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THE NEW ITEM “ 696 BIS” OF THE PROCEDURAL CIVIL CODE AND ITS APPLICATIONS CONCILIAZIONE, CONTRADDITTORIO, APPLICAZIONE DELL’ART. 696 BIS C.P.C

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TAGETE 1-2008 Year XIV

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THE NEW ITEM “ 696 BIS” OF THE PROCEDURAL CIVIL CODE AND ITS APPLICATIONS

CONCILIAZIONE, CONTRADDITTORIO, APPLICAZIONE DELL’ART. 696 BIS C.P.C

Dott. Piero Gaeta*

BOZZA PROVVISORIA NON CORRETTA DALL’AUTORE

Premessa

Se è vero che l’ultimo quinquennio di riforme legislative nell’ambito della procedura civile ha rappresentato – come qualcuno ha affermato – un vero e proprio tsunami, è altrettanto indubbio che, nell’ambito di esso, l’anno climaterico è certamente il 2005.

*Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione;

Assistente di Studio presso la Corte Costituzionale, Roma

ABSTRACT

The item “696” of the procedural civil code used to let the two parts of a litigations to have an investigation before the trial, to take a picture of the condition of the injured person that was probably going to change at the time of the trial. The item “696” has now been changed, in fact it let the two parts to have a real settlement before the trial, since during the expert who performs the investigation, can also give his conclusions, trying to make a settlement in the parts. If the due parts reach a settlement they can avoid the trial

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2 Ben prima della riforma dell’arbitrato e del giudizio per Cassazione dell’inverno del 2006, il c.d. “decreto competitività” n. 35 del 15 marzo 2005, convertito con legge n.

80 del 2005 ha realizzato l’ammodernamento più evidente, il ristyling di maggiore effetto sul rito civile.

Se, poi, si volesse indicare, nell’ambito del catalogo dei mutamento, il “pezzo” di maggiore originalità esso è certamente rappresentato – perlomeno a giudicare dalle festose ed unanimi accoglienze presso la dottrina – dall’introduzione della consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi, di cui all’art. 696-bis c.p.c.

Con questa norma il legislatore ha impresso, innanzitutto, una svolta ideologica al sistema (Ansanelli):una prospettiva di rinnovamento “epocale” dalle profonde implicazioni non solo di carattere pratico, ma, verosimilmente, di impronta più vasta. E’

stato, insomma, modificato il DNA del processo civile, impressa una profonda liberalizzazione della tutela giurisdizionale dei diritti dei singoli, tentata una via alternativa all’inflazione del contenzioso civile coinvolgendo altri soggetti, rispetto a quelli che, tradizionalmente, risultano deputati a ciò. E la novità più importante è che – come ampiamente si dirà – tale via è stata tracciata affidando al sapere degli esperti, dei consulenti tecnici un ruolo – ed anche, conseguentemente, una responsabilità – fino ad oggi sconosciuto nel nostro ordinamento.

I consulenti tecnici divengono protagonisti attivi e decisivi della tutela dei diritti dei cittadini.

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3 Ma per giustificare questa impegnativa affermazione, ho necessità di ricostruire, prima di venire allo specifico oggetto della mia relazione (riguardante esclusivamente il “nuovo”

art. 696 bis), un breve quadro sistematico, indispensabile per comprendere la stessa portata della novità normativa.

La legge n. 80 del 2005 ha infatti realizzato una “profonda ristrutturazione funzionale degli istituti dell’accertamento tecnico preventivo e dell’ispezione giudiziale, con un ampliamento significativo del loro contenuto sotto il profilo dell’ampiezza e della qualificazione delle risultanze probatorie per tali tramiti acquisibili al processo di merito”

(Asanelli).

L’accertamento tecnico preventivo nella precedente disciplina dell’art. 696 c.p.c.

Non si può, cioè, comprendere la nuova norma inserita nel sistema – l’art. 696 bis c.p.c.,appunto – se prima non si va ad esplorare in che termini e con quali nuove prospettive è stato ampliato il disposto dell’art. 696 c.p.c.

La “storia” di tale norma è abbastanza nota ed è alquanto semplice rievocarla, qui, nei suoi tratti generali.

Il vecchio testo dell’art. 696 c.p.c. si limitava a prevedere, in maniera assai scarna, che

“chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato di luoghi o la qualità o la condizione di cose può chiedere, a norma degli articoli 692 e seguenti che sia disposto un accertamento tecnico (191) o un’ispezione giudiziale (118, 258 ss.; c.c. 1513,

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4 1697). [Il presidente del tribunale (, il pretore) o il giudice di pace provvede nelle forme stabilite negli articoli 694, e 695, in quanto applicabili, nomina il consulente tecnico e fissa la data dell’inizio delle operazioni.]

I limiti di tale precedente assetto normativo risultano di immediata evidenza, almeno sotto un duplice punto di vista.

Innanzitutto, l’oggetto: esso era limitato esclusivamente alla verifica dello “stato dei luoghi” o della “qualità o condizione delle cose”, nulla di più. Soprattutto, risultava fuori dal disposto normativo possibilità di effettuare l’accertamento sulla persona, in vista del successivo giudizio: proprio in quanto solo le cose e non la persona avrebbe potuto costituire oggetto della cautela probatoria.

Il secondo, vistoso limite riguardava, poi, l’attività esperibile dal ctu: egli doveva limitarsi a “fotografare” lo stato dei luoghi o delle cose, senza alcuna possibilità di indagini o valutazioni di cause o danni. Ciò – come la dottrina più accorta aveva costantemente segnalato – frustrava enormemente portata ed importanza dell’istituto, per una serie di intuibili ragioni. In primo luogo perché, comunque, dopo l’accertamento, la conservazione dello status quo era quasi necessaria: prudenza consigliava,infatti, di non apportare modifiche per non pregiudicare il successivo accertamento sulle cause e sulle valutazioni. Inoltre, l’accertamento risultava decisamente antieconomico, posto che ad esso seguiva, inevitabilmente, la duplicazione di spesa, dovendosi replicare il vero

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5 accertamento tecnico – quello definito “pieno”, nell’ambito del processo – inevitabilmente affidato ad altro tecnico.

Furono proprio queste incongruenze ed irragionevolezze evidenti a sollecitare una rivisitazione della norma attraverso numerose eccezioni di illegittimità costituzionale.

Non fu, peraltro, un percorso agevole ed veloce.

Nella sua prima pronuncia sul punto, la Corte costituzionale, con la sentenza n.

18 del 1986 (Andrioli.) escluse la sussistenza di una illegittimità costituzionale dell'art.

696, 1° comma, c. p. c. – in riferimento agli art. 3 e 24, 1° e 2° comma, Cost. – nella parte in cui, limitando l'ammissibilità dell'accertamento tecnico preventivo alla verifica dello stato dei luoghi e della qualità o condizione di cose, escludeva l'ammissibilità dello stesso mezzo istruttorio per la verifica dello stato o della condizione o della qualità della persona umana. La Corte – in linea con la giurisprudenza di legittimità all’epoca dominante, tetragona nell’assunto che la persona umana non potesse formare oggetto di procedimenti cautelari – affermò perentoria, e quasi piccata, che “porre invero la persona umana sullo stesso piano dei luoghi e delle cose, che l'art. 696 comma primo c.p.c. identifica quali obietti di accertamento tecnico preventivo, è lecito sol a chi ometta di considerare che la persona umana, cui ci si riferisce nel dispositivo delle ordinanze di rimessione, non può formare oggetto di procedimenti cautelari, né il corpo umano, cui ci si riferisce nella motivazione delle stesse, può essere considerato avulso dalla persona laddove tale inseparabilità non sussiste per i beni economici: diversità che emerge anche

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6 dagli artt. 2 e 42 della Carta costituzionale, il primo dei quali considera la personalità dell'uomo e il secondo la proprietà pubblica e privata”.

