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Ladri di Biblioteche

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LUDWIG WITTGENSTEIN

OSSERVAZIONI SUI COLORI

Introduzione di Aldo Gargani Traduzione di Mario Trinchero

Einaudi

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Introduzione

In un’annotazione che risale al 1948 Wittgenstein osserva che «i colori stimolano alla loso a» e che «essi sembrano darci da risolvere un enigma, un enigma che ci stimola»1. Le Bemerkungen über die Farben, qui tradotte, raccolgono manoscritti redatti da Wittgenstein a Oxford e a Cambridge tra il 1950 e il 1951, cioè negli ultimi due anni della sua vita. Ma riferimenti, osservazioni ed esempli cazioni sul tema dei colori ricorrono diffusamente in tutti i suoi testi come un insistente contrappunto ad analisi che affrontano le diverse modalità di impiego del linguaggio, la nozione di dimostrazione matematica, le espressioni linguistiche dei fenomeni psichici, delle percezioni interne e delle esperienze degli oggetti sici.

Considerando la varietà di questi riferimenti, si può dire che il tema dei colori abbia costituito per Wittgenstein una sorta di laboratorio intellettuale nel quale egli ha analizzato con impegno ostinato i rapporti tra logica ed esperienza. Ossia, tra ciò che nel nostro linguaggio appartiene alle regole e alle de nizioni del suo uso e ciò che, invece, attiene all’osservazione percettiva e all’esperienza psichica. E naturalmente le analisi dei colori vanno considerate entro il quadro delle motivazioni loso che generali che hanno guidato Wittgenstein nel corso degli scritti della sua seconda maniera, a partire dal 1929-30, a seguito della revisione critica delle tesi contenute nella sua prima opera a stampa, il Tractatus logico-philosophicus pubblicato nel 1921. Vorrei sottolineare che questi testi sui colori — come sempre affidati ad annotazioni sparse, spesso frammentarie che, pur ritornando con ostinazione caparbia su un medesimo tema, disattendono deliberatamente l’impegno

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dell’esposizione sistematica in quanto essa avrebbe forzato in una direzione innaturale il corso dei suoi pensieri — questi testi, dico, mettono in luce il tratto nuovo e originale del lavoro loso co di Wittgenstein e la distanza che esso stabilisce con la loso a tradizionale, vale a dire il suo ri uto delle grandi sintesi teoriche, la sua ripugnanza per le sempli cazioni logicizzanti. Con Wittgenstein, infatti, la loso a cessa di essere un discorso onnicomprensivo di tutte le forme del sapere e depone la sua ambizione di de nire il super-ordine dei super-concetti quali mente, mondo, io, linguaggio e simili2. Con lui la loso a diviene analisi puntuale e locale dei differenti, svariati usi del linguaggio e delle diverse logiche che li dirigono nelle discipline scienti che speci che, nelle forme della cultura cosí come nelle circostanze della vita di tutti i giorni. Nulla appare infatti cosí sospetto al losofo austriaco come una generalità troppo ampia e, mediante la conversione della loso a in un lavoro analitico minuzioso e puntuale, l’analisi concettuale ritrova il terreno duro, l’attrito salutare dei problemi de niti e metodologicamente orientati.

In questo senso, Wittgenstein opera nell’ambito della logica, della matematica e della linguistica un effetto di desublimazione intellettuale paragonabile, fatte salve le differenze, a quello compiuto da Freud nella psicologia del profondo. Non si tratta piú di tras gurare i fenomeni della vita comune, del nostro linguaggio e delle scienze nelle forme di un’idealizzazione astratta e aprioristica qual è stata praticata da tanta parte della loso a tradizionale, ma di accertare le condizioni reali, effettive di quei fenomeni e di quei linguaggi.

Si tratta, in certo qual modo, di pensare meno e di guardare di piú. Ma cosí risulta anche chiaro che la loso a non ha piú il compito di addurre spiegazioni o argomentazioni ipotetico- deduttive, bensí quello di tracciare descrizioni dei fenomeni investigati3. Né la loso a può arrogarsi il diritto di stabilire una soluzione dei problemi scienti ci e matematici, che è invece demandata alle tecniche specialistiche di quelle forme di sapere; essa deve piuttosto delucidare l’ambiente logico- linguistico dei problemi scienti ci o matematici, le loro connessioni con l’uso ordinario del linguaggio nelle circostanze

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della nostra vita. In altri termini, la loso a non deve risolvere, per esempio, una contraddizione logico-matematica, bensí chiarire lo stato civile della contraddizione o il suo stato nel mondo civile4, perché anche la forma piú astratta o so sticata di sapere è pur sempre radicata in un luogo della nostra vita.

