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CAPITOLO II. LO SCETTICISMO METACRITICO DI G.E. SCHULZE

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CAPITOLO II.

LO SCETTICISMO METACRITICO DI G.E. SCHULZE

PARTE I. INTRODUZIONE

Allo sguardo retrospettivo dell’osservatore critico e non prevenuto, la storia dell’umanità mostra non di rado che, accanto all’apparentemente grande, l’apparentemente piccolo viene del tutto trascurato. Così anche nella storia della filosofia si è soliti apprezzare gli uomini delle grandi sintesi, per quanto spesso si allontanino dall’autentica verità filosofica, infinitamente più delle menti acute votate alla scomposizione critica mediante analisi.118

Questa riflessione, con cui si apre un’appassionata – e certamente fragile – perorazione di Gottlob Ernst Schulze redatta alle soglie del secolo scorso, sembra cogliere il carattere essenziale del filosofo che ci accingiamo ad esaminare e deplora (giustamente, a mio avviso) la ben scarsa considerazione in cui è tenuto dagli studiosi odierni. Almeno la sua opera principale, il saggio scettico Enesidemo, ha rappresentato in effetti un contributo di prima importanza all’interno del dibattito coevo sull’idealismo trascendentale, contribuendo in misura decisiva al crollo della Elementarphilosophie reinholdiana e conducendo Fichte ad una sostanziale revisione dei fondamenti del kantismo, presto sfociata nella Dottrina della scienza, il cui nucleo fondamentale è già rintracciabile nella celebre recensione allo stesso Enesidemo.119

118 H.WIEGERSHAUSEN, Aenesidem-Schulze, der Gegner Kants, und seine Bedeutung im Neukantianismus, in Kantstudien, Ergänzungsheft 17 (1910), p.1.

119 Secondo I.RADRIZZANI (Le scepticisme à l’époque kantienne: Maimon contre Schulze, in Archive de

philosophie, 54, 1991, p.556) Schulze ha avuto per Fichte la stessa «funzione detonatrice» di Hume per

Kant. Lo stesso Fichte conferma questa tesi in alcuni passi del suo epistolario: scrivendo nell’autunno del 1793 a F.Flatt, professore allo Stift di Tübingen, egli designa l’Enesidemo come «uno dei prodotti più ammirevoli del nostro secolo» (Fichte, Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe, hg. von H.Schulz, 2 Bde, Leipzig 1930, I, GA III, 2, 19); ancora, in una lettera dello stesso periodo a L.W.Wloemer si legge: «la lettura di un deciso scettico mi ha condotto alla chiara convinzione che la filosofia è ancora ben lontana dall’essere una scienza»; infine, a H.Stephani: «Avete letto l’Enesidemo? Mi ha confuso per lungo tempo, ha distrutto Reinhold ai miei occhi, mi ha reso sospetto Kant e ha ribaltato dalle fondamenta il mio sistema. Non c’era più alcun riparo! Niente poteva aiutarmi, andava ricostruito da capo» (GA, III, 2, 28). Nella prefazione alla prima edizione del Concetto della dottrina della scienza (maggio 1794) egli estende questo

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Che le doti di Schulze siano eminentemente analitiche è attestato dall’acume delle sue critiche ai filosofi «dogmatici» (oltre a Kant e Reinhold, anche Leibniz e Locke) e dallo scarsissimo rilievo della pars construens del suo pensiero (il cosiddetto realismo

naturale120). Ciò che possiamo sapere della sua personalità non va oltre le poche indicazioni che egli stesso fornisce nelle introduzioni ad alcuni suoi scritti, dove a più riprese si presenta come un attento studioso dei testi, indotto alla critica unicamente dalla convinzione dell’importanza concreta di un’indagine veritiera sull’origine e la natura delle conoscenze umane.121

riconoscimento anche a Maimon: «L’autore di questa trattazione è stato pienamente persuaso dalla lettura dei nuovi scettici, specialmente dell’Enesidemo e degli eccellenti scritti di Maimon, di una cosa che gli era già sembrata molto verosimile: che cioè la filosofia, pur dopo le cure recentissime degli uomini più intelligenti, non è ancora pervenuta al livello di una scienza evidente» (tr. it. F.Costa).

120 Per quel che ne sappiamo, l’unico luogo in cui questa dottrina è formulata (tra l’altro piuttosto brevemente) è il primo Lehrstück del saggio sulla conoscenza del 1832 (pp.13-60; v. inoltre la sezione iniziale del secondo Lehrstück, fino a p.101, passim). Il realismo naturale si basa sull’idea per cui le percezioni degli oggetti non sono mere rappresentazioni, bensì esercitano una presa conoscitiva diretta sul mondo esterno. In altri termini, esse non riproducono le cose ma le mostrano al soggetto nelle loro caratteristiche reali, senza che si possano ammettere cose in sé distinte dalle percezioni medesime. Le rappresentazioni (suddivise in immagini individuali, concetti e idee, a seconda del grado di astrazione) sono semplici segni non arbitrari di cui la nostra mente si serve per elaborare le conoscenze la cui unica fonte è in realtà la sensazione. Con la distinzione tra conoscenze mediate e immediate e l’assegnazione a queste ultime di un riferimento oggettivo, Schulze pensa di liberarsi dal dilemma fondamentale che a suo avviso affligge tutte le filosofie che riducono l’intera conoscenza a rappresentazioni, cioè l’impossibilità di mostrare la connessione della conoscenza con la realtà esterna. La divergenza tra queste dottrine e la posizione schulzeana può essere visualizzata come segue:

1) [O→] R→S 2) O→S

(dove O sta per oggetto, R per rappresentazione e S per soggetto; la prima posizione è quella dei “rappresentazionisti”, per i quali il nesso tra rappresentazione e oggetto resta necessariamente problematico, la seconda è il realismo naturale). Si vede bene che questo realismo non risolve il problema dell’oggettività, bensì evita di porlo ovvero lo liquida come insolubile; esso postula, sulla base dell’osservazione, che le percezioni sono immediate, senza tuttavia poter stabilire alcunché sul modo in cui si verificano, pena lo sconfinamento nell’inconoscibile, ovvero in ciò che giace al di fuori della coscienza (le riflessioni schulzeane sul modo dell’affezione dei nervi sensoriali possono essere qui tralasciate). Sembra dunque che per ossequio al divieto scettico di spiegare la realtà empirica con principî iperfisici, Schulze non faccia un passo oltre il più ingenuo senso comune: eliminati dogmatismo e criticismo, non resta che limitarsi ai dati immediati. Noto inoltre che il realismo naturale, apparentemente estremo, si lascia in realtà armonizzare con l’idealismo berkeleyano, schematizzabile a mio avviso con la formula:

3) (O=R)→S.

(Si veda ad esempioG.BERKELEY, Trattato sui principî della conoscenza umana e dialoghi fra Hylas e

Filonous, a c. di M.M.Rossi, Laterza, Bari 1955, p.301). Schulze – con Jacobi, al quale certamente si ispira

– nega l’esistenza di rappresentazioni frapposte tra noi e gli oggetti, mentre Berkeley nega che si diano oggetti al di là delle rappresentazioni, le quali pertanto non sono più designabili come tali. Crediamo che le formule 2) e 3) siano compatibili, e che l’unico elemento che le differenzia (la notazione «=R») dipenda soltanto dall’ulteriore specificazione berkeleyana relativa al modo di esistenza degli oggetti, cioè come contenuti della mente divina. Si tratta di una precisazione che Schulze sicuramente non accetta, ma contro la quale il suo realismo naturale non dice nulla.

Una conferma della stretta vicinanza (apparentemente paradossale) tra il realismo di matrice jacobiana e l’idealismo di Berkeley si trova nell’Introduzione di G.Sansonetti agli Scritti kantiani di Jacobi (Morcelliana, Brescia 1992, pp.45-46).