Tale orientamento fu, per fortuna, successivamente abbandonato. Infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 471 del 1990, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell'art. 696, 1° comma, c. p. c., nella parte in cui non consente di disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale sulla persona dell'istante. La Consulta ritenne che il persistere di una simile limitazione avrebbe comportato una illegittima compressione del diritto di difesa e che, al contrario, l’estensione alla persona dell’istante non poteva rappresentare una lesione all’inviolabilità della libertà personale, posto che presupponeva comunque che l’accertamento fosse stato richiesto volontariamente da chi vi doveva sottoporsi.

Sintomatica l’ipotesi scrutinata, all’epoca, dalla Consulta: la parte privata, infatti, assumeva di avere subito danno fisico a seguito di intervento chirurgico, chiedendo un accertamento tecnico preventivo sulla propria persona per poter dare sostegno alla pretesa risarcitoria.

Successivamente la Corte costituzionale, con la sentenza n. 257 del 1996 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale – per contrasto con l'art. 24 cost. – della stessa norma nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale anche sulla persona nei cui confronti l'istanza è proposta, dopo però averne acquisito il consenso. In questo caso la Corte affermò che, oltre ad essere

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7 necessaria la libera manifestazione di volontà della parte che consente di sottoporre il proprio corpo ad accertamento od ispezione è, altresì, necessario che il contenuto dell’attività posta in essere sia oggettivamente rispettoso della dignità e dell’inviolabilità della persona umana

Dunque, le sentenze del Giudice delle leggi ampliarono gli originali ed angusti limiti di oggetto dell’ ATP, come configurato dal vecchio testo dell’art. 696.

Ma anche sul diverso fronte dei poteri del consulente, la giurisprudenza della Corte divenne presto lievito del sistema. Se, infatti, con una prima sentenza (n. 49 del 1997), la Corte escluse che in sede di accertamento tecnico preventivo potessero essere svolte valutazione tecniche che dovevano essere riservate alla consulenza del successivo giudizio di merito, la successiva decisione, (sentenza n. 388 del 1999) sebbene formalmente di infondatezza, enunciò, in realtà, fondamentali principi per l’apertura del sistema. La Corte si trovò a dover delibare una eccezione di incostituzionalità dell’ art.

696 c.p.c., per violazione dell’art. 24 della carta costituzionale, nella parte in cui non prevedeva che l’accertamento tecnico o l’ispezione giudiziale, chiesti con procedimento di istruzione preventiva, potessero avere ad oggetto la quantificazione dei danni; e per violazione dell’art. 11 Cost. in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che garantisce a tutti il diritto alla conclusione del giudizio entro un termine ragionevole: ciò in quanto l’art. 696 cpc, escludendo la preventiva valutazione

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8 dei danni, rendeva necessaria una ulteriore consulenza tecnica nel successivo giudizio di merito, dilatando così la durata del processo ed accrescendone le spese.

La questione, come detto, fu ritenuta infondata dalla Corte costituzionale che − pur ammettendo che i provvedimenti sommari di istruzione preventiva siano predisposti alla tutela di diritti dei cittadini purché diretti a raccogliere ancor prima che sia instaurato un giudizio gli elementi necessari alla formazione della prova ad evitare che la modifica delle situazioni o gli eventi che si possono verificare impediscano poi la formazione e l’acquisizione della prova nel giudizio di merito − non ritenne che l’accertamento tecnico preventivo, giustificato da finalità cautelari, dovesse necessariamente trasformarsi da atto di istruzione preventiva in sostanziale anticipazione del giudizio, affinché si realizzasse la garanzia del diritto ad una ragionevole durata del processo.

Nondimeno, la stessa sentenza ebbe a precisare che l’accertamento tecnico preventivo poteva comunque estendere le indagini all’acquisizione di “tutti gli elementi conoscitivi considerati necessari per le valutazioni che dovranno essere effettuate nel giudizio di merito ed includa quindi ogni acquisizione preordinata alla successiva valutazione, anche tecnica, che in quel giudizio si dovrà esprimere per determinare la causa del danno o l’entità di esso”.

In realtà, tale ultima affermazione sposava la più recente impostazione della giurisprudenza di legittimità, che era giunta, progressivamente, a ritenere che lo

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9 strumento dell’accertamento tecnico preventivo non dovesse essere soltanto un procedimento di verifica meramente descrittivo in cui il tecnico incaricato “fotografava”

la situazione di fatto in modo del tutto acritico, bensì uno strumento idoneo a fissare il fatto percepito nel modo più adatto a consentire, a distanza di tempo, una valutazione tecnica, onde l’indagine peritale doveva estendersi a tutti gli accertamenti che in seguito non possono essere compiuti con eguale obiettiva efficacia” (Nardo: “la nuova consulenza tecnica” pag. 214). Peraltro, la stessa giurisprudenza di legittimità aveva affermato che, “in tema di accertamento tecnico preventivo, lo sconfinamento dai limiti dell’accertamento medesimo integra una violazione del principio del contraddittorio con la conseguenza che, ove tale violazione non sia configurabile per avere le parti effettivamente partecipato all’accertamento tecnico anche nei punti esorbitanti l’incarico ovvero allorché la relazione del consulente sia stata ritualmente acquisita agli atti senza opposizione delle parti stesse, si realizza la sanatoria di detta esorbitanza e la conseguente utilizzabilità dell’accertamento (cass. n. 12007 dell’ 8 agosto 2002)”.

La nuova disciplina dell’accertamento tecnico preventivo

Il legislatore del 2005 ha recepito integralmente, nel nuovo testo dell’art. 696 c.p.c., il portato sia dei dati giurisprudenziali sopra evidenziati, che delle opinioni dottrinali maggiormente accreditate.

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10 Innanzitutto è stato integrato il primo comma dell’articolo in questione, introducendo un secondo periodo a norma del quale «l’accertamento tecnico e l’ispezione giudiziale, se ne ricorre l’urgenza, possono essere disposti anche sulla persona dell’istante e, se questa vi consente, sulla persona nei cui confronti l’istanza è proposta ».

La novella del 2005 si è dunque inserita nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale, codificando appunto l’interpretazione già affermata come costituzionalmente legittima, la quale prevede che l’accertamento tecnico e l’ispezione giudiziale posano essere disposti sulla persona dell’istante, nonché sul contro- interessato, a patto però che quest’ultimo vi consenta.

Ciò significa che depositato il ricorso volto ad ottenere l’accertamento o l’ispezione sulla persona di un contro-interessato, il giudice deve necessariamente convocare tale contro- interessato per acquisirne il consenso. Dunque, non potrebbe mai disporre l’accertamento con decreto reso inaudita altera parte.

La soluzione codificata dal legislatore del 2005, tuttavia, ha portato alcuni Autori (Ventura) a rinnovare quelle accuse di “eccessiva timidezza” che una parte della dottrina aveva già rivolto alla sentenza costituzionale n. 257 del 1996. All’epoca, infatti, era stato rilevato (particolarmente da Francesco Paolo Luiso) che la precisazione, contenuta nella pronuncia, per la quale dall’eventuale rifiuto all’a.t.p. manifestato dalla controparte sulla propria persona non può essere tratto alcun elemento di valutazione

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11 probatoria, data la fase cautelare anticipata in cui avviene, rendesse privo di rilevanza pratica lo stesso principio enunciato dalla Corte.

Infatti, chi è cosciente della circostanza che dall’eventuale accertamento possa subire un pregiudizio si rifiuterà sempre di prestare il proprio consenso, senza che il proprio comportamento possa essere valutato ai sensi dell’art. 118 c.p.c. (vale a dire, come argomento di prova a norma dell’art. 116, 2° comma, c.p.c.).

Si introduce, così, uno squilibrio tra i poteri delle parti, in quanto si finisce per privilegiare in ogni caso l’esaminando, il quale valuterà secondo la propria convenienza, volta a volta, se chiedere l’accertamento sulla propria persona, ovvero se prestare il proprio consenso all’accertamento richiesto dalla controparte.

Tale inconveniente pratico si fonderebbe peraltro su un equivoco di carattere teorico, in quanto la Corte costituzionale di allora, come il legislatore di oggi, sembrano confondere il pericolo di coattività dell’a.t.p. con l’obbligatorietà della relativa prestazione; infatti, mentre non può essere consentito costringere materialmente la parte a sottoporsi ad una determinata prestazione, nulla vieta di prevedere come obbligatorio un certo comportamento e di collegare determinate conseguenze al rifiuto di prestarlo.

