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Parte II. Lo specchio come metafora

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Parte II. Lo specchio come metafora

Ma nulla è riflesso così prontamente come l’immagine dallo specchio; questo infatti non crea nulla, ma si limita a rivelare.

Seneca, I secolo d. C.

Non ti sembra che la tua immagine rimandata dallo specchio voglia quasi essere te stesso, ma è falsa perché non è?

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3. Idee e significati associati allo specchio

3.1. Multifunzionalità e duplicità dello specchio

In quella straordinaria sintesi della cultura antica che sono le Questioni naturali di Seneca, del I secolo d. C., è contenuto un brano interamente dedicato allo specchio, epilogo di una trattazione scientifica sui fenomeni atmosferici e di riflessione presenti in natura. Si tratta di una fonte preziosa da cui si ricavano alcune caratteristiche fondamentali di questo dispositivo e del suo valore morale e immateriale, oltre che pratico e utilitario, tale da renderlo degno oggetto di studio da parte dei filosofi. E’ proprio dalla natura che Seneca parte per spiegare l’esistenza degli specchi, ovvero di una “materia capace di ricevere le immagini”1

delle cose reali, e ne individua due motivazioni: da un lato l’osservazione degli astri e delle eclissi tramite il riflesso, che è l’unico modo per conoscerne l’aspetto, smorzandone la luce altrimenti insostenibile alla visione diretta, dall’altro la conoscenza di se stessi, per trarne vantaggiosi insegnamenti morali, come già dichiarato da Socrate alcuni secoli prima. Riguardo proprio a quest’ultimo caso si legge:

Gli specchi furono inventati perché l’uomo conoscesse se stesso, traendone molti vantaggi per il futuro, innanzitutto la conoscenza di sé, poi degli utili suggerimenti per affrontare le diverse situazioni: se bello, per evitare azioni disonorevoli; se brutto, per sapere che bisogna

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riscattare con le virtù tutte le manchevolezze del corpo; se giovane, perché nel fiore dell’età fosse avvertito che è quello il tempo di imparare e di osare audaci imprese; se vecchio, per abbandonare tutto ciò che non si addice alla canizie, per pensare un po’ anche alla morte. In vista di queste cose la natura ci ha dato la possibilità di rimirare noi stessi2.

Lo specchio permette dunque di vedere ciò che altrimenti sarebbe invisibile e sin dall’antichità trova impieghi utili sia in campo scientifico e astronomico, anticipando quasi l’uso che troverà nei moderni telescopi a riflessione, sia nella sfera del perfezionamento morale e perfino come memento mori. Caratteristica primaria di questo oggetto è la multifunzionalità, dal momento che, oltre ad essere un dispositivo per la riproduzione delle immagini e l’auto-riflessione, è anche strumento di visione e conoscenza e un utensile per l’abbellimento di sé.

Più avanti nel discorso però, oltre alle suddette funzioni essenzialmente positive, scientifiche o morali che siano, Seneca insinua l’esistenza di usi devianti dello specchio, per lo più con scopi frivoli, erotici o galanti, che si sono sviluppati nel corso del tempo. Va infatti detto che la sua narrazione si colloca all’interno di una più ampia discussione sul cattivo uso di quanto creato dalla natura, sulla dissoluzione dei costumi e il decadimento morale dell’età imperiale, che ha allontanato l’uomo dalla sobrietà dell’età dell’oro. Pertanto, la storia della diffusione dello specchio, di seguito raccontata, mostra come proprio l’uomo, non pago di quelle che erano le superfici di riverbero in

2 Seneca, op. cit., I, 17, 4; per l’osservazione degli astri per riflessione cfr. anche

Ibidem, I, 17, 2-3 cfr. I, 12, 1, dove si parla della contemplazione delle fasi di un’eclissi

attraverso l’uso di catini pieni di una sostanza liquida e immobile, come l’acqua, l’olio o la pece.

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origine presenti in natura, come le sorgenti d’acqua e le pietre levigate, e animato dal crescente desiderio di contemplare più spesso le proprie sembianze, si sia spinto fino a scavare le viscere della terra per procurarsi il metallo necessario alla fabbricazione di tazze o altri oggetti riflettenti, come i dischi speculari, in cui potersi rimirare. In questo modo, con l’avvento dello specchio artificiale, si sarebbero fatti strada usi impropri e negativi, come la recente moda maschile di farsi acconciare i capelli, ignota agli antenati:

[la natura] non lo ha fatto certo per questo: perché noi davanti allo specchio ci radessimo la barba o perché noi, maschi, ci lisciassimo la faccia (in nessun campo la natura ha lasciato spazio all’azione della mollezza)…3

La mollezza quindi sarebbe uno dei citati scopi devianti, insieme all’amore per il lusso che porta alla costruzione di manufatti cesellati d’oro e d’argento e tempestati di pietre preziose, capaci persino di superare, con il loro costo, quello di una dote assegnata alle spose del tempo antico. Ma il caso più eclatante di impiego degenere dello specchio è sicuramente quello del ricco e dissoluto Ostio Quadra che, per soddisfare la propria lussuria durante i suoi svariati incontri sessuali, si sarebbe circondato di superfici riflettenti capaci di ingrandire e moltiplicare le immagini riflesse4.

Da una testimonianza come questa, accanto alla multifunzionalità speculare, emerge anche la natura duplice, positiva ma anche negativa, di quello che è un oggetto complesso e mutevole così come lo sono i riflessi che è in grado di restituire. E’ proprio questa

3 Seneca, op. cit., I, 17, 2 e più oltre I, 17, 7. 4 Seneca, op. cit., I, 16.

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polarizzazione della superficie riflettente, veritiera e utile o fallace e vacua nel riprodurre la realtà, che con il tempo viene trasferita dalla dimensione fisica a quella filosofico-metaforica, così da sfruttarla per alludere a concetti disparati, anche antitetici tra loro. Alla base del fortunato uso dello specchio come metafora, da parte di filosofi, letterati e artisti, oltre alla versatilità propria dei grandi simboli, c’è anche la sua caratteristica capacità di “far vedere”, di rivelare, insieme a quella citata componente di meraviglia esercitata a lungo sull’uomo, a partire dai primi riflessi sulle superfici naturali, che è evocata anche da una delle sue radici etimologiche nel verbo mīrāri.

E’ così che, attraverso i secoli, sulla superficie specchiante si sono depositate una quantità di idee e credenze magico-religiose e filosofiche, anche abbastanza eterogenee, che risalgono in gran parte all’antichità pagana ma che sono giunte all’età moderna e contemporanea attraverso il filtro del Medioevo cristiano, che in parte le ha rielaborate in chiave teologica e morale. L’associazione dello specchio alla donna, ad esempio, è tuttora frequente e generalizzata, senza necessariamente conoscere la mitologia o le decorazioni sul retro dei manufatti antichi, ed è velatamente riferita alla nozione di vanità; si è invece abbandonata l’idea che specchiarsi possa essere un atto di prudenza o saggezza, persino esemplare. In epoca odierna infatti, si è spesso persa la consapevolezza della genesi di certi problemi ricorrenti, diventati più articolati nei secoli addietro, e ripercorrerli a ritroso diventa un’operazione intrigante che si è scelto di fare qui, selezionando alcuni filoni ritenuti più significativi, come quello legato al problema della

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conoscenza o dell’abbellimento di sé e optando proprio per quel periodo, tra l’antichità e il Medioevo, di feconda elaborazione concettuale.

Gli strumenti impiegati per questo studio sono nuovamente le fonti letterarie e quelle iconografiche, che presentano una rispondenza di temi e polisemia, in un contesto in cui, in parallelo all’evoluzione tecnologica del manufatto, si sviluppano nuove idee e significati ad esso metaforicamente associati.

3.2. Lo specchio come strumento di visione e

conoscenza

3.2.1. Antichità pagana

Finora si è solo brevemente accennato al problema dello specchio come strumento di conoscenza, una questione di origine antica, di cui restano tracce in termini legati ad attività di pensiero filosofiche o teoretiche, come “speculazione”, derivato dall’osservazione del cielo e dei movimenti degli astri con l’aiuto appunto di uno specchio, o “considerazione”, dalla parola sidus, “stella”, e con lo stesso significato originario di “guardare [attraverso una superficie riflettente] le stelle”5.

