tratta quindi dalla disciplina codicistica della concorrenza: come evidenziato da un’ordinanza del Tribunale di Roma, emessa in materia di improprio utilizzo del marchio di un concorrente in funzione di meta-tag, l’ordinamento esige che nella lotta tra concorrenti per l’acquisizione di posizioni di mercato più favorevoli, ciascun imprenditore si avvalga dei mezzi suoi propri, senza trarre vantaggio dall’agganciamento parassitario ai mezzi impiegati da altri . Stando ai giudici capitolini la condotta 31 esaminata dovrebbe qualificarsi come un illecito concorrenziale ai

Cfr. Trib. di Roma 18 gennaio 2001, in Riv. dir. ind., 2002, II, 190.

(20)

sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c., nella misura in cui, se anche non è in grado di generare un rischio di confusione, denota comunque una forma di parassitarismo verso le iniziative imprenditoriali altrui, specialmente quelle di carattere pubblicitario. Risulterebbe dunque perfezionata quella fattispecie che in dottrina si è soliti definire come “imitazione non confusoria” .32

All’esito di queste considerazioni il Tribunale di Roma, con ordinanza ex art. 700 c.p.c., ha quindi accolto le esigenze cautelari della ricorrente, emettendo un provvedimento in cui, per la prima volta nel nostro Paese, è stata ordinata la rimozione di tutti meta-tag contenenti il riferimento all’attività dell’istante. La resistente ha così dovuto provvedere all’eliminazione di tutte le parole-chiave coincidenti con il segno altrui, e ciò non solo per quanto riguarda l’indirizzo web specificamente contestato dalla controparte, ma anche per tutte le altre pagine site presso gli indirizzi telematici afferenti al suo dominio web . 33

In una decisione di poco successiva del foro di Milano, il tema della confondibilità è stato affrontato in termini ancor più espliciti: i giudici hanno infatti escluso che l’utilizzo di meta-tag riproducenti il marchio altrui possa configurarsi come un atto di contraffazione, sul presupposto che tale impiego del segno non assume alcuna funzione distintiva, non risultando esso apposto su alcun prodotto o servizio . Ciò troverebbe giustificazione nel fatto che l’utente, nel 34 momento in cui avvia una ricerca telematica imperniata su tale termine, non riscontra visivamente il segno sul sito della società concorrente: ne deriva che, in mancanza di questo riscontro, egli non può in alcun modo rendersi conto dell’utilizzo — indebito o

VANZETTI-DI CATALDO, op. cit., 122-123; FLORIDIA, in AA.VV., Diritto industriale.

32

Proprietà intellettuale e concorrenza, 2009, Torino, 348-349. Trib. di Roma 18 gennaio 2001, in Riv. dir. ind., 2002, II, 190.

33

Tale prospettiva suscita consensi anche in dottrina. Cfr. SCORZA, Il diritto dei

34

(21)

meno — del marchio altrui. Solo dalla percezione dell’uso del segno potrebbe eventualmente conseguire un rischio di confusione . 35 Dunque, l’inserimento di un’espressione coperta da un diritto di marchio all’interno di un meta-tag non potrebbe mai integrare una violazione della privativa neanche sotto il profilo dell’uso del segno altrui con funzione pubblicitaria, fattispecie a cui fa riferimento oggi l’art. 20/2 c.p.i.: soltanto il sito web di un’azienda potrebbe infatti considerarsi come un messaggio pubblicitario rivolto al pubblico. Viceversa il meta-tag non incide in alcun modo sulla correttezza di quel messaggio promozionale, non potendo neppure essere equiparato ad una forma di pubblicità occulta . 36

Su quest’ultimo punto sembrano condivisibili le argomentazioni con cui, una parte della dottrina, esclude le metainformazioni dal generale concetto di comunicazione commerciale: se da un lato è indubitabile che alcuni meta-tag esplicano i loro effetti in modo occulto, rimanendo celati agli occhi del pubblico degli internauti, non si può dire che essi trasmettano un qualsivoglia contenuto informativo circa le qualità e le caratteristiche di un bene, in modo tale da incidere sulle scelte commerciali e promuovere l’acquisto di un certo prodotto o servizio da parte del consumatore . 37

Trib. Milano 8 febbraio 2002, in Riv. dir. ind., 2002, II, 368.