Bene avrebbe dunque fatto il legislatore – sempre secondo il Ventura – a prevedere, più coraggiosamente, l’obbligo per la controparte di sottoporsi all’accertamento od all’ispezione (ovviamente sempre garantendo la dignità e l’inviolabilità della persona umana), facendo derivare quale conseguenza dell’eventuale rifiuto la possibilità di

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12 desumerne argomenti di prova al pari di quanto è già stabilito dall’art. 118, 2° comma, c.p.c. per l’ordine del giudice di ispezione sulla persona, disposto in corso di causa.

Fondamentale, in esito alla riforma, è poi il successivo innesto contenuto nel capoverso dell’art. 696 c.p.c., secondo cui « L’accertamento tecnico di cui al primo comma può comprendere anche valutazioni in ordine alle cause e ai danni relativi all’oggetto della verifica.

La novità, rispetto al passato, risulta di immediata evidenza. Con essa – pur mantenendosi il concetto tradizionale di accertamento tecnico preventivo, che continua ad essere considerato quale mezzo di istruzione preventiva di natura cautelare, presupponendo i requisiti di ammissibilità necessari e non alternativi del fumus boni iuris e del periculum in mora – si innesta il fondamentale principio della natura “valutativa”

del nuovo accertamento tecnico preventivo. Si supera, in breve il vetusto ed anacronistico orientamento che portava a concepire l’A.T.P. secondo l’efficace ma anacronistica metafora della “fotografia dello stato dei luoghi e/o delle cose”, senza possibilità di indagine o valutazione di cause o danni e si approda ad un accertamento certamente assai più moderno ed in linea anche con le più moderne legislazioni europee.

Come acutamente osservato (Giallongo) «la legge n. 80/2005 ha inteso, quindi, codificare il principio che consente al perito in sede di istruzione preventiva non solo la verifica con attività meramente ricognitiva di uno stato dei luoghi o la qualità,

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13 condizione di cose o di persone, ma anche la valutazione sulle cause e dei danni patiti dal soggetto istante».

L’intervento del legislatore del 2005 è stato coraggioso ed è andato ben oltre gli stessi assunti della giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Si è, in proposito, evidenziato (Ventura), come tale intervento sia perfino destinato «a ridisegnare la funzione stessa dell’istruzione preventiva». Come noto, i procedimenti di istruzione preventiva, pur essendo tradizionalmente collocati nell’ambito della categoria dei procedimenti cautelari, si differenziano da questi ultimi per non essere diretti a tutelare un diritto di natura sostanziale, bensì un diritto di natura processuale, quale è il diritto alla prova.

L’accertamento tecnico e l’ispezione giudiziale preventiva hanno, fino ad oggi, avuto lo scopo di impedire, nel necessario contraddittorio con il contro-interessato, il venir meno dell’oggetto della prova rilevante nel futuro giudizio di merito. La ratio, in breve, fino all’intervento della novella del 2005 è stata evidente: di fronte a situazioni mutabili e dinamiche, tali da non poter essere più accertate dopo che sia trascorso un periodo più o meno lungo di tempo, quale è quello connesso alla fase istruttoria del processo ordinario di cognizione, si preserva in qualche modo lo staus quo (di qui la fortunata metafora della “fotografia”), attraverso l’accertamento tecnico preventivo.

Con le modifiche introdotte dal legislatore del 2005, invece, l’accertamento tecnico preventivo, assume una ratio differente: consentire alla parti l’acquisizione dei dati descrittivi e valutativi, così scandagliando, in modo completo ed esaustivo, la quaestio

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14 facti prima del giudizio. In breve: si esamina il fatto controverso, valutandolo nella sua intera portata e così anticipando quelle valutazioni che, prima della riforma, potevano essere acquisite solo all’esito dell’istruzione nel giudizio di merito.

Ne discende un risultato assolutamente inedito per il nostro ordinamento, con una dimensione funzionale dell’ATP assai originale, soprattutto in ambito medico-legale. Se, infatti, il sapere tecnico riversato nell’accertamento preventivo «non si riduce ad una mera percezione “acritica” del fatto, dello stato dei luoghi o della persona, ma va oltre concretizzandosi in una valutazione ed analisi critica del fenomeno» (Nardo), allora l’analisi del consulente medico investirà l’aspetto eziologico, ma anche i profili patologici e diagnostici, suggerendo necessariamente anche i rimedi.

In questa prospettiva, il giudizio stesso rischia di risultare perfino inutile o superfluo. In molte controversie, infatti, la possibilità di poter esperire un accertamento tecnico preventivo valutativo – ossia diretto, non più solo a fotografare e descrivere lo stato di luoghi o la qualità o la condizione di cose, ma anche a valutare le cause e i danni relativi all’oggetto della verifica – può essere risolutiva. Si pensi ad una controversia in tema di risarcimento danni, in cui il presunto danneggiante contesti la propria responsabilità e l’entità del risarcimento: una volta che sia stato disposto un accertamento tecnico preventivo che abbia accertato la sua responsabilità e l’entità del risarcimento dovuto, sarebbe per lui temerario e inutilmente oneroso (posto che

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15 andrebbe incontro ad una pressoché sicura condanna alle spese) decidere di resistere nel successivo giudizio di merito, invece di ricercare una composizione stragiudiziale.

In ogni caso, anche qualora per la irriducibilità della parte risultata “soccombente”

nell’accertamento tecnico valutativo, dovesse rendersi necessaria l’instaurazione del successivo giudizio di merito, questo sarà comunque caratterizzato da una fase istruttoria assi più snella e consentirà di pervenire più celermente alla sentenza di merito.

Un ulteriore effetto deflativo del contenzioso civile lo si sarebbe ottenuto qualora il legislatore avesse inserito anche una disciplina delle spese dell’accertamento. Si pensi infatti all’ipotesi in cui l’accertamento tecnico preventivo valutativo venga richiesto dall’istante per ottenere un accertamento negativo della propria responsabilità e, dunque, al fine di prevenire un’azione civile di risarcimento danni nei propri confronti.

Anche qualora ottenga tale accertamento negativo della propria responsabilità, l’istante si troverà comunque costretto a proporre il giudizio di merito onde ottenere la condanna della controparte alle spese provvisoriamente sostenute per l’esperimento del mezzo di istruzione preventiva

In ogni caso, l’allargamento della gamma dei compiti affidati ai soggetti esperti realizza una piccola rivoluzione copernicana all’interno del nostro ordinamento: a costoro, infatti, per la prima volta sono affidate «tutta una serie di attività intimamente connesse con lo stesso esercizio dell’attività giudiziale (…). Al consulente tecnico viene affidato il compito di svolgere attività valutative che, per converso dovrebbero essere

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16 oggetto di esclusive prerogative giudiziali, quali appunto l’accertamento del nesso di causalità fra gli eventi e la quantificazione, in base a criteri normativi, dei relativi danni».

Problemi “culturali” ed applicativi

Ma, com’è quasi scontato, una novità di tal genere non è immune da incognite di vario genere. Ne tento un’ esposizione rapida e di sintesi, senza alcuna pretesa di completezza, e separando quelli che si prospettano quali dubbi “di sistema” – legati, cioè alla scelta culturale del legislatore del 2005 ed alla piccola rivoluzione copernicana effettuata – da quelli più tecnici, connessi cioè alla concreta applicazione del nuovo accertamento preventivo.

Comincio proprio da questi ultimi, segnalando, sulla scorta di quanto già evidenziato dalla più attenta dottrina:

a) il problema dell’impugnabilità del provvedimento che ammette o rigetta la richiesta di accertamento tecnico preventivo. Il dubbio sembra oggi risolto alla luce dell’ordinanza n. 14301 del 2007, con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ribadito il principio secondo cui non è proponibile il ricorso avverso l’ammissione di consulenza tecnica preventiva, in quanto la stessa ha natura provvisoria e strumentale.

