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La nuova frontiera del cinema italiano: la commedia corale

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Academic year: 2022

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La “nuova” frontiera del cinema italiano:

la commedia corale

Dalla seconda metà degli anni ’90, almeno fino a tutto il primo decennio del nuovo millennio, il cinema italiano dal punto di vista qualitativo ha affrontato il punto più basso della sua centenaria e gloriosa storia. Viceversa, è il caso di dirlo, nel secondo decennio degli anni ‘2000, le cose sono cambiate radicalmente. E non parliamo soltanto per l’assidua opera dei nostri cineasti più illuminati:

Sorrentino, Garrone e pochi altri. Ma parliamo di tutto l’humus artistico e culturale che prende vita nella pancia media del nostro cinema. In quella sorta di via di mezzo tra il film d’autore e quello più semplice o ridanciano. E qui ci rifocalizziamo sul genere che ha fatto la fortuna del nostro cinema, ovvero la commedia.

La commedia all’italiana infatti, era un genere che parlava degli italiani, di noi stessi, dei nostri tanti vizi e delle nostre poche virtù. Lo si è fatto negli anni ’60 e lo si è riproposto con altri volti e altre situazioni, negli anni ’80. Oggi, alla luce di tutte le trasformazioni che ha subito il cinema dal 2010 ad oggi, possiamo con certezza dire, che siamo di fronte ad una “terza” commedia all’italiana, basata sul gioco di squadra, sulla coralità e su una qualità interpretativa davvero considerevole da parte delle nostre giovani o meno giovani leve.

Negli ultimi anni infatti, una squadra di attori si sta facendo avanti in formazione compatta, interpretando film dalla struttura corale ben orchestrata. No, non stiamo parlando della manciata di interpreti, spesso provenienti dalla televisione o dal cabaret (o peggio, dal cabaret televisivo), che popola da anni le commedie dei “telefoni bianchi”. Parliamo di quel gruppo legato da affinità artistiche e da un’amicizia decennale che ha trovato la sua vetrina principale negli ultimi film di Paolo Genovese, di Edoardo Leo, di Rocco Papaleo, di Massimiliano Bruno, di Sydney Sibilia, di Francesca Archibugi, di Gabriele Muccino e potremmo ancora continuare. Ricordate la banda Salvatores negli anni Ottanta e Novanta?

Ecco, oggi intorno ad alcuni autori, si è creata una squadra che non solo si interfaccia a livello di recitazione, ma contribuisce al progetto in fase di sceneggiatura, talvolta partecipando anche alla produzione, e formando una sorta di factory creativa di quelle che erano a lungo mancate al cinema italiano. Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Alba Rohrwacher appaiono sia in “The place”, che in “Perfetti sconosciuti”; ma Marco Giallini è stato anche tra i protagonisti di “Tutta colpa di Freud”, dove troviamo anche Alessandro Gassman. Lo stesso attore e figlio d’arte interpreta pure “Il nome del figlio” al fianco di Valeria Golino e Rocco Papaleo, e proprio con quest’ultimo ha intrapreso un profondo rapporto amicale e lavorativo, da “Basilicata coast to coast” a “Onda su onda”, diretti entrambi da Papaleo. A cui Gassman ha restituito il favore dirigendolo nel film “Il premio”, in uscita a fine 2017 e dove si registra anche la presenza del sommo Gigi Proietti.

Poi c’è Edoardo Leo, direttamente dalla saga in tre film di “Smetto quando voglio”, dove troviamo anche il “grosso” Stefano Fresi, che già aveva lavorato con Edoardo Leo in “Noi e la Giulia”, e che a novembre è in sala con “La casa di famiglia”, interpretato tra gli altri anche da Lino Guanciale. In “Noi e la Giulia” oltre a Claudio Amendola c’è anche Anna Foglietta, strepitosa moglie di Valerio Mastandrea nel film “Perfetti sconosciuti”. E in “Perfetti sconosciuti” c’è anche Giuseppe

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Battiston, che già con “Bar sport” aveva sperimentato la commedia corale. E non possiamo non citare o non ricordare “A casa tutti bene”, l’ultima fatica corale di Gabriele Muccino, in un cast monstre che annovera attori di consumato talento come Gianmarco Tognazzi, Pierfrancesco Favino e Stefano Accorsi.

Ma tutt’intorno ci sono anche altri attori, che in maniera più sporadica partecipano al completamento del genere, sviluppatosi per intuizione o forse solo per mero successo commerciale negli ultimi sei/sette anni. Ci sono in ordine sparso Barbara Bobulova e Riccardo Scamarcio per “Una piccola impresa meridionale”; Claudio Amendola per “Noi e la Giulia”; Valeria Golino e Micaela Ramazzotti per “Il nome del figlio”; Kasia Smutniak per “Perfetti sconosciuti”; Silvio Muccino e Sabrina Ferilli per “The place”; Pietro Sermonti e Giampaolo Morelli per la saga di “Smetto quando voglio”; Michele Placido per “Viva l’Italia”; Giovanna Mezzogiorno per “Basilicata coast to coast”; Gigi Proietti per “Il premio”; Lino Guanciale per “La casa di famiglia”.

Insomma tutti questi attori e autori lavorano in sinergia dentro e fuori dal set e rappresentano ormai una vera e propria squadra, che alternandosi, si presenta più o meno sempre compatta al giudizio del pubblico. Che cosa comporta questa tendenza in fase di realizzazione? Comporta una collaborazione artistica e uno scambio creativo che non si vedeva dai tempi della commedia classica all’italiana. Certo, non necessariamente raggiungendo gli stessi risultati artistici, ma certamente aspirando alla stessa sintonia. È un fatto noto che alla scrittura di “Perfetti sconosciuti”, ad esempio, oltre al team di sceneggiatori, hanno partecipato attivamente gli interpreti, aggiungendo aneddoti e dettagli per arricchire le loro caratterizzazioni e il flusso del racconto. Ma lo stesso discorso può essere fatto per “Noi e la Giulia” o per “Smetto quando voglio” e altri film corali dell’attuale periodo.

Insomma ci troviamo di fronte ad un vero e proprio lavoro d’orchestra, che è ben evidente anche quando le avventure degli interpreti non si svolgono perennemente insieme. Infatti, in “The place”, nonostante gli interpreti recitino insieme regolarmente, uno alla volta, solo con Valerio Mastandrea, è evidente che fra di loro si è formato un team e si è instaurata una familiarità che, per lo spettatore, comincia ad avere il valore di un ritrovo fra amici. E di questo gioco di squadra, di questo lavoro d’orchestra, come lo avevamo chiamato sopra, ne giova tutto il cinema italiano attuale nel suo complesso. E il fatto che questa coralità, sia pienamente inserita nel discorso del genere della commedia, non fa che aumentare i paragoni con il passato e il prestigio dell’attuale lavoro d’orchestra. Perché se è vero che il passato dei Gassman padre, dei Tognazzi o dei Manfredi è difficilmente raggiungibile; è pur vero che questo gruppo di attori conferma la propensione italica alla commedia, dove probabilmente nessuno è stato bravo o è bravo quanto noi. E se l’età anagrafica di questo gruppo d’attori, più o meno coincide e si attesta sull’età di mezzo, segno inequivocabile di una certa esperienza lavorativa, nonché di una giovinezza d’animo che tarda a scomparire, quella che vediamo sul grande schermo è una squadra compatta e coesa, riconoscibile come gruppo creativo, e non solo come singole professionalità.

Ma è il ping pong fra questi attori abituati a confrontarsi anche fuori dal set a creare quell’onda d’urto che, al di là della singola riuscita artistica dei film che interpretano, porta pubblico in sala e crea appuntamento. E non è poco, per il cinema italiano. Ormai dunque, si è creato un nuovo genere, quello della “commedia corale” e se giocassimo un po’ a cercare un prodromo o una paternità a

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questa invenzione cinematografica del secondo decennio degli anni 2000, un capostipite può essere rintracciabile in “Basilicata coast to coast”, picaresco film diretto da Rocco Papaleo, un po’ “Armata Brancaleone” e un po’ commedia errante, che rispolverando la vecchia commedia corale ha fatto capire ai nostri autori, come il gioco di squadra tra attori, può creare sinergia, competenza, esperienza e quant’altro al servizio di un “nuova” commedia all’italiana, che letteralmente è la descrizione di noi stessi vista attraverso gli eroi del cinema. E in tal senso, nel cinema italiano attuale, nessun film descrive i vizi, i segreti e le piccole meschinità dell’italiano medio meglio di “Perfetti sconosciuti”, de “Il nome del figlio” e di “A casa tutti bene” che nella commedia corale attuale ne rappresentano i modelli da seguire, in vista di altri futuri capolavori.