121 Cf. ad es. Critica della filosofia teoretica (d’ora in avanti KTP), I, pp.XIV-XVI e XXI-XXII. Anche riguardo alla vita di Schulze disponiamo di poche e sommarie informazioni, contenute nella Allgemeine

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Ritengo opportuno che una ricerca finalizzata ad offrire di Schulze un’immagine un po’ più completa rispetto a quel che si può evincere dal solo studio dell’Enesidemo (a cui peraltro deve essere dedicata un’attenzione particolare) cominci con una rapida delineazione del concetto di filosofia che questo autore ha in mente, sulla base del quale può essere meglio compresa la sua definitiva presa di posizione scettica.122

§1. FILOSOFIA E SCETTICISMO

Si chiama scientifica ogni conoscenza provvista di certezza apodittica (cioè accompagnata dalla coscienza della necessità della sua verità), le cui parti sono connesse secondo regole oggettivamente valide, ovvero costituiscono un sistema ordinato a partire da un principio o un concetto che indica il fine ultimo della scienza in questione. Se dunque anche la

deutsche Biographie (vol.33, Lipsia 1891, pp.776-780) e nel Neuer Nekrolog der Deutschen (XI anno, I

parte, 1833, p.459 sgg.). Nato nel 1761 a Heldrungen in Turingia, studiò con Fichte a Schulpforta e, dal 1780, teologia, logica e metafisica all’università di Wittenberg, dove ebbe come professore F.V.Reinhard, allievo di Crusius e autore di un breve manuale sulla filosofia kantiana. Dopo che ebbe ottenuto la docenza nella stessa università grazie a due dissertazioni sulla cosmologia stoica e la dottrina platonica delle idee, fu chiamato nel 1788, in seguito alla pubblicazione del primo volume del Compendio delle scienze filosofiche (da qui in poi GPW), all’università di Helmstädt (oggi Helmstedt), dove insegnò per ventidue anni e redasse le sue opere più importanti, tra cui la Lezione sul fine supremo dello studio della filosofia (1789), Enesidemo (1792), varie recensioni (al Philosophisches Magazin, alla Critica del Giudizio, alla Religione nei limiti

della semplice ragione, ecc.), Alcune annotazioni sulla dottrina filosofica kantiana della religione (1795), KTP (2 voll., 1801), Principî della logica generale (1802), Momenti fondamentali del pensiero scettico

(1805). Nel 1810, allorché J.Bonaparte, governatore della Westfalia, decretò la chiusura dell’università, Schulze fu trasferito alla Georgia Augusta di Gottinga, dove continuò ad insegnare fino alla morte, avvenuta nel 1833. Nella nuova sede non fu meno attivo ed influente che nella precedente: entrò a far parte del circolo del Popularphilosoph J.G.H.Feder, divenne suo intimo amico e più tardi genero. Compose in quegli anni opere di un certo successo, oggi peraltro ingiustamente dimenticate, quali l’Enciclopedia delle scienze

filosofiche (nel seguito EPW; 1814) l’Antropologia psichica (1816), il Compendio della dottrina filosofica della virtù (1817), un saggio sul cattolicesimo di Leibniz (1827) e uno Sulla conoscenza umana (1832; da

qui in poi sarà indicato con ME). Dai primi anni della sua docenza a Gottinga ebbe come allievo Schopenhauer, inizialmente iscritto alla facoltà di medicina; lo spinse a votarsi alla filosofia e lo guidò nello studio di Platone e Kant. L’opera giovanile del filosofo di Danzica (in particolare la tesi di dottorato sulla

Quadruplice radice del principio di ragione) risente considerevolmente del pensiero del maestro. Ciò è

mostrato, ad es., dal rimprovero – mosso a Kant con insistenza da entrambi gli autori – di aver considerato la cosa in sé come causa delle nostre impressioni sensoriali, facendo così di una categoria un indebito uso trascendente. Infine, la decisa opposizione schulzeana alla dottrina – assai diffusa nell’ambito della psicologia illuminista – della distinzione e separazione delle facoltà dell’animo, esplicitata nell’Antropologia psichica e nell’Enesidemo, precorse le analoghe critiche formulate da J.F.Herbart e J.F.Fries. Nell’imponente monografia Die Philosophie Salomon Maimons (Karl Winter’s Universitätsbuchhandlung, Heidelberg 1912, p.310) F.KUNTZE mostra che questa polemica nacque

dall’avversione di Schulze alla teoria reinholdiana del Vorstellungs-, Erkenntnis- e Begehrungsvermögen. 122 In questa panoramica generale non esiteremo a servirci di opere cronologicamente piuttosto distanti. Ciò non sembra costituire un problema, data la relativa coerenza di Schulze su questo argomento, ribadita da lui stesso in un brano dell’introduzione alla seconda edizione della EPW (pp.XXVI-XXVII) dove, osservando retrospettivamente il suo intero percorso intellettuale, nega che sussistano fratture tra la fase iniziale del suo pensiero, marcatamente polemico-scettica (culminata nell’Enesidemo e nella KTP), e il «realismo naturale» teorizzato nelle ultime opere.

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filosofia deve essere possibile come scienza, la si potrà definire anzitutto individuando l’obiettivo della sua ricerca.

Che ogni proposizione all’interno di un sistema richieda una determinazione completa delle condizioni della propria verità (dove per verità si intende il nesso tra i concetti o pensieri e la realtà oggettiva, rispetto al quale la mancanza di contraddizione non è una condizione sufficiente), è una legge puramente logica che governa l’uso dell’intelletto in generale. Ogni scienza è quindi, dal punto di vista formale o strutturale, un sapere

incondizionato in cui i principî rendono perfettamente conto dei risultati. La ragione

umana non si accontenta peraltro di una fondazione compiuta dei propri giudizi assertorî, bensì ricerca una causa per tutto ciò che esiste in dipendenza da qualcos’altro e non trova soddisfazione finché, regredendo lungo la serie causale, non incontra un ultimo termine avente in se stesso tutte le condizioni della propria esistenza. Questo è l’oggetto peculiare della filosofia, che si presenta quindi come un sapere dell’incondizionato e mira all’appagamento di un Bestreben radicato nella mente umana e suscettibile di una duplice connotazione: in quanto teoretico esso è diretto alla determinazione del fondamento originario del mondo o della conoscenza; in quanto pratico tende ad individuare il bene assoluto, termine ultimo della concatenazione delle cause finali ovvero criterio (formale o materiale) per la valutazione morale delle azioni. Il filosofo dunque, a partire dalla contemplazione del mondo esterno e del proprio animo, indaga 1) la causa prima dell’esistente e 2) la destinazione finale dell’uomo. Ora, le sole cose che sappiamo esistere in modo condizionato sono i contenuti della nostra coscienza: di tutto ciò che non può presentarsi in essa non abbiamo per definizione alcuna comprensione. I fatti di coscienza sono suddivisibili in tre classi: conoscenze di oggetti, atti volitivi e sentimenti di piacere e dispiacere; in corrispondenza di queste la filosofia si suddivide in teoretica, pratica ed estetica.123

Schulze intende con dogmatismo la convinzione che esista una filosofia scientifica secondo la definizione sopra indicata, ovvero che la conoscenza umana, guidata da

123 Questa caratterizzazione della filosofia, insieme alla classificazione che segue, è stata quasi completamente ricavata da KPT, I, pp.16-33 e 86-112. Ulteriori trattazioni sull’argomento, certamente compatibili con quanto detto ma espresse in termini assai differenti, si trovano in GPW, I, 7 e II, pp.1-8; EPW, pp.7-107 passim. In quest’ultimo testo Schulze tenta anche di spiegare storicamente la genesi e la progressiva chiarificazione di alcuni concetti metafisici fondamentali come Dio, sostanza, forza e anima. Ciò testimonia la notevole dimestichezza del Nostro con la storia della filosofia, in decisa controtendenza rispetto all’epoca; non potendo qui approfondire questo tema, rimandiamo alla quinta sezione di EPW (Sull’utilizzo della storia della filosofia per l’educazione del talento filosofico) e agli ampi elenchi bibliografici, ricchi di titoli classici, presenti in GPW e EPW.

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principî e concetti universali, possa estendersi con sicurezza oltre l’ambito della coscienza; lo scetticismo è la negazione di tutto ciò.

