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I. Verità ed esperienza: fra Erlebnis ed Erfahrung L’idea di verità, che una linea consistente della tradizione filosofica, come il pensatore stesso dice, “dalla Ionia a Jena”

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I.

Verità ed esperienza: fra Erlebnis ed Erfahrung

L’idea di verità, che una linea consistente della tradizione filosofica, come il pensatore stesso dice, “dalla Ionia a Jena”1, aveva visto come un concetto conoscibile in maniera oggettiva ed universale, indipendentemente da ogni sorta di coinvolgimento personale, è profondamente ripensata da Rosenzweig fin nel suo fondamento. Il linguaggio che la tradizione utilizzava per enucleare le verità o i concetti generali fondamentali cui ricondurre per via induttiva l’esperienza, Dio, mondo e uomo - che per Rosenzweig stesso costituiscono i concetti fondamentali del suo edificio filosofico - era un linguaggio “constatante/fissante, […] enumerante e [...] cosificante”2. La verità per la logica classica apofantica e per quella del classico sistema filosofico, così come le verità comprese nel suo circuito totalizzante, era qualcosa di fisso, oggettivo e di carattere logico- concettuale.

Il primo elemento cui approssimarci nell’esplicazione della “verità” così come concepita da Rosenzweig è la subitanea e principale conservazione di una concezione logico-concettuale della medesima, che però necessita di un implemento opportuno per esaurire, in qualche modo, un senso in realtà incommensurabile. Tale conservazione salta agli occhi nella prima sezione del capolavoro filosofico del pensatore, che pone alle fondamenta della sua impalcatura pur sempre sistematica, e quindi in certo modo tradizionale, le tre “essenze perenni” Dio, mondo e uomo; assunte tuttavia non più nella loro configurazione “razionale”, ma, rispettivamente, in una prospettiva “meta-fisica”, “meta-logica” e “meta-etica”3. La prima parte della Stella della redenzione, quindi, risponde alla domanda filosofica classica, che da Socrate, attraverso Aristotele, si inoltra fino a Hegel: “che cos’è?”. L’essere, per quanto secondo Aristotele si dica

1 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, a cura di Ginfranco Bonola, Vita e Pensiero, Milano,

2016, p. 12.

2 Ivi.

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11 in molti sensi, è fondamentalmente essere come sostanza, essenza; e il logos che la enuncia è il primo discorso veritiero.

Il merito che viene tributato al “vecchio pensiero” di matrice greca, nell’economia del nuovo “sistema” della Stella, è complementare all’indicazione dei limiti del medesimo, al suo “fin-qui-e-non-oltre (Bishierundnichtweiter)”, come dice espressamente Rosenzweig nel Nuovo Pensiero4.

Già in questa prima sezione della Stella, tuttavia, viene praticata una significativa frattura all’interno di ciascuna di queste tre verità fondamentali, ancora “in forma elementare, invisibile, non-rivelata”5. La frattura in questione è resa possibile dal concetto di “nulla particolare”, che, contro le ambizioni del sapere epistemico e universale della filosofia tradizionale, introduce all’interno delle “sostanze” originarie un abisso ontologico, e corrispettivamente, nel nostro conoscere, un abisso di non-sapere. Il triplice nulla che compenetra i tre elementi del pre-mondo perenne, è in primo luogo “un nulla del nostro sapere […], punto di partenza del pensiero […], luogo in cui il problema è posto”6, che dovrà condurre oltre se stesso.

Questo triplice “nulla” particolare è quel “concetto metodico”7 che rende i tre elementi sostanziali Dio, mondo e uomo, indagati con gli strumenti dell’argomentazione logico-matematica, rispettivamente fisico”, “meta-logico” e “meta-etico”, tali cioè da non identificarsi tout court con le loro rispettive essenze o nature, ma da esorbitare in maniera fulgida e vitale da esse, pur albergandole al proprio interno.

L’assunzione preliminare, che fornisce la base dell’intero sistema rosenzweighiano, delle essenze o nature concettuali imprescindibili per la tradizione filosofica dalla “Ionia a Jena”, procede di pari passo a una loro

4 Idem, Il nuovo pensiero, in La Scrittura, Saggi dal 1914 al 1929, a cura di Gianfranco Bonola, Città

nuova editrice, Roma, 1991. P. 267.

5 Ivi, p. 266.

6 Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 28.

7 Luca Bertolino, Il nulla e la filosofia, Idealismo critico ed esperienza religiosa in Franz Rosenzweig,

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12 formulazione in termini tradizionali e, nello stesso tempo, diversi. I tre capitoli della prima sezione della Stella, che gettano le tre basi del sistema, sono intitolati

Dio e il suo essere o meta-fisica, il mondo e il suo senso o meta-logica, l’uomo e il suo sé o meta-etica. Già nella semplice enunciazione dei tre titoli di questa prima

sezione è nettamente visibile il gioco di assunzione e presa di distanza dai concetti fondamentali che hanno scandito il pensiero occidentale. Questi ultimi vengono assunti in via preliminare per essere denotati da una formulazione che, come dice lo stesso prefisso “meta-“, si propone di oltrepassare la loro chiusura e compiutezza logico-concettuale.

Questo tentativo che la filosofia compie di condurre oltre la sua impalcatura logica e ontologica, non può giungere per Rosenzweig a compimento, in quanto, perché questo sforzo filosofico riesca del tutto, è necessaria un’ulteriore dimensione del sapere, che si intersechi con quella più propriamente filosofica, perché i suoi intenti di comprensività possano essere portati oltre i disegni di profili sostanziali.

Questa nuova dimensione che si dovrà innestare su quella marcatamente ontologico-filosofica, ha una struttura che potremmo definire “esperienziale”, in quanto consentirà ai tre presupposti sostanziali Dio, mondo e uomo di “fare esperienza” l’uno dell’altro, e di fornire così le coordinate fondamentali dell’esperienza quotidiana e del tutto comune dell’uomo nel mondo. Vediamo dunque come, secondo Rosenzweig, la filosofia tradizionale, per la sua fisionomia intrinseca, non riesca ad instaurare relazioni tra i suoi elementi, se non nella forma del sistema filosofico classico, che li riporta ad unità, o nella forma di una relazione che ha luogo all’interno di ogni singolo elemento, e che fornisce i momenti del suo compimento logico8.

8 “E’ di una vera e propria conclusione che si deve parlare quando questo sapere non abbraccia più

solo il suo oggetto, il Tutto, ma attinge esaustivamente […] anche se stesso. Questo è avvenuto con l’inclusione della storia della filosofia all’interno del sistema operata da Hegel”. Franz Rosenzweig,

La stella della redenzione, op. cit., p. 6. “La filosofia europea […] considera il ricondurre in generale

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13 Le relazioni tra i tre elementi sostanziali, infatti, non possono essere dedotte a priori dai concetti in questione, ma, al contrario, “accadono” a partire da un’iniziativa del tutto libera, ma non per questo arbitraria, che Dio nel suo carattere di essenza perenne prende nei confronti del mondo, da una parte, e dell’uomo, dall’altra. Tale gesto si configura come un uscire di Dio dalla sua chiusura in sé che avviene tramite una logica a lui ancora interna, articolata secondo una dialettica di affermazione e negazione, di “sì” e “no”. La dialettica di “si” e “no” era stata affrontata da Rosenzweig nella prima parte della Stella, in cui questi termini fornivano la chiave per superare il triplice “nulla particolare” che si annidava nel fondo dei tre elementi, dopo la spaccatura del “Tutto” della filosofia tradizionale nelle sue tre componenti fondamentali (Dio, mondo e uomo). I termini “logica” e “dialettica” non devono però farci pensare al procedimento necessario dell’Enciclopedia hegeliana, ma ad un processo di inversione che il “sì” e il “no”, così come articolati all’interno della dimensione divina pre-mondana, subiscono nel momento in cui Dio va oltre se stesso, per aprirsi alla relazione col mondo da un lato e con l’uomo dall’altro. Il Dio del pre-mondo afferma il mondo tramite il “si”, e quest’ultimo, correlativamente, “nega” il suo carattere di essenza perenne ed eterna per spalancare l’efflorescenza delle possibilità che l’atto creatore di Dio, sempre rinnovato, dispone per esso. La relazione con l’uomo avviene in maniera analoga, ma non per questo prevedibile o deducibile, nel momento in cui Dio “nega” le sua essenza immutabile per rivelarsi all’uomo, il quale, accettandola, trasmuta il “no” della sua caparbietà solipsistica pre-mondana nel “sì” dell’umiltà del ricevere.