Addio a Carlo Vanzina, il “cineasta” della moderna commedia all'italiana

Se il cinema rappresenta, come dice Edgar Morin, ‘lo spirito del tempo’, nel panorama italiano non esiste regista che quello spirito lo abbia rappresentato meglio di Carlo Vanzina.

Già, perché il cinema di Carlo Vanzina, è molto più complesso di quel che si possa pensare.

Un cinema che acquista linfa e vitalità dalla quotidianità, dall’attuale, rispecchiando fedelmente la società italiana degli anni ’80 e degli anni ’90. D’altronde Carlo era figlio di Steno, genio della commedia all’italiana degli anni d’oro, quelli dei ’50 e dei ’60, ed è cresciuto imparando da Monicelli e dallo stesso padre: il gotha della commedia all’italiana. Il cinema di Carlo Vanzina, e del fratello Enrico, beninteso, splendido sceneggiatore di tanti film cult, è commedia all’italiana pura, che ha rappresentato la decadenza degli ultimi decenni del XX secolo, quelli delle televisioni commerciali, delle volgarità gratuite e scurrili, quelli della censura ormai inesistente. E analizzata da questo punto di vista, allora il cinema dei fratelli Vanzina, acquista spessore, prestigio e si erge come narratore di un pezzo storico nazionale, intrinsecamente molto più esaustivo di un trattato sociologico. I fratelli Vanzina, sono stati veri scopritori di talenti (Diego Abatantuono, Jerry Calà, Christian De Sica, Massimo Boldi, Maurizio Micheli), così come i loro padri cinematografici (n.d.r. Monicelli, Comencini, Risi, Scola, Steno, Salce) avevano scoperto e portato al successo i vari Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi. Certo, quella generazione era una di quelle d’oro, di quelle irripetibili, di quelle che accadono una volta ogni 1000 anni; però quella scoperta dai Vanzina, se non è d’oro, almeno è d’argento, e nel panorama comico nazionale è comunque tanta

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roba.

Sotto l’ala protettiva dei Vanzina, ad esempio, arrivò al successo Diego Abatantuono con Eccezzziunale…veramente e Il ras del quartiere, attore dal grande talento poliedrico, futuro protagonista dei capolavori di Salvatores. Ma il primo vero grande successo epocale dei Vanzina, è Sapore di Mare, seguito immediatamente dopo da Vacanze di Natale. Siamo nel 1982, anno epocale anche per altri fatti extra-cinematografici, quando i registi Carlo ed Enrico Vanzina, rispolverarono la morente commedia all’italiana, creandone una nuova, con altri volti e altre storie. Dopo il successo commerciale del loro Sapore di mare, il produttore Aurelio De Laurentiis commissionò un’opera simile per l’anno successivo, ma ambientata stavolta in una località sciistica, da mettere in programmazione nei cinema nel periodo natalizio. I due fratelli pensarono quindi a una rilettura contemporanea di un film del 1959 interpretato da Alberto Sordi e Vittorio De Sica (padre di Christian), Vacanze d’inverno, in cui il regista Camillo Mastrocinque aveva tratteggiato, sullo sfondo di Cortina d’Ampezzo, i costumi italici del tempo. Nacque così nel 1983 il primo Vacanze di Natale girato anch’esso tra la regina delle Dolomiti. Ma la pellicola più rilevante, proprio perché apre la strada a tutto il resto, è proprio Sapore di mare.

I fratelli Vanzina ebbero l’intuizione di rinfrescare una vecchia formula – la commedia balneare anni

’50 – con tocchi goliardici e dialoghi parolacciari al passo con i tempi (Calà, il vero mattatore della pellicola, entra in scena cantando “Per quest’anno, non cambiare, vengo in spiaggia per ciurlare”): e infilano una serie di episodi e di caratterizzazioni semplici, ma destinati a rimanere nelle menti del pubblico, con un’accorta e accurata “operazione nostalgia” delle atmosfere spensierate della commedia anni ’50-60, che contribuirà ad aprire il “filone nostalgico”, elemento tipico del cinema dei Vanzina. Attraverso una specie di ironico “amarcord” di quei mitici anni – dai successi di Cassius Clay sul ring, alla vittoria di Felice Gimondi al Tour de France, alle serate del “bandiera gialla” sulla riviera adriatica, alla moltitudine di canzoni anni ’60 nella colonna sonora – i fratelli Vanzina riescono nell’intento di riunificare una serie di episodi legati agli amori vacanzieri di un gruppo di personaggi fortemente caratterizzati, con una colonna sonora che riecheggia i maggiori successi commerciali del periodo, riscuotendo in questo modo un successo senza precedenti: 10 miliardi di lire di incassi nel 1982.

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Girato sulle spiagge della Versilia, e più precisamente di Forte dei Marmi, il film contribuì a lanciare le stelle di Jerry Calà e di Christian De Sica verso la grande popolarità, dopo anni di dura gavetta. Il malinconico finale, immortalato dal primo piano di Jerry Calà, sulle note di

“Celeste nostalgia” di Riccardo Cocciante, vale il prezzo del biglietto e simboleggia la nostalgia dei bei tempi andati e della propria gioventù. Un classico come potrebbe esserlo “Questo piccolo grande amore” di Claudio Baglioni, un riuscito mix di romanticismo a sfondo balneare, goliardia di stampo giovanilistico e furbissima colonna sonora che rimane tra i migliori film dei fratelli Vanzina.

Da allora sono seguiti altri 55 film in 35 anni di carriera, tra cui alcune perle come Io no spik english”(1995), con il grande Paolo Villaggio; o Il pranzo della domenica(2003), con Giovanna Ralli.

Tra gli ultimi Caccia al tesoro(2017) e Non si ruba a casa dei ladri(2016), entrambi con Vincenzo Salemme come mattatore, l’attore più impiegato dai fratelli Vanzina nei loro ultimi lavori sul set.

Ad oggi, anche mentre Carlo era in vita e si affannava nei suoi ultimi dignitosi e divertenti lavori, i suoi film sono oggetto non solo di studio, ma di revisione e rivalutazione, così come accadde a Totò, a Franchi & Ingrassia, a Peppino De Filippo, vittime predestinate di critici sciagurati, di intellettuali di retroguardia e di falsi moralismi. In fondo, e questo è un dato che può far intuire il talento dei Vanzina, i migliori prodotti dei bistrattati “cinepanettoni”, sono proprio quelli diretti da Carlo:

S.P.Q.R. 2000 e mezzo anni fa, A spasso nel tempo, con la coppia storica Boldi-De Sica.

La casa di famiglia - Il film

La casa di famiglia – Il film

Opera prima del regista Augusto Fornari, è nelle sale in questi giorni il film “La casa di famiglia”.

Un film che sembra una commedia road-movie degli anni ’60, quelli della migliore commedia all’italiana. Il cast corale è ricco e ben affiatato, difatti i protagonisti, totalmente a proprio agio nelle vesti dei personaggi, sono in grado di sfruttare pienamente il potenziale del racconto e della sceneggiatura. Perfetto il quartetto composto da Lino Guanciale, Stefano Fresi, Libero De Rienzo e Matilde Gioli, che interpretano la parte di quattro fratelli, ognuno nel classico stereotipo delle caratterizzazioni tipiche da commedia all’italiana.

C’è Lino Guanciale che interpreta il fratello sciupa femmine e combina guai; Stefano Fresi, il

“grosso” della compagnia è l’ingenuo sognatore, artista e direttore di una piccola orchestra per ragazzini; Libero De Rienzo è il fratello in carriera, affermato, rispettato, che però ha totalmente sepolto ogni tipo di sentimento; e infine c’è Matilde Gioli, la sorella del gruppo, bella come il sole, ma disperata per una tormentata storia d’amore. E poi c’è un quinto protagonista, il padre di

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famiglia (Luigi Diberti), in coma da cinque anni, che di colpo si risveglia, e costringe i quattro fratelli a riacquistare la vecchia casa di famiglia.