Parole astratte, usate oggi per designare delle operazioni intellettuali e conoscitive, si radicano quindi nella pratica di studio degli astri riflessi dallo specchio, simile a quella menzionata da Seneca, e da sole alludono a come la superficie specchiante sia il supporto utile alla meditazione e

5 Cfr. J. Chevalier, ed., “Miroir”, in Dictionnaire des symboles, mythes, rêves,

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alla conoscenza, e al conseguente simbolismo che ne deriva. Anche il termine “riflessione”, che come si è detto implica letteralmente un rinviare indietro la luce, re-flĕctĕre, può far riferimento al considerare tra se stessi, ripiegare il pensiero nella propria mente, come un riflesso speculare.

Nello specifico, ripercorrendo il problema della conoscenza per speculum, è possibile risalire indietro a due tradizioni millenarie, una positiva, l’altra negativa, che dall’antichità pagana sono giunte nel Medioevo cristiano e poi in età moderna. A seconda infatti del valore attribuito all’immagine riflessa, attendibile in un caso, ingannevole nell’altro, e in base agli utilizzi che ne vengono fatti, lo specchio viene ad essere paradigma di veridicità o di illusorietà, ripresentando in ogni caso il problema della sua natura duplice e contraddittoria.

La tradizione positiva per eccellenza è sicuramente quella socratica, legata all’antico precetto delfico del “conosci te stesso” per la cura propria anima, in funzione del quale lo specchio diventa uno strumento, veritiero, di correzione morale. Secondo quanto riportato da Diogene Laerzio infatti, Socrate esortava i giovani a rimirarsi costantemente nello specchio, in modo da conoscere i propri difetti e potersi migliorare:

Riteneva anche opportuno che i giovani si specchino di frequente, perché, se sono belli ne divengano degni, e se invece sono brutti cerchino di nascondere la loro bruttezza con l’educazione6.

Lo stesso invito a specchiarsi per conoscersi, come si è avuto modo di osservare nel capitolo sull’ottica, era anche esteso a “specchi

6 Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, II, 33, ed. G. Reale, Milano,

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naturali” come gli occhi, dall’analoga capacità di riflessione7. Questo

insegnamento costituisce il fondamento della corrente di pensiero apologetica nei confronti del dispositivo speculare. Ad esso, ad esempio, si rifà Fedro nella favola in cui un padre invita i suoi due figli a specchiarsi quotidianamente, affinché il maschio, di bell’aspetto, non alteri la propria bellezza con un comportamento disonesto, mentre la figlia brutta possa compensare questa sua manchevolezza con un carattere virtuoso8. A questa tradizione si richiama sicuramente anche

Seneca nel passo citato sull’uso dello specchio per trarne insegnamenti morali o quando ne propone l’utilizzo alle persone adirate, per contenere gli eccessi di collera dopo aver contemplato i tratti alterati e quasi irriconoscibili del proprio viso, sostenendo che “chi ha fatto ricorso allo specchio per cambiarsi, si è già cambiato”9. Infine, uno degli

esempi più significativi, che legittima l’associazione del dispositivo speculare al filosofo, rimane senz’altro quello di Apuleio che, trovato a difendersi, nell’ambito di un processo per magia, dalla disdicevole accusa di immoralità e vanità per il possesso di uno specchio, spiega l’utilità per il filosofo di specchiarsi di frequente per il controllo di sé, facendo riferimento ai modelli positivi di Socrate, Demostene e, in campo più strettamente scientifico, Archimede10.

Contemporaneamente a questa tradizione positiva però si sviluppa una corrente opposta e negativa, anch’essa di matrice greca ma fatta propria dal Cristianesimo, che vede nell’immagine speculare

7 Platone, Alcibiade primo, cit., 132d-133a. 8 Fedro, Favole, III, 8.

9 Seneca, L’ira, II, 36, 3, ed. C. Ricci, Milano, 1998, pp. 150-155. 10 Apuleio, op. cit., XIII-XV.

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l’inganno di un simulacro del mondo sensibile, un’apparenza priva di realtà, in quanto copia transeunte di essa. Il capostipite di questo indirizzo di pensiero è Platone, che colloca la questione dell’illusione del riflesso nell’ambito di un più generale discorso sulla mimesi e sui diversi gradi dell’essere. Nel X libro de La Repubblica infatti, Socrate, discutendo con Glaucone sulle arti di imitazione e su un metodo per creare ogni sorta di cose senza sforzo, dice:

Basta che tu voglia prendere uno specchio e farlo girare da ogni lato. Rapidamente farai il sole e gli astri celesti, rapidamente la terra e poi te stesso e gli altri esseri viventi, i mobili, le piante e tutti gli oggetti che si dicevano ora. - Sì, rispose, oggetti apparenti, ma senza effettiva realtà11.

In questo modo Platone affronta il problema del riflesso speculare, in grado di riprodurre ogni cosa, ma solo come apparenza, e quindi giudicato negativamente in quanto finzione, immagine irreale della realtà, di cui è solo una copia, “un oggetto che è esattamente come ciò che è, ma che non è”12, al pari del prodotto della pittura o della

poesia, criticate sul piano ontologico in quanto distanti anch’esse dal vero13. Con queste parole, anticipa altresì la critica alla sofistica, come

filosofia del simulacro, della finzione, con la pretesa di essere una scienza universale mentre in realtà è solo produttrice di immagini, così come lo è lo specchio14. Questa concezione si capisce meglio nel contesto

11 Platone, La Repubblica, X, 596e, ed. F. Sartori, Roma-Bari, 2006, p. 647. 12 Ibidem, 597a.

13 L’arte di imitazione non coglie che una piccola parte di ogni cosa, è copia o, nel caso

dello specchio, riflesso della realtà sensibile, a sua volta duplicato fallace del mondo intelligibile; per il discorso sulle arti di imitazione, in particolare sulla pittura cfr. 597a-598d.

14 Platone, Sofista, 239a-240a, dove si definisce il sofista eidōlopoión, cioè produttore

di immagini, come quelle che si formano sull’acqua, negli specchi o per mezzo delle arti figurative e plastiche, simili al vero eppure diverse da esso, così come lo sono i discorsi del sofista, che abbagliano i propri interlocutori e li ingannano, pur riuscendo ad affascinarli.

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dell’architettura dell’universo platonico e del il rapporto tra la realtà sensibile e quella intelligibile delle Idee, così come viene spiegata servendosi di una scala di diversi gradi dell’essere e della verità, in cui l’immagine o il riflesso sono solo una copia del mondo sensibile, che a sua volta è copia del mondo intelligibile; l’immagine speculare quindi viene giudicata negativamente, in quanto copia di una copia e, in questa classificazione ontologica, occupa il segmento più basso, più lontano dalla verità e viene addirittura apparentata all’ombra:

Supponi ora di prendere una linea bisecata in segmenti ineguali e, mantenendo costante il rapporto, dividi a sua volta ciascuno dei due segmenti, quello che rappresenta il genere visibile e quello che rappresenta il genere intelligibile; e, secondo la rispettiva chiarezza e oscurità, tu avrai, nel mondo visibile, un primo segmento, le immagini. Intendo per immagini in primo luogo le ombre, poi i riflessi nell’acqua e in tutti gli oggetti formati da materia compatta, liscia e lucida, e ogni fenomeno simile, se comprendi. – Certo che comprendo.

- Considera ora il secondo, cui il primo somiglia: gli animali che ci circondano, ogni sorta di piante e tutti gli oggetti artificiali. … Non vorrai ammettere, feci io, che il genere visibile è diviso secondo verità e non verità, ossia che l’oggetto simile [le immagini, il riflesso] sta al suo modello come l’opinabile sta al conoscibile?15

Inoltre, sempre Platone, solleva il problema dell’inversione delle parti proprio dell’immagine speculare, responsabile di provocare errori di opinione, poiché sensazione e conoscenza non si accordano più16.