Peraltro, se l’analisi di Wittgenstein si estrinseca sul terreno linguistico, essa non si restringe però al signi cato specialistico di una loso a del linguaggio. Durante le sue lezioni all’Università di Cambridge negli anni Trenta, di cui il losofo inglese G. E. Moore ha lasciato un ampio resoconto, Wittgenstein aveva avuto occasione di precisare che i suoi interessi non si dirigevano ai fenomeni linguistici come tali, ma a quella circostanza per effetto della quale i fraintendimenti dell’uso del nostro linguaggio sono all’origine di inquietudini e disagi intellettuali, di problemi e di enigmi loso ci5.

Ora, perché il linguaggio dei colori costituisce per Wittgenstein un contesto di rilevanti problemi loso ci?

Perché, per esempio, sorge il problema della logica del concetto di «bianco»? (Osservazioni sui colori, III, § 221). Perché suscita un problema loso co il caso di un secchio smaltato in un bianco luminoso che per effetto della diversa intensità della luce distribuita sulla sua super cie appare in alcuni tratti grigio? (III, § 246). Oppure quello della fotogra a in bianco e nero in cui vediamo i capelli di un giovanotto come se fossero biondi quando in effetti li vediamo grigi? (III, §§ 117 e 271).

Perché di ipotetici uomini che praticassero un giuoco linguistico dei colori diverso dal nostro, noi non potremmo avere un’idea chiara della loro vita? (III, § 296). Il fatto è che in tali questioni e in molte altre simili o ad esse collegate sono iscritti alcuni problemi centrali della ri essione loso ca e epistemologica quali il rapporto tra logica e esperienza, tra linguaggio e percezione, tra analisi loso ca e spiegazione scienti ca; e ancora tra giuochi linguistici e forme di vita, tra proposizioni grammaticali e proposizioni empiriche. Tali sono i problemi che appartengono allo strato profondo della grammatica del linguaggio dei colori e sui quali si dirigono appunto le Osservazioni sui colori di Wittgenstein. La prima sezione di questo testo affronta subito la questione centrale per

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la chiari cazione di quei rapporti e nello stesso tempo illustra la circostanza di un fraintendimento linguistico che è all’origine di un ricorrente errore loso co. La proposizione che enuncia che un corpo è piú chiaro di un altro ha una forma logica apparentemente analoga alla proposizione che enuncia che un colore è piú chiaro di un altro. Entrambe, infatti, hanno la medesima forma «X è piú chiaro di Y» (I, § 1). In realtà, questo è un caso tipico di apparente identità formale generata da una grammatica superficiale basata su una ingannevole analogia delle forme dei nostri enunciati. Dal punto di vista di una grammatica profonda (eine tiefe Grammatik), quale Wittgenstein si pre gge di delucidare, le due proposizioni appartengono a forme logiche differenti, cioè a regole e de nizioni che dirigono verso usi diversi del linguaggio dei colori. «Nel primo caso si tratta di una relazione esterna e la proposizione è temporale, nel secondo caso si tratta di una relazione interna e la proposizione è atemporale» (I, § 1). In altri termini, la prima è una proposizione empirica, la seconda è una proposizione logica o grammaticale, concernente cioè le regole di impiego delle espressioni linguistiche. La prima è una proposizione empirica in quanto soltanto l’esperienza, de nita rispetto a determinate coordinate spazio-temporali, può stabilire se un corpo è piú chiaro di un altro, se ha questo o quel colore. La seconda, invece, ci solleva ad un livello diverso del discorso, quello delle proposizioni aprioriche nel quale non confrontiamo stati vissuti dell’esperienza, ma i paradigmi ideali che costituiscono e disciplinano il linguaggio dei colori. Il rapporto tra questi due livelli è di importanza fondamentale ai ni della discriminazione tra espressione logica del linguaggio dei colori e resoconti empirici delle percezioni vissute dei colori. Confondendo i due livelli si incorre in un fraintendimento del funzionamento del nostro linguaggio dal quale si originano quei disagi e quelle inquietudini intellettuali che sono tipicamente manifestati dai problemi loso ci. La rilevanza di quella discriminazione è tale da trascendere l’ambito del «giuoco linguistico» dei colori e da investire il contesto degli enunciati matematici. Non a caso riferimenti al linguaggio dei colori e a quello della matematica si rincorrono

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e si sovrappongono in numerosi testi wittgensteiniani. In effetti, nella medesima sezione sopra citata il losofo austriaco paragona il rapporto tra le due proposizioni in questione con quello relativo al «determinare la relazione tra le lunghezze di due sbarre – e la relazione tra due numeri». Anche in questo caso, come nel precedente, la prima determinazione verte su una circostanza empirica, spazio-temporale, e concerne una relazione esterna; la seconda, invece, è una relazione interna, una relazione, cioè, che enuncia una connessione tra le forme del nostro linguaggio e che riguarda pertanto la loro pura pensabilità logica. In una conversazione svoltasi nel dicembre del 1929 a Vienna, in casa di Moritz Schlick, Wittgenstein osservava che la relazione del primo tipo è esterna perché sarebbe altrettanto pensabile che il segmento a fosse piú corto o piú lungo del segmento b, laddove una relazione interna è una relazione tra le forme stesse del simbolismo, ed è pertanto indipendente dalle circostanze spazio-temporali dell’esperienza. Puntuale giunge anche in quella conversazione l’analogia wittgensteiniana tra numeri e colori: come posso dire che un segmento a, misurando 2 metri, è piú lungo di un segmento b, che misura 1,5 metri, cosí «posso certo dire che un vestito è piú scuro di un altro. Ma non posso dire che un colore è piú scuro di un altro, perché questo fa parte dell’essenza del colore, della sua pensabilità»6.