L a c a s a d i f a m i g l i a – I l f i l m

Il film scorre via piacevolmente, un po’ road-movie, un po’ commedia dei sentimenti, un po’

parabola familiare dei rapporti spesso complessi che si vivono in ogni famiglia. La sua fluidità da walzer degli affetti, il suo ritmo incalzante da commedia all’italiana, l’affiatamento tra gli attori così sapientemente dosati dal regista, sono gli ingredienti di un film gradevolissimo, che forse non avrà il successo che meriterebbe, ma testimonia la capacità italiana di fare buon cinema, quando si ha a che fare con una storia che si eleva dalla volgarità dilagante di molte altre pellicole coeve.

E per finire, non manca neanche una piccola e velata critica sociale ai tempi attuali. C’è infatti un piccolo ricatto che non va a buon fine, solo perché ormai non ci si vergogna più di mettere in piazza le nostre performance imbarazzanti, merito (o colpa) dei social network che hanno dato la parola a chi in altri luoghi non avrebbe avuto spazio; ma ha dato anche la possibilità ad alcuni improbabili “mostri” della società di mostrare il lato peggiore di se stessi. Un film educativo, consigliabile, dove è possibile ritrovare un po’ tutti i generi, mischiati sapientemente.

Unico difetto?

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Il finale moscio, per una storia cui si sarebbe potuto osare di più proprio nel capitolo conclusivo. Comunque un film riuscito, con una previsione: scommettiamo che ai Nastri e ai David prossimi questo piccolo film otterrà perlomeno qualche nominations, anche importante?

Pensiamo a Lino Guanciale, a Stefano Fresi, o anche a Matilde Gioli (probabilmente la migliore).

L’ora legale - Il Film

Ficarra & Picone e la commedia “intelligente”.

“L’ora legale”, settima fatica del duo composto da Ficarra & Picone, è uno dei film comici più intelligenti degli ultimi vent’anni. Resterà questo film, resterà fra venti/trenta/quarant’anni, come documento storico-politico dell’Italia di inizio XXI secolo. Resterà come è rimasta la migliore commedia all’italiana del secolo scorso. Resterà perché finalmente qualcuno ha avuto il coraggio di parlare della nostra realtà, ovviamente deformata attraverso una sguardo esilarante. Resterà perché il duo osa un finale amaro, profeticamente realista, come fossimo in una delle commedie all’italiana,

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di Sordi, di Gassman e perché no, anche di Franco Franchi & Ciccio Ingrassia.

E come somigliano alla celebre coppia, così tanto rivalutata al giorno d’oggi, e non somigliano solo per la chiara comunanza geografica. Ficarra & Picone affondano le loro radici nell’humus culturale dei pupi siciliani, della Sicilia borbonica ottocentesca, dello sberleffo verso il potere, e la arricchiscono con annotazioni comiche e sociologiche adattate ai tempi moderni. La grazie e la finezza comica sono state sempre loro prerogative, ma ne “L’ora legale”, a tutto ciò si aggiunge la capacità di raccontare abitudini e modi di essere collettivi del popolo italiano.

Così facendo allargano lo sguardo sulla descrizione di un’intera comunità, dei suoi vizi e dei suoi tanti difetti, lontano anni luce ( in meglio ) rispetto alla favola buonista, meccanica e ripetitiva di un Siani a corto di idee. E la maniera in cui Ficarra & Picone si utilizzano è straordinaria e dimostra che dietro alla coppia, c’è una solida cultura comica, intelligente, raffinata, popolare. I due sono un corpo estraneo vagamente surreale, capaci di scardinare la logica lineare della narrazione, e difatti danno tanto spazio ai caratteristi di turno, come Antonio Catania e Sergio Friscia, squinternati vigili di provincia. Riescono dunque a sbozzare tante figurine deliziose, come si faceva nella “grande”

commedia all’italiana dei vari Sordi, Manfredi, Gassman…Che delizia, perché reale, il microcosmo de

“L’ora legale”, amaro, amarissimo, pieno di ipocrisie, di false amicizie, di egoismo.

Un trattato sociologico di estrema efficacia, che si pone una domanda importante: che Paese vogliamo essere? Siamo davvero pronti per un mondo dove le regole vengono rispettate da tutti, noi compresi? E ancora, per citare una battuta del film: l’Italia, l’onestà, se la può permettere? L’ora legale resterà in ogni caso un documento del momento storico-politico che stiamo attraversando,

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sospeso tra paura e speranza, tra la curiosità e il timore di scoprire qual è Italia che ci meritiamo davvero. Dalla sala si esce soddisfatti, per aver visto un “vero” film comico, come si facevano una volta, ma si esce anche con l’amaro in bocca, perché è un film che fa riflettere se siamo davvero così.

Un film che merita 4 stelle su scala di 5, perché quando la comicità non è banale, sfonda, eccome se sfonda, rasentando il capolavoro.

E ci fa capire una cosa: che le favole ridanciane e fine a se stessi dei cinepanettoni, stanno incominciando a segnare il tempo, e che il film comico quando è intelligente ha una carica magnetica più efficace di un film drammatico, nell’ambito puramente sociologico. Certo, Ficarra & Picone procedono sulla falsariga della maschera di Checco Zalone, ma la arricchiscono con più qualità, meno volgarità e meno parolacce. La coppia non ha mai steccato al cinema, perché ha buone idee, ha un ottimo affiatamento, diverte con stile, ma questa volta ha davvero trovato la strada giusta, per affiancare alla classica comicità all’italiana, l’ambizione di una commedia di costume.

Ci sono arrivati per tappe, in progressione, con grande “intelligenza”, quella che manca a molti autori italiani. E gli incassi, volano, volano, a sfondare il muro dei 10 milioni di euro, dopo soltanto 10 gg di programmazione. E hanno compiuto un altro miracolo, quello di mettere d’accordo pubblico e critica, praticamente all’unisono. Può sembrare banale, eppure storicamente qui da noi, non è quasi mai stato così.

Natale a Londra - Il Film

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Domenico Palattella (106)

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Ai “Nastri d’argento” del 2015 Lillo & Greg si aggiudicarono il

“Nastro d’argento speciale” intitolato a Nino Manfredi con la seguente motivazione: “per le loro indubbie qualità comiche, in grado di elevare il livello delle commedie brillanti della nuova commedia all’italiana, un auspicio a continuare su questa strada cinematografica per gli impegni futuri”. Si iniziò dunque a comprendere, che l’intuizione di Dino De Laurentiis di affidare il Natale cinematografico a quella coppia così sofisticata, surreale, che sembrava inizialmente poco adatta al cinema, non fu poi così bislacca. Già i primi tentativi del 2012 e del 2013, “Colpi di fulmine” e “Colpi di fortuna” ebbero riscontri positivi presso la critica specializzata, grazie all’apporto della funambolica comicità di Lillo & Greg, diventata oggi la “nuova” grande coppia del cinema italiano.

Quel “Nastro d’argento” vinto nel 2015, si basa sull’interpretazione del film “Un Natale stupefacente”(2014), il primo film autonomo della coppia dopo l’abbandono di Christian De Sica. Al primo colpo Lillo & Greg fanno centro, il loro primo film come protagonisti assoluti è anche il primo cine-panettone in grado di vincere un importante premio a livello nazionale, merito della ventata di novità portata dal loro stile comico, lontano dalle volgarità imperanti del periodo, e con una comicità intelligente ed efficace. Si badi bene, anche la critica specializzata, vorrebbe non si parli più di cinepanettone, “non se questo significa un prodotto scadente: il fatto che i film interpretati da Lillo

& Greg, escano proprio sotto Natale e che parte dei loro film siano ambientati durante il Natale non basta a ridurre il loro prodotto al mero ruolo di cinepanettone.