Questa idea del riflesso che inganna i sensi e dell’errore di valutazione resterà un tema ricorrente, che si ritrova anche nella letteratura classica, ad esempio nella celebre vicenda dello sfortunato

15 Platone, La Repubblica, 510ab, op. cit., cfr. 510a-511e per

16 Oltre al già citato passo di Platone, Timeo, 46b, cfr. anche Id., Sofista, 266c e Id.,

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Narciso che, fuorviato dal suo stesso riflesso in una sorgente e incapace di riconoscervi se stesso, all’opposto di quanto prescritto dalla massima delfica, si innamora del proprio doppio finché, resosi conto dell’inganno speculare e dell’impossibilità di appagare il proprio desiderio, unendosi a ciò che è già suo, si strugge d’amore e si lascia morire in una sorta di consunzione17.

Sebbene Seneca non prenda posizione così netta a favore o contro lo specchio, preferendo forse mantenere la sua trattazione su un piano il più possibile scientifico, in un breve passo parla dello specchio come di un dispositivo che presenta come proprio un corpo che non gli appartiene, che mostra qualcosa che è privo di realtà concreta:

Infatti non ha realtà concreta ciò che si mostra in uno specchio, altrimenti non ne uscirebbe né dovrebbe continuamente far posto ad altre immagini né accadrebbe che innumerevoli figure ora spariscano ora si riformino. Qual è dunque la conclusione? Codesti sono simulacri e imitazione inconsistente di corpi reali, che possono essere essi stessi distorti e deformati da certi specchi costruiti per essere in grado di raggiungere questo scopo18.

Solo alla fine dell’antichità la metafora dello specchio viene recuperata in tutta la sua complessità di positivo e negativo dal Neoplatonismo e impiegata in un contesto ontologico, come mostrato ad esempio, nel III secolo d. C., dagli scritti di Plotino, che ne fa largo uso per spiegare la condizione dell’anima umana e il legame tra mondo sensibile e mondo intelligibile, adattando il problema della riflessione speculare al proprio sistema filosofico. Infatti, in un universo molteplice

17 Questo almeno secondo la celebre versione ovidiana del mito, Ovidio, Metamorfosi,

III, vv.339-510; la vicenda di Narciso però presenta diverse varianti e interpretazioni, per le quali si rimanda al già citato saggio di M. Bettini.

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e derivato per emanazione da un unico principio assoluto, l’Uno, l’idea di riflessione permette di spiegare il meccanismo di irraggiamento di questa entità prima attraverso diversi gradi dell’essere ontologicamente sempre meno perfetti, l’Intelletto, l’Anima universale, fino a giungere al mondo fatto di materia, allo stesso in modo in cui un’immagine si riflette da uno specchio all’altro e si moltiplica, pur rimanendo intera e uguale a se stessa, secondo un fenomeno ottico già descritto, da un punto di vista scientifico, da Seneca19. In questo modo, quindi,

l’universo neoplatonico viene a configurarsi come una gerarchia di riflessi che si propagano da un’unica fonte, così che tutte le forme del mondo sensibile riflettono una realtà superiore e lo specchio diventa un simbolo ontologico, prima ancora che uno strumento di conoscenza, per spiegare il legame tra l’Uno e il Molteplice, e la condizione dell’uomo nel mondo, che è anch’essa quella di un riflesso tra i riflessi. La stessa anima umana infatti è descritta come il riverbero di un’essenza che viene dall’alto, dall’Anima universale, che si divide nei corpi così come il riflesso di un unico viso in più specchi20. Il gradino più basso della scala

dell’essere è poi occupato dalla materia che costituisce il mondo sensibile, menzognera e tanto irreale quanto lo è lo specchio, che in apparenza è pieno di oggetti e sembra racchiudere tutto ma in realtà non contiene niente21.

19 Plotino, Enneadi, I, 1, 8; Seneca, op. cit., I, 5, 5.

20 Plotino, op. cit., I, 1, 8; a proposito della gerarchia di riflessi e dello specchio come

simbolo ontologico cfr. E. Jónsson, Le miroir. Naissance d’un genre littéraire, Paris, 1995, pp. 87-92, dove efficacemente si dice che Plotino sostituisce la dicotomia platonica di idee e simulacri, “il teatro di ombre” del mito della caverna, con un “palazzo di specchi”.

21 Plotino, op. cit., III, 6, 7, ed. M. Casaglia, Torno, 1997, dove si dice anche che

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La metafora dello specchio dunque torna nella sua accezione negativa di simulacro, di contenitore di immagini illusorie e prive di realtà e sta all’uomo non cadere in questo inganno come successo a Narciso, la cui vicenda viene portata ad esempio del pericolo che il mondo materiale esercita sull’anima, con le sue bellezze corporee, che non sono altro che immagini di realtà superiori:

Perché chi vede le bellezze dei corpi non deve inseguirle, ma sapendo che sono immagini, tracce ed ombre, deve fuggire verso ciò di cui queste sono immagini. Se infatti qualcuno corresse loro innanzi per impadronirsene, quasi fossero cose reali, assomiglierebbe a colui che volendo afferrare la bella immagine di sé che affiorava sull’acqua – a questo mi sembra voleva alludere la favola – si immerse nella corrente profonda e scomparve22.

Il concetto di riflessione però è impiegato da Plotino anche con una funzione più positiva, come possibilità di ritorno verso lo stadio superiore nella catena dell’essere, da parte dell’anima che non si fa ingannare dalle apparenze sensibili ma che, una volta purificata la vista, conosce se stessa e trova al proprio interno il richiamo a una realtà divina superiore23.

La concezione neoplatonica della condizione dell’uomo nel mondo, come riflesso di una realtà superiore a cui è possibile fare ritorno, sarà ripresa in chiave cristiana nel Medioevo, quando il processo di emanazione sarà sostituito dalla creazione, con l’idea,

come le cose in sogno oppure nell’acqua o in uno specchio, lascia necessariamente la materia priva di affezioni”.

22 Plotino, op. cit., I, 6, 8.

23 Cfr. Plotino, op. cit., I, 6, 8-9; E. Jónsson, op. cit., pp. 94-99, spiega che il pensiero

di Plotino è sviluppato dai suoi successori fino a far coincidere la conoscenza di sé con quella dell’ordine razionale dell’universo, dal momento che l’anima può contemplare l’immagine della realtà divina conservata dentro di sé, diventandone specchio, e cominciare così il percorso di ritorno verso di essa.

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destinata ad avere lunga fortuna, del creato che riflette il Creatore, insieme a quella di poter risalire per gradi al principio divino, a partire da una conoscenza terrestre imperfetta, per speculum in aenigmate24. Il

Neoplatonismo quindi ha avuto un ruolo importante di trasmissione al Medioevo di molte delle idee antiche sul dispositivo speculare e il riflesso, oltre ad aver legato per primo il problema dello specchio e della conoscenza di sé a quello della conoscenza di Dio, in virtù della somiglianza dell’anima umana con il proprio Creatore.

3.2.2. Medioevo cristiano

L’uomo del medioevo guarda gli specchi con gli occhi di chi ha meditato Socrate e Platone, ma soprattutto il Neoplatonismo, senza mai separare il problema speculare dalla dimensione spirituale e teologica propria dell’epoca. Dall’esame delle fonti testuali infatti, ma anche dei titoli delle opere scritte in quel lungo arco di tempo, riemerge l’antica duplicità di questo dispositivo ora positivo e affidabile ora negativo e ingannevole, anche a seconda degli usi che ne vengono fatti e della direzione verso cui viene orientato. Di fatto, se rivolto verso l’alto, quindi verso il mondo celeste, lo specchio assume connotazioni positive e diventa uno strumento divino esemplare, che dà accesso ad una conoscenza superiore e permette al suo fruitore un miglioramento spirituale. Se invece viene diretto verso il basso, e dunque limitato negli usi a una dimensione terrena e corporea, lo specchio mantiene solo le

24 Cfr. Paolo di Tarso, Epistola ai Corinzi, 1, 13, 12 e N. Hugedé, La métaphore du

miroir dans les Épîtres de Saint Paul aux Corinthies, Neuchâtel, 1957, il testo ad oggi

sicuramente più completo per la documentazione raccolta sulla metafora speculare e sull’uso che ne fa San Paolo.

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caratteristiche negative di uno strumento fallace e vano, pertanto oggetto di una condanna morale.