35

Cfr. Trib. Milano 8 febbraio 2002, in Riv. dir. ind., 2002, II, 368-369. In senso

36

contrario si veda FRANCIONE, La tutela giurisdizionale dell’utilizzo dei metatags di

marchi registrati, in Giust. Civ., 2002, 2622 e ss., che ritiene possibile considerare i meta-tag alla stregua di messaggi pubblicitari: venendo divulgati attraverso la rete infatti, quest’ultimi sarebbero potenzialmente idonei a fruttare un consistente numero di contatti di un determinato sito da parte degli utenti che navigano in rete. Nessun rilievo andrebbe dunque attribuito alla circostanza che non sono percepiti direttamente dall’utente: ciò accade anche per quei messaggi c.d. subliminali, i quali, pur non essendo né direttamente percepibili, né identificabili all’interno del flusso di informazioni a cui sono costantemente esposti gli esseri umani, formano comunque oggetto di divieto all’interno del nostro ordinamento, specialmente ai sensi della normativa in materia di pubblicità.

SCORZA, Il diritto dei Consumatori e della Concorrenza in Internet, Padova, 2006,

37

(22)

Nelle motivazioni dell’ordinanza appena richiamata, il giudice milanese pone al centro dell’attenzione l’effetto che l’impiego del

meta-tag produce sull’indicizzazione dei risultati restituiti all’utente

dal motore di ricerca. L’inserimento dei termini contestati all’interno del codice sorgente delle pagine dei siti web realizza quello che viene definito come “un costante abbinamento dei collegamenti della resistente e quelli della ricorrente”: abbinamento che viene ritenuto capace di indurre una parte degli utenti — e segnatamente, quelli verosimilmente interessati ad entrare in contatto con la società ricorrente — ad ipotizzare l’esistenza di un qualche collegamento tra le due società . Inoltre, in ragione di questo costante 38 accoppiamento dei siti delle due società, la condotta della convenuta viene altresì ritenuta idonea a distogliere alcuni utenti dall’oggetto principale della loro ricerca: ciò che, nell’ordinanza qui richiamata, sembra configurare un fatto lesivo dei diritti della ricorrente anche nel caso in cui non si determini propriamente un pericolo di confusione o un rischio di associazione tra le due attività.

Anche a livello terminologico, queste affermazioni sembrano essere debitrici delle ricostruzioni solitamente operate in dottrina ed in giurisprudenza in materia di marchi e contraffazione: si parla di “interferenza costante e ripetuta”, agganciamento alla notorietà altrui e, soprattutto, di un “rischio di collegamento”, assimilabile a quanto evocato dal “rischio di associazione fra segni” ex art. 20/1 lett. b. Nonostante ciò, in questo provvedimento vengono parzialmente disattese le istanze di parte ricorrente, che aveva dedotto un vero e proprio atto di contraffazione nei confronti del proprio marchio. Viceversa, esclusa anche la riconducibilità ad una forma di

Cfr. in questo senso anche Trib. Bologna 11 giugno 2012, in Giur. dir. ind., 2012,

38

I, 909, secondo cui il rischio di associazione si determina a causa del peculiare funzionamento della rete: secondo i giudici felsinei tale meccanismo è infatti potenzialmente idoneo ad influenzare la scelta del consumatore. Più specificamente, l’atto di contraffazione sarebbe realizzato a causa dell’uso pubblicitario del segno altrui.