Le loro sono commedie ben scritte, ben interpretate, ben girate e ben montate, sopra la media del film comico nazionale”. Anche la loro fatica successiva, quella del Natale 2015, ovvero “Natale col boss”, aveva soddisfatto tanto la critica, quanto il pubblico, che ha risposto entusiasta, affollando le sale e decretando il meritato successo di una coppia che si è guadagnata il suo spazio cinematografico. “Natale col boss”, ottenne un considerevole successo di pubblico: secondo posto

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assoluto della stagione 2015, con oltre 7 milioni di euro di incassi. Rinvigorito da questo successo De Laurentiis, dopo alcuni anni di sperimentazioni, ha capito, che con la coppia a disposizione si può anche osare di più, e così insieme al suo fido regista Volfango De Biasi, ha progettato per il Natale 2016, quei trasferimenti all’estero, tanto cari almeno fino a 10 anni fa. La nuova commedia di Natale targata “Filmauro” si svolge infatti a Londra e porta il titolo di “Natale a Londra-Dio salvi la regina”, una sorta di “Ocean’s Eleven” in salsa italiana. Ritmo serrato, trama ambiziosa, comicità verbale e slapstick, sono gli ingredienti di questo film, arricchito da un cast variegato e ben assortito, anche se forse un po’ troppo affollato. La trama è presto detta, ed è quella di rapire i cani della regina intrufolandosi dentro Buckingham Palace per pagare un debito con un noto boss londinese, un plot degno dei migliori action comedy americani.

E infatti l’omaggio al genere action comedy americano funziona bene grazie a Lillo e Greg, Nino Frassica, Ninetto Davoli, Uccio De Santis e Vincent Riotta, attori con la giusta verve per essere divertenti tanto individualmente quanto nel quadro della parodia. Allo stesso modo Paolo Ruffini e Eleonora Giovanardi interpretano gli opposti che si attraggono, lui uno sous chef senza palle, lei una donna che non le manda a dire. Capofila dell’operazione rimangono però Lillo & Greg, che come lo scorso anno sono anche autori del film, e non ci si sorprenda più di tanto, la loro è una coppia abituata in teatro e in radio a scriversi i testi da sè. Il che dimostra come Lillo & Greg non abbiano soltanto tempi comici perfetti, dato dal loro ventennale affiatamento, ma abbiano dietro di sè solide basi comico-culturali, per innovare ed innervare finalmente il genere comico all’italiana con stile ed eleganza…e tutto ciò con l’appoggio ( inusuale ) della critica contemporanea. “Natale a Londra”, quindi, nonostante metta forse troppa carne al fuoco, regge l’impianto farsesco, e soprattutto fa una cosa fondamentale, che lo eleva dalla mediocrità dilagante a buon film, non cede mai alla tentazione dell’idiozia e assolve il suo compito: diverte senza volgarità spicciole e fini a se stessi.

Del film rimangono anche alcune scene dal forte impatto comico: le gag visive di Lillo & Greg, la guerra psicologica che vede coinvolto Greg dinanzi ad uno specchio, tra la parte onesta e naif di sé con quella più scafata e criminale; i calembour verbali di Nino Frassica; e una nostalgica scazzottata, omaggio tutt’altro che velato a Bud Spencer e Terence Hill. Mi si permetta, in conclusione, una menzione piena di affetto per il “nostro” Uccio De Santis, che a 50 anni arriva finalmente al successo cinematografico a carattere nazionale. E’ qui il tecnico dell’operazione furtiva, e diverte, trovando il suo spazio, con alcune battute tipiche del repertorio comico pugliese, fatto di freddure repentine e salaci giochi di parole.

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Poveri ma ricchi - il Film

Domenico Palattella (106)

La classica sfida del Natale italiano quest’anno ha un netto vincitore il quale risponde al nome di De Sica. Sì, proprio lui, ancora e sempre Christian, da 30 anni uomo e attore del Natale italico per eccellenza. “Poveri ma ricchi” è la dimostrazione, oseremmo dire finalmente, che Christian De Sica quando è utilizzato al meglio delle proprie potenzialità, è sempre il comico italiano più grande degli ultimi 20/30 anni. Non ce n’è per nessuno, ma deve avere un buon soggetto dietro di sé. E quest’anno il solido soggetto dietro, c’è tutto. Il merito di questa efficace struttura narrativa è dato dal film francese cui è tratta la pellicola italiana, ovvero “Les touche”, enorme successo in terra di Francia.

Ricorrendo agli estremi patrimoniali, Fausto Brizzi, il regista, mette in scena una commedia in cui i poveri diventano ricchi, conoscono i ricchi veri e, anche se i soldi proprio schifo non fanno, forse era meglio quando si stava peggio. L’adattamento italiano di Poveri ma ricchi mantiene il cognome dei protagonisti italianizzato in Tucci e il look del capofamiglia interpretato da Christian De Sica. Al fondo c’è la spocchia contro i provinciali della cintura romana, ma è una spocchia ben indirizzata a scopo comico e molto meno greve del solito, ed è controbilanciata da una grande tenerezza nei confronti di questi scombinati animati da buone intenzioni e da un affetto palpabile. Quel che più conta, si ride tanto, a pioggia, ritrovando l’umorismo “etnico” della commedia all’italiana e trapiantandolo in una contemporaneità di cui si raccontano i limiti più che le lusinghe. Forse perché siamo tutti un po’ diventati come i Tucci, cioè privi di benessere ma desiderosi della nostra fetta di felicità, possiamo riconoscerci in loro e allo stesso tempo sorridere della loro cafonaggine.

Più di tutto funziona la squadra di attori comici italiani finalmente serviti da una trama degna di

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questo nome e da dialoghi veramente spiritosi e non del tutto scollati dalla realtà: dai cognati Christian De Sica ed Enrico Brignano all’ottima Lucia Ocone e la divina Anna Mazzamauro, dal mitico Bebo Storti allo spassoso Giobbe Covatta al commovente Ubaldo Pantani, maggiordomo che rimanda all’adorabile Coleman di Una poltrona per due. Anche Poveri ma ricchi rischia di diventare un cult natalizio, ma all’italiana e in quota cinepanettone: un panettone ben lievitato e zeppo di canditi che lascia un buon sapore in bocca. Un sapore da commedia all’italiana, quasi d’altri tempi.

Infatti Brizzi parla di un’Italia in cui la ricchezza si tende a nasconderla perché in generale attira sospetto, malevolenza e invidia. La denuncia sociale di quello che siamo, è questa la commedia all’italiana che ritorna, dopo anni, forse decenni di oblìo. Il motivo principale della fuga dei Tucci, che dalla provincia di Roma traslocano nella ricca Milano pensando di trovare il loro nuovo habitat, è proprio la maldicenza e l’invidia della gente. L’anonimato non dura perché chi si arricchisce di sdegno perisce. I veri ricchi guardano la cafonaggine di questi zoticoni con disgusto, anche perché secondo il regista la moda attuale di chi può permettersi la bella vita è basso profilo e salutismo.

Poveri ma ricchi omaggia i tanti Vacanze di Natale degli anni 80 e 90, di cui negli anni 2000 lo stesso Brizzi e il co-sceneggiatore Marco Martani presero in eredità scrivendone i copioni. Il film riprende quella comicità fatta di situazioni, cliché e bravi interpreti. De Sica è sempre esilarante e finalmente è un capo-famiglia con la testa sulle spalle, come lo è Brignano, ma a strappare applausi è soprattutto Lucia Ocone la cui cafoneria è davvero di lusso. Netto vincitore del Natale 2016, surclassata la concorrenza, con un prodotto meglio del solito, che Cinepanettone non è, bensì commedia all’italiana a tutti gli effetti. Proprio come ha voluto sottolineare Christian De Sica, non a torto, durante la conferenza stampa di presentazione del film.

Non si ruba a casa dei ladri - Il Film

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“Non si ruba a casa dei ladri”: Salemme e la differenza tra una “grassa” risata e una di “classe”

Quante volte si sente dire in giro, sia presso gli esperti del settore, che tra gli appassionati, “ah ma il cinema del passato era tutta un’altra cosa”. Più classe, più stile, più talento cinematografico, quello che per inteso, issò il cinema italiano, come il più importante del mondo. Soprattutto nella commedia questa differenza di stile è più evidente che mai. Forse perché non si fa più la gavetta, forse perché mancano Maestri di tale genere. Eppure nella moderna commedia all’italiana non mancano gli specialisti del genere, alcuni di essi di altissimo valore. Non è un caso che uno dei migliori attori della moderna commedia all’italiana sia ritenuto un po’ da tutti, l’attore napoletano Vincenzo Salemme.