Uno dei primi impieghi della metafora speculare in ambito cristiano, relativamente al problema della conoscenza, si trova nella prima lettera di San Paolo ai Corinzi, che risale peraltro a metà del I secolo d. C. e dunque a diverso tempo prima di Plotino. In essa, San Paolo utilizza l’idea della visione in uno specchio per esprimere la conoscenza imperfetta di Dio riservata agli uomini in questa vita, per speculum in aenigmate, cioè solo una rappresentazione indiretta, attraverso uno specchio, all’opposto della contemplazione diretta, faciem ad faciem, che li attende come ricompensa finale nell’al di là25.

Secondo quanto sostenuto da Norbert Hugedé, che ha studiato nel dettaglio ogni aspetto della metafora paolina, il pensiero di fondo, in questo scritto, è di origine ebraica, con la convinzione dell’impossibilità di una visione diretta di Dio sulla terra, che annienterebbe gli uomini peccatori, ai quali invece è concessa una visione parziale, mediata da una superficie riflettente; è ellenistico invece il concetto scelto per trasmettere questa idea ai destinatari dell’epistola26. Infatti, per rendere

comprensibile la natura difettosa della conoscenza umana durante la vita terrena, San Paolo si sarebbe servito di un’immagine accessibile ai

25 Cfr. N. Hugedé, op. cit., pp. 139-150, corregge la consueta interpretazione di “visione

in enigma”, come di una visione confusa, con l’idea che si tratti invece di una visione di “una rappresentazione, di un’immagine dell’oggetto, e non dell’oggetto stesso”, che è la sola possibile mediante uno specchio.

26 Cfr. Id., op. cit., pp. 38-48, dove si parla dell’impossibilità di una visione diretta di

Dio sulla terra anche nel caso di profeti, come Mosè, e si cita il passo dei Numeri, 12, 6-8, in cui Hugedé individua una fonte ebraica, nel cap. III invece esamina il problema della visione indiretta in base alle fonti ellenistiche; cfr. anche J. Baltrušaitis, op. cit., pp. 69-73 a proposito della rivelazione divina a Mosè, il quale sarà considerato uno specchio di Dio dai teologi medievali.

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propri corrispondenti cristiani, di origine greca, avvezzi tra l’altro alle pratiche di osservazione nello specchio27, ricorrendo alla nozione,

all’epoca diffusa, dell’inferiorità della visione mediante un dispositivo speculare, capace di mostrare solo delle immagini della realtà, delle copie, anziché la realtà stessa. In questo caso tuttavia, seppur con i suoi limiti, la conoscenza per speculum è positiva poiché rivolta verso l’alto, verso il trascendente, e preludio di una migliore visione futura della realtà divina.

Diverso invece è il significato che si ricava, per restare sempre in ambito neotestamentario, dalla lettera di San Giacomo, dove la percezione del riflesso su una superficie di riverbero è impiegata, per via della sua dimensione transeunte, in relazione alla mancata assimilazione della parola di Dio. Colui che ascolta la parola divina senza metterla in pratica è infatti paragonato a un uomo che vede il proprio viso in uno specchio e, dopo essersi guardato, dimentica subito chi sia; si tratta di esperienze superficiali da cui il fruitore non può trarre alcun vantaggio, in quanto restano legate a un ambito contingente28.

A patire dal IV d. C. la metafora dello specchio fa il suo ingresso nella teologia cristiana, dove viene elaborata in chiave didascalica dapprima presso i Padri della Chiesa e in seguito all’interno di un genere letterario moralizzante, diffuso in Occidente a partire dal XII

27 Si ricorda che fin dai tempi più antichi la città di Corinto era stata sede di

fabbricazione di specchi; a proposito dell’insostenibilità per l’occhio umano della visione divina invece, viene subito da pensare all’antica pratica, citata anche da Seneca, di osservare il sole e gli astri mediante il dispositivo speculare, così da smorzarne la luce ed essere in grado di sostenere la vista della loro immagine riflessa e affievolita.

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secolo e caratterizzato dalla presenza, nei titoli delle opere, del termine Speculum, di solito accompagnato da un genitivo29. Alla base del

successo del simbolismo speculare e del recupero di motivi neoplatonici c’è la capacità del dispositivo riflettente di evocare la presenza del trascendente nell’immanente, di legare il visibile all’invisibile, di visualizzare la condizione mondana dell’uomo in rapporto alla realtà divina di cui egli stesso è immagine30 e di offrire, allo stesso tempo, uno

strumento esemplare di ritorno dell’anima a Dio, oltre a consentire una versatilità di utilizzo propria di uno strumento ottico che duplica, rivela e talvolta inganna31. Come osservato da Grabes infatti, vantaggi e

svantaggi della superficie specchiante, a seconda che ne venga considerata la corrispondenza con la realtà o la mancanza di un’identità fissa rispetto all’oggetto specchiato, sono stati doppiamente sfruttati, da un lato per la somiglianza, dall’altro per la differenza ontologica tra immagine riflessa e immagine reale32.

E’ soprattutto San Gregorio di Nissa che riprende motivi della filosofia neoplatonica adattandoli al cristianesimo, come l’idea della possibilità dell’anima di farsi specchio di Dio, se mantenuta pura dal

29 Lo studio tuttora più completo sulla metafora speculare e i suoi usi letterari, in

particolare come titolo di opere di carattere moralizzante, didascalico, esemplare o enciclopedico, tra XIII e XVII secolo e con una ricca bibliografia, resta H. Grabes, The

mutable glass: mirror-imagery in titles and texts of the Middle Ages and the English Renaissance, Cambridge, 1982; altre opere fondamentali consultate sono: R. Bradley, Backgrounds of the title Speculum in Medieval literature, in “Speculum”, 29, 1954,

pp. 100-115; E. Jónsson, “Le sens du titre Speculum aux XII et XIII siècles et son utilisation par Vincent de Beauvais”, in M. Paulmier-Foucart, ed., Vincent de

Beauvais: intentions et réceptions d’une œuvre encyclopédique au Moyen Âge,

Montréal, 1990, pp. 11-32 e Id., Le miroir. Naissance d’un genre littéraire, Paris, 1995.

30 Genesi, 1, 26.

31 A questo proposito cfr. H. Grabes, op. cit., che nella seconda parte del suo volume

passa in rassegna le caratteristiche fisiche dello specchio con il conseguente possibile utilizzo sul piano letterario.

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peccato e rivolta verso il mondo celeste e superiore, anziché verso quello terreno e transeunte delle seduzioni, in modo da riflettere in se stessa la beatitudine e la bellezza divina33. La purificazione dell’anima dal

peccato quindi è il requisito per specchiarsi, conoscere le proprie perdute sembianze e tornare verso Dio, così come, sin dall’antichità, la purezza dello specchio era considerata garanzia di una visione veritiera o divina34 e, nella Bibbia, la Sapienza era definita “specchio senza

macchia della maestà divina”35.

Sant’Agostino è sicuramente uno degli autori più prolifici riguardo all’utilizzo della metafora speculare, ripresa nella sua duplicità di positivo e negativo. Infatti, nei Soliloqui, parlando del problema del falso, introduce quello dello specchio come di un generatore di apparenze, simili alle cose vere ma imitazioni di grado inferiore, in quanto inafferrabili ed effimere, inganni del mondo materiale da cui bisogna allontanarsi per cercare la verità36. L’anima razionale, se

33 Cfr. Gregorio di Nissa, De vita Moysis, in PG, 44, 339A e R. Bradley, op. cit., p. 107;

si tratta di un’idea poi sviluppata ulteriormente da Sant’Agostino, secondo cui l’anima funziona come un vero e proprio specchio che, in base a verso dove viene rivolto, secondo il libero arbitrio, può riflettere l’immagine divina o quella della materia, motivo per cui Jónsson la definisce uno “specchio attivo”, a differenza di quello neoplatonico che si comporta come uno “specchio inerte”, cfr. E. Jónsson, op. cit., 1990, p. 18.

34 A proposito dell’idea di claritas dello specchio antico cfr., N. Hugedé, op. cit.,

pp.97-100; per la credenza che lo specchio potesse offuscarsi se guardato da qualcuno di impuro, come ad esempio da una donna con le mestruazioni, cfr. Plinio, op. cit., VII, 64 e XXVIII, 82.