Vale la pena, per fare chiarezza sui termini, ripercorrere brevemente la classificazione schulzeana delle metafisiche dogmatiche. Cosmogoniche sono le dottrine (per lo più antiche) che si propongono di spiegare direttamente il fondamento e l’origine del mondo oggettivo, dando per scontata l’attendibilità delle nostre conoscenze relative alla realtà esterna. Esse sono naturaliste o teiste a seconda che collochino il principio incondizionato nel mondo o fuori di esso. Cartesio, richiamandosi alla psicologia scolastica,124 ha sviluppato la teoria secondo cui ogni nostro rapporto (conoscitivo e pratico) col mondo è mediato da rappresentazioni e ha posto per la prima volta l’esigenza di dimostrare la possibilità e le modalità della concordanza di queste con gli oggetti reali. Dalle varie soluzioni proposte a questo problema è possibile dedurre la partizione delle metafisiche

dianoiogoniche (ossia incentrate sul problema dell’origine della nostra conoscenza del

mondo): i realisti collocano la fonte delle rappresentazioni nell’influenza delle cose esterne alla coscienza sulla facoltà conoscitiva, mentre per gli idealisti «la ragione del riferimento delle rappresentazioni ad oggetti reali – tramite il quale soltanto esse sono

conoscenze – è contenuto nell’animo e nella sua attività spontanea».125 I realisti possono a loro volta essere raggruppati in due scuole, a seconda che intendano la sensibilità (sensismo, Locke) o l’intelletto (razionalismo, Leibniz) come la fonte delle conoscenze. L’idealismo è invece formale (o morfotetico, Kant) se fa scaturire le conoscenze dalla connessione conforme a regole (operata dall’intelletto) di rappresentazioni date all’animo da qualcosa che esiste fuori di lui; materiale (o cosmotetico, o ontotetico: Fichte) se afferma che l’animo produce non solo il nesso tra le rappresentazioni ma anche il loro contenuto ovvero l’intero mondo a noi noto.

Lungi dal mettere in discussione la nostra conoscenza in generale, lo scetticismo si dirige unicamente contro la pretesa dogmatica di cogliere in base a concetti il fondamento soprasensibile (esterno alla coscienza) delle rappresentazioni. Esso presenta le seguenti obiezioni: 1) Per essere scienza dell’incondizionato, la filosofia deve basarsi su principî assolutamente veri, cioè contenenti immediatamente in se stessi un riferimento necessario

124 KTP, II, pp.13-16; EPW, §98; ME, §16.

125 KTP, I, p.96. Da notare che per Schulze l’idealismo berkeleyano, per il quale «spiriti e idee» sono le sole componenti della realtà e una materia esistente a prescindere dal suo essere percepita in atto è un nihil

negativum (nozione contraddittoria), non rientra in alcuna delle due rubriche poiché nega un presupposto

comune a entrambe: l’oggetto esterno a qualsiasi coscienza, la cosa in sé (cf. ad es. G.BERKELEY, Trattato

sui principî della conoscenza umana e dialoghi fra Hylas e Filonous, a c. di M.M.Rossi, Laterza, Bari 1955,

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a cose che esistono fuori dal soggetto pensante. Tali principî sono però impossibili: in quanto giudizi risultano dalla connessione tra concetti, ma né da questi né dalla copula che li lega può essere dedotta l’esistenza degli oggetti corrispondenti. 2) L’incondizionato non può essere intuito, ma solo pensato. Mediante puri concetti non siamo tuttavia in grado di spiegare alcuna esistenza reale, come dimostrano i paradossi e le antinomie in cui l’intelletto cade ogni qualvolta tenti di farlo.126 3) Ogni presunto sapere relativo al principio assoluto dell’esistente si fonda su un’inferenza dalla natura dell’effetto (il mondo reale) a quella della causa. Questo procedimento tuttavia, oltre a presupporre una conoscenza completa delle proprietà dell’effetto (sul possesso della quale non possiamo mai essere sicuri), è logicamente scorretto: il precetto – alla base di tale procedimento – di non attribuire alle cause una realtà o perfezione maggiore di quella strettamente necessaria a produrre gli effetti afferma semplicemente che le cause devono essere adeguate o

sufficienti per gli effetti, ma non dà alcuna indicazione sulle loro proprietà concrete.

Un principio metempirico o extracoscienziale capace di spiegare come nascono tutte le nostre conoscenze, irraggiungibile per mezzo di un’analisi delle diverse specie e delle condizioni generali o logiche delle conoscenze medesime, si trova oltre il confine di ciò che possiamo sapere. Per lo scettico, in conclusione,

la vera sapienza che l’uomo è in grado di ottenere riguardo alle sue conoscenze consiste in questo: tener presente l’incomprensibilità della loro origine; non arrischiarsi, spinto dalla fantasia, al di fuori di se stesso, né fingersi un punto di vista super-umano dal quale quell’origine possa essere osservata, bensì limitare il desiderio di sapere all’indagine delle parti e differenze delle nostre conoscenze, nonché alla scoperta delle leggi che ci spingono ad assentire con sicurezza a certe rappresentazioni.127

C’è quindi accordo tra scetticismo e criticismo a proposito della necessità di porre fine alle pretese della ragione dogmatica di elevarsi per mezzo di puri concetti oltre i confini

126 Schulze ha qui in mente la dottrina di Stilpone di Megara contro la realtà dei concetti universali e la possibilità di formulare giudizi diversi dall’identità (cf. DIOGENE LAERZIO, Vite e dottrine dei filosofi, II, 119), nonché gli argomenti di Sesto Empirico contro la pretesa di certi filosofi naturali di dimostrare l’esistenza delle cose (cf. Contro i dogmatici, III, 366-439).

127 KTP, I, pp.658-659 (la traduzione non è letterale). Cf. anche ME, §36: «Riguardo all’essere delle cose e alle sue condizioni, a cui appartengono spazio e tempo, e la nascita in virtù di una causa, le cose stanno diversamente [rispetto alle questioni delle scienze naturali, alle quali si può sperare di trovare un giorno risposta]. È infatti una vana fatica indagare l’esistenza delle cose in natura, il loro rapporto con spazio e tempo, e quel che accade nel loro divenire, al fine di ottenere una comprensione maggiore di quella che ci è [immediatamente] offerta dalla coscienza».

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del sensibile e cogliere i fondamenti iperfisici del reale. La critica, ad avviso dello scettico, non destituisce tuttavia la Schwärmerei metafisica di ogni fondamento, poiché ritiene gli oggetti dei sensi apparenze di una realtà che giace dietro di loro e tenta di circoscrivere l’ambito della conoscenza possibile determinando per via di riflessione le pure facoltà che, anteriormente all’esperienza, la fondano.128

Sulla base di queste coordinate generali è ora possibile osservare come procede in concreto l’esame schulzeano della filosofia critica.

PARTE II. TEMI E STRUTTURA DELL’ENESIDEMO.

§2. LA FINZIONE EPISTOLARE.

Schulze inserisce il suo tentativo di demolizione sistematica della Elementarphilosophie all’interno di una cornice fittizia rappresentata dallo scambio epistolare tra due personaggi, il filosofo scettico eponimo dell’opera ed Ermia. Sia per la scelta del nome del protagonista che per la rilevanza dei temi trattati nell’introduzione e nella conclusione (le sole parti propriamente epistolari), questo accorgimento “letterario” rappresenta in realtà qualcosa di più di un semplice ornamento stilistico e merita una considerazione particolare.129

Enesidemo di Cnosso (I sec. a.C.) è noto, insieme ad Agrippa e Sesto Empirico, come innovatore della dottrina pirroniana in opposizione allo scetticismo di Arcesilao e della media Accademia, basato sull’asserzione «dogmatica» dell’impossibilità per l’uomo di conoscere la realtà. Nelle Ipotiposi pirroniane egli è citato da Sesto in quanto sostenitore della corporeità della sostanza (III, 138) e ideatore di otto «modi» o argomenti (trÒpoi, lÒgoi ovvero tÒpoi: cfr. I, 36) contro le dottrine dogmatiche della causalità, in aggiunta ai

128 KPT, I, pp.720-728. Cf. poi Aenesidemus oder über die Fundamente der von dem Herrn Professor

Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie, 1792 (senza indicazione dell’autore e del luogo di

pubblicazione; si utilizza qui l’edizione anastatica Aetas Kantiana, Culture et civilisation, Bruxelles 1969, indicata da ora in avanti con Aen.), pp.401-403, dove si riassume con particolare chiarezza il Grundfehler che la critica (sia reinholdiana che kantiana, benché a diverso titolo) condivide per Schulze con tutti i sistemi dogmatici, ossia l’inferenza dal «Gedachtwerdenmüssen» al «wirkliche[s] und reale[s] Sein». 129 Non si deve tuttavia credere che la scelta della forma dialogica dipenda dalla volontà di Schulze di mantenere una certa distanza da entrambe le parti in causa: «La forma epistolare serve anzitutto da messa in scena destinata ad introdurre un elemento drammatico nella presentazione e confutazione del kantismo» (I.RADRIZZANI, cit., p.558).