Sia nel giuoco linguistico dei colori, sia in quello della matematica occorre pertanto distinguere la classe delle espressioni che vertono sugli elementi stessi della rappresentazione, sui paradigmi ideali della nostra grammatica, dalla classe delle espressioni che, vertendo invece sui fatti empirici, presuppongono quegli elementi e quei paradigmi come condizioni della loro possibilità. Per tale ragione Wittgenstein sottolinea in tutta la sua opera l’analogia formale che corre tra paradigmi matematici e paradigmi dei colori, parlando di matematica del colore e di geometria dei colori (III, §§ 3, 35, 86). I concetti dei numeri sono i paradigmi e le unità di misura delle proposizioni che enunciano le misurazioni degli oggetti sici, cosí come i concetti dei colori primari (rosso, blu, verde, giallo) sono i paradigmi e, per cosí

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dire, le unità di misura per la descrizione delle proprietà cromatiche delle cose. E qui Wittgenstein sottopone ad una radicale revisione critica le tesi dell’empirismo tradizionale, del veri cazionismo del «Circolo di Vienna» e del neo-positivismo logico secondo i quali il signi cato e la verità delle nostre proposizioni andrebbero ricercati e determinati nell’esperienza.

Ancora nel corso di una conversazione nel 1929 M. Schlick domandava a Wittgenstein: «Lei dice che i colori costituiscono un sistema. Intende qualcosa di logico o di empirico? Che dire, per esempio, se un tale fosse rinchiuso per tutta la sua vita in una camera rossa e fosse capace solo di vedere il rosso? O se l’intero campo visivo di qualcuno fosse uniformemente rosso?

Potrebbe allora dire a se stesso: vedo solo rosso ma ci devono essere anche altri colori?»7. Wittgenstein rispondeva che la conoscenza del sistema dei colori non dipende dal numero dei colori che si sono osservati nel corso della propria vita, né dipende dalla capacità di immaginarseli o di allucinarli. Se l’uomo chiuso nella camera rossa ha la nostra medesima sintassi logica (cioè, il medesimo sistema di regole per l’uso del linguaggio), egli ha allora tutto il nostro sistema dei colori, indipendentemente dal numero dei colori effettivamente incontrati e percepiti, allo stesso modo che la sua impossibilità sica di uscire dalla camera rossa non gli impedisce di pensare che lo spazio si estende al di là di essa, perché è appunto la sintassi dello spazio a dirglielo e non già la quantità di spazio osservato. «Se qualcuno non esce mai dalla sua camera, sa tuttavia che lo spazio continua, che esiste cioè la possibilità di uscire dalla camera (avesse pure le pareti di diamante). Non è quindi un’esperienza; è insito alla sintassi dello spazio, a priori.

Ora, ha senso domandare quanti colori occorra aver incontrato nella propria vita per conoscere il sistema dei colori? No! […]

Non importa la quantità dei colori visti ma la sintassi. (Cosí come non importa la “quantità di spazio”)»8. Ma cosí Wittgenstein metteva in discussione anche la concezione raffigurativa del linguaggio che egli aveva sostenuto precedentemente nel Tractatus logico-philosophicus, secondo la quale ciascuna proposizione è una raffigurazione autonoma e indipendente di un fatto, dalla quale pertanto non si può

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dedurre alcuna altra proposizione relativa all’esistenza o non- esistenza di un fatto, di una situazione diversi9. Nel corso della mutata prospettiva intellettuale che doveva abbracciare a partire dalla ne degli anni Venti, Wittgenstein respingeva la concezione raffigurativa del linguaggio per assumere invece il linguaggio come un sistema. Se perciò paragonassimo la proposizione ad un metro graduato per le misurazioni delle lunghezze, dovremmo dire che mentre nella fase del Tractatus la proposizione è accostata come un metro di cui solo gli indici estremi delle linee di graduazione vengono a contatto con l’oggetto da misurare, nella fase successiva del pensiero di Wittgenstein non è una singola proposizione, bensí un intero sistema di proposizioni che viene accostato alla realtà. Pertanto non solo gli indici estremi delle linee di graduazione, ma tutte le linee di graduazione vengono contemporaneamente accostate e applicate all’oggetto spaziale10. Il che vuol dire che se un oggetto è lungo 2 metri, non è lungo allora 2,50 o 3 metri, e che se un oggetto è rosso non è contemporaneamente giallo o blu. Wittgenstein doveva infatti dichiarare riconsiderando il suo Tractatus logico-philosophicus: «Tutto questo non lo sapevo ancora quando scrivevo il mio libro»11. Dunque, quello che prima era stato decisamente negato, e cioè la possibilità di dedurre dall’esistenza di un fatto la non- esistenza di altri fatti, descritti nel sistema linguistico, diviene ora addirittura la regola. Per tale svolta, di cui l’analisi wittgensteiniana dei colori è una incisiva esempli cazione, ogni proposizione traccia il proprio senso all’interno di un sistema di relazioni tra i concetti, le de nizioni e le regole di un