35 Sapienza, 7, 26: “speculum sine macula Dei maiestatis”, motivo che torna anche

negli scritti di Sant’Ambrogio a sostegno della virtù e della verginità, di cui Maria è specchio e modello esemplare, segnando così l’inizio di una fortunata tradizione in cui lo speculum sine macula diventerà attributo anche iconografico della Vergine, cfr. Sant’Ambrogio, De virginibus, II, 2, in PL, 16, 208-211 e De institutione virginis, VII, 49, in PL, 16, 318.

36 Agostino, Soliloqui, II, 6, 9-12, al termine di cui le immagini speculari sono messe

sullo stesso piano della rappresentazione teatrale di un attore o di una pittura, tutte finzioni definibili solo in rapporto a ciò che duplicano; il discorso sull’uso dell’immagine dello specchio da parte di Sant’Agostino è limitato qui ai punti più salienti, poiché all’interno di una più ampia panoramica sul Medioevo cristiano, per un’analisi più puntuale sulla metafora speculare con tutte le sue distinzioni nelle

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indirizzata verso il basso, si trova a riflettere immagini seducenti del mondo dei sensi ma false, se rivolta verso l’alto, invece, non cade in questo inganno ed è capace di rispecchiare gli archetipi al posto delle forme materiali37. Quest’ultima idea viene sviluppata, nel De Trinitate,

secondo il concetto positivo dello speculum mentis, sostenendo cioè che l’anima è in grado di riflettere dentro di sé, come uno specchio, l’immagine di Dio, che, ricevuta al momento della creazione, non è stata del tutto cancellata dal peccato38. Il contributo più originale di

Sant’Agostino però consiste nell’aver paragonato la Bibbia ad uno speculum Scripturae, vero e proprio specchio in cui rimirasi per conoscere la verità religiosa che vi è trasmessa e raggiungere la beatitudine; in esso infatti, l’uomo è in grado di vedere la propria condizione e il modo di migliorarla, ciò che lui stesso è e ciò che dovrebbe essere applicando la parola di Dio. Intesa in questo modo, la Bibbia opera pertanto come un modello esemplare di comportamento, assumendo una funzione in un certo senso archetipica di quella svolta dai successivi libri-specchio, di carattere esemplare e didattico, su cui regolare la propria condotta39.

L’uso della metafora speculare prosegue con continuità fino al XII – XIII secolo, momento in cui nasce il fortunato genere moralizzante degli Specula, di cui si è appena detto, ma trova anche

diverse opere di Sant’Agostino cfr. R. Bradley, op. cit. e E. Jónsson, op. cit., 1995, pp. 107-123.

37 Cfr. R. Bradley, op. cit., p. 103.

38 Agostino, De Trinitate, XV, 20, 39 e E. Jónsson, op. cit., pp. 111-114.

39 Cfr. Bradley, op. cit., p. 103, che rimanda al commento di Sant’Agostino al Salmo

103, dove a proposito delle Sacre Scritture si dice: “omnia enim quae hic conscripta sunt, speculum nostra sunt”, in Enaratio in Psalmum XXX, Sermo III, in PL, 36, 248.

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applicazioni in ambito iconografico e letterario40. A questo proposito è

sicuramente interessante ricordare l’opera di Dante che è impregnata della cultura del suo tempo, di cui potrebbe essere definita essa stessa uno specchio. Infatti, oltre ai richiami alla superficie speculare come dispositivo ottico, citati nei capitoli precedenti41, la Divina Commedia

contiene anche diversi riferimenti allo specchio in senso traslato, per lo più in rapporto a figure divine; è il caso, ad esempio, del paragone delle gerarchie angeliche a specchi che riflettono Dio, in linea con la tradizione dei commentatori dello pseudo-Dionigi Areopagita, secondo la quale gli angeli avrebbero diffuso, presso le essenze inferiori, lo splendore della bellezza divina da essi contemplata42, o anche quello

dell’associazione dello specchio agli astri, come al sole43. Dio stesso è

definito uno specchio capace di riflettere ogni cosa e di racchiudere tutto il creato in sé, in maniera unidirezionale e senza esserne alterato: “il verace speglio/ che fa di sé pareglio a l’altre cose/ e nulla face lui di sé pareglio”44, riprendendo la tradizione biblica, e poi medievale e

40 Per le applicazioni in ambito iconografico si rimanda al capitolo successivo; per una

panoramica dell’impiego dello specchio presso i teologi cristiani, tra V e XII secolo, cfr. R. Bradley, op. cit., pp. 108-115.

41 Cfr. anche H. D. Austin, Dante and Mirrors, op. cit..

42 Ibidem e cfr. anche M. Schmidt, “Miroir”, in M. Viller et al., eds., Dictionnaire de

spiritualité: ascetique et mystique, doctrine et histoire, Paris, 1932-1995, pp.

1290-1301 ; Dante, Paradiso, IX, v. 61 a proposito dei troni che sono : “specchi onde refulge a noi Dio giudicante”; per quanto riguarda invece l’inalterabilità di Dio, capace di moltiplicare la propria immagine tra gli angeli-speculi, sempre restando uno e integro così come avviene nel caso della moltiplicazione del riflesso tra più specchi cfr. Id.,

Paradiso, XXIX, v. 144: “poscia che tanti/ speculi fatti s’ha in che si spezza”.

43 Cfr. Dante, Purgatorio, IV, v. 62: “il sole è quello specchio/che su e giù del suo lume

conduce”, in quanto corpo radioso ove si riflette la luce divina oppure Id., Paradiso, XIX, v.29, a proposito di come la giustizia divina faccia del cielo, con le intelligenze motrici, un suo specchio.

44 Id., Paradiso, XXVI, v. 106 e cfr, anche Id., Paradiso, XV, v. 62: “lo speglio/ in che,

prima che pensi, il pensier pandi”, cioè lo specchio i cui ogni pensiero umano si riflette prima ancora di essere pensato.

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scolastica45, dell’immutabilità divina simile a quella dello specchio,

qualunque siano le forme e i colori da esso riflessi, all’opposto della mutevolezza umana, capace di riflettere Dio solo nel caso in cui l’anima razionale sia purificata a rivolta a Lui nella propria contemplazione interiore. E’ infine significativo che, per definire l’acqua di una fonte presente proprio nel girone dei falsari, Dante si serva della perifrasi “lo specchio di Narcisso”46, alludendo di sfuggita alla vicenda di colui che si

era accontentato di una falsa apparenza ed era caduto nell’inganno speculare e riproponendo così l’antica questione della duplicità dello specchiarsi.

Lo stesso dispositivo che, opportunamente orientato, può offrire un modello da rimirare per guadagnare una conoscenza superiore, può infatti anche essere fuorviante e nel Medioevo è bersaglio di critiche se rivolto ad una conoscenza inferiore e menzognera, come appunto quella sperimentata da Narciso47, o qualora sia limitata alla dimensione

corporea dell’abbellimento di sé, come si vedrà ad esempio nel caso delle cure cosmetiche, o nella circostanza delle pratiche magiche come l’ars specularis, che si serve delle superfici riflettenti per la divinazione ed è oggetto di severa condanna da parte della Chiesa, che, in un’apposita bolla papale, intima la scomunica a chi si sia servito di questo espediente per evocare il demonio48. Il fatto che lo specchio

45 Per la Bibbia cfr. Sap. 7, 26; per la tradizione medievale cfr. M. Schmidt, op. cit.,

dove si citano Ugo di San Vittore, Enrico Suso, Guglielmo d’Auxerre e altri.

46 Dante, Inferno, XXX, vv. 127-129.

47 Il mito di Narciso subisce un’interpretazione moralistica nel Medioevo in opere

come l’Ovide moralisé, cfr. M. Bettini, op. cit., pp. 107-111.

48 Si tratta della bolla Super illius specula, emessa da Giovanni XXII nel 1326, a

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possa esser associato ad un contesto divino o demoniaco, si traduce, in iconografia, nel suo duplice trattamento come attributo di vizi e virtù, come si vedrà nel prossimo capitolo.