Possiamo quindi notare come, nel passaggio dalla prima alla seconda sezione della Stella, Rosenzweig utilizzi un singolare artificio teorico che si concretizza in un’”inversione” (“Umkehrung”)9 delle “parole originarie” ”si” e “no”10, così come disposte presso gli elementi del pre-mondo, che ne cambia radicalmente il profilo ontologico, rendendoli da isolati l’uno dall’altro, in relazione.

9 Luca Bertolino, Il nulla e la filosofia, op. cit.

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14 Le denominazioni che Rosenzweig attribuisce alle relazioni che si instaurano tra Dio e mondo, fra Dio e uomo e fra uomo e mondo, rispettivamente

creazione, rivelazione e redenzione, appartengono a un linguaggio non più

filosofico, ma religioso. Queste espressioni di matrice biblica non vengono tuttavia assunte da Rosenzweig nella loro valenza teologica o dogmatica, ma come termini che, seppure attinti da un lessico teologico, intendono indicare le relazioni che l’uomo intrattiene all’interno del mondo e della sua, comune e laica, esperienza quotidiana.

La relazione che nel presente capitolo di più intendo prendere in esame, al fine di mettere in luce la connessione con l’esperienza che per Rosenzweig definisce l’idea di verità, è quella tra Dio e l’uomo, la rivelazione.

I, I. “Rivelazione” e verità nella “Stella della redenzione”

“Ora, dopo che Dio ha attinto l’essere nell’ambito e sul fondamento della rivelazione […], egli può anche darsi a conoscere di sua iniziativa, senza pericolo per l’immediatezza e la pura attualità dell’esperire. Infatti l’essere che egli dà ora a conoscere […] non è un essere nel nascondimento, ma è cresciuto interamente entro questo esperire […]. Egli non si dà a conoscere prima di essersi rivelato, ma al contrario il suo esser-divenuto-manifesto dev’essere anteriore, perché egli possa darsi a conoscere”11. Questo paragrafo è intitolato da Rosenzweig, significativamente, “la conoscenza”, la quale, come possiamo leggere, è possibile per l’uomo nei riguardi di Dio solamente nel momento in cui questi si rivela a lui, chiamandolo per nome, destandolo a nuova vita, e innescando in lui la potenzialità di una risposta libera. Non è dunque possibile, secondo Rosenzweig, conoscere Dio nella sua configurazione pre-mondana e concettuale, quel frangente di realtà è invisibile al senso e inintelligibile al pensiero. Così, parlando del primo volume della Stella, scrive nel Nuovo Pensiero: “Come concetto Dio non è più inaccessibile del concetto di uomo o di mondo. Di tutti e tre sappiamo altrettanto e altrettanto

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15 poco. Cioè tutto e nulla. Noi sappiamo nel modo più preciso che cos’”è” Dio, che cos’è l’”uomo”, che cos’”è” il mondo […] con il sapere intuitivo dell’esperienza”12.

La possibilità di conoscere Dio nella sua struttura pre-mondana si risolve, per il pensiero, in una sorta di fallimento, in quanto in quella dimensione del reale egli non è che un nulla, o più precisamente, un “nulla del nostro sapere”13. Questo Dio premondano inattingibile alla conoscenza concettuale umana è però anche una “profezia” del Dio reale, rivelato14, che necessita di un fondamento perché l’esperienza vissuta della rivelazione sia dotata di consistenza ontologica. La rivelazione, come movimento di Dio verso l’uomo, e apertura dell’uomo a Dio, un Dio reale, rivelatosi, è per l’uomo l’unico modo per conoscere la verità, la quale, lungi dal costituire un’essenza concettuale collocata lontano dal mondo vivo e reale dell’esperienza, si cala nell’esperienza vissuta della vita di ogni giorno, in cui quotidianamente è possibile fare esperienza di Dio, essendo la vita di ogni giorno, il “mondo incessantemente rinnovato”, il luogo del rivelarsi di Dio. Ecco come dunque, la conoscenza dell’essenza di Dio, la questione che aveva assillato la filosofia fin dalla sua nascita, si risolve per Rosenzweig nell’esperienza del suo “agire”: “’Egli è la verità’ non ci dice in definitiva nulla di diverso da questo: che egli ci ama”15. “Come la risposta “Dio è la verità” riconduce la questione […] circa la sua essenza sovramondana, questa domanda ultima, entro la viva esperienza degli atti di Dio, così la risposta “Dio è nulla”, conduce la questione astratta circa la sua essenza pre-mondana […] alla stessa esperienza”.

La conoscenza concettuale viene posta di fronte a un limite, le sue pretese di onnicomprensività e pervasività vengono contenute, lasciando adito a un “mistero” che non è in grado di attingere, che per Rosenzweig è Dio nella sua

12 Idem, Il Nuovo pensiero in La Scrittura, op. cit., p. 263-264.

13 Nell’introduzione alla I parte, quella sugli “Elementi” o il “Pre-mondo perenne”, Rosenzweig

scrive: “Il nulla del nostro sapere non è unico ma è triplice”, alludendo alle tre “fattualità” lì presenti. Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 22.

14“La filosofia […] diventa profezia sulla rivelazione […]. Ma con ciò la rivelazione […] diviene in tutto

e per tutto l’adempimento della promessa profetica avvenuta nella creazione” (corsivi miei). Ivi, p. 110.

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16 struttura pre-mondana ed “elementare”. Lungi dal costituire una ricaduta nel dogmatismo o peggio nel nichilismo, l’’impossibilità di conoscere Dio in questa sua primitiva configurazione può essere letto come un significativo insegnamento volto al mantenimento, anche nella nostra società “postmoderna”, di una dimensione di “mistero” che si rivela promessa di una futura scoperta, e un invito a rivalutare il mondo dell’esperienza quotidiana come luogo principe di verità.

L’idea della rivelazione e dell’esperienza della verità, in opposizione a quella di comprensione del suo “concetto” universale, va di pari passo nella Stella all’impossibilità per l’esperienza umana di attingere la stessa verità nella sua interezza, ma di averne soltanto “parte”. Ebrei e cristiani hanno solamente parte alla verità intera, la quale non può essere rivendicata, né dagli uni né dagli altri, in maniera esclusiva e conclusiva. Il possesso compiuto della verità non è appannaggio dell’uomo nella sua vita reale e “mondana”, ma solamente di un ente trascendente che per Rosenzweig è Dio, nella sua dimensione sovra-mondana. L’uomo partecipa della verità senza poterla possedere in maniera completa e definitiva, e ne partecipa sotto forma di un’esperienza vissuta. Ebraismo e cristianesimo, così, diventano per Rosenzweig “parti” della verità intera, che solo in collaborazione sinergica la possono adombrare ed evocare, senza ancora poterla tuttavia vedere; perché “visione diretta dell’intera verità viene ad esserci solo per colui che la contempla in Dio. Ma questo è un contemplare al di là della vita”16. Ebrei e cristiani, congiuntamente, vengono a costituire la stella della redenzione, i primi costituendo “il fuoco o la vita eterna”, i secondi “i raggi o la via

eterna”: i primi custodiscono la verità nella propria medesima esistenza e “sangue” di popolo eletto17, i secondi la irradiano lungo lo spazio e il tempo, disegnandone i raggi. L’esperienza vissuta della verità nella rivelazione è perciò

16 Ivi, p. 427.

17 “C’è una sola comunità che non può pronunciare il “noi” della propria unità senza percepire al

tempo stesso nel suo intimo anche il complementare “siamo eterni”. Dev’essere una comunità di sangue […]. La comunità di sangue […] non ha bisogno di scomodare lo spirito; nel naturale riprodursi dei corpi essa ha la sua garanzia di eternità”. Ivi, pp.307-308.

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17 intrinsecamente legata alla necessità di averne soltanto parte, alla sua

partecipazione, non al suo possesso ontologico o concettuale che sia.

La rivelazione di Dio, inoltre, il suo amore per l’anima amata, è sempre nell’attimo, ma in ogni attimo, sempre rinnovato ad ogni istante, e quindi “presenza perenne” che rende possibile “la nascita incessantemente rinnovata dell’anima”, formula con cui Rosenzweig titola il libro della Rivelazione. Il Sé meta-etico del pre-mondo viene richiamato dal suo mutismo e solipsismo ontologico per entrare nell’orbita relazionale della realtà del mondo, ma questa “nascita” dell’anima, seppure “evento avvenuto”18, è sempre rinnovata nell’impulso sempre fresco della rivelazione e dell’amore di Dio.