La fattispecie risultava assai particolare, essendo stato il ricorso promosso da una società tedesca che rifiutava il pagamento del materiale fornito alla stessa da una società italiana lamentando vizi inerenti ai manufatti forniti. Il Tribunale di Udine

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17 disponeva un accertamento tecnico preventivo ed una consulenza tecnica ex art. 696 bis c.p.c. in merito ai suddetti manufatti, ma la società acquirente impugnava il provvedimento dinnanzi alla Corte di Cassazione. La particolarità sta nel fatto che la ditta ricorrente, consapevole del tetragono orientamento in ordine alla non impugnabilità, aveva dedotto la possibilità che il suddetto orientamento giurisprudenziale potesse essere superato, posto che, nella specie, era stato richiesto non solo un accertamento tecnico preventivo, ma anche una consulenza tecnica a fini conciliativi ex art. 696 bis c.p.c. e che quest'ultima avesse natura decisoria, comportando una anticipazione di giudizio in merito ai fatti controversi e suscettibile, dunque, di definire la vertenza per questa via.

Ma la Corte di legittimità, di contrario avviso, ha ribadito che il provvedimento di ammissione della consulenza tecnica preventiva, come tutti gli altri relativi ad atti di istruzione preventiva, ha carattere provvisorio e strumentale, con la conseguenza che da una parte non è ammissibile, per le ragioni dette, il ricorso per cassazione.

b) il problema dell’individuazione dei mezzi di prova consentiti. Vale a dire: cosa si può fare in sede di accertamento preventivo, oltre, naturalmente, alla perizia. Secondo la dottrina più accreditata (Giallongo; Besso) l’assunzione di prova prima del processo è limitata agli accertamenti peritali ed alle testimonianze, mentre continuano a “restar fuori” dalla cautela preventiva l’acquisizione di mezzi documentali e l’interrogatorio libero e formale.

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18 c) il problema dell’utilizzabilità dell’accertamento in sede di giudizio di merito. In proposito, sembra ferma la necessità del provvedimento formale del giudice (ex art.

698, comma 3, c.p.c.).

d) il problema, in ipotesi di accertamento sulla persona, delle modalità di assunzione del consenso della persona, diversa dall’istante, su cui dovrà essere espletata la consulenza.

Si ritiene che, in tal caso sia lo stesso giudice, prima di ammettere il ricorso a dover convocare il soggetto periziando affinché esprima il proprio consenso, risultando, questa, la condizione imprescindibile per l’accertamento medesimo.

Ben più interessanti si profilano, invece, i dubbi “ di sistema”: quelli, precisamente, che derivano dalla scelta culturale di fondo operata dal legislatore.

Innanzitutto, quelli nascenti da un sedimentato malcostume giudiziario che vede il giudice, sulla premessa di quesiti quasi sempre formulati in modo assolutamente generico, delegare sostanzialmente al consulente le decisione della causa: chiedendo all’esperto di accertare la sussistenza del nesso assiologico, nonché di valutare i danni e di quantificarli ed adottando poi una decisione che recepisce integralmente – spesso richiamandola per relationem – la relazione peritale, la quale diviene, così, la pietra di volta dell’intera vicenda giudiziale.

Ora, questa delega di funzioni giudiziali – che, come qualcuno ha scritto (Ansanelli), ha

«consentito il coinvolgimento nel processo civile di soggetti per nulla qualificati ad

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19 effettuare operazioni valutative inevitabilmente spettanti in via esclusiva al giudice» – rischia di essere amplificata, oggi, dallo strumento normativo in commento. Con esso, indubbiamente, le «potenzialità decisorie» della consulenza tecnica aumentano notevolmente e rischiano di trasformare l’accertamento preventivo in una vera

“anticipazione del giudizio”. D’altra parte, non manca chi (Ansanelli) solleva persino il dubbio di una incompatibilità costituzionale della norma in questione rispetto al principio, sancito nell’art. 111 Cost. che vuole la decisione sempre emessa dinnanzi al giudice naturale e precostituito per legge, nel contraddittorio tra le parti e con la possibilità di esplicare pienamente il proprio diritto di difesa: ciò che non avverrebbe nel caso di specie.

Il problema, più generale, riguarda la verifica di competenza degli esperti, la selezione di essi, la “qualità” del prodotto della giustizia civile allorquando il sapere del processo si connota per necessarie competenze tecniche.

Ma di questo parlerò in chiusura del mio intervento, trattandosi di profilo che coinvolge anche (e, forse, soprattutto) la consulenza tecnica in funzione concliliativa di cui all’art.

696 bis, c.p.c., che passo ad esaminare.

La nuova consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi (art. 696 bis c.p.c.)

La novità assoluta – novità culturale, novità di sistema – introdotta dalla legge n. 80 del 2005 è tuttavia contenuta nell’art. 696 bis.del codice di rito. Tale norma

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20 dispone che: “L’espletamento di una consulenza tecnica in via preventiva, può essere richiesta anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’art. 696, ai fini dell’accertamento e della relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito. Il consulente, prima di provvedere al deposito della relazione tenta, ove possibile, la conciliazione delle parti”.

Come segnalato dalla dottrina unanime, pur rientrando nel novero dei procedimenti di istruzione preventiva, l’istituto in questione si propone quale mezzo alternativo di risoluzione delle liti, nuovo strumento di diretta tutela di diritti delle parti e non solamente un mezzo di costituzione preventiva della prova. Frutto di quello sforzo del legislatore – perseguito, in generale, tanto nell’ambito del rito civile quanto in quello penale – teso a contenere l’inflazione delle liti giudiziarie. Nella specie, alle parti è stata concessa la facoltà di far nominare dal Giudice una persona esperta e neutrale con il compito di prospettare una soluzione, facendo una oggettiva valutazione della fattispecie che possa ottenere il consenso delle parti (CARINI).

Come è stato notato da numerosi autori (cfr., tra i molti, NARDO), la genesi del nuovo articolo 696 bis c.p.c., recepisce sostanzialmente il contenuto dell’art. 49 del progetto di legge elaborato dalla commissione “Vaccarella”. In esso, si prevedeva «la possibilità di utilizzare i procedimenti di istruzione preventiva anche in assenza di periculum in mora» e di «generalizzare la consulenza tecnica ante causam». La relazione al progetto partiva dalla constatazione secondo la quale «l’esperienza mostra che,

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21 spesso, il contrasto fra le parti riguarda la quaestio facti, di tal che, una volta effettuata l’istruttoria – e beninteso se non vi sono ragioni di contestazione sul modo in cui l’istruttoria è svolta – la controversia viene conciliata. Se, dunque, si riesce ad anticipare la formazione della prova rispetto all’inizio del processo, le controversie caratterizzate da un contrasto in punto di fatto presumibilmente non verranno portate dinnanzi al giudice».

Dunque: all’accertamento tecnico preventivo –che rappresenta un meccanismo di formazione della prova prima del processo e,quindi, di assicurazione della prova nell’

attesa del successivo processo – si aggiunge, per effetto della novità normativa di cui all’art. 696 bis c.p,.c., uno strumento di diretta tutela dei diritti delle parti, che – ispirato all’istituto del référé preventif dell’ art. 145 del codice di rito francese o dell’omologo istituto dell’art. 485 del codice di procedura tedesco – si palesa del tutto originale per il nostro sistema processuale.

Per pervenire a tale risultato, occorreva un deciso mutamento di indirizzo rispetto alla nozione tradizionale di accertamento tecnico preventivo e, soprattutto, rispetto alla sua funzione di mera “tutela cautelare della prova”.

Come opportunamente sottolineato (Nardo), l’affrancazione dei suddetti istituti dal genus del procedimento “latu sensu” cautelare, avrebbe potuto realizzarsi soltanto a seguito di una previsione normativa in tal senso, che desse un nuovo e diverso

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22 significato ai presupposti che legittimano il suddetto procedimento, quindi collocando il fumus ed il periculum sotto un diverso angolo visuale.

E così, per effetto del nuovo art. 696 bis c.p.c., è stato.

Finalità della consulenza a fini conciliativi e sue differenze con l’accertamento tecnico preventivo.