Salemme, classe 1957, è l’ultimo grande esponente dell’arte della commedia, che vede nella lingua e nell’ambientazione napoletana la maniera migliore per esprimersi. Salemme, comico e attore sensibile e intelligente, viene da una tradizione precisa, quella di Eduardo e sa come si fanno le commedie, sa qual è il valore dei tempi, delle battute, dei passaggi di consegna. Il suo teatro, come il suo cinema, non è “vintage” ma è la ripetizione felice e creativa di un modello di commedia che ha illustri precedenti. A differenza di altri comici prestati al cinema, Salemme non si esaurisce perché la sua formula, pur sempre fondata su identici dispositivi, in qualche modo si rinnova. Anche se molto spesso le sue opere cinematografiche sono tratte dai suoi spettacoli teatrali, queste non risultano affatto datate, perché la comicità di Salemme e della sua compagnia (Carlo Buccirosso, Nando Paone, Maurizio Casagrande) tratta temi universali e fondamentali, ma anche importanti come l’eutanasia, l’autismo, i sentimenti. E tutto ciò viene creato a regola d’arte con una comicità di grande intensità, ma velata da una punta di malinconia, tipica del Salemme teatrale e cinematografico.

Gli elementi del successo di Salemme e del suo cinema, sono proprio questi, unire la popolarità alla qualità, cosa assolutamente inusuale nell’abulico cinema dei giorni nostri. Salemme nelle sue opere teatrali e cinematografiche ha sempre raccontato un’Italia lontana dai soliti cliché a cui siamo abituati, ha raccontato e racconta la vita delle piccole famiglie borghesi del sud Italia e il loro vivere tra tradizione e il veloce cambiamento. Il suo è un cinema che gioca con i cliché che immobilizzano la città e la cultura meridionale e soprattutto napoletana, trasformarli, banalizzarli, per renderli più sopportabili a tutti quelli che li vivono. Ironia sottile, curata, un mix vincente, che al botteghino sicuramente porta sempre risultati e risate, ma anche possibilità di riflettere sulla

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situazione sociale della società attuale.

La sua è la differenza tra una “grassa” risata, volgarotta, parolacciara, infarcita di luoghi comuni;

e una di “classe”, che affonda le sue radici nell’humus culturale del cinema italiano d’annata e che punta ad essere la rappresentazione della società attuale, vista anche con un pizzico di amarezza.

Uscito nelle sale lo scorso 3 novembre, e avvolto da un corposo successo di pubblico, esaustivo in tal senso è Non si ruba a casa dei ladri, commedia diretta dai fratelli Vanzina, che vede un superbo Vincenzo Salemme mattatore assoluto della pellicola. Questa volta i fratelli Vanzina fanno leva su tutta la loro conoscenza della commedia all’italiana, costruendo una sceneggiatura solida che rende omaggio a molti titoli del passato: da In nome del popolo italiano a Pane e cioccolata a La congiuntura, per citare solo qualche titolo.

Per la verità la commedia cui Non si ruba a casa dei ladri somiglia di più, pur con i dovuti distinguo, è Crimen di Mario Camerini, e non solo per la trasferta di un gruppo disomogeneo in un paradiso fiscale: anche per l’agilità della scrittura, la scioltezza della regia, la galleria dei “caratteri”.

Paradossalmente, Non si ruba a casa dei ladri rimanda persino a Gomorra per il ritratto

consapevole dei suoi “vincenti” come straccioni che è impossibile invidiare. La coppia Simone-Lori (Ghini-Arcuri) è infatti composta da due cafoni che in fondo si detestano, e la loro ricchezza non contiene quel potenziale di emulazione che i cumenda (anche nei film dei Vanzina) suscitavano in molte commedie anni ’80 e ’90. Simone, cui Massimo Ghini regala in pari misura tracotanza e strazio esistenziale, soffre di ulcera, ha nostalgia di un passato in cui un certo pesce pipa è una sorta di Rosabella, e si rende perfettamente conto di avere accanto un’arraffona ignorante (molto ben interpretata da Manuela Arcuri).

Per contro la coppia Antonio-Daniela (Salemme-Rocca ) è davvero invidiabile per complicità e condivisione egalitaria nella buona e nella cattiva sorte. Non ci sono le solite corna da cinepanettone, e lo smignottamento è solo per recita: per avere più concessioni dalla politica, per imbrogliare un banchiere tedesco (peccato veniale, di questi tempi). E al centro della storia c’è l’etica del lavoro che si contrappone a quella dell’imbroglio, della mazzetta e del parassitismo.

Questo ritorno dei Vanzina alle loro radici non è una captatio benevolentiae verso chi ha sempre pensato che gli eredi di Steno potessero fare di meglio, ma funziona perché intrattiene e fa sorridere: le battute sono intelligenti , la trama è ben costruita, la regia asseconda gli attori e il cast regge bene l’architettura narrativa, ognuno prestando la propria “maschera” in una versione

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leggermente inaspettata: Vincenzo Salemme è il napoletano onesto, Stefania Rocca la torinese non ingessata, Teco Celio il banchiere pieno di umane debolezze, Ria Antoniou l’estetista con il fisico da pin up e l’animo da brava ragazza. Un passo al di sopra degli altri Maurizio Mattioli, pur considerando sempre l’enorme bravura di Vincenzo Salemme, sempre il migliore quando si tratta di “fare” commedia, i cui monologhi sono da antologia, e che ricorda a tutti una delle lezioni fondamentali della commedia: che le battute possono essere impilate una sopra l’altra senza aspettare il tempo della risata televisiva, perché anche se “arrivano” in ritardo generano quell’effetto valanga che ogni attore comico (e ogni regista di commedia) sogna di ottenere.

La vera storia del “Cinepanettone”:

evoluzione di un genere tutto italiano

Il termine “Cinepanettone” fu originariamente coniato in senso dispregiativo dai Critici cinematografici per indicare un prodotto comico di grande diffusione pubblica, che si caratterizzava per una certa tendenza a ripetersi nella trama e nelle situazioni, per il tipo di comicità a buon mercato, per la simpatia dei suoi interpreti, nonché per i grandi incassi nelle sale italiane. Secondo i registi Carlo ed Enrico Vanzina, considerati i padri del genere, la “formula” del cinema popolar-vacanziero anni ’80 sarebbe nata nel 1982 quando, dopo il successo commerciale del loro “Sapore di mare”, il produttore Aurelio De Laurentiis commissionò un’opera simile per l’anno successivo ma ambientata stavolta in una località sciistica, da mettere in programmazione nei cinema nel periodo natalizio. I due fratelli pensarono quindi a una rilettura contemporanea di un film del 1959 interpretato da Alberto Sordi e Vittorio De Sica (padre di Christian), “Vacanze d’inverno”, in cui il regista Camillo Mastrocinque aveva tratteggiato, sullo sfondo di Cortina d’Ampezzo, i costumi italici del tempo. Nacque così nel 1983 il primo “Vacanze di Natale” girato anch’esso tra la regina delle Dolomiti. C’è però da notare, che qui non siamo ancora in presenza del genere cosiddetto del “Cinepanettone”, più che altro è un modello, un progenitore del futuro genere popolaresco e popolare.

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Il primo vero “cinepanettone” è databile 1990, con Vacanze di Natale ’90, che segna anche il vero inizio del sodalizio artistico fra Massimo Boldi e Christian De Sica, i due attori per eccellenza della saga. Il “cinepanettone” dunque è un genere importante, non tanto per la qualità delle stesse pellicole ma per il fenomeno di costume epocale, che caratterizzerà tale genere fino ai tempi attuali. La ‘creatura’ ideata da De Laurentiis darà vita ad una serie infinita di ‘copie’, brutte o belle che siano, in grado di reggere allo scorrere degli anni. Perché il Cinema italiano scopre la potenza del Natale in sala, con film ad hoc che lo celebrino anche sul grande schermo: e fa niente se la qualità sarà molto spesso deprecabile, il pubblico dimostrerà di gradire e i produttori ci marceranno.