I, II. La verità nella “Scienza di Dio”

Il tema della verità di Dio viene affrontato da Rosenzweig anche all’interno di un ciclo di lezioni che tenne fra il 1921 e il 1922 a Francoforte sul Meno presso il Freies Juedisches Lehrhaus, un’istituzione da lui stesso fondata nel ’20, che si proponeva un’educazione ad ampio raggio (una Bildung) per gli ebrei tedeschi, che, vivendo nell’epoca dell’assimilazione, sembravano avere smarrito il senso delle loro radici religiose e culturali. Queste lezioni, diversamente dalla Stella, sono concepite per essere destinate a un pubblico ebraico, al fine di una sua educazione o rieducazione, che si discosta tuttavia sensibilmente da ogni forma di catechismo o insegnamento della dottrina ebraica. Molti interpreti hanno sottolineato come questo progetto di educazione degli ebrei tedeschi, ormai in quegli anni per lo più completamente “assimilati” nella società tedesca laica, sia in linea con l’intento con cui si chiudeva la Stella, che invitava, una volta letto il libro ad “inverarlo” e “testimoniarlo” nella propria vita.

Del resto non è forse con un invito alla vita (ins Leben) che si chiude la Stella? Con un passaggio alla vita […], a una “responsabilità” che può avvenire soltanto nel quotidiano della vita”? Ed è tanto sorprendente quanto significativo che la Stella […] sia uscita […] soltanto nel 1921 […] cioè quando Rosenzweig, a partire dall’agosto 1920, aveva già assunto […] la direzione del Freies Judische Lehrhaus, il nuovo istituto per la formazione (Bildung) ebraica degli adulti. Così, ciò che il “libro ebraico” “annunciava molto chiaramente, in maniera perfino programmatica, aveva trovato

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subito la possibilità di mettersi concretamente alla prova, di sottoporsi a verifica sul terreno dell’agire pedagogico e insieme “politico”, un agire non più differibile, perché diretto ad affrontare il problema dell’educazione ebraica19.

Lo stesso scritto che reca il titolo Scienza di Dio, il ciclo di lezioni che ora prendiamo in esame, non era stato progettato da Rosenzweig come un saggio diretto al pubblico, ma come un abbozzo per il relativo corso che avrebbe tenuto al Lehrhaus, il che testimonia come il suo proposito, dopo la stesura del suo capolavoro filosofico, fosse quello di metterlo esclusivamente “in pratica” e all’”opera” in progetti educativi, formativi, etico-politici. E’ bene ricordare che a Francoforte esisteva già un’istituzione atta all’educazione degli ebrei adulti, cioè la Freie Judische Volkshochschule, ma l’intento da cui Rosenzweig era animato nella fondazione del Lehrhaus era del tutto peculiare: voleva ridestare la dottrina e la cultura libresca ebraica a nuova vita, infonderle quella vita che il pensatore non vi riusciva più a scorgere; il contesto dell’assimilazione degli ebrei tedeschi era tale da fare scomparire ogni traccia di “vita” ebraica, rinchiusa nei libri ai fini dell’ortodossia, o rimandata dal sionismo a un “futuro palestinese”20.

Insegnamento e studio sono entrambi avvizziti. Lo sono perché ci manca ciò attraverso cui soltanto e il sapere e la dottrina diventano viventi: la… vita. La vita. Tra i due regni della Bildung e della sua “produzione libresca” senza una fine, si spalanca una falla, non otturata da più di cent’anni. Nell’ambiente ebraico tedesco emancipato manca una piattaforma di vita ebraica sulla quale il presente senza-libri ottenga giustizia. Fino all’emancipazione, questa piattaforma era l’esistenza nei limiti dell’antica legge ebraica, nella casa ebraica, nel culto sinagogale. L’emancipazione ha fatto saltare questa piattaforma. Certamente le tre parti sono ancora tutte qui, ma appunto perché sono solo ancora parti, per questo non sono più ciò erano fin lì nella loro connessione: quell’unica piattaforma della vita veramente e presenzialmente vissuta, che doveva soltanto servire la scienza e l’insegnamento e dalla quale essi traevano, d’altro canto, le loro forze migliori21.

19 Introduzione del curatore Roberto Bertoldi a Franz Rosenzweig, Dio, uomo e mondo, Giuntina,

pp. 13-14.

20 F. Rosenzweig, Bildung e nessuna fine in Ebraismo, Bildung e filosofia della vita, a cura di

Gianfranco Sola, Giuntina, p. 106.

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19 La questione cruciale al centro del presente corso è quella che riguarda l’esistenza di Dio. Possiamo notare come i temi affrontati da Rosenzweig di volta in volta siano niente meno che quelli cari alla tradizione filosofica occidentale, con la quale la sua impresa intellettuale cerca di fare i conti per metterne in luce alcune contraddizioni e insidie speculative. Nel Nuovo Pensiero, infatti, ed in questo senso, sottolineerà come durante il medioevo la complessità del reale venisse ricondotta alla dimensione e al principio divino, e come, in modo analogo, nell’antichità e nella modernità la realtà venisse pensata in riferimento, rispettivamente, al cosmo e all’uomo. Le espressioni “antichità cosmologica”, “medioevo teologico” e “epoca moderna antropologica”22 sono illuminanti a parere del pensatore per mettere in luce come la “filosofia europea” abbia, fin dai suoi primissimi esordi, avuto tendenza a ridurre la multiformità del reale a una sola delle sue dimensioni, configurandosi come una “filosofia del Tutto” con tendenze monistiche e riduzionistiche.

Tornando allo scritto sulla “scienza di Dio”, l’autore si domanda con quale “organo” sia possibile percepire Dio e la sua esistenza. Per rispondere disegna il profilo di tre tipi antropologici, il panteista, lo spiritualista ed il mistico, che a suo parere esemplificano i tre approcci principali al tema dell’esistenza di Dio. Il panteista rinviene Dio nella natura, lo spiritualista nell’immanenza dello spirito, e il mistico nel “nulla” delle sue estasi a senso unico23. Questi tre tipi umani, o essenzialmente due, non fanno che frazionare, secondo Rosenzweig, e in un certo senso lacerare l’unità intrinseca di ogni uomo, suddividendolo fra senso e spirito. Chiedendosi se esista un terzo organo oltre la sensibilità e lo spirito che non scinda, inadeguatamente, l’uomo in se stesso, il pensatore lo ritrova nella “vita”, che gli si presenta come il luogo in cui Dio si manifesta ed è effettivamente esperibile24. Anche questo scritto, realizzato due anni dopo il completamento della stesura

22 Idem, Il nuovo Pensiero, op. cit., p. 262.

23 “E cosa vede il mistico? Senz’altro sempre e soltanto il nulla”. La scienza di Dio in F. Rosenzweig, Dio, uomo e mondo, a cura di Roberto Bertoldi, Giuntina, p. 66.

24 “Che organo ci resta dunque? Nessuno, se fossimo veramente costituiti soltanto da sensi e

spirito? Ma l’anima unifica sensi e spirito. Esiste un organo proprio di questo uomo intero unificato? Sì. La vita. (L’occhio vede, lo spirito conosce, l’anima vive)”. Ibidem.

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20 della Stella, sottolinea come l’esperienza di Dio, o della verità, che secondo l’autore vanno insieme, sia possibile solo nel mondo reale che noi tutti quotidianamente viviamo. Non solo, ma anche come questa esperienza non sia “una specie particolare, elevata, aristocratica di esperire”, ma “l’esperire assolutamente semplice”, giungendo a concludere che come vedendo non possiamo fare a meno di vedere la natura, e pensando non possiamo fare a meno di pensare lo spirito, così vivendo non possiamo fare a meno di “esperire Dio”.