La norma, infatti, esordisce proprio rimarcando la differenza di presupposti rispetto all’articolo precedente, prevedendo l’espletamento di una consulenza tecnica in via preventiva, “anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’art.696”.

L’incipit pertanto offre un chiaro argomento testuale, come sottolineato in dottrina (Crocini) per liberare, come già detto in precedenza, questo strumento processuale, da esigenze di natura cautelare, così marcando la differenza rispetto all’accertamento preventivo disciplinato dall’articolo precedente..

Le differenze con l’ATP, già da questo primo inciso della norma, risultano di tutta evidenza. E sono agevolmente colte dalla dottrina (Visalli, Nardo, Crocini, ecc.).

La consulenza preventiva di cui all’art. 696 bis si distingue all’accertamento tecnico preventivo perché, innanzitutto, prescinde dai requisiti del fumus e del periculum. In breve: la richiesta di consulenza preventiva non è (recte: può non essere) sollecitata dal pericolo che, nei tempi di attesa ordinari per l’emanazione del provvedimento cautelato,

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23 se ne possa compromettere l’utile attuazione (periculum in mora) ; né la parte istante è tenuta a comprovare, anche sommariamente, le buone ragioni del proprio diritto, minacciato dalla tardività (fumus boni iuris).

A differenza dell’ATP, la consulenza preventiva non mira alla precostituzione di una prova da usare in un successivo giudizio. Nell’accertamento preventivo, la finalità dello strumento è quella di anticipare la formazione di una prova, nel timore che, nel tempo necessario allo svolgimento del giudizio a cognizione piena, se ne possa pregiudicare l’acquisizione. Per contro, con la consulenza preventiva, il ricorrente non mira ad ottenere un provvedimento da usare nel giudizio di merito che successivamente (ed obbligatoriamente) dovrebbe iniziarsi, perché, come detto, non vi è il periculum.

La consulenza preventiva, attraverso la possibilità di anticipare la determinazione del credito,rinviene la sua ratio nell’evitare l’instaurazione del giudizio a cognizione piena.

Come acutamente osservato in dottrina (Visalli), è la natura dei due provvedimenti ad essere profondamente differente.

L’accertamento tecnico preventivo, dovendo rispondere ai presupposti del fumus e del periculum, ha evidente natura conservativa in quanto permette la precostituzione di una prova prima del giudizio di merito nel timore che medio tempore possa mutare lo stato o la qualità di luoghi o persone.

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24 Viceversa, la consulenza preventiva non solo non ha funzione conservativa – perché la necessità di precostituzione non è richiesta né sussiste nella formulazione della norma – ma, anzi, sarebbe, in qualche modo, in contrasto con lo scopo dell’istituto stesso, il quale tende proprio, come ben sottolinea il Visalli, a modificare una situazione giuridica conflittuale, alla quale pone rimedio stabilendo a chi deve essere imputato l’inadempimento extra o contrattuale e quantificando l’ammontare del debito.

Altra differenza: la consulenza ex art. 696 bis c.p.c. presuppone e richiede che allo stato vi sia una lite potenziale. In questo senso depone l’inciso “in via preventiva” di cui al primo comma, dal quale si evince chiaramente che l’istituto de quo mira ad anticipare e prevenire l’inizio di un giudizio a cognizione piena, sottolineando che questa constatazione non vuole far uscire dalla porta i requisiti del fumus e del periculum per poi far rientrare dalla finestra quello della “lite potenziale”.Altra argomentazione può ricavarsi dall’epigrafe dell’articolo, che parla di “composizione della lite”.

Dalla novella legislativa, in definitiva, vengono fuori due istituti profondamente diversi, i quali non condividono tra loro né presupposti né finalità, con il necessario corollario, sul quale di seguito sarà opportuno fare alcune considerazioni, che le due figure giuridiche non possono certamente assimilarsi neppure riguardo ai rispettivi effetti processuali, specie con riferimento all’efficacia istruttoria che le relazioni tecniche,

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25 formate nei rispettivi ambiti, siano in grado di produrre all’interno del giudizio di merito successivamente instaurato.

Facendo ricorso ad un’espressione, certo assai sintetica, ma nondimeno in grado di rendere bene la dicotomia tra i due istituti, si può affermare che, mentre l’accertamento tecnico preventivo è strumento che mira a costituire una prova “prima del processo” ed “in vista del processo”, l’istituto disciplinato dal nuovo art. 696-bis pare configurare una prova “in luogo del processo”.

Nella ricerca di strumenti processuali in grado di arginare l’inflazione del contenzioso giudiziario civile, il Legislatore ha dotato la parte privata del potere di convenire controparte innanzi ad un giudice per indurla, in questo modo, ad intraprendere un percorso che, avvalendosi dell’attività professionale di consulenza prestata da un terza persona esperta della materia (tecnico) ed istituzionalmente neutrale alla lite in quanto nominata dal giudice, giunga a tracciare un’ipotesi di soluzione della controversia, sulla quale le parti possano liberamente far convergere la propria volontà negoziale.

L’intervento neutrale del consulente tecnico, chiamato dal giudice ad esprimere il proprio orientamento sulle questioni (almeno prevalentemente) tecniche sottese alla definizione della vertenza, in questa prospettiva, ha una primaria funzione di tipo persuasivo:

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26 a) scoraggiare iniziative giudiziarie che muovano da un approccio alle questioni tecniche, sottese alla fattispecie, di segno diametralmente opposto rispetto a quanto espresso in sede di consulenza preventiva;

b) fornire un orientamento valutativo, nei limiti dell’oggettività materiale del caso sottoposto all’attenzione del professionista, in grado di raccogliere il “consenso conciliativo” delle parti.

Il questa sede, come è evidente, il consulente è investito di funzioni ben più ampie di quanto non avvenga in ipotesi di consulenza tecnica d’ufficio in corso di giudizio ovvero in sede di accertamento tecnico preventivo. Nella consulenza preventiva, infatti, il peritus materiae non è chiamato ad operare in veste di semplice ausiliario del giudice ma, in sostanza, egli tira le fila dell’intera procedura.

La connotazione funzionale della sua attività, in particolare, assume una coloritura del tutto peculiare: gli accertamenti svolti e gli orientamenti valutativi espressi nell’ambito della procedura non possono che risentire della richiamata “funzione persuasiva” dell’opera del consulente. Egli è tenuto a privilegiare l’esigenza di prospettare alle parti una soluzione della questione che, per quanto possibile, sia suscettibile di incassare il loro consenso e ciò, ove necessario, anche travalicando i limiti della propria competenza tecnica e della rigorosa verifica oggettiva degli elementi di fatto a disposizione, circoscritta alla stretta applicazioni delle regole e dei concetti scientifici propri della disciplina alla quale il consulente appartiene.

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27 Ad una prima lettura, il tenore della novella, in parte qua, rischia di suonare come “eversivo” dei principi generali, rappresentando una possibile ed inquietante via di fuga verso forme di giurisdizione diminuita o pseudogiurisdizione.Qualcuno ha enfatizzato drammaticamente la novella, affermando che «la formulazione della norma rischia di lasciare in mano ai consulenti nominati non solo i momenti della descrizione e valutazione del fatto, ma anche la cognizione dei profili di diritto della controversia».

L’accertamento e determinazione dei crediti potrebbe involgere la valutazione giuridica e non tecnico-scientifica delle condotte delle parti, e quindi l’ingresso del consulente, ad esempio, nel giudizio di imputabilità o meno del danno, nella valutazione dell’adempimento/inadempimento contrattuale, o della validità dell’obbligazione posta a sostrato della pretesa fatta valere.

Proprio in ragione della finalità dell’istituto, sembra da condividere la posizione di quanti, nell’interpretare l’ultimo inciso del primo comma della disposizione, sostengono che il consulente sia tenuto a tentare la conciliazione non solo prima del deposito, ma addirittura nel corso della stessa redazione della relazione di consulenza, durante la quale operazione egli è tenuto ad ascoltare le posizioni espresse dalle parti procurando, per quanto possibile, di avvicinarle e rendere realizzabile l’accordo intorno all’orientamento espresso nella relazione definitiva.