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dieci modi tradizionali (I, 180-185).130 Alla fine del capitolo delle Vite relativo a Pirrone e Timone (IX, 116), Diogene Laerzio attribuisce a Enesidemo «Ùkt∆ b€blia Purrone€vn lÒgvn», dei quali è sopravvissuta solo un’epitome nella Biblioteca di Fozio (cod. 212). La critica alla comprensione della cosa in sé, alla realtà del nesso causale e alla pretesa scettica di dimostrare definitivamente l’impossibilità della conoscenza sono parimenti assunti fondamentali della difesa schulzeana dello scetticismo di Hume dagli attacchi della filosofia trascendentale.

Nella Vorrede viene tracciata una rapida caratterizzazione del protagonista e del suo pensiero, destinata ad approfondirsi nel corso delle prime tre lettere. L’intera gamma dei possibili orientamenti filosofici è suddivisa in due fazioni: ai dogmatici («decidierende Partei»), gelosamente convinti di trovarsi in possesso dell’unico sistema vero e non suscettibile di correzioni o miglioramenti, si contrappone la fede dei «protestanti» nel principio dell’«incessante perfettibilità della ragione in filosofia».131 In quanto membro di quest’ultimo partito Enesidemo prende le distanze dal contraddittorio e malinteso scetticismo sopra menzionato, che esiste di fatto «solo nella tabella sulla varietà delle sètte filosofiche elaborata dal signor Reinhold» (Aen., p.222) e al quale si può giustamente obiettare, con S.Agostino, di sostenere una cosa «absurdissimam […]: aut nihil esse sapientiam aut sapientem nescire sapientiam» (Contra Academicos, III, v, 12). La vera scepsi consiste invece nella semplice «affermazione che in filosofia non è ancora stato

stabilito alcunché secondo principî universalmente validi e inconfutabilmente certi, né

130 Degli argomenti di Enesidemo, il secondo e il quarto mostrano una particolare affinità con certe obiezioni di Schulze alla filosofia critica e alla metafisica dogmatica in generale. Il primo di questi «mostra che spesso, di fronte ad una grande abbondanza di cause a cui l’oggetto esaminato può essere attribuito, alcuni eziologi lo spiegano secondo una sola»; l’altro afferma «che quando essi hanno compreso come si presentano i fenomeni, pretendono di aver capito anche come si verifica ciò che non appare (tå mØ

fainÒmena), mentre, benché non sia da escludere che questo si realizzi analogamente ai fenomeni, è anche

possibile che avvenga in un modo diverso e peculiare» (I, 181-182). Tra gli altri dieci modi è opportuno citare i seguenti: «il sesto è quello delle mescolanze. In virtù di questo argomento, dal fatto che nessun oggetto reale affètta i nostri sensi per se stesso ma sempre in congiunzione con qualcos’altro inferiamo che, pur essendo possibile stabilire la natura della mescolanza risultante dall’oggetto esterno e da ciò mediante cui è percepito, non siamo capaci di dire quale sia la natura del sostrato esterno in se stesso» (ciò con cui l’oggetto si presenta sempre congiunto è costituito dalle condizioni esterne ed interne dell’atto percettivo, quali ad es. il tempo atmosferico o certe peculiarità degli organi sensoriali del soggetto percipiente); «l’ottavo modo è quello basato sulla relatività (tÚ prÚw ti); per suo mezzo concludiamo che, dato il carattere relativo di tutte le cose, dobbiamo sospendere il giudizio su ciò che sono in assoluto e per natura». Gli oggetti si trovano in effetti in una duplice relazione, col soggetto e con i dati percettivi ad essi concomitanti (sunyevroÊmena) quali posizione, quantità, altri oggetti (cf. i modi V e VII). Da ciò si conclude che «è facile dire di quale natura (ıpo›on) ognuno dei sostrati appare dotato a ciascun uomo, mentre non possiamo stabilire quale sia la sua natura reale» (I, 112; cf. anche I, 87).

131 Che Schulze sia rimasto per tutta la vita un fervente seguace di questo “protestantesimo filosofico” si evince da due opere tarde, la EPW (prefazione alla terza edizione, pp.IX-X e §43) e ME (pp.272-339

passim, soprattutto pp.314-315), in cui trova chiara espressione la sua fiducia in un progresso

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riguardo all’esistenza e alla non esistenza delle cose in sé e delle loro proprietà, né riguardo ai confini delle facoltà conoscitive dell’uomo».132 Due elementi in questa definizione meritano particolare attenzione. 1) Il dubbio scettico si dirige esclusivamente contro le pretese di certe posizioni filosofiche di conoscere le cose in sé, senza nulla obiettare alle opinioni del senso comune circa la realtà esterna e la morale, nonché alle proposizioni delle scienze naturali e matematiche. Ciò sgombra il campo dalla famosa critica secondo cui gli scettici, presupponendo come certa, nella condotta quotidiana della vita, l’esistenza del mondo e di un criterio di verità, e d’altra parte dubitando di quella stessa esistenza nelle loro riflessioni speculative, cadrebbero in un’evidente contraddizione.133 Se poi alcuni pensatori antichi hanno esteso indebitamente i loro dubbi alle conoscenze scientifiche, ciò è stato dovuto in parte ad una difettosa comprensione dei principî dello scetticismo stesso, in parte allo stato di immaturità delle scienze dell’epoca.134 Il carattere moderato della giusta scepsi è confermato alla fine della terza lettera (pp.44-45) dove Enesidemo nota che la natura ha provveduto a rendere l’uomo incapace di dubitare di qualsiasi conoscenza e che neppure il più rovinoso dissesto intellettuale potrebbe «disumanizzarlo» (entmenschlichen) a tal punto. 2) Lo scetticismo si limita a porre in questione il valore ultimativo dei sistemi metafisici e gnoseologici

storicamente dati ovvero nega che le ricerche finora condotte abbiano raggiunto i risultati

sperati.135 Esso non pregiudica dunque un’eventuale raggiungimento futuro dell’obiettivo,

132 Aen., p.24 (sottolineature mie).

133 Una formulazione “poeticamente” efficace di questa obiezione si trova in Schopenhauer, laddove egli critica l’«egoismo teorico» o solipsismo, consistente nel considerare «tutti i fenomeni, salvo il proprio individuo, come fantasmi»: da un lato esso è inconfutabile per mezzo di argomenti razionali, dall’altro «lo si potrebbe incontrare, come convinzione seria, soltanto in un manicomio»; esso è, metaforicamente, «un piccolo forte di frontiera, inespugnabile, ma la cui guarnigione non può far mai una sortita, sicché si può passare oltre lasciandoselo alle spalle senza pericolo» (Die Welt als Wille und Vorstellung, in Sämtliche

Werke, hg. von W.von Löhneisen, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Band I, S.163). In Aen., pp.255-256,

Schulze nota che dal rimprovero di incoerenza sopra riportato non sono immuni gli stessi dogmatici. 134 Cf. KTP, I, pp.585-588, 592-600, e EPW, §9.

135 Poco più avanti (p.28) Schulze presenta l’assenza di principi stabili ed universalmente validi in qualsiasi sistema dogmatico precedentemente edificato come un «fatto innegabile». La critica di F.C.BEISER (The fate

of reason, cit., pp.270-272) secondo cui questa affermazione, oltre ad esporre lo scetticismo schulzeano al

rischio di autodistruzione («come può Schulze sapere che circa l’origine e i limiti della conoscenza non si è conosciuto né dimostrato alcunché con certezza? Se non se ne sa nulla, ipso facto egli non dovrebbe sapere niente sulla mancanza di conoscenza al loro riguardo»), è avventata perché il nostro autore non riesce ad indicare i criteri che determinano senza possibilità di dubbio l’insuccesso di un sistema filosofico – questa critica mi sembra, dal punto di vista dello stesso Schulze, inconcepibile. Egli ritiene infatti possibile ricavare

dall’interno di ogni sistema contraddizioni logiche o discordanze rispetto alle evidenze dei fatti della

coscienza. Ora, che il suo scetticismo non sia affatto paradossalmente «radicale», bensì ammetta la verità dei principi logici e la realtà dei fatti mentali (le rappresentazioni come tali, a prescindere dal loro problematico riferimento ad un oggetto extracoscienziale) e addirittura presuma di potersi conciliare con una posizione realista, dovrà essere dimostrato nel séguito del capitolo (si cfr. anche H.WIEGERSHAUSEN, cit., p.25: «Lo scetticismo di Enesidemo è la conseguenza di una posizione empirico-realista ed è interamente orientato contro ogni tipo di idealismo filosofico»). Ritengo inoltre che la successiva

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almeno finché non ne sia stata dimostrata l’impossibilità mediante argomenti indubitabili.136 Contrariamente a quanto presumono certi suoi critici – che cioè esso induca la ragione a rassegnarsi all’abbandono delle ricerche speculative sui fondamenti della realtà e della conoscenza –, lo scetticismo concede, anzi raccomanda la «speranza che la nostra ignoranza sia solo contingente e possa essere un giorno superata»; in questo modo esso funge da stimolo per il progresso spirituale dell’uomo e per il continuo perfezionamento del sapere razionale.137 Il fatto che certi scettici, soprattutto antichi, abbiano presentato come apoditticamente certe le proprie riserve sulle possibilità conoscitive umane in generale è stato dovuto, di nuovo, alla dimenticanza dei propri principî nell’impeto della polemica antidogmatica.