«giuoco linguistico». Ma con tale svolta Wittgenstein metteva in evidenza i limiti della semantica dell’empirismo classico, del positivismo tradizionale e del neo-positivismo logico per i quali il signi cato e la verità degli enunciati risiedono nei dati dell’osservazione empirica o nelle procedure dei controlli sperimentali. E in questo senso dichiarava che «guardando non s’impara nulla sui concetti dei colori» (I, § 72). Wittgenstein procedeva pertanto a distinguere le condizioni di senso di un enunciato dalle condizioni della sua verità. Per il losofo austriaco ciò che rende vera una proposizione non può

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coincidere con quanto conferisce ad essa un senso.

«L’esperienza – scrive Wittgenstein nelle Philosophische Bemerkungen – decide se una proposizione è vera o falsa, ma non quale sia il suo senso»12. Il senso pertanto di un’espressione che si riferisce ai colori dipende dalla sintassi del linguaggio, dal sistema dei suoi concetti e delle sue regole, ed è soltanto sulla base della previa disponibilità di tale sintassi e di tali paradigmi ideali che si possono condurre i procedimenti di veri ca sull’esperienza. Senso e verità degli enunciati non si scaricano contemporaneamente sul dato percettivo; il senso di un’espressione linguistica dipende dall’articolazione del usso dell’esperienza attraverso paradigmi ideali e regole sintattiche, nel presupposto dei quali risulta accertabile la verità di una proposizione empirica. Pertanto, se mi domandano come faccio a sapere che un certo colore è rosso, la risposta potrebbe essere: «Ho imparato l’italiano»13. Le essenze degli oggetti subiscono pertanto nella trattazione wittgensteiniana una conversione dal piano tradizionale dell’ontologia a quello di un’analisi logico-linguistica. «L’essenza (das Wesen) — scrive Wittgenstein — è espressa nella grammatica»; «Che tipo di oggetto una cosa sia: questo dice la grammatica»14. E cosí ciò che ha l’aria di non poterci non essere secondo la meta sica tradizionale ora esprime semplicemente una necessità grammaticale relativa peraltro al tipo di «giuoco linguistico»

praticato. La profondità dell’essenza manifesta soltanto il profondo bisogno di una convenzione adottata nel nostro linguaggio15.

Se il signi cato delle espressioni dei colori è ssato nei paradigmi ideali del linguaggio, perde allora ogni rilevanza il riferimento all’esperienza privata di ciascun osservatore. Come farei a sapere, infatti, che un altro interlocutore intende la stessa cosa che intendo io quando proferisco la parola «rosso»?

«No – dichiara Wittgenstein — qui decidono i giuochi linguistici» (I, § 6). Quando insegnamo a qualcuno il linguaggio dei colori, non gli insegnamo a identi care esperienze private e fantasmi inaccessibili della sua interiorità, ma gli trasmettiamo una capacità, una tecnica per usare i concetti e le espressioni dei colori nelle circostanze

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caratteristiche della vita comune, a riconoscere per esempio campioni di colore, ad eseguire ordini di un certo tipo e simili.

Quando perciò Wittgenstein si riferisce ai paradigmi ideali, alle essenze dei colori, egli non intende con ciò un oggetto o una determinazione ideali che siano i termini di un’intuizione intellettuale, ma intende una rappresentazione o un modello del nostro linguaggio insieme alla capacità e alla tecnica per impiegarli nelle situazioni de nite dell’uso linguistico. L’essenza di un colore primario corrisponde alla regolarità che un modello o un paradigma assume nella dinamica del linguaggio.