Per restare ancora nell’ambito delle fonti testuali tuttavia, il caso per eccellenza del simbolismo dello specchio medievale, che ne compendia tutte le sfumature possibili, è quello applicato ai libri con la parola Speculum nel titolo, inizialmente di carattere moralizzante ed esemplare, in seguito anche di tipo informativo e enciclopedico, di cui va dato brevemente conto sia per la fortuna avuta all’epoca, sia per il ruolo giocato nella diffusione dell’uso metaforico del dispositivo ottico49. Come notato da Grabes, che nel suo studio ne ha contati quasi

quattrocento esemplari, tra XIII e XVII secolo, in latino e in volgare, si tratta di testi la cui fioritura in Occidente coincide, tra le altre cose, con la riscoperta, a partire dal XII secolo, dell’antica tecnica di fabbricazione di specchi in vetro, cui seguirà di lì a poco a poco una sempre maggiore domanda di mercato50.

Sant’Agostino, oltre ad essersi servito della suddetta metafora speculare per la Bibbia, è stato ancora una volta il primo a intitolare Speculum una delle sue ultime opere, un florilegio di citazioni bibliche a carattere didascalico, scritto con l’idea di raccogliere, in un unico testo,

Baltrušaitis, op. cit., pp. 185-198 e per uno studio completo sulla divinazione tramite specchi a partire dall’antichità A. Delatte, op. cit..

49 In H. Grabes, op. cit., pp. 38-63, la classificazione dei libri-specchio interessa un

arco cronologico più ampio, con una particolare attenzione all’ambito anglosassone, ed è articolata in quattro categorie, a seconda dei contenuti e degli intenti con cui sono scritti, siano essi informativi, esemplari, profetici o fantastici.

50 H. Grabes, op. cit., p. 4, a proposito del fascino esercitato dallo specchio in vetro e

dalle sue caratteristiche ottiche, il cui impatto tecnologico viene addirittura paragonato all’avvento della fotografia nel XIX secolo; per un elenco completo dei titoli-specchio tra XIII e XVII secolo cfr. appendice in Id., op. cit., pp. 235-329.

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utili insegnamenti divini, altrimenti sparsi qua e là nelle Scritture, in modo da offrire un modello esemplare per la correzione dei costumi e uno strumento di facile utilizzo, così come avviene guardando il dispositivo speculare, che è anch’esso in grado di concentrare la realtà molteplice sulla propria superficie51. In un certo senso, quindi, si tratta

dell’approdo cristiano dello specchio socratico per il perfezionamento morale, pur essendo ancora un caso isolato e in forma di antologia di testi sacri.

In effetti, la nascita del genere letterario vero e proprio degli Specula, cioè libri che assumono essi stessi la funzione di specchi e sono creazioni autonome di scrittori, che nei prologhi ne spiegano il significato, risale ad alcuni secoli dopo ed ha come capostipiti due opere pressoché coeve, di ambito tedesco: lo Speculum Ecclesiae di Onorio di Autun e lo Speculum Virginum52 di autore ancora oggi ignoto. Tutti e

due i testi si propongono di fornire ai propri destinatari, uomini e donne di Chiesa, un modello in cui specchiarsi per migliorare i propri costumi, con un approccio che va oltre quello socratico, in direzione della parola rivelata di Dio53. Lo Speculum Ecclesiae è scritto sotto forma di una

raccolta di sermoni, come guida alla predicazione, affinché guardando in esso la Chiesa possa adattare il proprio comportamento in modo da

51 Cfr. R. Bradley, op. cit., pp. 104 e 109; per la questione dell’autenticità dell’opera E.

Jónsson, op. cit., pp. 121-123.

52 Lo Speculum Ecclesiae risale al 1100 circa mentre lo Speculum Virginum è databile

al 1140 circa, cfr. la citata appendice al libro di Grabes, completa, per ogni opera, di date, nomi di autori e manoscritti di riferimento; per un’analisi di entrambe le opere e della nascita del genere letterario degli Specula cfr. E. Jónsson, op. cit., pp., 155-210.

53 A partire da Sant’Agostino, il primo specchio del cristiano resta sempre la parola

divina, il cui messaggio è riflesso nei libri-specchio cfr. E. Jónsson, op. cit., p. 190 e più avanti in nota 55 dove nel prologo dello Speculum Virginum si parla degli specchi come di eloquia divina.

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essere degna sposa di Cristo54. Lo Speculum Virginum invece è

composto come un dialogo tra il prete Peregrino e la monaca Teodora, all’interno del più generale tema dell’itinerario dell’anima verso Dio, con l’intento di fornire alle vergini, che hanno rinunciato al secolo per amore di Cristo, uno strumento in cui osservarsi, esercitare lo spirito per piacere allo sposo eterno, con l’ornamento di una coscienza santa, e avanzare così verso di Lui55. Come si evince dai prologhi di entrambe le

opere, il gesto concreto e funzionale dello specchiarsi, per vedere se stessi e migliorare il proprio aspetto esteriore, è impiegato in chiave metaforica per alludere all’abbellimento interiore, che si ottiene contemplando il libro-specchio, analogamente al dispositivo ottico, aumentando i propri ornamenti spirituali e diminuendo i difetti, secondo il modello esemplare da esso offerto. La stessa immagine scelta per veicolare questa idea, cioè quella comune, sin dai tempi antichi, della sposa che si fa bella allo specchio, viene intesa come una fanciulla dedita non più alla cura delle proprie sembianze fisiche ma a quella delle proprie fattezze spirituali56.

54 Cfr. Onorio di Autun, Speculum Ecclesiae, in PL, 172, 815-816A: “Hoc igitur

speculum omnes sacerdotes ante oculos Ecclesiae expendant, ut sponsa Christi in eo videat quid adhuc Sponso suo in se displiceat, et ad imaginem suam mores et actus suos componat”.

55 Nell’Epistula iniziale, che discute i contenuti dell’opera, si spiega come il libro in

questione debba incitare le vergini a mantenere la propria castità e ad occuparsi delle cose celesti; cfr. Speculum Virginum, Epistula, ed. J. Seyfarth, in “Corpus Christianorum, continuatio mediaevalis”, 5, 1990, pp. 1-4; a proposito del titolo-specchio si dice di seguito che: “specula virgines oculis suis applicant, ut ornatus sui vel augmentum vel detrimentum intelligant. … Sunt enim specula mulierum eloquia divina visibus obiecta sanctarum animarum, in quibus sempre considerant, quomodo sponso eterno aut placeant decore sancte conscientie aut dispiceant peccati fediate”; per un’analisi del testo cfr. anche E. Jónsson, op. cit., pp., 171-202.

56 A questo proposito Jónsson parla di spiritualizzazione dell’uso concreto dello

specchio e riconduce il tema nuziale della sposa di Cristo al Cantico dei Cantici, cfr. Id., op. cit., p. 168-169, 196-197.

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Questo impiego del simbolismo catottrico è destinato ad avere grande successo, come attestato dall’incidenza del termine Speculum tra i titoli metaforici in uso nei secoli immediatamente successivi, terzo solo ai più comuni Liber e Summa. In generale, si tratta di opere che sfruttano il tema dello specchio per analogia con la sua funzione di imitazione del reale o per la ricerca di un emendamento morale per la conoscenza, attraverso il confronto con un modello positivo, come può essere quello scritturale, o, per contrasto, con un esempio negativo, come nel caso dello Speculum stultorum di Nigel de Longchamps, di fine XII secolo; il potere rivelatore dello specchio infatti è applicabile a contesti anche molto diversi e questi trattati, per lo più con scopi edificanti, sono spesso indirizzati a categorie particolari di lettori cristiani, come monaci, peccatori o principi57.

Senza entrare nel dettaglio delle distinzioni interne a questo genere moralizzante, per le quali si rimanda agli studi specialistici esistenti, quello che invece si vuole qui sottolineare è il legame continuativo tra le antiche pratiche concrete e quotidiane dello specchiarsi e la loro rilettura in chiave spirituale, tra la dimensione ottico-fisica del dispositivo speculare e quella filosofico-metaforica. Non è un caso, ad esempio, che Vincent de Beauvais, autore di un’opera enciclopedica destinata a racchiudere tutto il sapere umano della sua epoca e ad avere larga influenza per tutto il XIII secolo ed oltre, scelga di intitolarla proprio Speculum majus, come uno specchio in grado di

57 Per una classificazione dettagliata delle diverse tipologie di trattati che nel titolo si

servono della metafora speculare si rimanda, ancora una volta, alla citata opera di H. Grabes, pp. 38-63; per lo Speculum stultorum cfr. Ibidem.