L’autentico scetticismo consiste quindi in «un’ignoranza artificiale e scientifica» finalizzata a smascherare in ogni dottrina filosofica mediante un capillare esame critico eventuali assunzioni illecite tra i principî ed errori o surrezioni nella deduzione dei teoremi. Considerato in questo particolare significato, esso è da sempre il punto di partenza per tutti i sistemi dogmatici e coincide essenzialmente con il modus operandi peculiare alla ragione umana. Lo stesso Ermia, divenuto da poco solidale con la causa del criticismo, riconosce nella propria familiarità con il metodo scettico un presupposto imprescindibile della recente conversione, descritta con un entusiasmo tale da far supporre che lo stesso Schulze, per un breve periodo della sua vicenda intellettuale, lo abbia condiviso:138

annotazione di Beiser («se la storia della filosofia ci ha insegnato qualcosa, questo è sicuramente che mai si è avuto successo nel giudicare riuscito o fallimentare un dato sistema») sarebbe parsa tanto a Schulze quanto a Reinhold un intollerabile declassamento dei sistemi filosofici a opinioni dotate al massimo di importanza storica.

136 Sul carattere definitivo o provvisorio del dubbio scettico il nostro autore è in realtà assai incerto. In diversi passi contraddice palesemente ciò che qui, forse con intento apologetico, si è sforzato di sostenere; v. ad es. KTP, I, pp.609-610: «non si riesce a capire come possa un giorno accadere, a meno di un cambiamento strutturale nella facoltà conoscitiva umana (cosa che nessun uomo razionale si aspetterà, e sulla quale dunque non fonderà la speranza della possibilità di una scienza), che venga istituita una scienza dei fondamenti soprasensibili e assoluti di ciò che esiste secondo la testimonianza della nostra coscienza […]; sarebbe quindi sciocco nutrire la minima speranza di raggiungere in futuro gli scopi ultimi di una filosofia scientifica […]»; cf. inoltre il brano di ME citato alla nota 127.

137 Cf anche KTP, I, pp.678-702.

138 È da notare che lo stesso Enesidemo, portavoce dell’autore reale, confessa alla fine della seconda lettera di essere stato inizialmente conquistato dal primo volume dei Beyträge reinholdiani. Ancora più eloquente è un passo posto a conclusione della Difesa dello scetticismo (Aen, p.178): «I miei dubbi sulla correttezza dei supremi principî del sistema critico non sono nati perché io abbia sfogliato la Critica della ragion pura sempre e solo con l’intenzione di trovarvi dei difetti. Invero, dopo averla conosciuta, ho nutrito per lungo tempo la grande speranza di poter essere finalmente convinto, grazie alla sua guida e al suo insegnamento, della possibilità o impossibilità di una conoscenza delle cose in sé, e di venire edotto sui veri limiti del nostro sapere reale. Quando però già intravedevo il compimento di questa speranza e riflettevo sulle più alte dimostrazioni del sistema costruito dalla Critica, nella loro più grande semplicità, cominciarono ad imporsi alla mia mente i dubbi fin qui indicati, relativi alla verità di queste dimostrazioni». La mia supposizione

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se lo scetticismo non mi avesse mantenuto vigile e ricettivo nei confronti di ogni nuova verità; se non mi fossi posto di volta in volta come legge inderogabile di non rigettare alcuna affermazione filosofica prima di averla esaminata e di aver compreso le ragioni della sua confutabilità, la filosofia critica sarebbe probabilmente rimasta anche per me un santuario per sempre chiuso e inaccessibile.139

Appare chiaro che lo scetticismo in questa valenza positiva, oltre a richiamare Hume, trova una precisa corrispondenza e un analogo apprezzamento nella Critica della ragion

pura, con l’unica essenziale differenza che per Kant nella successione logico-cronologica

di dogmatismo, scetticismo e criticismo, quest’ultimo è la sola posizione definitiva, nella quale i due stadi precedenti, dotati di un valore semplicemente propedeutico, sono per sempre superati, mentre Schulze pretende elevare la scepsi a Probierstein dello stesso sistema critico e mostrare (come emergerà dal séguito) che questo non supera l’esame.140 La triade kantiana deve quindi essere completata, secondo Schulze, con le ulteriori fasi della metacritica e, nuovamente, dello scetticismo.141

trova infine una decisiva conferma nella prefazione alla seconda edizione della EPW, p.XXVII. Che Schulze si sia confrontato assiduamente con Kant fin dal tempo degli studi universitari e della sua prima docenza a Helmstedt, in particolare attraverso le Erläuterungen sulla prima critica redatte dal collega e amico di Kant J.Schultz, è testimoniato dal Neuer Nekrolog der Deutschen.

139 Aen., p.12.

140 Kant considera lo scetticismo sotto una duplice luce: in quanto «zetetica» (o «metodo scettico») esso, avvalendosi del procedimento antinomico, «cerca di scoprire in una disputa condotta con onestà e discernimento da entrambe le parti il punto dell’incomprensione per ricavare, come fanno i saggi legislatori, dall’imbarazzo dei giudici nella deliberazione un insegnamento su ciò che è difettoso e non chiaramente determinato nelle loro leggi» (B 452). Campione di questo procedimento è per Kant Zenone di Elea, già designato da altri autori come scettico e definito da lui originalmente «sottile dialettico». La zhthtikØ [t°xnh], ulteriormente definita nella Logica Blomberg come messa alla prova della validità della conoscenza, si contrappone da un lato al dogmatismo, dall’altro allo scetticismo in senso negativo o «principio di un’ignoranza artificiale e scientifica volto a scalzare i fondamenti di tutte le conoscenze per sottrarre loro, ovunque sia possibile, ogni affidabilità e certezza» (ibid.). La parola «zetetica» è già utilizzata da Sesto Empirico per designare l’orientamento scettico «nella misura in cui la sua principale attività è la ricerca e l’esame»; esso è poi detto «efectico in riferimento allo stato d’animo proprio di colui che esamina» (Ipotiposi, III, 7). Ancora in Sesto si trova l’opposizione della zetetica da un lato alla dogmatica (dogmatikÆ), dall’altro allo scetticismo accademico (ékadhmaÛkÆ). Dalla descrizione appena fornita emerge chiaramente che la posizione di Schulze corrisponde alla scepsi positiva, apprezzata da Kant come strumento per la liberazione della ragione dai pregiudizi. Hume è perfettamente in linea con questa idea, pur valendosi di una terminologia invertita: lo «scetticismo moderato» e conforme a ragione è da lui associato ai filosofi della media accademia, mentre il pirronismo è inteso come negazione dogmatica delle possibilità conoscitive dell’uomo (abbiamo visto che Schulze difende invece i pirroniani contro gli accademici; Kant è dello stesso avviso, come ben mostrato da U.SANTOZKI in Die Bedeutung antiker Theorien für die Genese

und Systematik von Kants Philosophie, De Gruyter, Berlin & New York, 2006, pp.117-126). Cf. D.HUME, Ricerca sull’intelletto umano, cit., p.253 sgg.

141 F.C.BEISER (cit., pp.268-270) rileva giustamente la novità dello scetticismo schulzeano, finalizzato a refutare non solo le dottrine metafisiche sull’esistenza e la natura delle cose in sé, ma anche quelle relative all’origine e limiti della conoscenza umana, e perciò designabile come metacritico.