Inizialmente il genere è appannaggio esclusivo di Aurelio De Laurentiis, il Natale cinematografico è monopolio “quasi” personale. Dal 1991 al 1995 si susseguono campioni di incassi come Vacanze di Natale ’91 (1991), Anni ’90 (1992), Anni 90- Parte II (1993), S.P.Q.R.- 2000 e mezzo anni fa (1994), Vacanze di Natale ’95 (1995), tutti con la coppia De Sica-Boldi, l’unica “vera” coppia duratura del cinema italiano, dopo quelle di Franchi & Ingrassia e di Bud Spencer & Terence Hill. Dal 1996, quasi per caso, il produttore toscano Cecchi Gori, già produttore tra l’altro di capolavori epocali come Mediterraneo (1991) e Il postino (1994), cerca di interrompere questo monopolio natalizio firmato “De Laurentiis- De Sica- Boldi”, con il debutto cinematografico dell’attore toscano Leonardo Pieraccioni, e che debutto! Il ciclone (1996) si issa come campione di incassi dell’annata e al quarto posto assoluto tra i film italiani più visti di sempre (14 milioni e 300 mila presenze al botteghino ), diventato fin da subito un fenomeno di costume. Il ciclone è il primo film italiano ad aver incassato più di 70 miliardi di lire al botteghino e diventa anche il film simbolo della moderna commedia all’italiana. In realtà il suo successo si spiega con una comicità

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mai volgare e con il fascino accattivante del protagonista. Ciò non vuol dire che i gusti degli italiani stanno mutando e che il “Cinepanettone” puro, volgare e popolaresco, sta incominciando a segnare il passo. Vuol soltanto dire che un’alternativa al classico piatto natalizio è possibile, e soprattutto redditizio.

D’altronde quello stesso anno A spasso nel tempo segna incassi importanti anche superiori al Cinepanettone dell’anno precedente. L’anno dopo si rinnova la sfida tra l’alternativa Pieraccioni ( Fuochi d’artificio ) e il classico Cinepanettone targato De Laurentiis ( A spasso nel tempo- l’avventura continua ). Intanto un piccolo film quasi senza pretese come Tre uomini e una gamba, interpretato e diretto dal trio composto da

Aldo, Giovanni & Giacomo sbaraglia la concorrenza e trasforma il suddetto trio da prodotto televisivo a fenomeno cinematografico di primo livello. A fine millennio, si crea una situazione destinata a rimanere immutata fino alla rottura professionale di Boldi e De Sica, del 2006. E cioè l’alternanza dei film con Pieraccioni e quelli con Aldo, Giovanni & Giacomo in concorrenza al classico “Cinepanettone”: negli anni dispari Leonardo Pieraccioni, negli anni pari il trio. Anche il tradizionale “Cinepanettone”, cerca nuove strade mettendo sotto contratto nuovi e “vecchi”

comici da affiancare ai classici Boldi e De Sica. Nascono film come Paparazzi (1998), con l’aggiunta di Diego Abatantuono e Nino D’Angelo; Tifosi (1999), con lo stesso cast; Bodyguards- Guardie del corpo (1999), con l’ingresso di Enzo Salvi e Biagio Izzo; Vacanze di Natale 2000 (2000 ), con lo stesso cast. Il “cinepanettone” classico, scade nella volgarità più totale con i successivi Natale sul Nilo (2002) e Natale in India (2003), mentre i vari Pieraccioni e Aldo, Giovanni e Giacomo continuano a puntare su prodotti e comicità qualitativamente e stilisticamente più elevati: Ti amo in tutte le lingue del mondo, Il paradiso all’improvviso, Chiedimi se sono felice, Così è la vita.

Nel 2006 la rottura Boldi-De Sica, porta il primo ad allontanarsi dal secondo, che rimane saldamente l’attore di punta del classico cinepanettone di De Laurentiis. Boldi comunque non rinuncia al tradizionale appuntamento natalizio, così si viene a creare la terza alternativa al cinepanettone originale. I film di Natale diventano tre e si susseguono almeno fino al 2013.

I film targati De Sica-De Laurentiis, con la partecipazione in misura variabile di attori come Massimo Ghini, Sabrina Ferilli, Paolo Ruffini; il rinnovato cinepanettone di Massimo Boldi, con Enzo Salvi e Biagio Izzo presenze praticamente fisse; e la classica alternanza targata “Medusa”, di Pieraccioni e Aldo, Giovanni & Giacomo. Nel 2013 scade il contratto di De Sica con De Laurentiis, che decide di puntare tutto sulla coppia composta da Lillo & Greg. Attivi soprattutto in radio, tv e teatro, negli ultimi anni Lillo & Greg hanno iniziato anche una sfolgorante carriera cinematografica, con titoli, di grande successo, che hanno alzato il livello medio del prodotto comico-cinematografico italiano. La loro è una comicità sofisticata, surreale e mai banale. Dal 2014 dunque la situazione del “Cinepanettone” natalizio si ingarbuglia sempre di più: dall’unica

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offerta dell’inizio degli anni ’90, si arriva addirittura a 4 alternative di genere praticamente in contemporanea, giorno più giorno meno. Anche gli incassi sostanzialmente si equivalgono, non decretando nessun vero vincitore, per la gioia delle sale cinematografiche, che mai come nel periodo natalizio, vengono prese d’assalto.

Per fare meglio comprendere la situazione attuale, partendo dall’anno 2014 elenchiamo le produzioni italiane ascrivibili a tale genere. Nel 2014 escono nelle sale La scuola più bella del mondo, con Christian De Sica e Rocco Papaleo- produzione Cattleya; Ma tu di che segno sei?, con Massimo Boldi, Vincenzo Salemme e Gigi Proietti- Key’s film; Il ricco, il povero, il maggiordomo, con Aldo, Giovanni e Giacomo- Medusa film; Un Natale stupefacente, con Lillo & Greg- Filmauro di De Laurentiis. Nel 2015 si rinnova la tetra-sfida con Vacanze ai Caraibi ( De Sica-Ghini );

Matrimonio al Sud ( Boldi-Izzo-Salvi ); Il professor Cenerentolo ( Pieraccioni ); Natale col boss ( Lillo & Greg ). Quest’anno la situazione è rimasta immutata, anche perché l’offerta natalizia così fissata è redditizia per tutti: produttori, attori, sale cinematografiche. Massimo Boldi è in sala dal 1 dicembre con Un Natale al Sud, coadiuvato dai soliti Enzo Salvi e Biagio Izzo; la “strana” coppia De Sica-Brignano sarà in sala dal prossimo 15 dicembre con Poveri ma ricchi; gli stessi giorni usciranno anche Fuga da Reuma-Park, ultima fatica di Aldo, Giovanni & Giacomo; e Natale a Londra, con Lillo & Greg, Nino Frassica e il “nostro” Uccio De Santis.

Da “Tutti gli uomini del Presidente” a

“Sbatti il mostro in prima pagina”, da

“Quarto Potere” a “Vogliamo i

colonnelli”: quando il giornalismo fa

politica.

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Domenico Palattella (106)

Tra Usa e Italia una serie di film costruiti come delle vere e proprie inchieste giornalistiche, hanno portato alla luce momenti di storia spesso nascosti. Il cosiddetto “giornalismo d’inchiesta”

non ha fatto altro che rialzare polveroni ormai sopiti, o riportare alla luce scandali meritevoli di una loro versione cinematografica. Il giornalismo che descrive la politica attraverso il cinema dunque; non la politica che entra nella pellicola,

con le classiche ingerenze di cui è piena la storia del cinema. Il cosiddetto giornalismo d’inchiesta ha offerto quindi a registi e sceneggiatori un ventaglio di potenzialità tutt’altro che indifferente. Il film più importante e celebrato, per capire la valenza e il significato di questo genere cinematografico piuttosto particolare è “Tutti gli uomini del presidente”(1976), capolavoro di Alan J.Pakula. Indiscussa pietra miliare quando si parla di cinema d’inchiesta, il film è interpretato da una coppia di protagonisti d’eccezione, Dustin Hoffman e Robert Redford, nei rispettivi ruoli dei cronisti del Washington Post Carl Bernstein e Bob Woodward. Basato sull’omonimo non-fiction book di Bernstein e Woodward, Tutti gli uomini del presidente è un’esemplare ricostruzione dell’inchiesta, iniziata nell’estate del 1972, che due anni più tardi avrebbe portato alle dimissioni del Presidente Richard Nixon, coinvolto in prima persona nello scandalo Watergate. Film magistrale per la capacità di fondere il senso dello spettacolo con il rigore della messa in scena e la denuncia contro i soprusi della politica, Tutti gli uomini del presidente è un classico intramontabile ricompensato con quattro premi Oscar: miglior attore supporter per Jason Robards, miglior sceneggiatura, miglior scenografia e miglior sonoro.