Le relazioni tra i colori dipendono dalle relazioni logiche, dalla sintassi della loro pensabilità; chi perciò parlasse per esempio di un arancione che dà sul blu susciterebbe la medesima sensazione di chi provasse ad immaginare un vento settentrionale che viene da sud-ovest, come aveva osservato Ph. O. Runge16. Allo stesso modo non possiamo dire che un vetro bianco è trasparente (anche in presenza di impressioni ottiche di un certo tipo) perché le relazioni logiche che sussistono tra i concetti di bianco e di nero e quelli di trasparente e opaco escludono la legittimità di una tale asserzione. L’impossibilità di de nire o di costruire un «corpo bianco trasparente» è analoga all’impossibilità di de nire o costruire in matematica un «biangolo regolare»; si tratta cioè di una difficoltà di pensabilità logica, prima ancora che psichica o sica (III, §§ 138, 141). Analogamente, Wittgenstein afferma che «non si chiamerebbe bianco un mezzo attraverso il quale una con gurazione bianca e nera (una scacchiera) apparisse immutata» (I, §§ 21-31, 47; III, §§ 146-47). Le Osservazioni sui colori di Wittgenstein non sono destinate alla de nizione di una teoria di carattere sico o siologico o psicologico basata su un gruppo di ipotesi e sulle loro conseguenze veri cabili, ma alla delucidazione della logica dei concetti di colore (I, §§22, 27, 32, 39). Ecco perché la sintassi del linguaggio dei colori prevale, per una sorta di diritto di priorità logica, sulle stesse percezioni dei colori. In questo senso, una super cie bianca può apparire grigia in certi tratti per effetto della diversa distribuzione dell’intensità luminosa; ma noi non diciamo che è grigia, troveremmo addirittura assurdo dire ciò, anche se

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l’evidenza sensoriale potrebbe indurci a dirlo. In casi come questo e in altri analoghi, si potrebbe dire che la logica del nostro linguaggio ha già una mano sul giuoco linguistico dei colori (III, §§ 13, 24, 50, 246).

Attraverso le Osservazioni sui colori Wittgenstein ha de nito una grammatica del vedere nella quale il dato della percezione ottica viene letto e interpretato alla luce di un assetto di relazioni logiche. Davanti ad una fotogra a in bianco e nero dico che i capelli chiari di un giovanotto in essa raffigurato sono biondi; ma li vedo biondi? O li vedo grigi? La verità è che da un lato li vedo grigi e da un altro li vedo biondi. Ma normalmente non direi che egli ha i capelli grigi, perché un colore viene identi cato e percepito in un ambiente, cioè in un contesto di regole, di concetti e nell’ambito di usi e applicazioni, cosí come gli occhi sorridono soltanto in un volto (I, §§ 63, 64, 65; III, §§ 19, 117, 271, 274, 275). La stessa de nizione dei colori primari non ha altro fondamento che quello che discende dal gesto tracciato da una decisione grammaticale, da una legislazione dei giuochi linguistici. Non vi è una proprietà o una determinazione naturale e intrinseca alla base del loro raggruppamento. Non possiamo dire di avere i concetti dei colori primari per il fatto di aver guardato cose colorate non piú di quanto possiamo dire di avere i numeri negativi per il fatto che abbiamo debiti17. Le regole della grammatica dei colori sono arbitrarie al pari per esempio di quelle del linguaggio della matematica o della teoria musicale dell’armonia le quali distribuiscono colori, numeri, toni, rispettivamente, entro differenti raggruppamenti, vietando o permettendo certe mescolanze, certe operazioni, certe associazioni ma senza pretendere di stabilire il fondamento della propria giusti cazione in una struttura sica, psichica o siologica. Quelle regole corrispondono ai nostri interessi, non ad un fondamento di legittimità e di giusti cazione (I, § 74; III,

§§91, 293, 317).

In quegli ultimi anni della sua vita ai quali risalgono le redazioni delle Osservazioni sui colori e di Della Certezza18, Wittgenstein scriveva che si era nuovamente sollevato il sipario

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sulla scena della sua mente. Per lui ciò signi cava spingere nuovamente l’insicurezza suscitata da un problema loso co no alle sue radici piú profonde. Come potrebbe altrimenti trattarsi di un problema serio? Ma se si incontrano strati sempre piú profondi in quella discesa che costituisce la vertigine della loso a, bisognerà ogni volta apprendere un nuovo metodo per affrontarli. Questo aspetto, vorrei dire eroico, della sua ricerca aveva impedito a Wittgenstein di dare un’esposizione organica e sistematica alle sue analisi perché essa avrebbe impresso una direzione forzata e innaturale ai suoi pensieri. Ma la ragione non è puramente formale perché Wittgenstein aveva già da molti anni disertato la ricerca di un fondamento incrollabile che potesse conferire alle sue dottrine la chiusura di un sistema teorico. Perciò la forma non sistematica delle sue osservazioni ha l’effetto di far sentire i culmini salienti nelle analisi di casi particolari, nell’illustrazione di situazioni speci che insieme ai metodi locali impiegati per parlarne. Anziché, dunque, un metodo per descrivere una sempli cazione logica della vita degli uomini, una sua presunta forma unitaria, Wittgenstein ci insegna una varietà di metodi e di tecniche concettuali per distinguere invece luoghi differenti della loro vita. La prassi, infatti, dà alle parole il loro senso (III, § 317). Cosí il lavoro analitico di Wittgenstein veniva sempre piú iscrivendosi in una ricerca che scopriva l’assenza di fondamenti, giusti cazioni e di spiegazioni alla base delle forme del linguaggio e della cultura.