Il mondo reale in cui noi tutti viviamo, frutto di un atto di creazione da parte di Dio, pare essere una contraddizione nei confronti della sua essenza eterna e infinita (il “suo esser-ovunque [Ueberall”]25). Il suo volere creativo sembra incompatibile con la sua onniscienza, il suo “governo” incoerente con la sua onnipotenza. In realtà il mondo e la temporalità, oltre a costituire un “guadagno” per Dio, che da Dio “nascosto”, puramente virtuale, diviene il “nostro” Dio, costituiscono, e questo è un altro punto cruciale, l’”inveramento” (“Bewährung”) dell’essenza di Dio. Secondo Rosenzweig non si dà una dimostrazione logico-deduttiva dell’esistenza di Dio, le “dimostrazioni non dimostrano nient’altro che ciò che già si sapeva prima”26, ma un inveramento sì. L’elaborazione sistematica del concetto di “inveramento” della verità verrà svolta nel Nuovo Pensiero, in cui il pensatore proporrà, come avremo modo di approfondire, una “nuova” gnoseologia, per cui la verità “cessa di essere ciò che “è” vero e diventa ciò che vuol essere confermato vero”, per cui “in luogo del concetto statico di obiettività”, proprio della concezione ontologica e di quella logico-corrispondentista, “se ne introduce ora uno dinamico”. L’inveramento della verità secondo Rosenzweig deve valere anche per Dio, scrive nella Scienza di Dio, e non solo per noi esseri umani; e l’inveramento della sua verità eterna avviene nel suo governo, inteso come il “volere creativo” del mondo, o come la legge che lo “conserva”, o come la promessa che lo “porta a compimento”27 nella redenzione. Questa concezione della verità era già stata enucleata in maniera chiara nella Stella, in cui l’autore

25 Ivi, p.86. 26 Ivi, p. 102.

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21 affermava a proposito dell’uomo, che “la verità deve dunque essere convalidata/inverata […], conosciuta come eterna e confessata per l’eternità […] come propria […]. La convalida/inveramento della verità avviene in ciò che vi è di più individuale, nella singola vita”28. Questa idea ci diviene ancora più perspicua se pensiamo che nell’ ultima pagina dell’opera il pensatore, evocando il “santuario di Dio”, la contemplazione diretta della verità di fatto impossibile finché siamo in vita, ci invitava ad andare oltre, ad oltrepassarne la porta, i cui battenti ci immettevano nella “vita”.

La creazione e il governo del mondo possono sembrarci una contraddizione nei confronti del pensiero dell’esistenza di Dio e della sua natura eterna e onnipotente, prosegue Rosenzweig nella Scienza di Dio, eppure un pensiero, da solo, per quanto veritiero, non è ancora sufficiente. Dio, secondo la sua nuova gnoseologia, per essere “vero”, “reale”, non può limitarsi alla semplice esistenza o sussistenza eterna, deve poter “accadere”, rendere testimonianza di se stesso, com-provarsi. Ecco che dunque, per fare ciò, crea il mondo e lo governa, fornendo all’uomo la legge mosaica al fine che questi e il mondo possano fare ritorno all’eternità. Su questo solco, Rosenzweig perviene a rivalutare l’idea di “contraddizione” cara alla tradizione aristotelica, asserendo che la verità non è, secondo il primo principio della logica, “non contraddizione”, ma che, al contrario, la nuova gnoseologia richiede la contraddizione come momento culminante della verità di un pensiero. “Una contraddizione di un’esperienza nei confronti di un

pensiero e una connessione necessaria e indissolubile tra i due […]. Soltanto questo

significa realtà. Un pensiero da solo può essere sbagliato. Un fatto da solo può essere un inganno. Ma un pensiero e un fatto che necessariamente sempre di nuovo, sebbene non coincidano, sempre di nuovo s’incontrano, allora sono entrambi reali, il fatto e il pensiero”29. E’ significativo come Rosenzweig metta in corsivo la congiunzione “sebbene”, sottolineando così che il “fatto” del governo del mondo da parte di Dio pare essere in effetti in contrasto con il “pensiero” della sua esistenza e della sua natura, che la teologia tradizionale dice onnisciente e

28 Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 405 29 Ivi, p. 100-101.

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22 onnipotente, eppure è proprio questa contraddizione, questo “rinnovamento”, come la chiama poche righe più sotto, a costituire l’”avveramento” del suo concetto. La creazione e la provvidenza divina diventano così, secondo la nuova gnoseologia, l’inveramento del pensiero di un Dio eterno e onnisciente.

Un altro punto cardinale di questa concezione dinamica e performativa della verità è il legame che essa istituisce fra quest’ultima e la dimensione della temporalità. La dimostrazione logico-deduttiva, a parere di Rosenzweig, come abbiamo avuto modo di accennare poco sopra, non dimostra nient’altro “che ciò che già si sapeva prima”, la conclusione segue necessariamente dalle premesse, secondo un modulo matematico di procedere. In questo modo la dimostrazione “crede di non avere bisogno del tempo”30, la sua conclusione non è che l’esplicitazione sincronica di ciò che è contenuto nelle premesse. L’inveramento, diversamente, necessita della temporalità, non è predeterminato o preordinato, la conoscenza che produce accresce il bagaglio di partenza, non limitandosi ad esplicitare conoscenze contenute in nuce nel principio, ma arricchisce l’esperienza di nuove, senza assicurare la riuscita e il successo del processo, il cui esito resta sconosciuto31.

Per quanto riguarda Dio, ciò significa che, creando, inverandosi, ha rinunciato alla sua eternità e compiutezza, quindi “all’unità di sapere e volere”, ha legato se stesso e la sua sorte al tempo, e “non sa veramente in anticipo che cosa io farò o che cosa accadrà. Ed egli fa veramente ciò che non sapeva prima”32. Tuttavia il suo “governo” fa sì che fra lui stesso e la creazione non ci sia distacco, “epochè”, e che il mondo, e l’uomo in primis, possa trovare la via del ritorno. La

Torah in questo contesto si rivela come il collante che unisce il mondo a Dio, il

quale tuttavia necessita dell’opera dell’uomo, o meglio degli uomini, ebrei e cristiani insieme, per realizzare la sua opera di redenzione. Questi, uniti in prestazioni comuni e sinergiche, in particolare liturgiche e cultuali, possono

30 Ivi, p. 102.

31 “Creativa non è la dimostrazione, ma soltanto l’inveramento. L’inveramento […] aggiunge

qualcosa a ciò che è da inverare, cioè proprio se stesso, l’inveramento”. Ibidem.

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23 suscitare “in modo imitativo”33 il regno escatologico di Dio promesso a entrambi sulla terra. Il volere di Dio espresso nella legge, particolare e universale insieme34, ha così un potere di “anticipazione”; i suoi precetti, se adeguatamente seguiti, permettono all’uomo di suscitare il Regno dei cieli sulla terra, e in questo modo avvicinare la sua venuta. La “redenzione”, d’altra parte, secondo quanto Rosenzweig aveva scritto nella Stella, è la relazione non fra Dio e il mondo, bensì fra l’uomo e il mondo; è l’uomo che può propiziare, o secondo il dettato dell’opera “impetrare” il regno dei cieli, seppure le condizioni della sua venuta siano state poste da Dio stesso, con la creazione e la rivelazione.

La rivelazione, come abbiamo potuto osservare precedentemente, è l’unico modo possibile all’uomo per conoscere la verità. La verità, come amore del Dio reale rivelatosi, è qualche cosa che ci coinvolge e che viene da fuori, che non possiamo chiamare alla mente o alla memoria a nostra discrezione, sia come il ricordo di un’esperienza sensoriale, sia come il prodotto di un’attività astrattiva dell’universale dal particolare empirico. E’ un’”esperienza” che domanda di essere accolta e, dopo, testimoniata nella realtà, secondo il senso di “inveramento” su cui ci siamo soffermati. La verità che la tradizione aveva ascritto all’essere, prima, e allo spirito, poi, con Hegel, viene stigmatizzata addirittura dallo Rosenzweig della

Stella come una “bestemmia filosofica”, specificando che “noi non ritroviamo la

verità in noi […], bensì noi stessi nella verità”35.

Il governo di Dio sul mondo, ossia il suo volere manifestato nella Legge perché il mondo possa tornare presso di lui, che costituisce l’inveramento di quel Dio eterno e puramente ipotetico della prima parte della Stella - di Dio come pilastro “perenne”, come “elemento” premondano - può essere esperito nella nostra vita quotidiana. A questo riguardo riprendere analiticamente la prosa della stessa Scienza di Dio può essere molto pregnante ai fini del nostro esame:

Noi percepiamo il governo […]. Possiamo poi cercare di negarlo e tuttavia ci imbatteremo sempre di nuovo in esso. C’è qualcosa di demoniaco nella vita,

33 Ivi, p. 90. 34 Cfr.: ivi, p. 91.

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qualcosa che non si spiega muovendo dalla vita stessa e che è proprio ciò-che-è-più-vivo [das Lebendigste] della vita. La grande sofferenza, la grande gioia […]. Tutti questi massimi e minimi non si possono spiegare muovendo dalla vita stessa [...]. Le decisioni, i punti assoluti della vita, ci mandano fuori dalla vita stessa […]. E’ vivendo che percepiamo il governo. Noi viviamo una vita unitaria, la viviamo in quanto portatori del nostro nome […], in quanto destati, in quanto esecutori di un volere, in quanto inclusi in una legge, in quanto infiammati da una promessa. Così nella nostra vita percepiamo Dio in ogni angolo, gemendo e gioendo, ma lo percepiamo. Ma che questo governo percettibile sia il governo di Dio lo possiamo solo credere36.