Con “Tutti gli uomini del Presidente” siamo negli anni ’70, proprio nel periodo in cui l’Italia è scossa dalle stragi brigatiste e dai tumulti sociali e politici. In questo clima culturale, nettamente diverso da quello del decennio precedente, si sviluppa il cosiddetto “cinema sociale e politico”, che ha in Elio Petri il suo autore più importante e in Gian Maria Volontè, la maschera italica della corruzione e dell’abuso di potere tipico di gran parte della classe politica italiana. Con “Indagine

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su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”(1970), l’accoppiata raggiunge i massimi livelli e l’Oscar come miglior film straniero. Uno splendido thriller psicoanalitico sulla cristallizzazione e le aberrazioni del potere che analizza in chiave grottesca i metodi e i fini degli apparati polizieschi. Il film attribuisce poi, ai rappresentanti del potere un’eccessiva coscienza (ancorchè negativa) del proprio ruolo e della propria funzione. Resta molto convincente, anche per merito della perfetta interpretazione di Gian Maria Volonté, la descrizione di “un piccolo personaggio della piccola borghesia meridionale che non ha la possibilità di accesso a un potere diverso da quello burocratico e che sfoga nell’autorità le sue repressioni sessuali e di classe”.

E poi l’anno successivo c’è il film “Sbatti il mostro in prima pagina”, ancora interpretato da Gian Maria Volontè e diretto da Marco Bellocchio, è forse il film da cui ha preso spunto Alan J.Pakula, per la sua precisa descrizione del caso Watergate, che sconvolse l’America nel 1972. Un’aberrante campagna g i o r n a l i s t i c a d i f f a m a t o r i a n e i c o n f r o n t i d i u n extraparlamentare di sinistra, condotta da un redattore capo, sullo sfondo di un’Italia cupa, grigia, che ha smarrito la spensieratezza del boom economico e si prepara alla strategia della tensione, con la rivoluzione sessantottina ormai andata verso il definitivo fallimento. Il potere della diffamazione a mezzo stampa, il potere della politica che si serve dei mass- media, nel bene e nel male.

Ma giunti a questo punto, val la pena citare il film capostipite di tale genere, quel “Quarto Potere”(1942), di Orson Welles, ripetutamente eletto dai critici come “il film più bello di tutti i tempi”. Opera capitale nella storia del cinema è il ritratto di un magnate della stampa (sempre Orson Welles) e di un mistero che si porterà nella tomba, e sul quale indagherà un volenteroso giornalista. Sullo sfondo della vicenda, l’America che avanza e che si candida ad essere il motore trainante dell’intero Globo terrestre. Quello di “Quarto Potere” è il ritratto faustiano di un americano al “cento per cento”, ed un opera capitale nella storia del cinema. Il modello assoluto per capire il giornalismo d’inchiesta e ancora di più per capire come si crea un film d’inchiesta politica o sociale.

Ritornando in Italia, c’è un film del 1973, ingiustamente dimenticato, vuoi per la valenza culturale

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che esso riveste, vuoi per il merito di descriverci, con grande precisione storico-sociologica un pezzo nascosto di storia patria. Il 5 marzo 1973 arriva sugli schermi “Vogliamo i colonnelli”, un soggetto che Mario Monicelli, insieme ad Age e Scarpelli, ha concepito qualche anno prima ispirandosi alle voci che giravano per l’Italia su un imminente colpo di stato. Sfruttando la tematica del gruppo di imbecilli che si mettono insieme per combinare un’impresa più grossa di loro, Monicelli e i due sceneggiatori seguono le vicende di un manipolo di militari e fascisti irriducibili che portano avanti un tentativo di golpe naufragato nel ridicolo, capitanati da un vanaglorioso onorevole di destra (Ugo Tognazzi). La pellicola è scatenata, con un tono grottesco, acido e cattivissimo di perfida efficacia, e con una spassosa galleria di fascisti cialtroni e di militari rimbambiti. Alle spalle, precisi riferimenti al tentato golpe del generale De Lorenzo (scoperto e denunciato dall’Espresso nel 1969, cinque anni dopo i fatti) e a quello ancora più farsesco di Junio Valerio Borghese del dicembre del 1970. La pellicola procede esattamente come il golpe del 1970, e sui quali Monicelli e sceneggiatori si erano documentati corposamente: i campi di addestramento paramilitari preparatori al fallito golpe Borghese, la mancata occupazione della Rai, il progettato arresto del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Un film di violenta satira politica, un film che mette a nudo e rende pubblico un pezzo di storia segreta della repubblica italiana e dei rischi che la sua democrazia ha corso, e forse è proprio per quanto denuncia, che il film viene ritirato quasi subito dal mercato: sabotato, ritirato nelle sale dopo pochi giorni di proiezioni, ci si adopera nei piani alti perché la pellicola sparisca il prima possibile dalla circolazione. E “Vogliamo i colonnelli” diviene così una delle pellicole che ha incassato meno nella storia del cinema italiano. Un film scomodo, troppo scomodo per ciò che denunciava, ma preziosissimo: un documento storico, realisticamente ineccepibile, retto dalla memorabile interpretazione di Ugo Tognazzi.

E oggi? E oggi c’è “Il caso Spotlight”(2015), di Tom McCarthy.

La storia di come il Boston Globe rivelò – con un’inchiesta alla vecchia maniera, forse l’ultima del suo genere già nell’epoca digitale – lo scandalo dei preti pedofili a Boston. Ma anche la storia di come lo stesso giornale l’aveva trascurata. Di sei nomination, ha vinto due Oscar, tra cui il più importante per il miglior film. Bisogna dire la verità, non c’è nulla di originale, all’interno del fatto che sia effettivamente un grande film, i modelli di riferimento sono quelli citati qui sopra e alla loro grandezza, che si vinca l’Oscar o meno, è difficile se non impossibile arrivarci.

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La ripresa economica degli anni ’80 e la seconda commedia all'italiana

Che decennio gli anni ’80! Un decennio che ha portato con se una inimitabile ventata di ottimismo, modernità e spensieratezza. Un decennio che arriva dopo i cupi anni ’70, dopo le stragi delle Brigate Rosse, dopo un’epoca di tumulti nella società e nella politica italiana. Solo pochi anni prima erano accadute alcune gravi tragedie che avevano scosso l’opinione pubblica: la strage di Piazza Fontana a Milano, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978, il suicidio “sospetto” di un grande e popolare artista come Alighiero Noschese. Eppure quando arrivano gli anni ’80, cambia tutto. Un rinnovato clima di spensieratezza riavvolge l’Italia, come se ci fossimo ricatapultati venti anni addietro, ovvero negli anni ’60. Un nuovo boom economico investe la penisola, e fu una ripresa economica piuttosto intensa, che investì tutti i campi, dalla musica alla televisione…al cinema. Non poteva certo mancare il cinema, che è da sempre lo specchio della nostra società. Il cinema è qualcosa di più di un trattato sociologico, è qualcosa che fa parte della cultura e della storia del nostro Paese. Negli anni ’70, in sintonia con i tempi, la commedia all’italiana si era fatta cupa, triste, sconsolata (“Una storia triste è meglio per l’Inverno”, dice il piccolo Mamilio in The Winter’s Tale, di William Shakespeare); e quella più popolare era diventata irrimediabilmente volgare, trita e ritrita di seni al vento e di parolacce sconce, in linea con l’involgarimento culturale della società italiana. La prova lampante che il cinema italiano ha da sempre viaggiato a braccetto con le evoluzioni e le involuzioni della società italiana. Poi di colpo arrivano gli anni ’80, un bagliore di luce nella notte, l’acqua nel deserto, e la fiducia riprende a circolare nel nostro Paese. Certo, era tutta l’economia occidentale ad essere corposamente in ricrescita. La ripresa nasceva da una buona situazione dell’economia mondiale, favorita soprattutto dal ribasso dei prezzi del petrolio, e da una nuova disponibilità interna degli imprenditori ad investire. L’”urbanizzazione” e la “nuclearizzazione” nonché una maggiore ricchezza delle famiglie italiane comportò la nascita di un “terziario” come non era mai avvenuto prima, il quale da una parte offriva servizi ad una famiglia non più in grado di essere autosufficiente e dall’altra offriva servizi alla persona in ragione delle nuove esigenze e bisogni.