Occorre sottolineare, per completezza, che il Legislatore prevede ulteriori incentivi per spingere le parti a conciliarsi di fronte al consulente. Si prevede, infatti, che il

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28 processo verbale di conciliazione sia esente dall’imposta di registro e che, per altro verso, tale verbale possa essere dotato dell’ “efficacia di titolo esecutivo” con decreto del giudice. Occorre precisare, tuttavia, che si tratterà di un titolo esecutivo idoneo a fondare l’espropriazione, l’esecuzione in forma specifica e l’iscrizione di ipoteca giudiziale, con esclusione, cioè, delle altre forme di esecuzione forzata.

Per inciso, se la funzione di questa consulenza è quella di consentire il formale espletamento di un tentativo “pre-giudiziale” di conciliazione, non dovrebbero esserci dubbi che, nel caso in cui il soggetto chiamato a partecipare alla procedura volontariamente non vi prenda parte (omettendo di costituirsi, di comparire o di partecipare alle operazioni del consulente), la procedura stessa non dovrebbe proseguire. In tal caso, infatti, la finalità compositiva sarebbe “istituzionalmente”

compromessa ab origine e il giudizio di merito inevitabile. Ben inteso, in simile evenienza, sarà proprio il processo di cognizione la sede in cui far ricadere sulla parte, che ha in sostanza impedito il tentativo di composizione, le conseguenze (negative) del proprio atteggiamento “poco collaborativo”.

In definitiva, sembra che nessuno degli operatori del diritto, almeno sinora, abbia espresso seri dubbi intorno alla ricostruzione della consulenza tecnica preventiva a fini di composizione della lite appena succintamente delineata, né, peraltro, sembrano prospettarsi particolari difficoltà interpretative ed applicative per l’ipotesi in cui la procedura de quo abbia esito positivo, ossia l’iter procedimentale si concluda con la

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29 redazione, da parte del consulente tecnico incaricato, di processo verbale contenente la conciliazione delle parti.

Oggetto ed ambito di applicazione dell’istituto

La consulenza ex art. 696 bis c.p.c. è consentita per «l’accertamento e relativa determinazione dei crediti derivanti dalla mancata esecuzione di obbligazioni contrattuali o da fatto illecito».

Le indagini, dunque, sono estese agli inadempimenti contrattuali ed extracontrattuali (si spazia, ad esempio, dai difetti dell’opera nell’esecuzione di un appalto, fino alla quantificazione di invalidità permanente o provvisoria da incidente stradale) . In realtà, nonostante la critica di una parte minoritaria della dottrina, lo

“spettro” applicativo della norma appare senza dubbio assai ampio: esso copre , con il riferimento all’inadempimento sia contrattuale che extracontrattuale ogni violazione di diritto, anche reale, ad eccezione soltanto di alcune tipologie dell’art. 1173 del Codice civile, vale a dire la ripetizione d’indebito, la negotiorum gestio, l’azione di ingiusto arricchimento. Come sopra accennato ( e come rileva la migliore dottrina: v. per tutti Giallongo), l’indagine del perito “preventivo” «non è limitata, peraltro, alla fase

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30 descrittiva, ma riguarda la fase valutativa, come espressamente consentito dalla lettera dell’art. 696 bis ; di certo non può che estendersi anche ai profili di diritto» .

Ciò significa, ad esempio, che, nell’ipotesi di accertamento di credito derivante da inadempimento contrattuale, al consulente sarà non solo consentito, ma per certi aspetti, imposto dalle stesse circostanze, la verifica della validità dell’obbligazione, posta a fondamento della pretesa. Ma significa anche, in ambito di responsabilità extra contrattuale, che la quantificazione del danno esige l’acquisizione della prova sulla colpa (se contestata tra le parti), nonché «la disamina,anche da un punto di vista dei parametri normativi, dei comportamenti assunti dalle parti ai fini della verifica dell’imputabilità o (con)cause del danno» (Giallongo). Come già nell’attività conciliativa in ambito di rito del lavoro, il legislatore «ha attribuito ai soggetti preposti all’attività conciliativa ogni potere necessario per l’individuazione della proposta,ivi comprese la valutazione in diritto della controversia e delle argomentazioni giuridiche delle parti (Giallongo)

Gli effetti della mancata conciliazione preventiva: valore ed efficacia della relazione del consulente.

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31 Esistono, invece, profonde perplessità e visioni divergenti tra gli interpreti intorno alla problematica concernente il “destino” della relazione del consulente nell’ipotesi di mancata conciliazione preventiva tra le parti. In attesa delle prime applicazioni giurisprudenziali, infatti, si dibatte sull’efficacia da riconoscersi alla relazione di consulenza nel successivo giudizio di merito ed, in generale, sulle conseguenze giuridiche e processuali da riconnettersi all’avvenuto espletamento della procedura conciliativa che abbia avuto esito negativo. Il problema sorge in quanto, contrariamente a ciò che avviene per l’ipotesi di buon esito della conciliazione, per il caso (inverso) di successiva instaurazione del giudizio di cognizione la norma appare generica, limitandosi a riconoscere alle parti la facoltà di chiedere l’acquisizione agli atti della relazione depositata dal consulente (penultimo comma dell’art. 696-bis).

Nel tentativo di prospettare una valida soluzione a questo tipo di problematiche, bisogna tener ben presente la ratio conciliativa che permea l’istituto in esame ed evitare di avallare soluzioni di tipo utilitaristico che, pur di conservare una qualche efficacia alla relazione tecnica, sono troppo frettolosamente propense a trascurarne il percorso generativo, discostandosi in termini inaccettabili dal dato normativo (Planteda) .

Occorre prendere una posizione chiara: la relazione di consulenza formata nel procedimento ex art. 696-bis non è assimilabile, quoad effectum, alla relazione di

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32 C.T.U., sia essa espletata nel corso del giudizio di cognizione ovvero nell’ambito del procedimento di accertamento tecnico preventivo ex art. 696 c.p.c.

A favore di questa conclusione militano, prima di tutto, una serie di considerazioni sul carattere e sulle finalità della relazione ex art. 696-bis, già richiamate in precedenza.

Al consulente è riconosciuta la possibilità di travalicare i limiti della propria competenza professionale e di allontanarsi dalla semplice descrizione di fatti ed eventi e dalla valutazione tecnica e/o scientifica dei relativi processi causali e gli è consentito di esprimersi intorno all’ “accertamento e alla relativa determinazione di crediti”.

Si tratta, cioè, di attività giuridica che, nel processo di cognizione, è di competenza esclusiva ed “indelegabile” del giudice. Nella procedura preventiva in parola, tale funzione è demandata al consulente nominato e ciò non può essere “motivo di scandalo” proprio perché il relativo esercizio non avviene in forma di statuizione officiosa, ma, semplicemente, di ipotesi conciliativa. In questa prospettiva, come anticipato, anche le semplici considerazioni tecniche del consulente sono orientate verso un “accertamento conciliativo dei crediti” e non scaturiscono da un approccio propriamente tecnico-scientifico.

A ciò si aggiunga che, affinché la procedura preventiva possa assolvere alla sua funzione, è auspicabile che le stesse parti assumano un atteggiamento non già

“difensivo”, ma, al contrario, il più possibile conciliativo, fornendo al consulente tutte le notizie e facendo tutte le dichiarazioni che possano essere utili allo sforzo di ricerca di

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33 una soluzione condivisa. Riconoscere a tali contegni ed alle valutazioni che su di essi abbia operato il consulente una valenza probatoria azionabile nel giudizio di merito, sia pure sotto forma di argomenti di prova ex art. 116 c.p.c., come è stato acutamente osservato, comporterebbe una compressione del diritto di difesa.

In questo caso, l’atteggiamento collaborativo della parte durante la procedura conciliativa le si ritorcerebbe contro nel corso del successivo giudizio di merito o, al contrario, l’esigenza di non pregiudicare la propria posizione nell’(eventuale) successivo giudizio, potrebbe indurla a non prestare un’adeguata collaborazione durante la fase conciliativa, pregiudicando seriamente, così, le possibilità di composizione della vertenza e mortificando la finalità stessa della norma in esame.