Questo ciclo di lezioni di Rosenzweig è rivelatore di quanto, come suggerisce Fabris, l’esperienza o Erlebnis consenta l’accoglimento “di situazioni e fatti che per il pensiero sono contraddittori e che solo con l’intervento della fede - a cui l’Erlebnis conduce […] - possono essere, per dir così, «abitati»”. L’esperienza vissuta è, così, “volta a riconoscere e a sostenere le contraddizioni legate al nome e all’azione di Dio, non a risolverle”37.

Ecco come la rivelazione di Dio, come manifestazione della verità, che abbiamo trovato nella Stella, sembrerebbe essere la stessa cosa del governo di Dio sul mondo, il quale, proprio come la rivelazione, non può non essere esperito semplicemente vivendo. Le emozioni e sensazioni (“i punti assoluti della vita”) che proviamo nella nostra esperienza sono secondo Rosenzweig l’esperienza della verità di Dio, che, ancora, viene ad essere di coinvolgimento e di trascendenza non oggettivabile in concetto puro. La rivelazione era l’atto con cui il Dio meta-fisico andava a “destare” il Sé meta-etico dell’uomo - che come egli stesso e il mondo meta-logico si trovava nelle profondità “elementari” ed eterne del pre-mondo – con la propria chiamata, e inoltre, gli manifestava il suo volere o comandamento, ponendo in tal modo le condizioni perché l’uomo, destato a nuova vita, potesse trovare la strada del ritorno presso Dio.

36 Idem, La scienza di Dio in Dio, uomo e mondo, op. cit., pp. 99-100. 37 Adriano Fabris, Linguaggio della rivelazione, op.cit., pp. 70-71.

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I, III: La “logica” della venuta del regno escatologico

Questo cammino dell’uomo attraverso il mondo creaturale, durante il quale lo “vivifica” con il suo atto d’amore e incontra il “prossimo” con il medesimo sentimento, ha il potere di preparare già fin sulla terra il regno di Dio, di far sì che “l’eterno sovramondo” possa essere anticipato nel qui ed ora, e con ciò avvicinato nel suo effettivo e ultraterreno realizzarsi. Questo percorso dalla meta escatologica non è tuttavia destinato necessariamente, secondo una dialettica preordinata ed idealistica, a concludersi nell’Uno trionfale del Dio spirituale che pensa se stesso. Questo percorso non risponde alla logica dello “spirito assoluto”, destinato per natura a prendere coscienza di sé secondo una scansione predeterminata e necessaria dei suoi momenti progressivi. La venuta del regno di Dio, in cui Dio sarà “l’Uno”38, non segue alcuna logica intesa in senso idealistico, ma è il frutto di un atto divino che, seppure può essere anticipato e “impetrato” dall’uomo nella comunione con gli altri39, non è perciò stesso pre-garantito, in quanto non segue né le “leggi” del mondo, né quelle del pensiero. La redenzione è un “evento” (“Ereignis”) imprecisato nel tempo, e che non è del tutto in potere dell’uomo e delle sue potenzialità più proprie; seppure la sua opera è necessaria alla realizzazione, la redenzione avviene “solo per Dio stesso. Per lui stesso è l’atto eterno con cui Egli libera se stesso dal fatto che gli stia di contro qualcosa che non è lui stesso”40.

L’ultimo capitolo della seconda sezione della Stella, articolata nei libri

Creazione, Rivelazione e Redenzione, ci dice che la logica dell’idealismo hegeliano

aveva la conformazione grafica di una “sfera” o di un “cerchio”, noto per non avere

38 Franz Rosenzweig, La stella della redenzione, p. 247, paragrafo L’uno ed il Tutto.

39 “La preghiera della comunità non è rivolta al proprio destino bensì direttamente all’Eterno: che

egli promuova non l’opera delle mie, o delle tue, o delle sue mani, ma delle “nostre” mani, e non affinché “io la porti a compimento”, ma Lui; questa preghiera, che al di là di ogni cosa singola guarda a ciò che è comune a tutti e solo a questo, afferra con forte presa l’eterno facendolo penetrare nell’attimo, così che il singolo frammento di vita […], riceve in dono la scintilla, discesa dall’alto, dell’eterna luce, che rimane in esso come seme di vita eterna”. Ivi, p. 302.

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26 né inizio né fine, che realizzava un’unità che faceva ritorno al proprio inizio, la cui fine era la stessa cosa del suo principio41. Fuor di metafora, la verità attinta alla fine del processo dialettico nell’Enciclopedia hegeliana, lo spirito assoluto pensato dal pensiero filosofico, è la stessa “Idea in sé” giunta alla piena e matura consapevolezza di se stessa. Diversamente, la verità che Rosenzweig attinge alla fine di quel “sistema” filosofico sui generis che è la Stella, non è la stessa da cui era partito. La verità da cui il pensatore era partito, nella stessa opera, era triplice, identificandosi con i tre fondamenti perenni dell’esperienza: il Dio meta-fisico, il mondo meta-logico e l’uomo meta-etico. Tali “fattualità” essenziali ed ultime erano per lui tre “nulla”, in particolare tre nulla “del nostro sapere”, frutto di un gesto per mezzo di cui il Tutto onnicomprensivo cercato e presupposto dalla filosofia “dalla Ionia a Jena” era stato fatto a pezzi, nell’introduzione alla prima sezione. Queste tre “fattualità” ultime, come nulla gnoseologici, fornivano poi la spinta propulsiva verso “il qualcosa del sapere”. Il culmine di questo percorso di ascesa teorica e gnoseologica che si compie nella Stella, non si identifica con il suo punto di partenza, ma con un “Uno” divino e spirituale, diverso per sua natura dal Tutto cercato dalla filosofia tradizionale. Il Tutto come unità di pensiero ed essere rispondeva alle leggi del pensiero42, l’Uno in cui si conclude il capolavoro filosofico di Rosenzweig non è il risultato di una sintesi articolata nei suoi tre momenti, ma il frutto di un’opera di “redenzione” che è realizzata da un Dio trascendente, non dal pensiero.

I, IV. La verità nel “Nuovo Pensiero”

Il Nuovo Pensiero è un saggio di carattere esplicativo che Rosenzweig pubblica 4 anni dopo la prima edizione della Stella (quindi nel 1925); vi troviamo per l’appunto una spiegazione a posteriori dell’opera maggiore, e l’indicazione precisa e metodica del significato dell’espressione “nuovo pensiero”. Il fatto che Rosenzweig si sia accinto a scrivere una sorta di scritto esplicativo e di tenore

41 Cfr. ivi, p. 262.

42 “L’unità del logos fonda l’unità del mondo come un’unica totalità. E quella unità dà prova a sua

volta del suo valore di verità con il fondare questa totalità. Perciò una ribellione vittoriosa contro la totalità del mondo significa al tempo stesso una negazione dell’unità del pensiero”. Ivi, p. 12.

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27 teorico dopo la pubblicazione della Stella, non ci deve indurre a pensare che si tratti di una classica prefazione scritta più tardi con accresciuta consapevolezza, né di una sorta di appendice da allegare al testo alla prossima ristampa; Rosenzweig, come ci dice espressamente nel testo, non amava tali generi di scritto, e per denotare il Nuovo pensiero pensa a una specie di “risposta” alla ricezione dei lettori nei quattro anni trascorsi43:

“A suo tempo ho licenziato La stella della redenzione priva di prefazione. Mi atterriva il tenore delle consuete prefazioni da filosofo, veri starnazzamenti dopo aver fatto l’uovo […]. Le pagine che seguono non devono commettere oggi l’errore felicemente evitato allora e non dovranno mai essere ristampate, in edizioni future, come premessa o appendice dell’opera”44.