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L’importanza delle tre lettere introduttive non è limitata alla caratterizzazione generale dell’approccio filosofico di Enesidemo. Esse contengono infatti indicazioni importanti anche in merito al rapporto di Schulze coi due massimi rappresentanti del criticismo coevo, Kant e Reinhold. Ermia dice di essere stato indotto ad occuparsi di Kant dalla grande varietà di opinioni sorte intorno alla Critica e soprattutto dalle promesse contenute nelle Lettere reinholdiane. La Elementarphilosophie viene presentata come completamento, chiarificazione e riscrittura della Critica in forma sistematica, a partire da un principio unico e fondato in se stesso. Giacché si ammette comunemente che grazie a Reinhold «possono essere colmate tutte le lacune» della dottrina kantiana, «con la cui rimozione soltanto essa può acquistare universale riconoscimento ed essere innalzata oltre tutti i fraintendimenti»,142 Enesidemo decide di condurre il suo esame direttamente sulla

Elementarphilosophie, riservandosi di prendere in considerazione Kant limitatamente ai

temi fondamentali. Il testo utilizzato è la Neue Darstellung contenuta nei Beyträge I, riproposta alla lettera e commentata punto per punto. Malgrado qualche licenza (vengono omessi vari corollari e commenti presenti nell’originale, nonché i paragrafi dal XXXVII al XLVI, e talvolta il testo di riferimento è integrato con brani tratti da altri saggi dei

Beyträge I, dal Versuch e dalla Fundamentschrift), l’esposizione schulzeana si mantiene

fedele all’originale.143 Il tono complessivamente pacato della confutazione rivela la ferma volontà dell’autore di limitarsi a una critica immanente del sistema dell’avversario, basata unicamente su argomenti teorici e guidata dal solo interesse per la verità.144 Coerentemente con questo proposito Enesidemo esprime anzitutto la sua ammirazione per Kant, a cui riconosce il «merito immortale» di aver inaugurato una nuova epoca della storia della filosofia: grazie alla scoperta della necessità di un’indagine razionale delle capacità, operazioni e limiti della ragione quale condizione preliminare di ogni indagine speculativa egli ha rivelato la fragilità dei precedenti sistemi dogmatici e posto fine alla «cieca fiducia» dell’uomo nella possibilità di una conoscenza dei fondamenti iperfisici del reale. Un notevole stimolo allo sviluppo delle Geisteswissenschaften deriva poi dall’analisi kantiana delle pure facoltà conoscitive e pratiche.

142 Aen., p.21.

143 Nella sua introduzione all’Aenesidemus (cit., p.LII) M.FRANK ritiene questa esposizione addirittura migliore del testo di Reinhold in quanto più chiara e non viziata dalla tendenza di quest’ultimo (già deplorata da Schelling, cf. ivi) ad abusare degli accorgimenti tipografici per evidenziare certe parole. 144 H.WIEGERSHAUSEN (cit., pp.34-36) elogia il carattere «rein sachlich» della Prüfung schulzeana della filosofia critica, in virtù del quale essa è «se non altro meritevole di venire proposta come esempio e modello, valido per qualsiasi epoca, dell’elaborazione di conoscenze scientifiche» e può essere contrapposta al celebre acetum del più illustre allievo del nostro autore, Schopenhauer.

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Se dunque si guarda solo a ciò che è già stato raggiunto grazie alla filosofia critica al fine di dare al cammino della ragione umana nelle sue speculazioni sulla conoscenza del possibile e del necessario una maggiore sicurezza contro le false strade e i raziocini illusori, se si considera solo il contributo che l’idealismo trascendentale deve dare alla futura limitazione e distruzione delle pretese dialettiche della ragione ignara del proprio potere, e si prescinde da ciò che rimane da fare per elevare la filosofia a regina di tutte le scienze, capace di stabilire principî universalmente validi su ciò che sappiamo e possiamo sperare, ci si può convincere che la critica della ragione abbia già offerto tutto il necessario per […] risolvere i problemi del sapere teoretico e pratico in un modo soddisfacente per ciascuno.145

Ho ritenuto opportuno riportare questo brano per mostrare che Schulze, lungi dal misconoscere il valore della filosofia kantiana, critica unicamente la sua pretesa di aver

detto l’ultima parola su tutte le possibili questioni metafisiche, gnoseologiche e morali; in

ciò egli si mantiene fedele al dogma del protestantesimo filosofico secondo cui le tre domande fondamentali poste da Kant, riconducibili all’unica questione antropologico-trascendentale: «che cosa è l’uomo?», possono ricevere una risposta ultimativa solo al termine del progresso spirituale infinito dell’umanità. In altri termini la critica della ragione, se assunta come interpretazione possibile, offre senza dubbio un contributo essenziale alla teoria della conoscenza e può essere ben difesa dagli attacchi dei razionalisti e degli empiristi; il solo grave errore dei suoi sostenitori consiste nell’attribuirle un grado assoluto di certezza, ben oltre ciò che si conviene a una mera

ipotesi.146

A Reinhold è attribuito l’indiscutibile merito di aver reso più comprensibile l’ardua dottrina kantiana ed averne evidenziato la superiorità rispetto ai sistemi precedenti, nonché la profonda connessione con le più intime istanze della ragione. Egli si è inoltre applicato con ammirevole zelo alla ricerca di nuovi principî per conferire «maggiore solidità e durevolezza all’intero edificio della filosofia critica».

Fin qui – e non oltre – i meriti riconosciuti ai due autori. Da ultimo è importante, in vista dell’esame dettagliato della critica che segue, tener presente che lo scettico Enesidemo condivide con Reinhold due assunti di fondo: 1) l’esistenza reale delle rappresentazioni

145 Aen., pp.33-34. Un’ulteriore prova della Hochachtung che Schulze tributa a Kant si trova in KTP, II, pp.131-141.

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nella coscienza e i loro molteplici rapporti di affinità e opposizione; 2) la validità delle leggi della logica generale o formale come criterio di verità.147

§3. LA CRITICA DI ENESIDEMO ALLA FILOSOFIA TRASCENDENTALE.

3.1. LA DEMOLIZIONE DELLA ELEMENTARPHILOSOPHIE.

Enesidemo accetta interamente i presupposti da cui lo Umbau reinholdiano del criticismo prende le mosse. È certamente vero che una filosofia scientifica, autorizzata ad avanzare pretese di validità e di riconoscimento universali, può essere edificata soltanto sulla base di un principio di per sé assolutamente certo dal quale siano derivabili tutte le altre proposizioni filosofiche, ed è altrettanto vero che fino al momento presente nessun sistema dogmatico è riuscito a soddisfare questo requisito formale. Si deve anche ammettere la correttezza del proposito di partire dalla determinazione completa dei caratteri e delle condizioni di possibilità della rappresentazione come tale in quanto concetto generalissimo al di sotto del quale ogni altro può venire sussunto;148 già Locke e Leibniz, seguiti da Kant, hanno percorso questa via, tentando di evincere dall’analisi delle diverse classi di rappresentazioni (sensibili, concettuali, ideali) la natura e le partizioni interne dell’Erkenntnisvermögen. Approvate dunque le generali premesse metodologiche di Reinhold, Enesidemo intende limitarsi a verificare se l’evidenza del Satz des

Bewusstseins sia effettivamente tale da costringere all’assenso chiunque lo intenda, a

prescindere dalla scuola filosofica a cui appartiene, e se le definizioni dei concetti di rappresentazione e facoltà rappresentativa offerte dalla Elementarphilosophie siano esatte e complete.

147 Quest’ultima affermazione verrà meglio precisata nell’appendice alla prima parte di KTP, I (pp.80-81): la condizione di verità di un pensiero, rappresentata dall’accordo (comprensibile grazie ad un apposito esercizio di riflessione) dei concetti in esso contenuti con i rispettivi oggetti, deve essere accuratamente tenuta distinta dalla condizione di esistenza del pensiero stesso (come «semplice affezione del nostro intelletto»), ossia la coerenza interna dei concetti stabilita in base al principio di non contraddizione. La logica formale, determinando la mera possibilità del pensiero ovvero limitandosi a stabilire se una sintesi di rappresentazioni costituisca o meno un pensiero, funge quindi solo indirettamente da criterio negativo della verità, nella misura in cui quest’ultima ha luogo, appunto, nel pensiero.

148 Evidentemente Schulze non ha notato che questo contraddice uno dei più forti argomenti che Enesidemo addurrà proprio per confutare la Vorstellungstheorie, cioè la constatazione del carattere pre-rappresentativo delle percezioni immediate (v. il punto 3 del paragrafo seguente). L’unico modo per evitare l’assurdo è intendere qui “rappresentazione” nel senso generico di un qualsiasi contenuto della coscienza.