Orbene, tenuto conto di tutte queste considerazioni, in caso di esito negativo della procedura preventiva a fini di conciliazione, non si può certamente pretendere che il contenuto della relazione del consulente, nella sua parte descrittiva, di valutazione tecnica e di “accertamento e determinazione dei crediti”, abbia, nel giudizio di merito, una valenza istruttoria o possa assolvere alla funzione di integrazione della cognizione del giudice, propria della C.T.U..

Questa conclusione appare avvalorata da un chiaro elemento di diritto positivo, sinora non adeguatamente messo in evidenza. Ci si riferisce a quanto prevede l’art. 696 c.p.c. in materia di accertamento tecnico preventivo.

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34 Dottrina e giurisprudenza riconoscono unanimemente all’accertamento tecnico preventivo la natura di strumento atto a costituire la prova “prima del processo” ed “in vista del processo”. Anche a seguito dell’intervento della novella legislativa, tuttavia, l’attivazione di tale istituto rimane condizionata al ricorrere dell’esigenza (di “cautela della prova”) di ovviare al periculum in mora rappresentato dal rischio che il ritardo nell’assunzione pregiudichi la possibilità di costituire la prova nel corso del processo.

Pur potendolo astrattamente fare, dunque, il Legislatore non ha inteso estendere la possibilità di raccolta preventiva della prova ai casi in cui ciò non sia reso necessario dal rischio della sua perdita, legato alle more del giudizio. Ne deriva che l’interprete non può pervenire ad un risultato diverso, consentendo la raccolta preventiva anche in assenza di ragioni cautelari, attraverso un’operazione esegetica che cada su una norma, quella di cui all’art. 696-bis, la cui ratio (di incentivo alla conciliazione pre-giudiziale), come chiarito, non è certamente quella di fornire alle parti uno strumento di pre- costituzione di un mezzo di prova.

E’ possibile rinvenire, infine, un ulteriore elemento di diritto positivo, che conferma l’asserita incapacità della relazione, resa in sede di consulenza tecnica preventiva, di assurgere a strumento di prova (o di integrazione della cognizione del giudice) nel successivo processo di merito. Ci si riferisce all’ultimo capoverso dell’art. 696-bis, il quale nel dichiarare applicabili alla nuova procedura, nei limiti della compatibilità, le

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35 norme codicistiche dettate in materia di nomina ed indagini del consulente tecnico, rinvia espressamente agli articoli da 191 a 197 c.p.c.

Restano fuori dal rinvio, di conseguenza, non solo le disposizioni in materia di esame contabile (art. 198 c.p.c.) e, ovviamente, quelle in tema di conciliazione di fronte al consulente, su cui l’art. 696-bis dispone direttamente, ma è esclusa dal rinvio, altresì, l’art. 201 c.p.c., che disciplina la figura del consulente tecnico di parte, sancendo a favore delle parti un vero e proprio diritto processuale di nominare un proprio consulente tecnico, da affiancare al consulente nominato dal giudice nel corso di tutta l’attività demandata a quest’ultimo.

Si tratta di una disposizione che, a parere unanime di dottrina e giurisprudenza, esprime positivamente la necessità di attuare il principio del contraddittorio (c.d.

contraddittorio tecnico) anche in sede di consulenza d’ufficio, garantendo che il processo abbia in ogni sua fase la tipica struttura dialettica, dalla quale dipende, in definitiva, la capacità di ogni istituto processuale di assolvere alla funzione per la quale è previsto. La partecipazione dei consulenti di parte, nello specifico, è ricostruita come strumento attraverso cui il giudice può, in concreto, operare quel controllo sull’operato del consulente d’ufficio che, in astratto, l’ordinamento gli affida.

Ora, ai fini che qui interessano, non sembra importante stabilire se le parti possano o meno comunque valersi dell’ausilio di un proprio consulente, quanto piuttosto rilevare che il principio (del contraddittorio tecnico) sul quale è eretta

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36 l’attitudine della consulenza tecnica d’ufficio ad assolvere alla funzione istruttoria o integrativa della cognizione del giudice non è stato esteso alla consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite.

E questo è del tutto in coerenza con le conclusioni alle quali, riguardo a tale istituto, si è giunti. In sede preventiva, i consulenti, da cui le parti si facciano assistere, non dovranno convincere nessuno dell’ (eventuale) erroneità delle conclusioni a cui è giunto il consulente nominato dall’ufficio, né la loro funzione sarà quella di indurre il giudice, con le proprie osservazioni critiche, a seguire o a disattendere le risultanze della relazione conclusiva. Piuttosto, essi potranno fornire il proprio contributo in via preventiva, segnalando aspetti della vicenda eventualmente trascurati ed esprimendo opinioni anche tecniche, dal confronto tra le quali l’individuazione di un orientamento condiviso divenga più probabile.

In sede di consulenza tecnica preventiva, lo scopo non è quello di confezionare una relazione capace di assolvere ad una funzione probatoria (o integrativa della cognizione del giudice). E’ davvero tautologico, di conseguenza, che tale relazione non sarà idonea e non potrà assolvere a simili funzioni.

Ed allora, a che scopo la norma riconosce alle parti la facoltà di chiedere l’acquisizione agli atti del giudizio di cognizione della relazione depositata dal consulente? Il progetto di riforma approvato dalla commissione “Vaccarella” lo prevedeva espressamente: con l’acquisizione della relazione, la parte primariamente

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37 mira a far valere una precisa responsabilità processuale dell’altra parte, da valutarsi ai sensi dell’art. 96 c.p.c.

Per il caso di fallimento del tentativo di composizione in sede di consulenza preventiva dipeso dalla mancata adesione di una parte all’orientamento valutativo espresso dal consulente nominato dal giudice, qualora la sentenza di merito profili una soluzione della vertenza in linea con tale (preventivo) orientamento, l’altra parte sarà legittimata a richiedere la condanna al risarcimento per “lite temeraria”, in quanto controparte ingiustificatamente non si è allineata all’ipotesi di composizione profilata dal consulente, costringendo la parte a sostenere i costi e le lungaggini di un giudizio che, con la dovuta diligenza processuale, si sarebbe dovuto evitare. E ciò, si badi, anche nell’ipotesi in cui la mancata composizione preventiva sia da imputarsi all’ (ingiustificato) rifiuto di conciliare, proveniente dalla parte vittoriosa nel processo di cognizione. Il risarcimento in questione, dovrà comprendere tra le varie poste, anche la rifusione delle spese, legali e di consulenza, sostenute per dare impulso o, comunque, per prender parte alla procedura preventiva.

Allo stesso modo, anche l’ipotesi di volontaria omessa partecipazione alla procedura di composizione di una delle parti può, senza dubbio, integrare la fattispecie di responsabilità processuale aggravata, tutte le volte in cui il giudizio di cognizione si concluda con l’accoglimento, anche parziale, della domanda proposta dalla parte che ha preventivamente promosso la procedura di consulenza. Anche in questo caso, è da

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38 imputarsi al negligente contegno processuale della parte contumace l’impossibilità di esperire un tentativo di composizione “pre-giudiziale” che avrebbe, in caso di esito positivo, fatto evitare il giudizio di cognizione. Al contrario, si ritiene che in caso di totale soccombenza nel merito della parte che ha promosso la procedura conciliativa, le relative spese ed oneri debbano rimanere a suo carico anche in caso di contumacia di controparte nella fase preventiva: l’accertata carenza del suo diritto, infatti, ne esclude la tutelabilità e destituisce di fondamento qualunque iniziativa giurisdizionale che miri a farlo valere.

Una simile impostazione, peraltro, ha l’indiscutibile pregio di incentivare le parti a partecipare (e con diligenza) alla procedura preventiva, configurando una sorta di sanzione civile per il caso di ingiustificata omessa partecipazione ovvero ingiustificata mancata composizione della controversia.

Resta da chiedersi la ragione per cui il penultimo comma dell’art. 696-bis, come prospettato dall’originaria formulazione, abbia eliminato l’esplicito riferimento alla responsabilità processuale come specifica finalità connessa alla richiesta di acquisizione della relazione resa in sede di consulenza tecnica preventiva.