Abbandonare la spiegazione signi cava per Wittgenstein rinunciare alle connessioni causali per sostituirvi una sinossi, una rappresentazione perspicua dei tratti di una costellazione della nostra vita. In questo senso la concezione magica secondo la quale l’anima del re-sacerdote si mantiene giovane se lo si uccide nel ore degli anni non è, per esempio, la causa o la spiegazione del rito o dell’usanza del suo sacri cio. In effetti questa usanza non deriva da quella concezione, ma le due cose si dànno entrambe, come le pulci nel pelo dei cani19. Analogamente, l’idea del nero non spiega o non suscita l’idea di

«scuro»; piuttosto è l’immagine di una macchia nera a fungere contemporaneamente da paradigma di «nero» e di «scuro»20.

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Riscoprire e portare alla luce quello che si sa, quello che è ovvio ma che non riusciamo piú a vedere perché ci circonda continuamente nella nostra vita, questa è la condizione per eliminare le inquietudini e i problemi loso ci. Ma si sa che, come diceva Grillparzer, è piú facile muoversi tra le cose grandi e lontane che afferrare le cose che sono singole e vicine.

ALDO GARGANI Pisa, febbraio 1982.

1 L. WITTGENSTEIN, Vermischte Bemerkungen, traduzione italiana di M.

Ranchetti, Milano 1980, p. 124.

2WITTGENSTEIN, Philosophische Untersuchungen, I, § 97, traduzione italiana di M. Trinchero, Torino 1967.

3 «La loso a non può in alcun modo toccare l’uso effettivo del linguaggio; essa può alla ne soltanto descriverlo. Perché essa non può nemmeno fondarlo (begründen). Essa lascia tutto com’è»; «La loso a presenta semplicemente ogni cosa, e non spiega, né deduce alcunché. – Poiché tutto è in vista, non v’è neanche alcunché da spiegare. Infatti, ciò che è nascosto, non ci interessa. – Si potrebbe anche chiamare ‘ loso a’ ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta e invenzione», ivi, §§ 124 e 126; cfr. § 109.

4 «Non è affare della loso a risolvere la contraddizione per mezzo di una scoperta matematica o logico-matematica; essa deve invece rendere perspicuo lo stato della matematica che ci inquieta, lo stato della matematica prima della soluzione della contraddizione. Il fatto fondamentale, qui, è che noi ssiamo certe regole, una tecnica per un giuoco, e poi, quando seguiamo le regole, le cose non vanno come avevamo supposto. Che dunque ci impigliamo, per cosí dire, nelle nostre proprie regole. Questo impigliarsi nelle nostre regole è appunto ciò che vogliamo comprendere, cioè, ciò di cui vogliamo ottenere una visione chiara […] Lo stato civile della contraddizione, o il suo stato nel mondo civile questo è il problema

loso co», ivi, I, § 125.

5 «Wittgenstein disse piú di una volta che non discuteva di queste questioni [di carattere linguistico] in quanto riteneva che il linguaggio fosse l’oggetto proprio della loso a. Egli non pensava che lo fosse; ne discuteva perché pensava che certi errori loso ci o “certi disagi del nostro pensiero” fossero dovuti a false analogie suggerite dall’uso delle espressioni», G. E. MOORE, Wittgenstein’s Lectures in 1930-33, in

«Mind», LXIII, 1954, parte prima, p. 5.

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6 Wittgenstein und der Wiener Kreis; Gespräche, aufgezeichnet von F. Waismann, a cura di B. F. McGuinness, Frankfurt am Main e Oxford 1967; pp. 54-55; traduzione italiana di S. de Waal, Firenze 1975, p. 42.

7 Ibid., traduzione italiana cit., pp. 52-53.

8 Wittgenstein und der Wiener Kreis, traduzione italiana cit.

9 Tractatus logico-philosophicus, traduzione italiana di A. G. Conte, propp. 4.211, 5.134, 5.135, 5.136.

10 Cfr. Tractatus logico-philosophicus, propp. 2.1512 e 2.15121; Wittgenstein und der Wiener Kreis, traduzione italiana cit., pp. 51-52.

11 Wittgenstein und der Wiener Kreis, traduzione italiana cit., p. 51.

12WITTGENSTEIN, Philosophische Bemerkungen, § 23; traduzione italiana di M.

Rosso, Torino 1976.

13 Philosophische Untersuchungen, I, § 381; traduzione italiana cit.

14 Ibid., §§ 371 e 373.

15 WITTGENSTEIN, Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik, I, § 74;

traduzione italiana di M. Trinchero, Torino 1971.

16 Cfr. qui I, § 21; sulla concezione dei colori di Ph. O. Runge e sulla teoria dei colori di Goethe alla luce delle Osservazioni sui colori di Wittgenstein, cfr. R.