(23)

pubblicità occulta, l’ordinanza individua l’unica censura possibile all’interno della disciplina codicistica della concorrenza, e segnatamente, nella norma di chiusura espressa dall’art. 2598 n. 3 .39

Pur senza pronunciarsi espressamente sulla potenzialità confusoria, sembra porsi in linea di continuità con il provvedimento appena richiamato anche una decisione più recente, resa nello stesso foro. Ancora una volta, il Tribunale di Milano evidenzia la scorrettezza professionale insita nell’utilizzo del marchio e delle denominazioni di un concorrente all’interno dei propri meta-tag. Tale comportamento viene infatti ritenuto idoneo a generare un “costante ed indebito abbinamento nei risultati” restituiti dai motori di ricerca all’utente, almeno nei casi in cui quest’ultimo proceda alla digitazione di quelle esatte parole che costituiscono la parte terminologica del segno sfruttato . Viene dunque respinta, anche in 40 questo caso, l’ipotesi di contraffazione dedotta dalla società attrice: l’utilizzo scorretto dei meta-tag è qualificato ancora una volta come illecito concorrenziale, imputabile sotto il profilo dell’art. 2598 n. 3 c.c. . Al meta-tag è stata così negata ancora una volta quella 41 capacità distintiva di prodotti e servizi che è propria del marchio: funzione che se riconosciuta sarebbe sicuramente idonea ad entrare in conflitto con la privativa vantata dal titolare del segno .42

Trib. Milano 8 febbraio 2002, in Riv. dir. ind., 2002, II, 369.

39

Trib. Milano 20 febbraio 2009, in Riv. dir. ind., 2009, II, 375 e 382. La

40

qualificazione adottata dal collegio giudicante si inserisce in una valutazione comprendente anche una fattispecie di illecita registrazione ed utilizzo di un nome a dominio, attività che invece è stata espressamente considerata come atto di contraffazione.

Trib. Milano 20 febbraio 2009, in Riv. dir. ind., 2009, II, 375 e 382.

41

Così si è espressa anche la Corte di Giustizia dell’Ue, le cui affermazioni si

42

riferiscono ad un caso comparabile a quello dei meta-tag: quello in cui le parole-chiave vengono utilizzate nell’ambito di un servizio di sponsorizzazione. Cfr. Corte di Giustizia Ue 23 marzo 2010, C-236/08, caso “AdWords”, spec. al par. 81.

(24)

Queste conclusioni del Tribunale di Milano, peraltro, non sembrano aver convinto pienamente alcuni autori, inclini piuttosto a riconoscere nelle fattispecie oggetto di giudizio un vero e proprio rischio di confusione in grado di fondare una responsabilità per contraffazione del marchio altrui . Conclusione a cui si perviene 43 sottolineando, peraltro, come spesso siano gli stessi giudici a ravvisare l’esistenza di “un’interferenza ripetuta e costante” con le attività imprenditoriali altrui, a causa dell’utilizzo improprio dei termini-chiave .44

In chiusura di questo paragrafo, merita segnalare un ulteriore provvedimento del foro di Milano, di recentissima emanazione. Con questa decisione i giudici lombardi hanno ritenuto applicabili ai

meta-tag — usati per ottenere maggior visibilità all’interno dei motori

di ricerca, ovvero sfruttati all’interno di altre piattaforme telematiche, come nel caso dei social networks — i medesimi principi elaborati dalla giurisprudenza comunitaria in materia di parole-chiave utilizzate nell’ambito di un servizio di sponsorizzazione, che avremo modo di analizzare nei paragrafi successivi .45

Nel caso di specie risultavano coinvolti una serie di marchi rinomati, la cui riproduzione da parte della convenuta non si limitava al nome a dominio prescelto per il proprio sito web o alle etichette apposte su i propri prodotti: tale denominazione veniva infatti sfruttata come parola-chiave all’interno del codice sorgente delle pagine web di pertinenza della resistente. Considerati i riflessi di quest’attività per il pubblico della rete e respinta ogni istanza di carattere pro-concorrenziale, il Tribunale di Milano ha riconosciuto e

TOSI, Contraffazione di marchio e concorrenza sleale in Internet: dal classico

43

«domain grabbing» all’innovativo «key-word» marketing confusorio, in Riv. dir. ind., 2009, II, 396-397.