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E’ soprattutto a partire dal boom economico degli anni ‘80 che in Italia avvenne tutto questo:

dall’apertura di nuovi asili nido e di scuole per l’infanzia all’apertura delle scuole superiori e di nuove sedi universitarie, dall’apertura di nuove case di riposo per anziani alle nuove sedi ospedaliere e farmacie, dalle palestre alle sedi delle concessionarie di automobili, dai negozi per la vendita di elettrodomestici, ai centri di vacanza e così via dicendo, praticamente quasi tutti quei

servizi che oggi fanno parte della nostra vita quotidiana. E nel cinema riprende a marciare la

“nuova” commedia all’italiana, finalmente epurata da quegli elementi tristi che l’avevano caratterizzata nel decennio precedente. Arrivano anche le cosiddette “nuove leve”: Paolo Villaggio, Enrico Montesano, Massimo Troisi, Carlo Verdone, Lino Banfi, Jerry Calà, Adriano Celentano, Diego Abatantuono, Christian De Sica…tutti attori brillanti, in sintonia con il determinato periodo storico. A tal proposito, anche gli elementi beceri della cosiddetta

“commedia sexy all’italiana” degli anni ’70, iniziano a cessare per dare spazio alla comicità pura, verbale, fisica, ma finalmente de-volgarizzata ( per quanto possibile).

In questo senso, è sensazionale il cambio di rotta che dà Lino Banfi alla sua carriera di attore brillante, quando si smarca dal genere

“boccaccesco”, virando decisamente verso la

“nuova” commedia all’italiana degli anni ’80. Banfi è considerato a tutti gli effetti un artista della commedia, poichè ha inventato di sana pianta un genere, un personaggio, dei modi e una intera situazione socio-culturale tipica di una grossa fetta

d’Italia, in maniera molto simile a quello che fece Alberto Sordi negli anni cinquanta e sessanta.

In questo senso Banfi è strepitoso, scatenato, sublime, nel ruolo di un combinaguai degno del Peter Sellers pasticcione di Hollywood Party, nel film “Vieni avanti cretino”(1982), che rimane uno dei più divertenti della storia del cinema italiano…e senza la minima volgarità. E poi c’è l’allegro trionfo cinematografico della maschera creata da Celentano, il burbero, ingenuo e simpatico ragazzotto di provincia che conquista il pubblico del cinematografo. Dal 1978 al 1982 ininterrottamente, Celentano è campione di incassi al botteghino.

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E poi ancora, c’è Enrico Montesano, probabilmente il re della

“nuova” commedia all’italiana, il vero erede della romanità di Manfredi e di Fabrizi, che porta al cinema la “maschera”

dell’innocenza, un pò modellata sull’eredità di Macario, un pò sulla popolaresca comicità romana, fatta di giochi di parole e battute salaci. La sua è una continua scalata ai vertici del cinema italiano, con l’apice che è raggiunto proprio nel 1980, quando vince il David di Donatello speciale per l’insieme di tre splendide interpretazioni, che aprono la strada a quella che sarà la spensieratezza dilagante del decennio: “Aragosta a colazione”, “Il ladrone” e “Qua la mano”. Tre prove memorabili, con la prima che fonde, in un abile commistione, la comicità all’italiana, la commedia degli equivoci e la pochade francese, senza scadere mai nella volgarità di moda in quegli anni; la seconda è una riuscita rivisitazione dell’epoca di Cristo; e la

terza, nell’episodio “Sto così col Papa”, è invece una memorabile caratterizzazione di Montesano vetturino romano, dunque erede ormai dichiarato di Fabrizi, che riesce a conoscere addirittura il Papa.

E poi ancora, va nominato Massimo Troisi, che grande attore, rimasto indelebilmente legato all’Italia di quegli anni, anche (ahimè) per la sua prematura scomparsa (n.d.r. 1994). Per descriverlo mi affido alle parole di Orio Caldiron, professore di storia e critica del cinema alla

“Sapienza”: “La sua comicità non sconvolge lo sguardo, arriva al cuore, allo stomaco, fino alla testa. Non abbandona lo spettatore, perchè affronta le paure dell’uomo, l’impossibilità di

raccontare gli amori, gli umori…Una maschera moderna: voce e volto di un carnevale dei sentimenti eterni, portati in scena con pudore e autoironia. E’ quasi impossibile non essere suggestionati nella visione dei suoi film, o dei suoi monologhi, da quel timbro di voce inconfondibile, che rimane nella testa e nel cuore, così come tutta la musicalità del dialetto napoletano”.

Giunti a questo punto non si può non nominare, il film simbolo della spensieratezza di quegli anni, e non solo anche l’attore simbolo degli anni ’80, un po’ l’icona che è rimasta nell’immaginario popolare, sto parlando di “Sapore di mare”(1982) e di Jerry Calà. Energia indomabile, parlata inconfondibile e faccia da simpatica canaglia, Jerry Calà è l’attore per eccellenza del periodo dorato degli anni ’80 italiani. L’epocale

pellicola “Sapore di mare” inaugurò un genere destinato ad avere grande successo in quegli anni

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e negli anni futuri, i fratelli Vanzina ( Enrico e Carlo) ebbero l’intuizione di rinfrescare una vecchia formula- la commedia balneare anni ’50- con tocchi goliardici e dialoghi parolacciari al passo con i tempi (Calà, il vero mattatore della pellicola, entra in scena cantando “Per quest’anno, non cambiare, vengo in spiaggia per ciurlare”): e infilano una serie di episodi e di caratterizzazioni semplici ma destinati a rimanere nelle menti del pubblico, con un’accorta e accurata “operazione nostalgia”delle atmosfere spensierate della commedia anni ’50-60, che contribuirà ad aprire il

“filone nostalgico precontestazione”.

Attraverso una specie di ironico “amarcord” di quei mitici anni- dai successi di Cassius Clay sul ring, alla vittoria di Felice Gimondi al Tour de France, alle serate del “bandiera gialla” sulla riviera adriatica, alla moltitudine di canzoni anni ’60 nella colonna sonora- i fratelli Vanzina riescono nell’intento di riunificare una serie di episodi legati agli amori vacanzieri di un gruppo di personaggi fortemente caratterizzati, con una colonna sonora che riecheggia i maggiori successi commerciali del periodo, riscuotendo in questo modo un successo senza precedenti: 10 miliardi di lire di incassi nel 1982. Girato sulle spiagge della Versilia, e più precisamente di Forte dei Marmi, il film contribuì a lanciare le stelle di Jerry Calà e di Christian De Sica verso la grande popolarità, dopo anni di dura gavetta. Il malinconico finale, immortalato dal primo piano di Jerry Calà, sulle note di “Celeste nostalgia” di Riccardo Cocciante, vale il prezzo del biglietto e simboleggia la nostalgia dei bei tempi andati e della propria gioventù. Un classico come potrebbe

esserlo “Questo piccolo grande amore” di Claudio Baglioni, un riuscito mix di romanticismo a sfondo balneare, goliardia di stampo giovanilistico e furbissima colonna sonora che rimane tra i migliori film dei fratelli Vanzina; e tra i film più rappresentativi di un’epoca. Proprio come lo sono stati in pochi: “Ladri di biciclette” per il Neorealismo, “La Dolce Vita” e “Il sorpasso” per il boom economico degli anni ’60, o “Totò, Peppino e la malafemmina”, per la comicità all’italiana, sono i pochissimi esempi.

Un’epoca d’oro, rimasta nella memoria popolare, vissuta oggi con un pizzico di nostalgia per chi già c’era e con ammirazione per chi non l’ha vissuta. Che malinconia pensare alla spensieratezza di Jerry Calà, alla carica di “pazza” follia di Lino Banfi, alla romanità “verace” di Enrico Montesano, agli incredibili tormentoni di Diego Abatantuono, alla napoletanità di Massimo Troisi. Un magone sale in gola, pensando ai bei tempi che furono e a quanto era bella l’Italia tri-campione del mondo.

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