TRONCON, Goethe e la filosofia del colore, in appendice a: J. W. GOETHE, La teoria dei Colori, Milano 1978, p. 241.

17 WITTGENSTEIN, Zettel, G. E. M. Anscombe and G. H. von Wright, Oxford 1967, § 331.

18ID., Über Gewissheit, traduzione italiana di M. Trinchero, Saggio introduttivo di A. Gargani, Torino 1978.

19 Cfr. WITTGENSTEIN, Bemerkungen über Frazers «e Golden Bough», traduzione italiana di S. de Waal, Milano 1975, pp. 18 e 35.

20 Cfr. ID., Bemerkungen über die Grundlagen der Mathematik cit., I, § 105.

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Osservazioni sui colori

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I.

1.

Ecco un giuoco linguistico: riferire se un determinato corpo è piú chiaro o piú scuro di un altro. – Ma ora eccone un altro affine: Enunciare qualcosa sulla relazione tra la chiarezza di due determinate tonalità di colore. (Si può paragonare con questo: Determinare la relazione tra la lunghezza di due sbarre – e la relazione tra due numeri). – Nei due giuochi linguistici la forma delle proposizioni è la medesima: «X è piú chiaro di Y».

Ma nel primo caso si tratta di una relazione esterna e la proposizione è temporale, nel secondo caso si tratta di una relazione interna e la proposizione è atemporale.

2.

In un quadro, in cui un pezzo di carta bianca acquista la propria chiarezza dal cielo blu, il cielo è piú chiaro della carta bianca. E tuttavia, in un altro senso, il blu è il colore piú scuro, il bianco il colore piú chiaro (Goethe). Sulla tavolozza del pittore il bianco è il colore piú chiaro.

3.

Lichtenberg dice che solo pochi uomini hanno mai visto il bianco puro. Allora la maggior parte degli uomini impiega la parola in modo scorretto? E come ha imparato lui l’uso corretto? – Ha costruito un uso ideale conformandosi all’uso ordinario. E questo non vuol dire: un uso migliore, ma: un uso raffinato in una certa direzione, in cui qualcosa è stato portato all’estremo.

4.

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E a sua volta un uso cosí costruito può certamente insegnarci qualcosa sull’uso effettivo.

5.

Dico che un pezzo di carta è bianco puro: e anche se, mettendo della neve vicino al pezzo di carta, questo apparisse grigio, tuttavia nel suo ambiente normale continuerei, con ragione, a chiamarlo bianco e non grigio chiaro. Potrebbe darsi, magari, che io impieghi un concetto raffinato di bianco in laboratorio (dove posso anche impiegare un concetto raffinato, per esempio, di determinazione esatta del tempo).

6.

Che cosa si può dire a sostegno del fatto che il verde è un colore primario, e non un colore misto di blu e giallo? Sarebbe corretto dire: «Questo si può riconoscere immediatamente:

basta guardare i colori»? Ma come faccio a sapere che con queste parole: «Colori primari» intendo la stessa cosa che intende un altro, che sia anche disposto a dire che il verde è un colore primario? No – qui decidono i giuochi linguistici.

7.

C’è il compito che consiste nel mescolare a un dato gialloverde (o a un dato bluverde) un colore che dia un po’

meno sul giallo (o un po’ meno sul blu), – oppure nello sceglierlo tra un certo numero di campioni di colore. Un verde che non dia sul giallo non è però un verde che dà sul blu (e viceversa); e c’è anche il compito che consiste nello scegliere o nel mescolare un verde che non dia né sul giallo né sul blu.

Dico: «o nel mescolare», perché un verde non si mette a dare contemporaneamente tanto sul giallo quanto sul blu1, per il solo fatto di essere stato ottenuto da una qualche specie di mescolanza di giallo e di blu.

8.

Gli uomini potrebbero avere il concetto dei colori intermedi [Zwischenfarbe] o colori misti anche se non avessero mai prodotto colori mescolandone altri (in un senso qualsiasi).

Potrebbe darsi che nei loro giuochi linguistici si fosse sempre

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trattato di scegliere o di cercare colori misti o colori intermedi già esistenti.

9.

Anche se il verde non è un colore intermedio tra il giallo e il blu, non potrebbe darsi che ci fossero persone per cui esistesse un giallo che dà sul blu o un verde che dà sul rosso? Dunque, persone i cui concetti di colore si differenzierebbero dai nostri – perché anche i concetti di colore di chi è affetto da acromatopsia deviano da quelli delle persone normali e non ogni deviazione dal normale è necessariamente una cecità o un difetto.

10.