Trib. Milano 8 febbraio 2002, in Riv. dir. ind., 2002, II, 352.

44

Trib. Milano 9 novembre 2017, RG n. 76328/2014, reperibile sul sito www.ilcaso.it

45

(25)

censurato il comportamento come un’ipotesi di contraffazione del marchio altrui. Secondo i giudici lombardi, l’utilizzo delle parole-chiave incriminate non solo configura una forma di sfruttamento parassitario della rinomanza dei marchi celebri riprodotti, ma è altresì idoneo ad avvalorare nel consumatore-utente l’idea dell’esistenza di collegamenti commerciali tra le imprese coinvolte: circostanza che, com’è noto, nell’attuale sistema dei marchi è oggetto di censura a prescindere dalla presenza del carattere di rinomanza. Sembrerebbe dunque di poter concludere che, a prescindere dalla notorietà di cui gode il segno, il suo indebito impiego da parte di un terzo non autorizzato, sotto forma di

meta-tag, costituisce fonte di pregiudizio per le funzioni riconosciute al

marchio, come quella di garanzia della qualità dei prodotti, quella d’indicazione dell’origine o quelle di investimento, di comunicazione o pubblicità, richiamate anche nell’ordinanza qui esaminata: di conseguenza, la parola-chiave coincidente ne costituisce una contraffazione.

Così, benché nel caso di specie l’attività della società resistente si riferisse a dei marchi rinomati, il principio che pare emergere dalle conclusioni del provvedimento milanese sembra essere quello per cui un meta-tag è suscettibile di dar luogo ad un pericolo di confusione qualunque sia marchio che esso riproduce, notorio o meno: rischio al quale consegue inevitabilmente una responsabilità a titolo di contraffazione nei confronti del titolare della privativa.

Queste affermazioni rivestono una certa importanza dal punto di vista sistematico: a ben vedere, ammettere la presenza di un rischio di confusione per mezzo dell’impiego di un meta-tag simile al marchio altrui, ha come corollario l’implicito riconoscimento di una capacità distintiva a questi «marcatori nascosti». Invero, nell’ampio dibattito dottrinale sviluppatosi sul tema della tutela dei segni distintivi nella realtà delle reti telematiche, non mancano autori propensi a ricondurre i meta-tag — e le altre parole-chiave utilmente

(26)

impiegate nelle piattaforme telematiche di ricerca — alla categoria degli “altr[i] segn[i

]

distintiv[i]” menzionata dall’art. 22 c.p.i. .46

3.4. - Le inserzioni sponsorizzate.

Sul versante dei sistemi di pay per click e dei link promossi attraverso le parole-chiave, la giurisprudenza italiana conta diversi precedenti in cui è stata esaminata l’utilizzazione di termini coincidenti con il marchio altrui nell’ambito del servizio di sponsorizzazione prestato da un noto motore di ricerca . Diverse 47 decisioni hanno ritenuto che questa forma di utilizzo del marchio altrui fosse idonea a generare un rischio di confusione, un pericolo che generalmente viene riconosciuto nei casi in cui il marchio contraddistingua prodotti e servizi affini a quelli proposti dall’inserzionista nel suo messaggio pubblicitario.

In uno dei provvedimenti emessi in materia dal Tribunale di Milano , si afferma ad esempio che la parola-chiave adottata 48 dall’inserzionista, coincidente con il marchio altrui, è idonea a contraddistinguere i servizi così promossi, similmente a quanto abbiamo rilevato in precedenza per i meta-tag. Nel caso di specie, facendo click sul termine contestato gli utenti non venivano infatti reindirizzati sul sito web dell’azienda titolare del marchio, bensì su quello di un altro soggetto: circostanza che è stata assunta come pacificamente idonea a realizzare un rischio di confusione o di

INTROVIGINE, in Bottero (a cura di), La riforma del codice della proprietà

46

industriale. Commentario alle modifiche al codice della proprietà industriale apportate dal decreto legislativo 13 agosto 2010, n.131, 2011, Milano, 56.