Dopo aver cercato di classificare la Stella in una categoria di comprensione che ne potesse orientare la lettura, che viene subito indicata non in una “filosofia della religione”, ma in un “sistema di filosofia”45, Rosenzweig si concentra in modo analitico sulle tre sezioni dell’opera stessa. Vediamo dunque di soffermarci su quanto dice a proposito della seconda sezione, quella sul “mondo incessantemente rinnovato”, che è quella su cui ci siamo concentrati nel capitolo iniziale sulla verità nella Stella. Avevamo prestato particolare attenzione a questa seconda sezione, in particolare al suo secondo libro, perché qui, oltre che nell’ultimo libro della terza, emergeva con chiarezza l’idea rosenzweighiana di verità connessa all’esperienza: l’idea che la verità, appunto, potesse darsi per l’uomo solo nella concreta esperienza che ha luogo nel mondo reale, il mondo “incessantemente rinnovato”. Questo mondo era costituito, nella seconda sezione della Stella, essenzialmente di relazioni: la creazione, la relazione tra Dio e il mondo; la rivelazione, la relazione tra Dio e l’uomo, e la redenzione, la relazione tra l’uomo e il mondo. Creazione, rivelazione e redenzione infatti sono i titoli dei tre libri in cui questa sezione è articolata. In quel contesto la rivelazione ci era apparsa la relazione in cui per l’uomo era possibile conoscere la verità, non una

43 Cfr. Il Nuovo Pensiero, op. cit., p. 256. 44 Ivi, p. 257.

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28 verità concettuale e compresa nel pensiero, ma una verità esperita. La verità, avevamo visto, si poteva dare per l’uomo solo nella relazione, non in sé e per sé e indipendentemente da ogni coinvolgimento relazionale. Le tre fattualità perenni del pre-mondo, essenziali e paradigmatiche, ma chiuse in se stesse, nella loro separazione irriducibile, costituivano tre “nulla”, tre nulla “del nostro sapere”46, inattingibili al pensiero.

Questo è quanto, poi, Rosenzweig scrive per esteso, in dettaglio e con pregnanza chiarificatrice nel Nuovo Pensiero, parlando della seconda sezione della

Stella:

Nell’unica realtà di cui noi abbiamo esperienza si gettano, a superarla, dei ponti e tutte le nostre esperienze sono esperienze di questi ponti gettati. Dio stesso, se vogliamo afferrarlo concettualmente, si cela; l’uomo, il nostro sé, si chiude, il mondo diviene un evidente enigma. Soltanto nelle loro relazioni, nella creazione, nella rivelazione, nella redenzione essi si dischiudono47.

L’esperienza della verità nelle reciproche relazioni, nel nostro caso l’esperienza da parte dell’uomo della verità di Dio nella rivelazione, è prima di tutto l’esperienza di una chiamata, con la quale Dio desta il Sé meta-etico conchiuso nelle profondità del pre-mondo. Alla chiamata per nome (Adam), il Sé meta-etico si schiude e prende coscienza di sé in quanto “io” assolutamente individuale e particolare48. Il fenomeno della rivelazione, intuiamo già fin da subito, è un evento dialogico, un dialogo fra Dio e l’anima, che riceve da lui il comandamento

dell’amore verso l’Eterno e verso il prossimo, al quale l’anima risponde con l’accoglienza e la confessione di fede, che è insieme testimonianza del Dio che l’ha evocata49.

46 Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 22. 47 Idem, Il Nuovo Pensiero, op. cit. P. 270.

48 “L’uomo, il quale al “dove sei tu?” di Dio aveva ancora taciuto, come un ‘sé’ caparbio ed ostinato,

ora, chiamato con il suo nome, due volte, con la più grande determinazione […], risponde totalmente aperto, totalmente dispiegato, tutto pronto tutto… anima: “sono qui”. Ecco qui l’’io’. L’io umano singolo”. Idem, La stella della redenzione, p. 181.

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29 Il libro sulla Rivelazione, il libro centrale della seconda parte della Stella, è dunque un “dialogo”, è compiutamente al presente, mentre il primo, quello sulla

Creazione, era al passato. A questi due tempi corrispondono due differenti stili

linguistici, o “stili di pensiero”50: la narrazione per la creazione, e il “colloquio immediato” per la rivelazione51. Nel passo che stiamo attualmente prendendo in esame del Nuovo pensiero, si affaccia un tema che riprenderemo più diffusamente in seguito, e che concerne “il metodo del parlare”, “il pensiero parlante”52, che sarà molto istruttivo ai fini della comprensione della “filosofia esperiente” rosenzweighiana citata nel titolo della tesi. Questo “nuovo pensiero”, che confluisce ed è calato in maniera paradigmatica nel libro centrale della Stella, ossia quello appunto sulla Rivelazione interno alla seconda parte, si nutre della temporalità, necessita della temporalità per raggiungere il suo approdo conoscitivo, diversamente da quello “vecchio”, che indagando circa l’essenza delle cose e del reale, faceva sì che “l’ultimo obiettivo” fosse il primo, caratterizzandosi così per la volontà di conoscere in modo “intemporale”53. Questo pensiero è un pensiero squisitamente “grammaticale”, e non più logico-matematico, quale era l’organon della prima parte della Stella, in cui Dio, mondo e uomo venivano indagati con gli strumenti operazionali della matematica. La differenza cruciale fra questo pensiero “parlante” e quello della filosofia tradizionale risiede soprattutto nel “bisogno dell’altro o, il che è lo stesso, nel prendere sul serio il tempo”54. La verità per questo nuovo stile del pensiero non si dà in maniera sincronica, nell’atto stesso del pensiero che la pensa, che astrae il particolare dall’universale o si coglie come pensiero puro e spirituale, ma è legata al tempo e al suo “accadere”, si fa nel corso del tempo, nel corso del dialogo, senza sapere in anticipo dove andrà a concludersi. In questo senso la rivelazione di Dio all’uomo, come dialogo tra Dio e l’uomo, che abbiamo trovato nella Stella così come nella Scienza di Dio, è tale da

50 Francesco Paolo Ciglia, Franz Rosenzweig, in Adriano Fabris, Il pensiero ebraico nel Novecento,

Carocci; Roma, 2015.

51 Cfr. p. 270, Rosenzweig, Il Nuovo Pensiero, op. cit. 52 Ivi, pp. 270-271.

53 Ivi, p. 269. 54 Ivi, p. 271.

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30 non avere la certezza del suo esito. La rivelazione e il comandamento d’amore ingiunto all’uomo non garantisce, per Dio, l’unificazione e l’avvento del suo regno; così come non garantisce all’uomo l’esaudimento della sua preghiera, corale, per l’avvento della redenzione55. La conoscenza della verità, oltre che legata all’esperienza, è dunque intrinsecamente legata al tempo e “al suo accadere”. La preghiera si pone come il culmine di questo dialogo in cui si scandisce la rivelazione, dialogo vivamente esperito e vissuto da entrambe le parti, in cui si incarna e si manifesta in maniera progressiva una verità, di cui in anticipo nessuna delle due parti è pienamente a conoscenza.

Parlare è legato al tempo, si nutre di tempo, non può né intende abbandonare questo suo terreno di coltura, non sa in anticipo dove andrà a parare, lascia che siano gli altri a dargli la battuta. Vive soprattutto della vita di altri […], l’interlocutore del dialogo […]. Nel dialogo vero qualcosa accade sul serio […]. Il pensatore [quello del vecchio pensiero, invece] conosce in precedenza i propri pensieri56.

La formula “pensiero parlante” potrebbe richiamare alla mente il “pensiero dialogico” di Martin Buber, che aveva pubblicato in quegli stessi anni (1923) il saggio intitolato Io e Tu (Ich und Du). Anche nella visione di Buber, per altro amico e collega di Rosenzweig al Freies jüdisches Lehrhaus, non è possibile alcuna conoscenza di Dio all’infuori della relazione viva con lui57. Fatto salvo il fatto che anche le relazioni con il prossimo sono tali da dischiudere una relazione implicita con Dio:

55 “L’anima deve dunque pregare per la venuta del regno […]. La rivelazione culmina in questo

desiderio inappagato, nel grido di una domanda che attende risposta […]. Ma esaudire il desiderio, rispondere alla domanda, far tacere il grido non è più in so potere”. Idem, La Stella della

redenzione, op. cit., p. 190. 56 Idem, Il Nuovo Pensiero, p. 271.