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concentrare sulla propria superficie ampie porzioni di spazio circostante, una caratteristica ottica, come si è visto nella sezione precedente, propria degli specchi convessi, nel XIII secolo sempre molto diffusi, con la loro capacità di funzionare come veri e propri grandangoli58. Sempre il XIII secolo è il momento in cui compaiono le

prime opere in volgare e il fenomeno dei libri-specchio, con quel titolo, diventa ormai di portata europea, come è in seguito evidente con opere come lo Speculum humanae salvationis, una storia della salvezza dalla caduta degli angeli al giudizio universale, che, nel XIV secolo, avrà un’ampia diffusione e sarà presto tradotto in volgare. Lo studio di Grabes infine dimostra come l’uso della metafora speculare prosegua fino all’età moderna , con una sempre maggiore presenza di titoli in volgare che, a partire dal XVI secolo, diventano preponderanti59.

3.3. Lo specchio come strumento per la cura di sé

Tra i possibili impieghi che interessano il dispositivo speculare, quello come utensile per la cura della persona è sicuramente il più immediato, a cui viene tipicamente associato poiché il riflesso è l’unico modo per conoscere il proprio aspetto e quindi intervenire su di esso per valorizzarlo. Numerosi sono inoltre i riferimenti a tali pratiche cosmetiche nelle fonti letterarie e visive che riguardano lo specchio, oltre a quelli presenti, come si è visto in precedenza, sui manufatti

58 Lo Speculum majus, di metà XIII secolo, è forse lo specchio più completo del

Medioevo cfr. H. Grabes, op. cit., p. 42-44, già a inizio secolo Onorio d’Autun si era servito di questa metafora speculare per la propria enciclopedia, intitolata appunto

Speculum o Imago mundi.

59 H. Grabes, op. cit., pp. 19-37, in particolare questo studio si concentra sulla

letteratura anglosassone, più ricca su lungo termine di esempi di quella continentale, così da permettergli di parlare, per la prima età moderna, di “the Age of the Mirror”.

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stessi, le cui decorazioni, a rilievo o incise, rimandano spesso a scene di vita quotidiana come il bagno o la toilette. Anche in un simile contesto però, all’apparenza convenzionale, ritorna l’ormai costante problematica della duplicità speculare, questa volta in relazione alla finalità a cui la cura di sé è diretta, sia essa l’abbellimento fisico o quello morale, e talora anche in base al tipo di utente, femminile o maschile, che ne trae giovamento. Come si vedrà qui di seguito infatti, l’attitudine verso il dispositivo speculare cambia in negativo o in positivo, rispettivamente a seconda che esso venga rivolto alla dimensione corporea e esteriore, o che sia indirizzato verso quella spirituale e interiore. Se è vero, ad esempio, che sono spesso le donne a farne un uso frivolo e deplorevole e gli uomini ad esserne soggetti a restrizioni di impiego, non mancano però le debite eccezioni, come si vedrà dalle fonti. Pertanto, si vuole evitare di ricondurre il problema della duplicità positivo-negativo dello specchio a una questione puramente di genere, pur ammettendo che esistano delle differenze di giudizio sui diversi tipi di fruitori, riconducibili ai distinti ruoli ad essi assegnati dalla cultura della loro epoca. Ciò che invece si desidera mostrare è sia come, ancora una volta, l’immagine riflessa, a seconda del modo o del perché venga guardata, assuma un differente valore ontologico, sia come certe idee su di essa, tuttora attuali ma delle cui origini si è persa consapevolezza, si radichino nel fertile periodo tra antichità pagana e Medioevo cristiano; è il caso ad esempio dell’associazione dello specchio alla donna che nei secoli si è cristallizzato in un binomio quasi indissolubile60.

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3.3.1. Accessorio di bellezza e seduzione

Parlando dello specchio come strumento di abbellimento fisico, connesso quindi alle pratiche cosmetiche, è inevitabile iniziare proprio dall’associazione di questo oggetto con la donna, un legame che nella storia della cultura occidentale è antichissimo.

Già un papiro egizio della XX dinastia infatti, conservato oggi al museo di Torino61, mostra una fanciulla intenta a truccarsi le labbra con

l’aiuto di un pennellino e di un disco riflettente e sono molte le pitture vascolari attiche, i rilievi e le decorazioni sul retro di specchi di epoca etrusca e romana, così come le miniature medievali, che testimoniano come questo manufatto sia stato, attraverso i secoli, un complemento indispensabile della bellezza muliebre e delle diverse operazioni della toilette, dall’applicazione del trucco, appunto, alla sistemazione dell’acconciatura62. Da tempi remoti il dispositivo speculare

accompagna ogni donna nell’arco della propria vita, a cominciare dalla figura femminile per eccellenza: la dea della bellezza, alla quale di solito è consacrato. A proposito degli specchi egizi, si è visto come questi fossero spesso sacri alla dea dell’amore e della fertilità, Hathor, ed è ancora una volta nell’antico Egitto che il fortunato tema iconografico del farsi bella allo specchio, trova il suo prototipo e assume quelle

che, a conclusione della sua storia dello specchio, riguardo all’epoca odierna sostiene che, nonostante i mutamenti di civiltà e del ruolo in essa occupato dalla donna, questo utensile rimanga per lei comunque “il luogo privilegiato e vulnerabile della femminilità: tribunale senza pietà, la convoca ogni mattino per fare i conti con la propria bellezza e un giorno le comunica che non è più bella”.

61 Cfr. E. Scamuzzi, ed., Museo egizio di Torino, Torino, 1963.

62 Cfr. il ricco repertorio iconografico dei cataloghi di alcune mostre in tema: G.

Macchi, M. Vitali, eds., Lo specchio e il doppio: dallo stagno di Narciso allo schermo

televisivo, Torino, 1987; G. Sennequier et al., eds., op. cit., 2000; A. Campanelli, M.

Pennetta, ed., op. cit., 2003; I. Bardiès-Fronty et al., eds., Le Bain et le Miroir. Soins

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connotazioni rituali che passeranno nella toilette di Afrodite, soggetto destinato ad arrivare, secolarizzato, fino all’età moderna e oltre63. E’

proprio alla divinità della bellezza dell’Olimpo greco, nata dalla spuma del mare, quindi, in un certo senso, da uno specchio d’acqua, che si deve, in Occidente, l’associazione del dispositivo speculare, suo attributo, all’idea di seduzione, amore e potere generativo64. Nell’antica

Grecia, lo specchio viene ad essere un compagno inseparabile per le giovani donne sposate o in età da marito, indispensabile per il mantenimento della propria bellezza fisica, che era garanzia di seduzione dell’uomo e perpetuazione della stirpe. Da semplice strumento quotidiano per l’abbellimento di sé, quindi, questo oggetto viene ad essere portatore di valori simbolici di sensualità, fecondità e riproduzione, allo stesso modo degli strumenti del lavoro femminile per eccellenza, il fuso e la conocchia, usati per filare e contribuire così all’eleganza muliebre65. Inoltre, lo specchio caratterizza lo spazio

63 Per una panoramica sull’evoluzione del motivo iconografico della toilette femminile

dall’antico Egitto fino a Picasso, soggetto che ha origini mitologiche e rituali e assume poi connotazioni sempre più profane e sensuali, cfr. D. Apostolos-Cappadona, “Toilet Scenes”, in H. Roberts et al., eds., Encyclopedia of comparative iconography: themes

depicted in works of art, Chicago, 1998, II, pp. 871-874; per un discorso centrato

sull’epoca moderna cfr. V. Merlini e D. Storti, eds., Tiziano a Milano. Donna allo

specchio, Milano, 2010.

64 Si tratta della tradizione di Afrodite anadiomene, cioè che emerge dalle onde del

mare, resa celebre, come ricordato da Plinio, da un noto dipinto di Apelle, in seguito perduto, cfr. Plinio, op. cit., XXXV, 91; per l’inclusione dello specchio tra gli attributi della dea cfr. Filostrato, Immagini, I, 7, dove viene descritta con in mano uno specchio d’argento per dedicarsi alla propria toilette.