Si trattava perlopiù del servizio denominato AdWords, un servizio di

47

sponsorizzazione di link che tutt’ora viene erogato dalla compagnia Google Ireland Ltd.

Trib. Milano 11 marzo 2009, in Riv. dir. ind., 2009, II, 376 e ss..

(27)

associazione per il pubblico ; un rischio a cui consegue 49 inevitabilmente il pericolo di sviamento di clientela.

Investito del merito della questione, il Tribunale di Milano ha qualificato tale utilizzo della parola-chiave come illecito concorrenziale e come violazione della privativa sul marchio . 50 Occorre precisare qui alcune peculiarità che caratterizzavano il caso di specie: nelle motivazioni della sentenza si fa riferimento alla possibilità di “cliccare sulla parola-chiave” da parte degli utenti. Ciò presuppone evidentemente una situazione in cui la generalità degli utenti è nelle condizioni di percepire visivamente un elemento ingannevole, che per di più si manifesta proprio all’interno delle inserzioni sponsorizzate di un concorrente: sembra dunque corretto evidenziare la sussistenza di un fenomeno confusorio propriamente detto.

Ancor più nette appaiono le affermazioni contenute in una pronuncia successiva, resa nello stesso foro : il giudice meneghino, 51 chiamato a pronunciarsi sull’istanza cautelare presentata da una società titolare di un marchio registrato per prodotti affini a quelli pubblicizzati dalla convenuta attraverso le sue inserzioni online, ha ritenuto che l’utilizzo di parole-chiave riproducenti il segno nell’ambito di un servizio di sponsorizzazione di link, costituisca illecito contraffattorio. In tal caso infatti si assisterebbe ad un uso del segno altrui in funzione distintiva, suscettibile di far sorgere un rischio di confusione sul mercato circa la provenienza dei servizi contraddistinti. Il marchio in questione non godeva peraltro di alcuna rinomanza.

Si noti che nel motivare le affermazioni appena riportate, la pronuncia citata fa riferimento all’art. 21/2 c.p.i., disposizione che,

In quest’ultimo senso, si veda Trib. Bologna 11 giugno 2012, in Giur. dir. ind.,

49

2012, I, 909.

Trib. Milano 11 marzo 2009, in Riv. dir. ind., 2009, II, 376 e ss..

50

Trib. Milano 23 aprile 2013, RG n. 18334/2015, reperibile sul sito www.ilcaso.it.

(28)

come è noto, è espressamente rivolta a porre dei limiti nell’utilizzo del marchio in capo al titolare della privativa sul segno: il percorso interpretativo seguito dal Tribunale di Milano sembrerebbe dunque quello di un’applicazione in via analogica del relativo disposto . 52

Sotto il profilo concorrenziale, in quest’ultima decisione si rileva invece un effetto di indebito agganciamento dei siti della convenuta a quelli della ricorrente. Peraltro, nel caso di specie, attraverso i siti

web delle società coinvolte venivano offerti servizi identici.

Sul medesimo servizio di sponsorizzazione ha avuto modo di pronunciarsi, a più riprese, anche la Corte di Giustizia Ue, sempre in sede di rinvio pregiudiziale. Tra le varie tematiche affrontate nelle decisioni dei giudici di Lussemburgo, in questo paragrafo interessa rilevare quanto statuito riguardo alla confondibilità prodotta dall’impiego di un marchio altrui come parola-chiave.