57 “Non è che Dio si possa inferire da qualcosa, per esempio dalla natura come suo artefice, o dalla

storia come suo reggitore, o anche dal soggetto come l’io che nel soggetto pensa se stesso. Non è che ci sia qualcos’altro di «dato», da cui poi si sia dedotto Dio; ma Dio è colui che è immediatamente e innanzitutto e sempre di fronte a noi: che può essere solo legittimamente appellato, ma non detto”. Io e Tu in Martin Buber, Il principio dialogico e altri saggi, a cura di Andrea Poma, San Paolo, Milano 2014, p. 117

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Le linee delle relazioni, nei loro prolungamenti, si intersecano nel Tu Eterno. Ogni singolo tu è una breccia aperta nel Tu Eterno. Per mezzo di ogni singolo tu la parola fondamentale interpella il Tu eterno58.

I due pensatori ebrei rintracciano nel dialogo e nella relazione presenzialmente vissuta una nuova fenomenologia della verità, che non si dà più nell’immanenza dello spirito individuale e solitario, ma necessita dell’altro per il suo costituirsi e la sua performatività reale, legata al tempo.

I, IV. La verità nel “Nuovo Pensiero”.

Dalla verità come Erlebnis alla “nuova gnoseologia”

Questa idea della verità che si costituisce progressivamente nella relazione è legata a un’altra concezione che compare poco oltre nel saggio del Nuovo

Pensiero di Rosenzweig, concezione che compie un passo ulteriore, e lega la verità

esperita e vissuta (er-lebt) alla necessità di testimoniarla attivamente nella prassi. La performatività della verità anche qui si staglia in primo piano, ma mette in luce il pericolo di un’idea di verità come esperienza vissuta in solitudine nella relazione con Dio59. La verità recepita deve essere resa patrimonio comune e portata fuori dalla propria esperienza interiore (Erlebnis) per essere condivisa e resa-vera nella propria vita quotidiana attraverso la propria personale opera.

Ecco che la verità diventa non soltanto “esperienza vissuta”, ma anche principio esternato e tradotto esistenzialmente nell’esperienza concreta che facciamo percorrendo il mondo. Erfahrung (esperienza) è un sostantivo derivato dal verbo “fahren”, che significa viaggiare, andare, camminare, girare. Il sostantivo

58 Ivi, p. 111.

59 “Il mistico non è un uomo, è a malapena un uomo a metà, è soltanto il recipiente delle estasi da

lui esperite. Egli parla, certo, ma ciò che dice è solo risposta, non parola [Antwort nicht Wort]; la sua vita è soltanto un attendere, non un andare. Eppure soltanto un uomo che sapesse crescere dalla risposta alla parola, dall’attesa di Dio al camminare al cospetto di Dio, sarebbe un uomo reale, un uomo completo”. Rosenzweig, La stella della redenzione, op. cit., p. 216.

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32 viene a significare l’esperienza pratica che si configura in un sapere circa ciò con cui si è venuti di volta in volta a contatto60.

Casper nel suo saggio Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento, parlando dell’esperienza nel “nuovo pensiero” di Rosenzweig, scrive che “l’Erlebnis può restare nello spazio della semplice interiorità, del soggettivo, del privato”, e che tuttavia scaturisce da un “evento”, quello della rivelazione, con un soggetto che, come tale, attesta la sua naturale trascendenza ed alterità rispetto a noi. L’evento, totalmente imprevedibile, non anticipabile dal pensiero, scaturisce da una trascendenza inattingibile e, tuttavia, viene vissuto dal soggetto in modo straordinariamente intimo e soggettivo. Per cui, seguendo Casper:

Un pensiero esperiente accade ella relazione, che ha luogo in modo sovrano, propria dell’evento avvenuto. Ciò, in questo senso, fonda l’esperienza vissuta61.

In questo senso l’Erlebnis, secondo l’intuizione di Fabris nello studio

Linguaggio della rivelazione62, potrebbe essere sinonimo dell’esperienza di fede

con cui l’uomo può rispondere alla rivelazione divina, a patto di accantonare i pericoli di una fede vissuta nell’isolamento, pericoli scongiurati poi dal rimando alla testimonianza e alla verifica nella propria vita quotidiana di questa esperienza soggettiva. Non solo, il pericolo è arginato, sempre seguendo la monografia di Fabris, dal fatto che la fede ebraica si caratterizza essenzialmente come “credenza comunitaria”, non come accettazione passiva individuale e arbitraria; come un “aver fiducia” che non presuppone contenuti dottrinali o dogmatici, e che si traduce in prassi rituali e performative a loro volta pienamente condivise.

E’ pur vero, tuttavia, che nella Stella Rosenzweig si serve anche del termine “Erfahrung” per indicare l’esperienza interiore e soggettivamente vissuta, e che dunque il termine sembrerebbe rivestire per lui il medesimo significato del

60 Dizionario Sansoni, tedesco-italiano, italiano-tedesco, Firenze, 1996, voce “fahren” e “Erfahrung”

(es.: il proverbio tedesco “Erfahrung ist die beste Lehrmeisterin”, “esperienza è madre di scienza”).

61 Casper, Rosenzweig e Heidegger. Essere ed evento, Morcelliana, Brescia, 2008, p. 47.

62 Adriano Fabris, Linguaggio della rivelazione, Filosofia e teologia nel pensiero di Franz Rosenzweig,

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33 termine “Erlebnis”. Nell’ultimo libro della terza parte della Stella il pensatore chiarisce il significato dell’espressione “Dio è la verità”, diversa da quella tradizionale per cui al contrario la “verità è Dio”63, riportandolo all’esperienza vissuta (“Erfahrung”) del suo amore, della sua rivelazione a noi, e non al concetto universale che identificherebbe Dio nel suo essere:

La proposizione “Dio è la verità” è completamente isolata tra tutte le proposizioni che vogliono chiarificare l’essenza di Dio. Questa divina essenza non è nulla più che l’autorivelarsi divino […]. Dio è la verità: questa proposizione con la quale noi pensavamo di giungere all’estremo limite del sapere, se esaminiamo più da vicino che cosa sia in definitiva la verità, vediamo che ci ridice con altre parole soltanto il dato più familiare e noto della nostra esperienza (Erfahrung); da un apparente sapere circa l’essenza sorge invece la vicina, immediata esperienza (Erfahrung) del suo agire; ‘Egli è la verità’ non ci dice in definitiva nulla di diverso da questo; che Egli ama64.

Quest’altro senso della verità che la connette alla nostra capacità di in-verarla nella prassi della nostra vita e della nostra esperienza nel mondo, costituisce per Rosenzweig, secondo quanto ci dice il Nuovo pensiero, una “nuova gnoseologia”, diversa dalla “vecchia” al cui centro sussisteva un concetto statico di verità. Quest’ultimo era legato alla “teoria dell’oggetto” e a quella della “coerenza interna”65, enunciazioni con le quali l’autore intende probabilmente alludere rispettivamente alla teoria aristotelica della sostanza ontologica, intesa sia come sinolo, sia come forma-essenza, e alla concezione, sempre di matrice aristotelica, logica e corrispondentista della verità del De Interpretatione, per cui la proposizione è vera quando riproduce le connessioni presenti nel reale. Le verità che una determinata tradizione filosofica aveva definito come “postulati”, forme

63 “Non si può dire che la verità è Dio, poiché essa potrebbe allo stesso titolo essere anche la realtà.

Ed allora Dio sarebbe indifferentemente la realtà, sovra-mondo e mondo insieme, e tutto si confonderebbe nella nebbia. Così dunque Dio deve essere “più” che la verità, come ogni soggetto è più del suo predicato, ogni cosa è più del suo concetto”. Rosenzweig, La stella della redenzione, op. cit., p. 397.

64 Ivi, p. 399.

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34 di bisogno umano o ideali regolativi e incoativi della ragione pratica, sono per il pensatore quelle più elevate e più dispendiose, dal punto di vista del sacrificio personale e generazionale che comportano. Se la verità nella sua dimensione logico-matematica richiede per poter essere attinta “un po’ di sudore delle meningi”, quella semplicemente postulata e non ancora raggiunta, racchiusa ancora nel circuito interiore dell’esperienza vissuta in attesa di essere esternata e testimoniata in maniera condivisibile, necessita “sacrificio” personale e “impegno generazionale”.