65 La donna greca doveva essere bella e laboriosa; pertanto lo specchio e la conocchia

vengono ad essere gli attributi che meglio la identificano; a questo proposito cfr. il bel libro di F. Frontisi-Ducroux e J-P. Vernant, Dans l’œil du miroir, Paris, 1997, in cui si discute il ruolo della donna nell’antica Grecia e il simbolismo dello specchio, sulla base di fonti testuali e con un largo uso della pittura vascolare, che, non essendo un tipo di arte preoccupata della riproduzione esatta del reale, fa sì che talvolta i due suddetti attributi si possano confondere sul piano grafico; per quanto riguarda poi l’associazione al problema della riproduzione, sempre in questo testo, si richiama l’attenzione al potere di duplicazione e ricezione delle immagini proprio dello specchio, così come la donna era considerata ricettore del seme maschile e contenitore dell’immagine dell’uomo, al momento del concepimento, mentre, nel caso della

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esclusivo del gineceo, cioè la parte della casa riservata alle donne, che nelle pitture vascolari è spesso identificata dalla presenza di un disco con manico appeso a parete66, un ambiente popolato di fiale e pissidi

per unguenti e profumi, scatole e cofanetti con tutti i prodotti necessari alla cura del corpo, in particolare del viso e della capigliatura, protagonisti del gioco di seduzione che dall’antichità giunge all’epoca moderna, attraverso tutto il Medioevo (Figura 8). Numerosi sono gli oggetti superstiti di questo mundus muliebris, da cui l’uomo è escluso, e certi gesti di rito, come appunto quello dello specchiarsi, sono evocati anche dalla decorazione di altri accessori per la cura di sé, che non sono superfici di riverbero. Un esempio tra tanti è quello della piccola pisside attica a figure rosse, del 420-410 a. C., conservata al museo del Louvre, elegante nella semplicità della decorazione del suo coperchio circolare scuro (Figura 7). Su di esso, appunto, spicca una donna nuda inginocchiata, raffigurata nell’intimità di sistemarsi, con un gesto familiare, la propria acconciatura allo specchio, che, in questo caso, è dipinto come un disco circolare, impugnato in modo da sembrar quasi il prolungamento naturale del braccio, che senza di esso sarebbe incompleto. Oggetti come questa pisside o come gli specchi a scatola o i cofanetti, sembrano inoltre alludere simbolicamente alla condizione di chiusura della donna antica, destinata a diventare essa stessa contenitore e corpo riproduttore67.

filatura e della tessitura, si riconduce metaforicamente la caratteristica di intrecciare trama e ordito all’unione sessuale.

66 Cfr. F. Frontisi-Ducroux, op. cit., cap. 2 e tavole e cataloghi cit. in nota 62.

67 Cfr. F. Frontisi-Ducroux, op. cit., pp. 77-79; cfr. anche pp. 85-87, dove si sottolinea

come gli specchi nelle pitture attiche del V secolo a. C. siano per lo più “vuoti”, cioè senza che vi sia rappresentato alcun riflesso, quasi prevalesse un interesse per il

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Se è vero che lo specchio accompagna la sua proprietaria nelle varie tappe della vita, diverso è il caso in cui sia essa stessa a scegliere di privarsene, come fatto ad esempio dalla cortigiana Laide, un tempo bellissima, che decide di offrire quello che era stato il suo alleato in giovinezza, ed è ora un crudele testimone del tempo che passa, a colei che sola possiede una bellezza imperitura, Afrodite68. Alla superficie

specchiante quindi, con il suo potere rivelatore, si sovrappone i fortunato tema del tempus edax, il tempo che consuma, divora, per secoli sfruttato da poeti e artisti. A poco servono la cura dell’aspetto fisico e i belletti poiché la bellezza corporea è transitoria e destinata a sfiorire; Laide ne ha preso consapevolezza ma vi sono donne vanitose che continuano a praticare la cosmesi, quasi incuranti dei segni del tempo che nessun gioiello o trucco può camuffare. A questo proposito, facendo per un momento un enorme salto spazio-temporale in un contesto molto diverso da quello qui considerato, tra le tante scene di donne frivole alla toilette, viene da pensare soprattutto alla Vanitas del 1637 di Bernardo Strozzi, oggi al museo Puškin, la quale, non senza un certo umorismo, mostra un’anziana signora che, con l’auto di due cameriere, si adorna, davanti a uno specchio, con fiori, nastri e una

rapporto tattile con questo manufatto e per l’atto di guardare lo specchio in sè, più che per quello di contemplarvi il proprio viso, a differenza di alcuni splendidi esemplari del secolo successivo, provenienti dall’Italia del Sud, in cui invece sul disco speculare dipinto compare un viso femminile di profilo, quindi una maggiore attenzione al dettaglio e forse una riflessione sullo statuto delle immagini riflesse, come nel caso del bel cratere lucano con la toilette di Hera, oggi alla Bibliothèque nationale di Parigi (BN 422).

68 Cfr. Antologia Palatina, VI, 18, ed. F. Conca et al., Torino, 2005: “Laide, deturpata

la sua bella figura dal tempo, aborre qualsiasi cosa le attesti le rughe servili. Così, piena di odio per l’amara denunzia dello specchio, l’offrì alla padrona del suo antico splendore: ‘Ricevi da me, o Cipride, il disco, mio compagno di giovinezza, poiché la tua figura non teme il tempo” e anche Ibidem, 19: “La bellezza tu regali, Citerea, ma il tempo strisciando corrompe, regina, il tuo regalo. Poiché il tuo dono è volato via da me, Citerea, ricevi, signora, lo specchio, testimone di esso”.

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piuma di struzzo, una sorta di anti-Venere dimentica delle proprie rughe, del seno avvizzito e dei capelli grigi69.

Tuttavia, nonostante l’inesorabile scorrere del tempo, che conduce verso la morte, le donne di solito non si separano dal proprio utensile nemmeno al termine della vita, dal momento che nell’antichità esso continua ad essere presente non solo, come si è visto, negli arredi delle tombe femminili, in particolar modo di quelle etrusche, ma pure sotto forma di rilievo sulle steli funerarie, con scene di toilette o anche solo con oggetti facenti parte dell’universo femminile, come un pettine, un cofanetto o una cesta di vimini, con la funzione di evocare l’identità di genere della defunta e la sua bellezza ed eleganza70. Non è un caso

allora che nel II secolo d. C., nel suo Libro dei sogni, Artemidoro includa questo dispositivo tra gli emblemi della femminilità71.

Persino nella Bibbia gli specchi di bronzo, nella loro dimensione concreta, sono citati in relazione alle donne72 e due figure bibliche di

donne al bagno, come Susanna spiata dagli anziani e Betsabea osservata dal re Davide, diventeranno, sin dal Medioevo, prototipi scritturali per

69 Cfr. E. Gavazza et al., eds., Bernardo Strozzi : Genova 1581/82 – Venezia 1644,

Milano, 1995, pp. 68 e 250-251, dove si sottolinea il riferimento al tema della Vanitas e del memento mori nei diversi oggetti disposti sul tavolo della toilette, come appunto lo specchio, monili e boccette di profumo, l’uso della piuma, simbolo di leggerezza e lascivia, e quello della rosa, per alludere alla caducità della vita, accanto all’ironia della presenza dei fiori d’arancio, attributo consueto delle spose; cfr. anche V. Merlini e D. Storti, eds., op. cit., per un paragone visivo con le giovani e attraenti Veneri alla toilette tizianesche.

70 Cfr. A. Campanelli, op. cit. e soprattutto G. Sennequier, op. cit., pp. 49-50 e 95-96,

con il caso delle steli a forma di porta di epoca imperiale, provenienti dall’Asia Minore, sulle quali la bellezza della defunta, che ormai non c’è più, è evocata grazie ai suoi attributi muliebri tra cui lo specchio, definito appunto da Odile Cavalier a p. 51 un “pictogramme de la vie féminine”.

71 Artemidoro, Il libro dei sogni, IV, 1.

72 Esodo, 38, 8, dove si ricordano gli specchi bronzei delle donne israelite impiegati per

forgiare la bacinella di bronzo per le abluzioni, presso la porta del Tabernacolo; Isaia, 3, 23, per un riferimento agli specchi come oggetti da toilette delle donne di Sion.

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