Per quanto riguarda l’uso illecito del marchio altrui, il percorso interpretativo ormai consolidato nella giurisprudenza europea è quello di esaminare il rischio di confusione nell’ambito del terzo presupposto della contraffazione, stabilito dalla normativa europea sui marchi: ossia quello dell’ “idoneità [dell’uso] a pregiudicare le funzioni del marchio” . Nell’analizzare i casi ad essa sottoposti, la 53 Corte è solita richiamare le diverse funzioni del marchio che tendono a garantire e tutelare il diritto esclusivo riconosciuto al suo titolare. Al di là delle funzioni di comunicazione e di investimento, le due funzioni del marchio suscettibili di ricevere pregiudizio attraverso un improprio utilizzo di parole-chiave, coincidenti con il segno altrui, sono individuate dalla Corte nell’indicazione dell’origine del prodotto e nella funzione pubblicitaria . 54

Trib. Milano 23 aprile 2013, RG n. 18334/2015, reperibile sul sito www.ilcaso.it.

52

Gli altri due presupposti sono invece quelli dell “uso nel commercio” e dell’ “uso

53

per prodotti e servizi” del marchio altrui. Cfr. Corte di Giustizia Ue 11 settembre 2007, C-17/06, caso “Céline”, spec. al par. 49.

Corte di Giustizia Ue 23 marzo 2010, C-236/08, caso “AdWords”, spec. al par. 81.

(29)

Essendo visualizzato accanto alla parola-chiave che ne promuove la visibilità all’interno del servizio di sponsorizzazione, l’annuncio pubblicitario è capace avvalorare nella mente del consumatore l’idea che esista un collegamento tra i prodotti o i servizi dell’inserzionista e quelli del titolare del marchio . Inoltre, 55 secondo la Corte, talvolta accade che per come è presentata, l’inserzione è talmente vaga riguardo all’origine dei prodotti o dei servizi che anche un utente ragionevolmente attento e mediamente informato non è in grado di stabilire se l’inserzionista sia un soggetto terzo rispetto al titolare del marchio o se invece i due operatori siano economicamente collegati . E’ evidente qui il richiamo all’oramai 56 consueta nozione di consumatore medio che la Corte di Giustizia ha elaborato fin da alcuni casi piuttosto risalenti, inerenti le problematiche legate alla confusione tra marchi . Si tratta di una 57 figura richiamata oggi anche dalla Direttiva 2005/29/CE che al suo diciottesimo considerando afferma testualmente che gli effetti delle pratiche commerciali sleali debbono essere valutati assumendo questo “virtuale consumatore medio” come parametro di riferimento. Parametro che deve peraltro essere opportunamente declinato, a seconda del gruppo di individui a cui la pratica commerciale si rivolge nella fattispecie concreta, tenendo inoltre conto dei vari fattori sociali, culturali e linguistici.

Corte di Giustizia Ue 23 marzo 2010, C-236/08, caso “AdWords”, spec. al par. 90.

55

Corte di Giustizia Ue 23 marzo 2010, C-236/08, caso “AdWords”, spec. al par.

56

84-90. Come rileva la Corte, la trasparenza dell’annuncio su Internet è imposta inoltre dalla direttiva sul commercio elettronico. Si veda il par. 86 della stessa decisione.

Si veda ad esempio, Corte di Giustizia Ce 8 maggio 1993, C-126/91, caso “Yves

57

Rocher”; Corte di Giusitizia Ce 2 febbraio 1994, C-315/92, caso “Verband Sozialer Wettbewerb”; Corte di Giustizia Ce 13 gennaio 2000, C-220/08, caso “Estee Lauder Cosmetics GmbH”. Come è stato osservato in dottrina, queste ed altre pronunce hanno delineato uno “standard del consumatore medio europeo”, LIBERTINI,

Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, Contr. e Imp., 2009, 73 e ss., spec. 105.