Credo importante, personalmente, prima di riportarlo opportunamente in sede di conclusione, mettere in luce sin da subito il pericolo che si potrebbe annidare latentemente in un ’idea di verità come testimonianza di un’esperienza vissuta. Nella nostra epoca una tale idea potrebbe, se assunta in maniera decontestualizzata e scardinata dal pensiero generale dell’autore, sollevare interpretazioni fuorvianti e fraintendimenti di non poco conto, quando la testimonianza di un’esperienza vissuta soggettivamente venga assunta come eroismo fine a sé e martirio personale, che spesso può coinvolgere soggetti che, insieme al “testimone della verità”, ne fanno le spese. Mi sia concesso mettere in luce l’equivocità che potenzialmente si annida in questa nuova concezione della verità, che pure porto in tesi assumendola, sulla scorta di Rosenzweig, come punto di svolta nella storia della filosofia occidentale, che mai prima l’aveva assunta al di fuori di un concetto a priori, a posteriori come pur sempre risultato raggiunto da confinare nell’orbita del pensiero puro, e, potremmo aggiungere, esperienza interiore inoggettivabile nella sua unità vitale (Dilthey).

Detto ciò, la nuova gnoseologia rosenzweighiana che “valuta le verità sulla base del prezzo del loro inveramento” – e non soltanto sulla base della loro universalità e necessità- proponendosi di andare oltre la concezione ontologico-formale e logica della verità, va con ciò oltre l’idea, implicita in essa, della possibilità di un suo possesso compiuto. La verità da concetto a priori o a posteriori diventa oggetto d’esperienza interiore ancora indeterminato e bisognoso di esternazione e di condivisibilità universale, non di validità che si autoimpone come determinazione essenziale di un concetto logico. Il possesso della verità nella sua

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35 compiutezza si dà, nell’ottica di Rosenzweig, solo per Dio, il quale, precisamente, ne è l’origine e non si riduce alla sua essenza. Per l’uomo, o meglio per gli uomini, è possibile avere solamente, come abbiamo avuto modo di dire più sopra, “parte” alla verità. L’idea della partecipazione alla verità, che l’autore traccia a più riprese nell’ultima sezione della Stella, è intimamente legata a quella, enucleata poi appunto nel Nuovo Pensiero, che essa deve essere “verità per qualcuno”66. Solo in questo modo essa cessa di essere ciò che semplicemente si presenta come auto-sussistente e sostanziale, come ciò che “è” vero, e diventa “ciò che vuole essere confermato vero” (“was als wahr bewährt werden will”). La conferma/convalida (Bewährung) della verità è il concetto centrale della nuova gnoseologia rosenzweighiana, che non rinvia ovviamente a un’accezione scientista della convalida, per cui di nuovo la verità raggiunta per via logica o intuitiva che sia, ricadrebbe nella validità universale di cui prima si parlava. L’idea della conferma della verità vissuta nell’esperienza personale (Erlebnis) della rivelazione, è legata a quella di testimonianza, di agire credente nel senso di motivato, responsabile, che nulla ha a che vedere con la dimostrazione di tenore scientifico, sia nella sua declinazione fisico-sperimentale, che in quella logico-matematica. Rosenzweig nella lezione sulla Scienza di Dio aveva contrapposto alla dimostrazione l’inveramento, asserendo che non si dà una “dimostrazione” dell’esistenza di Dio, ma soltanto un inveramento, che era costituito dal suo governo sul mondo, l’inveramento della sua semplice natura eterna, che così diventava accessibile in ogni esperienza dell’uomo nel mondo.

Qui, nel Nuovo Pensiero, l’inveramento della verità, non riguarda tanto Dio, ma l’uomo. Più precisamente: l’inveramento e la testimonianza pratica della verità di Dio, divenuta “verità per qualcuno”, da parte dell’uomo. La verità come concetto sostanziale della “vecchia gnoseologia” - da Parmenide fino a Hegel - riferita solamente a se stessa, per diventare verità per qualcuno, deve, seguendo Rosenzweig, farsi “molteplice”67. Il fatto che resti unica è dato dalla certezza che essa si identifica con l’unico Dio del monoteismo ebraico e cristiano; ciò che

66 Ibidem. 67 Ibidem

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36 cambia è la ricezione, insieme interpretazione e testimonianza, dell’umanità ricevente la rivelazione.

Qui il pensatore è quasi caustico: la verità nella sua configurazione

mondana, nel mondo incessantemente rinnovato68, è “spaccata” nelle differenti partecipazioni di ebrei da una parte e cristiani dall’altra, nelle due diverse “attese

messianiche”: “quella del messia che viene, e quella del messia che ritorna”69. Il popolo ebraico, a parere di Rosenzweig, come popolo eletto da Dio, è già da sempre presso di lui, non viene al Padre per il tramite di un atto di fede nel mediatore, nel Messia, come figlio di Dio, come invece accade per il cristiano. La semplice rigenerazione del popolo è garante del legame con Dio, che è tale fin dalla nascita di ogni suo membro; mentre il cristiano, sempre secondo il pensatore, nasce pagano, la conversione avviene successivamente nella sua vita individuale e personale, attraverso il battesimo e i sacramenti.

La differenza più profonda tra l’uomo giudaico e quello cristiano è che il cristiano, per sua natura o almeno a causa della sua nascita, è pagano, mentre l’ebreo è ebreo. Così la via del cristiano deve essere una via di autoespropriazione, egli deve sempre allontanarsi da sé, rinunciare a sé, per divenire cristiano. La vita dell’ebreo invece non deve affatto condurlo fuori dal suo sé; egli deve vivere sempre più profondamente in se stesso; quanto più trova se stesso tanto più si stacca dal paganesimo […] e tanto più diventa ebreo. Perché certo egli nasce ebreo […]70.

Anche per l’ebraismo non di meno si dà un’”attesa messianica”, anche se molto diversa da quella propria del cristiano, per il quale il Messia è già venuto nella persona di Gesù Cristo e ritornerà alla fine dei tempi per giudicare chi è meritevole di salvezza eterna e chi no. Il Messia è per l’ebreo oggetto di un’attesa che tende a un cosmo escatologico di pace sotto l’egida di Dio, e non è ancora venuto, nonostante la storia ebraica sia costellata dalla comparsa di falsi messia, il più noto dei quali fu Shabbataj Zevi (1626- 1676).

68 Idem, La stella della redenzione, op. cit., p. 93. 69 Idem, Il nuovo pensiero, op. cit., p. 280.

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37 Secondo Rosenzweig, detto ciò, questi due differenti modi di rapportarsi alla verità e a Dio, esemplificati dall’ebraismo e dal cristianesimo, sono tali da configurare la “nuova gnoseologia” che stiamo attualmente analizzando. Entrambi ricevono la rivelazione, in due differenti tempi storici, e la mettono in opera; l’ebreo seguendo i dettami della legge donata sul monte Sinai a Mosè, e il cristiano irradiando in forma missionaria la verità che l’ebreo da quel momento porta nel suo cuore e custodisce nel suo stesso sangue. L’ebreo disegna il fuoco della stella

della redenzione, serbando la verità nella perpetuazione generazionale del suo

popolo, e vivendo ciclicamente nella scansione liturgica dell’anno. Il cristiano ne traccia i raggi, i percorsi che irradiano questa medesima verità nel mondo, rendendone testimonianza e facendosi carico dell’apostolato. L’inveramento della verità, punto cardinale della nuova gnoseologia, apre all’umanità ricevente la rivelazione, l’umanità tutta a parere del pensatore, la possibilità di renderla vera nella prassi della propria vita quotidiana, una prassi che per l’ebreo è animata dalla Legge, e per il cristiano dalla “fede”, dalla fede in Gesù Cristo come figlio di Dio e redentore di coloro che accoglieranno il suo annuncio di salvezza.

La prassi delle due confessioni di fede, che Rosenzweig nella Stella non descrive da un punto di vista dottrinale o apologetico, ma da un punto di vista, come avremmo modo di approfondire più avanti, “sociologico”, è tale da conferire concretezza all’esperienza vissuta della rivelazione e della verità ivi contenuta, seppure tale prassi si articoli secondo due differenti modalità. Ciò è dovuto essenzialmente alla differente natura e al differente fondamento appunto

sociologico dei due approcci, che nell’ebraismo si esprime nel popolo come “dato

di fatto” (“Tatsache”), e nel cristianesimo nell’”evento” (“Ereignis”) che aduna e fonda la comunità di fede, la Chiesa. Per entrambe le confessioni è centrale l’anno liturgico, cadenzato dalle festività, per lo più sacre per l’ebraismo, sacre e profane per il cristianesimo, ma tutte vissute in forma comunitaria e condivisa, nella parola e nel gesto. Nelle festività e nelle ricorrenze annuali religiose, per loro natura circolari come l’anno, prende forma l’eterno che rappresenta lo sbocco ultimo della temporalità in cui naturalmente si collocano; seppure la temporalità “ebraica” sia già, in un certo senso, compiuta, al di là della storia universale, e per

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