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86 3.1.1. Il principio di coscienza

Che il Satz reinholdiano non risponda ai requisiti del supremo principio della filosofia come scienza dei fenomeni della coscienza è dimostrato per mezzo dei seguenti argomenti.

1) Dedurre un giudizio da un principio significa per Reinhold individuare in quest’ultimo la ragione della connessione necessaria tra soggetto e predicato nel giudizio stesso.149 Poiché dunque la deduzione, prescindendo dal contenuto determinato dei concetti, riguarda solo la forma dei giudizi, la cui possibilità è stabilita dal principio di non contraddizione, si deve riconoscere che il Satz des Bewusstseins, pur non avendo – al pari di ogni altra proposizione – un «fondamento reale» in tale principio, ne dipende quanto a possibilità logica, quindi gli è subordinato. La verità del Satz è poi colta nell’esperienza del fatto di coscienza che esso enuncia.

2) La polisemia di certi termini appartenenti alla proposizione reinholdiana impedisce che questa sia pienamente compresa grazie alla «semplice riflessione sul significato delle parole con cui è formulata», ovvero debba «essere pensata correttamente, o non pensata affatto». Ambigua è anzitutto la qualificazione del rapporto fra la rappresentazione da un lato e il soggetto e l’oggetto dall’altro come uno Unterschieden- e Bezogenwerden. Posto infatti che con ciò si intendano operazioni logiche – come è doveroso, trattandosi di attività della coscienza e nella coscienza –, non viene specificato a quale tra i molteplici rapporti designabili come distinzione e connessione (ad es. quello tra il tutto e la parte, la causa e l’effetto, la sostanza e l’accidente, la materia e la forma, o il fondamento [Grund] e ciò che è fondato) si faccia riferimento in questo caso.

3) Lungi dall’esprimere un fatto che accompagna ogni esperienza esterna e interna, ovvero qualsiasi sensazione e riflessione, il Satz des Bewusstseins può rendere conto solo di alcune manifestazioni della coscienza e manca perciò di universalità. Se infatti il duplice rapporto che esso istituisce tra rappresentazione, soggetto e oggetto è facilmente concepibile nel caso dei ricordi e delle evocazioni immaginarie di cose realmente esistenti, c’è una fondamentale operazione della mente che non può essere spiegata in base a tale rapporto: l’intuizione sensibile. Finché il soggetto si limita a percepire un oggetto, infatti, non sorge in lui alcuna coscienza di una rappresentazione diversa

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dall’oggetto stesso e ad esso riferita.150 In altre esperienze, come la riflessione profonda, il soggetto è invece conscio solo di se stesso e dei concetti che mette a confronto.

4) Il Satz reinholdiano è indubbiamente una proposizione sintetica perché il riferimento all’oggetto e al soggetto non è implicito nel concetto di rappresentazione; tale sintesi è tuttavia empirica poiché, come visto, si basa su determinate esperienze della coscienza. Non possiamo quindi affermare che il principio gode di una vera e propria universalità. 5) Esso è infine un giudizio astratto in quanto ricavato dalla considerazione delle caratteristiche che certe operazioni della coscienza hanno in comune. La verità delle proposizioni desunte dal principio dipenderà quindi dalla correttezza di questa astrazione e sarà inficiata da una caratterizzazione dei concetti generali di rappresentazione, oggetto e soggetto eventualmente troppo povera o troppo ricca di note particolari. Si tratta ora di stabilire se Reinhold ha assegnato effettivamente a tali concetti tutte le note di cui abbisognano e nessuna di più.

3.1.2. Oggetto, soggetto, rappresentazione e facoltà rappresentativa

Nella Elementarphilosophie si pretende di racchiudere all’interno della Gattung «rappresentazione» ogni fenomeno mentale. Ora, come visto al precedente punto 3), questa nozione non è applicabile alla conoscenza immediata o intuitiva né – si aggiunge qui – a quelle operazioni di connessione e distinzione con cui la coscienza mette la rappresentazione stessa in rapporto con l’oggetto e il soggetto. Questi ultimi, inoltre, devono a loro volta presentarsi nella coscienza, ma se li volessimo designare come rappresentazioni cadremmo due volte nell’assurdo. Dovremmo infatti ammettere, da un lato, che ciò che abbiamo definito come condizione esterna della possibilità di tutte le rappresentazioni presupponga precisamente il suo condizionato; dall’altro, che esistano altri due oggetti e soggetti ai quali i primi, in quanto rappresentazioni, si riferiscono in base al principio di coscienza, e così via all’infinito. L’unico modo per uscire dall’impasse consiste nel considerare oggetto e soggetto come immediatamente presenti alla coscienza prima e indipendentemente da qualsiasi rappresentazione, capace di costituirsi come tale solo in rapporto a loro. Da tutto questo risulta che il concetto reinholdiano di rappresentazione è troppo specifico o ristretto per adempiere alla sua funzione: designare tutto ciò che si verifica nella coscienza.

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La questione della provenienza e della nascita delle rappresentazioni, dalla risposta alla quale si presume di poter cogliere il nesso tra le rappresentazioni stesse e le cose reali, e di conseguenza individuare un saldo criterio per la distinzione delle conoscenze dai prodotti della fantasia, costituisce uno dei problemi filosofici di maggior momento. Sotto la dicitura «Vorstellungsvermögen» Reinhold intende raccogliere l’insieme delle cause soggettive, presenti a priori nella coscienza, dell’esistenza delle rappresentazioni; tali cause sono per lui determinabili attraverso un’analisi della natura dei loro effetti. Nella

Neue Darstellung non è però affatto dimostrato che tale facoltà esista e la presunta prova

addotta nel Versuch (p.190: «Chi ammette una rappresentazione deve anche ammettere

una facoltà rappresentativa, ovvero ciò senza cui non può pensarsi alcuna rappresentazione») è invalidata dalla stessa inferenza «dai caratteri delle rappresentazioni e dei pensieri in noi a quelli della cosa in sé fuori di noi» (ossia dalla

necessità di pensare qualcosa come connesso con un altro all’esistenza effettiva di tale connessione fra gli oggetti) refutata da Kant nella Dialettica trascendentale. Senza affatto negare l’esistenza e le peculiarità di intuizioni, concetti e idee nella coscienza, lo scettico ritiene inammissibile la realtà – al di fuori di questi – di una facoltà che li produca e usa i termini «sensibilità, intelletto, ragione» solo per adeguarsi all’uso comune. La contraddizione in cui cade la riflessione reinholdiana è esplicitata dall’evidente infrazione del Diktat kantiano che proibisce di applicare le categorie (qui in particolare quelle di causa e realtà effettiva) ad oggetti che non soggiacciono all’intuizione. Oltre a ciò, l’inferenza delle caratteristiche della causa da quelle dell’effetto è in generale sbagliata: «la causa deve essere pensata come diversa dai suoi effetti, e nelle cause (posto che ve ne siano) possono trovarsi molte proprietà che nell’effetto non si presentano […]. Questo vale anche [per l’inferenza che parte] dagli effetti». Infine, il procedimento reinholdiano non spiega nulla a proposito dell’origine delle rappresentazioni, limitandosi a descriverle e ad apporre la notazione «-kraft» o «-vermögen» a ciascuno dei Merkmale ottenuti dall’analisi del concetto generale;151 allo stesso modo, chi affermasse che un pezzo di legno tolto dall’acqua rimane bagnato in virtù di una non meglio determinata «capacità di attrarre l’acqua», non avrebbe fatto altro che constatare nuovamente il fenomeno.

151 Cf. anche KTP, I, pp.656-657. Già in GPW (II, p.125) Schulze aveva notato che il ricorso alla nozione di «forza» non spiega nulla. Essa denota infatti, anche secondo la terminologia reinholdiana, «un qualcosa a noi del tutto sconosciuto», esterno al mondo fenomenico e come tale distinto dalla causa. Una trattazione più approfondita di questo concetto, ritenuto da Schulze assai fruttuoso nel campo delle scienze naturali ma assolutamente inutile in metafisica e in gnoseologia, si trova in ME, pp.138-148, corredata da una vivace critica alla dynamische Naturlehre che cerca di spiegare tutti i fenomeni ricorrendo esclusivamente a forze.