Ebbene, pare che la più generica locuzione contenuta nella norma abbia l’indiscutibile pregio di non precludere aprioristicamente qualunque ulteriore (e secondario!) utilizzo della relazione, che ne rispetti la sua connotazione di strumento

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39 orientativo, in ogni caso inidoneo a costituire un mezzo istruttorio ovvero uno strumento di integrazione della cognizione del giudice, utilizzabile ai fini della decisione di merito.

Viene in mente, per esempio, la fattispecie di “provvisionale”, disciplinata dall’art. 147 del nuovo Codice delle Assicurazioni, il quale prevede, a determinate condizioni, l’assegnazione di una somma “nei limiti dei quattro quinti dell’entità del presumibile risarcimento che sarà liquidato in sentenza”. Orbene, nella fase processuale in cui il giudice è chiamato ad accordare tale somma alla vittima di un sinistro stradale, in attesa di una canonica consulenza tecnica d’ufficio, gli elementi, dai quali desumere il

“presumibile risarcimento che sarà liquidato in sentenza”, sono costituiti dall’indicazione contenuta nella domanda giudiziale, che è atto di parte e, in caso di precedente consulenza “per la determinazione dei crediti” ex art. 696-bis, dalla relazione redatta dal professionista nominato dal giudice, col contributo di entrambe le parte (e dei rispettivi consulenti).

Tra i due indici, quello che appare più attendibile al fine di fondare la valutazione, sommaria e ad effetti transitori, di “presumibilità” è proprio quello che scaturisce dalle conclusioni contenute nella menzionata relazione. Senza che ciò, ben inteso, possa in alcun modo far ritenere superflua la prova dell’entità del risarcimento da liquidarsi in via definitiva che, qualora coinvolga valutazioni tecniche, non potrà che passare attraverso la classica C.T.U.

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40 La genericità dell’espressione contenuta nella disposizione, in conclusione, consente di non precludere a priori la possibilità di ricavare dalla “relazione preventiva”

una qualche utilità, come avviene nel caso di provvisionale o in altri casi analoghi, che possono venire all’attenzione dell’interprete, in cui la legge riconnetta provvisoriamente determinati effetti alla verifica sommaria di determinati presupposti, i quali, tuttavia, non si avranno in questo modo per provati ai fini della sentenza vera e propria.

La metodologia medico legale dell’accertamento e della valutazione del danno nella consulenza medica conciliativa

Ma proprio le considerazioni appena sopra svolte sollecitano un interrogativo di fondo: in questa ricerca della conciliazione, in questo privilegiare l’esigenza di prospettare alle parti una soluzione conciliativa quanto il consulente medico può travalicare i limiti della propria competenza tecnica e della rigorosa verifica oggettiva degli elementi di fatto a disposizione ? Quanto può essere condizionato, nel giudizio medico-legale dalla necessità di operare “secondo persuasione” e quanto invece la sua attività deve essere circoscritta alla stretta applicazione delle regole e dei concetti scientifici propri della disciplina di appartenenza ?

Ora, dalla sponda “medica” la risposta pare univoca, a differenza di quanto,invece, prospettano i processualisti. Secondo i primi,se è pacifico che il consulente debba ascoltare le parti per tentare, laddove possibile, di avvicinarle, in

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41 modo da rendere fattibile l’accordo, così svolgendo appieno il formale espletamento di un tentativo "pre-giudiziale", deve essere altrettanto chiaro che l’incarico professionale (limitandosi alla stretta applicazione delle regole e dei concetti scientifici propri della disciplina di appartenenza), non può travalicare i limiti della propria competenza tecnica, né quelli di una rigorosa verifica oggettiva degli elementi di fatto a disposizione.

Se, insomma, la regola è che in qualsivoglia esperienza peritale, finanche quella prodotta per la parte, il medico legale non può disattendere le regole imposte dal codice deontologico e i principi della metodologia medico legale relativi all’accertamento e alla valutazione del danno, anche nell’ambito della conciliazione questa regola dovrà ispirare il comportamento del medico.

L’accertamento medico legale, come detto, ha un contenuto clinico da cui non si può prescindere e dal quale debbono necessariamente svilupparsi tutti i vari pregiudizi su cui la valutazione stessa si fonda. Poiché l’indagine ha una finalità propria che non consiste nella sola conoscenza della menomazione ma che è premessa per pervenire all’apprezzamento della compromissione dell’integrità psico-fisica del soggetto questa avrà ambiti di ricerca tali da consentire una conoscenza più profonda della disfunzione esaminata. Ciò è ricavabile attraverso un’esplorazione che va anche oltre il diretto e pur importante approccio esaminatore-paziente. Ci si riferisce all’esplorazione funzionale che avviene, oggigiorno, anche mediante molteplici indagini strumentali. Poiché oggetto dell’accertamento è la conoscenza delle implicazioni anatomo-funzionali delle

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42 menomazioni, e dunque dei livelli di compromissione, sorge la necessità di una precisa definizione delle azioni disturbate o impedite perché le funzioni che si considerano hanno una loro molteplicità d’espressione e si dovrà, pertanto considerare come dette azioni sono alterate sia qualitativamente sia quantitativamente. Infine, si dovrà considerare come il pregiudizio funzionale si riverbera nei confronti dell’autostima personale, giacché la soggettivizzazione può accrescere o ridurre l’effetto della menomazione, e, infine, com’essa si riflette nella socializzazione e nei rapporti relazionali.

La metodologia medico legale in materia di risarcimento del danno più sopra richiamata non può essere disattesa dal consulente, anche se la recentissima normazione (ultimo inciso del 1° co. dell’art. 696 bis c.p.c.) gli riconosce espressamente una primaria funzione persuasiva e conciliativa. In altri termini, il consulente può esplicare appieno e in maniera tecnicamente ineccepibile la funzione conciliativa laddove sussista una differenza valutativa, anche sostanziale, tra le parti, oppure allorquando il caso rientri in zone grigie della correlazione causale, o ancora allorché il quadro clinico si presti a difformi e non univoche interpretazioni; può far tutto ciò senza però tradire e sconfessare i principi della deontologia e della metodologia medico legale. Può risolvere anche contrasti in merito al ricorso di preesistenze patologiche in grado di dispiegare effetti, talora sproporzionati rispetto alle caratteristiche della noxa lesiva, e sciogliere gli insormontabili contrasti emergenti in relazione alle soglie

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43 biomeccaniche di lesività ma, certamente, non dovrà mai travalicare i limiti della propria competenza tecnica e tanto meno porre in secondo piano (o addirittura tralasciare) la rigorosa verifica oggettiva degli elementi a sua disposizione.

La consulenza tecnica preventiva in ambito medico legale, per assolvere la richiamata funzione conciliativa, la quale esalta il principio del contraddittorio e della dialettica, potendo i consulenti delle parti segnalare aspetti della vicenda trascurati, oppure comunicare recenti acquisizioni scientifiche, fin qui trascurate, o altro, pur nel contrasto inter partes, dovrà essere svolta unicamente da un esperto del settore, specialista della materia I motivi di questa affermazione perentoria sono molteplici.

L’esercizio della medicina legale richiede studio approfondito, mentalità peculiare e competenze specialistiche, riconosciute e validate dall’addestramento avuto negli anni di corso universitario. Richiede, altresì, grande rigore, assoluta obiettività di giudizio, in vista delle conseguenze che ne possono derivare in ambito giudiziale. Il fine dell’attività medico legale, come rileva Barni, è la ricerca della verità in quella data fase storica, conforme dunque alle conoscenze scientifiche del momento, al progredire del sapere e dell’esperienza, considerando però che la rappresentazione della realtà è sempre il portato di un processo psichico e di un costrutto logico basato sull’apprezzamento personale della prova, che spiega il sorgere del dubbio scientifico e rende ragione delle opinioni contrastanti e del dissenso. Per svolgere correttamente l’indagine medico legale è indispensabile avere cognizione dei fatti scientifici di carattere medico più aggiornati,

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