(30)

L’annuncio pubblicitario, tanto a causa del suo posizionamento, quanto per via del suo contenuto, viene ritenuto in grado di suggerire agli utenti l’esistenza di questi collegamenti imprenditoriali: detto in altri termini, secondo la Corte l’inserzione sarebbe idonea a generare un rischio di confusione sull’origine dei prodotti o servizi . 58

L’impiego delle parole-chiave coincidenti con un marchio altrui — sempre che si tratti di utilizzo commerciale e riferito a dei prodotti o servizi — costituirebbe quindi un atto di contraffazione in tutto e per tutto: pur non toccando la funzione pubblicitaria , tale uso si 59 risolverebbe in una violazione della funzione indicazione dell’origine , senza che sul punto acquisti grande rilievo la 60 distinzione tra marchi rinomati o non rinomati .61

Una decisione di poco successiva, relativa al noto caso “Interflora” , sembra segnare il passaggio ad un orientamento di 62 maggior tolleranza nei confronti della condotta qui esaminata. Nel caso di specie, una società statunitense denunciava l’utilizzo del proprio marchio rinomato all’interno di una parola-chiave, sfruttata da una società inglese concorrente per connotare le proprie inserzioni, in parte riferite a servizi analoghi rispetto a quelli offerti, su scala addirittura mondiale, dalla titolare del marchio. Il principio che emerge dai vari punti in cui si articola la pronuncia in esame, è quello per cui la linea di discrimine con la contraffazione, anche nell’ipotesi in cui siano coinvolti dei marchi dotati di notorietà, come

Corte di Giustizia Ue 23 marzo 2010, C-236/08, caso “AdWords”, spec. al par.

58

85-90; stesse considerazioni sono state fatte proprie anche in decisioni successive concernenti il medesimo servizio di sponsorizzazione di link, cfr. Corte di Giustizia Ue 8 luglio 2010, C-558/08, caso “Portakabin”.

Corte di Giustizia Ue 23 marzo 2010, C-236/08, caso “AdWords”, spec. al par. 95.

59

Ibidem, par. 90.

60

Cfr. TAVELLA-BONAVITA, La corte di giustizia sul caso “AdWords”: tra normativa

61

marchi e commercio elettronico, in Dir. ind., 2010, 429 e ss.

Corte di Giustizia Ue 22 settembre 2011, C-323/09, caso “Interflora”, in in Giur.

62

(31)

accadeva nel caso di specie, deve essere individuata proprio nel rischio di confusione. Chiamata a pronunciarsi ancora una volta in sede di rinvio pregiudiziale, con questa sentenza la Corte sembra voler rimettere ogni valutazione circa la sussistenza del pericolo anzidetto ai giudici del rinvio: solo le concrete circostanze e gli effetti prodotti da un determinato utilizzo delle parole-chiave appare idoneo, secondo i giudici, a sollevare un problema di confondibilità.

Come si vede, a differenza di alcune precedenti pronunce, quest’affermazione della corte appare scevra da ogni tentativo di generalizzazione: in ultima istanza, il pericolo di confusione viene fatto dipendere essenzialmente dal contenuto complessivo del messaggio espresso dall’inserzione.

Sul tema del rischio di confusione sollevato da questo modo di operare, la Corte ha precisato che, al di là dei casi in cui ciò consente di trarre vantaggio o arrecare pregiudizio alla notorietà o alla capacità distintiva del marchio, specialmente quando le parole-chiave contribuiscano alla progressiva trasformazione del segno in un termine generico , tale utilizzo è da ritenersi lecito fintanto che le 63 inserzioni del concorrente non fanno riferimento a delle semplici imitazioni dei prodotti o dei servizi offerti dal titolare dell’esclusiva . 64 Infatti, se gli annunci pubblicitari così evidenziati propongono al pubblico un’alternativa rispetto ai prodotti e servizi contrassegnati dal marchio, non sorgerà alcuna incertezza nei consumatori circa la provenienza imprenditoriale degli stessi, né si determinerà un rischio di confusione: ciò che impedisce la realizzazione di un pregiudizio per la capacità distintiva o la rinomanza acquisita . Per contro, 65 siffatti utilizzi possono risultare conformi al “giusto motivo” evocato dalla normativa europea sul marchio, nonché in linea con una

Corte di Giustizia Ue 22 settembre 2011, C-323/09, caso “Interflora”, in Giur. dir.

63

ind., 2013, 1291, spec. al par. 83. Ibidem, par. 91.

64

Ibidem, par. 81.

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