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89 3.1.3. Le componenti della rappresentazione

In base al principio generale per cui un oggetto può trovarsi in relazione simultanea con diversi altri solo se composto di parti, ciascuna delle quali rapportata a uno di quegli oggetti, Reinhold conclude che ogni rappresentazione, in quanto riferita contemporaneamente all’oggetto e al soggetto, deve avere due componenti realmente distinte. La premessa maggiore del ragionamento è però smentita dall’esperienza: il fatto che ciascun lato di un triangolo o ciascun pezzo di un ingranaggio sia in relazione simultanea con gli altri non ci impedisce di pensarlo come qualcosa di semplice e unitario. Il principio può essere ragionevolmente ammesso solo se l’oggetto in esame è connesso con gli altri come loro prodotto, ovvero se la Beziehung tra questi è di tipo causale; Reinhold non può d’altra parte intenderla in questo modo se vuole evitare di utilizzare la legge di causalità – valida solo per i rapporti tra i fenomeni – in riferimento a realtà extra-rappresentative. Inoltre, se anche si fosse dimostrata la validità del principio in questione per tutte le connessioni pensabili, non si sarebbe ancora stabilito nulla circa la natura

effettiva dei nessi tra le cose poiché, come visto, la necessità o possibilità «soggettiva e

logica» di qualcosa non fornisce alcuna indicazione sulla sua modalità «reale e oggettiva»; in caso contrario si dovrebbe concedere, ad esempio, l’esistenza delle monadi (è infatti impossibile pensare un composto che non consista da parti semplici), di Dio come fondamento incondizionato del mondo, dell’anima semplice e personale, ecc.

Lo stesso Reinhold nei suoi scritti mette in guardia ad ogni occasione dall’abituale applicazione delle leggi della rappresentazione e del pensiero all’oggettivamente esistente. Egli considera come la fonte principale di tutte le divergenze e gli errori dei filosofi l’attribuzione delle proprietà di ciò che è percepito e pensato alle cose in sé e intende, grazie alla Elementarphilosophie, eliminare tutti questi dissidî e otturare quella fonte.152

152 Aen., pp.193-194. V.VERRA (Dopo Kant – il criticismo nell’età preromantica, Edizioni di filosofia, Torino 1957, p.64) descrive magistralmente la difficoltà sollevata da Schulze riconducendola all’«alternativa seguente: o si accetta il presupposto dogmatico per cui “contiene verità reale solo quello che non può essere pensato altrimenti” (Aen., pp.242-243), e con ciò acquistano verità reale e assolutezza non solo i risultati della critica […], ma qualsiasi filosofia dogmatica; oppure si riconosce che la necessità di pensiero è ancora condizionata e relativa a qualcosa che non può esser da essa dedotto o prodotto, e allora anche i risultati della filosofia critica e di quella elementare, in quanto garantiti dalla necessità di pensiero, saranno relativi e condizionati, e avranno al più un valore ipotetico».

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È vero che nel Versuch (p.227) tutta la riflessione sulla natura della rappresentazione e sulla suddivisione interna del Vorstellungsvermögen viene espressamente ridotta a determinazione di ciò che dobbiamo pensare al proposito, senza pretendere di attingere alle condizioni della realtà effettiva degli oggetti in esame. Se tuttavia questa fosse davvero la sola dignità attribuita da Reinhold al suo sistema, anzitutto non si comprenderebbe come egli potesse aspettarsi di aver definitivamente appagato l’essenziale aspirazione della ragione umana alla conoscenza della verità (concordanza tra le rappresentazioni soggettive e la realtà esterna), e in secondo luogo la

Elementarphilosophie verrebbe sostanzialmente a coincidere con lo scetticismo, che non

nega che la mente sia per sua natura vincolata a pensare certe rappresentazioni in un determinato modo ma dubita della dipendenza di questi vincoli da qualcosa di esterno alla mente stessa. L’unica divergenza tra le due linee di pensiero consisterebbe nella tesi scettica, rifiutata dalla teoria della rappresentazione, secondo cui «la determinazione dei soli pensieri per noi possibili sugli oggetti della filosofia, posto che in ciò non si consideri

se e in quale misura tali pensieri corrispondano a qualcosa fuori di noi, non costituisce

ancora alcuna filosofia».

Ammettendo pure che l’obiettivo di Reinhold sia effettivamente quello appena indicato, non si può comunque sostenere che la sua teoria sia riuscita ad esplicitare le determinazioni che necessariamente dobbiamo associare al concetto di rappresentazione.

In primo luogo la designazione delle due componenti della rappresentazione riferite

rispettivamente all’oggetto e al soggetto coi termini (nell’ordine) «materia» e «forma» (o «determinabile» e «determinazione») non è supportata da alcun argomento e non segue da quanto precedentemente dimostrato.153 In secondo luogo – e questo è il punto fondamentale – la teoria delle due componenti deriva dal fatto che Reinhold non ha determinato con precisione la natura dei rapporti (Bezogen- e Unterschiedenwerden) della rappresentazione con l’oggetto e il soggetto e li ha ritenuti erroneamente identici. Rispetto al soggetto, la rappresentazione non può essere pensata che come una proprietà [Eigenschaft] in relazione alla sostanza a cui inerisce: ogni rappresentazione non può che esistere in un soggetto o coscienza. All’oggetto essa si riferisce invece come un segno

153 Enesidemo tenta a questo punto di costruire una teoria della rappresentazione che, condividendo ogni altro aspetto con la Elementarphilosophie, dimostri che le fonti di materia e forma devono essere collocate, rispettivamente, nel soggetto e nell’oggetto. Nonostante l’innegabile arbitrarietà dell’assunto reinholdiano e quindi la sostanziale correttezza dell’obiezione, il risultato di questo “esperimento” mi pare completamente assurdo, e lo stesso Enesidemo concede alla posizione di Reinhold una certa verosimiglianza e vicinanza al

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[Zeichen] al proprio significato [Bezeichnetes]; ciò si può evincere per esperienza da qualsiasi rappresentazione sottoposta al principio di coscienza (ad esempio il ricordo di un albero che si è osservato una volta).154 Entrambe le relazioni coinvolgono l’intera rappresentazione ed essendo specificamente diverse non comportano con la loro simultaneità una sua suddivisione interna. Esse si presentano inoltre immediatamente alla coscienza che riflette sulle proprie operazioni e fanno crollare le successive speculazioni di Reinhold – del tutto prive di riscontri empirici – sul riferimento mediato della forma all’oggetto (tramite la materia) e della materia al soggetto tramite la forma stessa.

Sulla base di quanto detto appare infondata la concezione reinholdiana dell’origine delle due componenti. Posto che nessuna forza finita sia in grado di produrre una materia – così Reinhold – si deve sostenere che questa sia data al soggetto, dalla cui spontaneità deriva solo la forma delle rappresentazioni. L’implicita attribuzione (conseguente da questo ragionamento) di una forza infinita all’oggetto rimane però del tutto problematica. Inoltre, dal principio di coscienza segue talmente poco la necessità che la materia sia data da fuori al soggetto e la forma sia da lui prodotta, che anzi quella datità risulta del tutto impensabile. L’influsso di un oggetto su un altro ad esso esterno (qui: tra cosa in sé e soggetto) può essere infatti immaginato o come unione e dissoluzione del primo nel secondo o come distacco e trasmigrazione di una proprietà dall’uno all’altro: entrambi i casi sono evidentemente assurdi. Questa aporia potrebbe essere evitata, ad esempio, se si considerasse il soggetto come causa dell’intera rappresentazione e gli si attribuisse una

spontaneità assoluta capace di produrre sia la forma che la materia. Con la confutazione

della datità della materia nelle rappresentazioni viene a cadere l’unico argomento su cui la teoria reinholdiana fonda la certezza della realtà del mondo esterno alla coscienza e l’assunzione della cosa in sé appare così del tutto gratuita. Quanto verrà stabilito sulla sua natura (anche soltanto negativamente, come ad esempio la non-rappresentabilità) resterà quindi problematico, non essendo stata preliminarmente dimostrata l’esistenza della cosa stessa.

Altrettanto immotivata è infine la caratterizzazione della materia come molteplicità e della forma come unità prodotta in essa. Il ragionamento reinholdiano è il seguente: «nella coscienza il soggetto si comporta come ciò che distingue l’altro mediante la rappresentazione, l’oggetto come ciò che grazie a questa viene distinto»; la componente della rappresentazione corrispondente al primo (forma), in virtù della quale esso è uno

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