A uno che abbia imparato a trovare, o a produrre mescolandola, una determinata tonalità di colore, che dà piú sul giallo, piú sul bianco, piú sul rosso, e cosí via – ossia a uno che conosca il concetto di colore intermedio – si chieda ora di mostrare un verde che dà sul rosso. Costui potrebbe semplicemente non capire questo comando, e magari reagire come se gli si fosse stato chiesto di indicare un quadrato regolare, un pentagono regolare, un esagono regolare e un unagono regolare. Ma che dire se costui, senza esitare, indicasse un campione di colore (per esempio, quello che noi potremmo forse chiamare un marrone che dà sul nero)?

11.

Chi fosse a conoscenza di un verde che dà sul rosso sarebbe in grado di costruire una successione di colori che comincia con il rosso e nisce con il verde, e che forse anche per noi costituirebbe una transizione continua tra i due colori. Allora verrebbe fuori che là dove ogni volta noi vediamo la medesima tonalità, per esempio di marrone, costui vede una volta un marrone, una volta un verde che dà sul rosso. E per esempio, quel tale potrebbe distinguere dai loro colori due composti chimici che per noi hanno il medesimo colore, e potrebbe chiamarli l’uno marrone, l’altro verde che dà sul rosso.

12.

(22)

Immagina che, tranne rare eccezioni, tutti gli uomini siano ciechi al rosso e al verde. Oppure anche un altro caso. Che tutti gli uomini siano ciechi o al «rossoverde» o al «blugiallo».

13.

Immaginiamo una popolazione di persone tutte affette da acromatopsia – e una cosa del genere potrebbe darsi benissimo.

Costoro non avrebbero i medesimi concetti di colore che abbiamo noi. Perché, anche supposto che parlassero italiano2 ed avessero tutte le parole italiane per i colori, tuttavia userebbero ancora parole diverse da quelle che abbiamo noi, e imparerebbero a usarle in modo diverso.

Oppure, se parlassero una lingua straniera, ci sarebbe difficile tradurre, nelle nostre, le loro parole per i colori.

14.

Ma se anche esistessero uomini per i quali fosse naturale usare in modo non contraddittorio l’espressione: «verde-che- dà-sul-rosso» o «blu-che-dà-sul-giallo» e che forse mostrassero anche capacità che mancano a noi, non per questo, tuttavia, saremmo costretti a riconoscere che costoro vedono colori che noi non vediamo. Infatti non esiste nessun criterio universalmente riconosciuto per stabilire che cosa sia un colore, se non che è uno dei nostri colori.

15.

In ogni serio problema loso co l’incertezza arriva giú, no alle radici.

Si deve sempre esser pronti a imparare qualcosa di completamente nuovo.

16.

La descrizione dei fenomeni dell’acromatopsia fa parte della psicologia. E dunque vi fa parte anche quella dei fenomeni del vedere normale? La psicologia descrive soltanto le deviazioni dell’acromatopsia dalla visione normale.

17.

(23)

Nella lettera che Goethe ha riprodotto nella sua Farbenlehre, Runge dice che ci sono colori trasparenti e colori opachi. Il bianco sarebbe un colore opaco.

Questo mostra l’indeterminatezza nel concetto di colore o anche in quello di eguaglianza tra colori.

18.

Può un vetro trasparente verde avere il medesimo colore che ha un pezzo di carta opaco, o no? Se un vetro del genere venisse rappresentato in una pittura, i colori sulla tavolozza non sarebbero trasparenti. Se si volesse dire che i colori del vetro sarebbero trasparenti anche nella pittura, si dovrebbe dire che il complesso di macchie colorate che rappresenta il vetro è il colore del vetro.

19.

Come mai, allora, qualcosa può essere verde trasparente ma non bianco trasparente? La trasparenza e la ri essione [Spiegeln] esistono soltanto nella dimensione della profondità di un’immagine visiva.

L’impressione del mezzo trasparente è l’impressione che dietro il mezzo ci stia qualcosa. La completa monocromaticità dell’immagine visiva non può essere trasparente.

20.

Una cosa bianca dietro un mezzo trasparente colorato appare dello stesso colore del mezzo, una cosa nera appare nera. Stando a questa regola il nero sopra uno sfondo bianco deve vedersi, attraverso un mezzo ‘bianco trasparente’, esattamente nello stesso modo in cui lo si vede attraverso un mezzo non colorato.

21.

Runge: «Quando ci si vuole immaginare un arancione che dà sul blu, un verde che dà sul rosso, o un violetto che dà sul giallo si prova la medesima sensazione di quando si vuole immaginare un vento settentrionale che viene da sud-ovest…

Tanto il bianco quanto il nero sono entrambi opachi, ossia

(24)

solidi… Non ci si può immaginare un’acqua che sia limpida e bianca, cosí come non ci si può immaginare un latte limpido».

22.

Non vogliamo trovare una teoria dei colori (né una teoria siologica né una teoria psicologica), bensí la logica dei concetti di colore. E questa riesce a darci ciò che, spesso a torto, ci si è aspettati da una teoria.

23.

«Non si può immaginare un’acqua bianca, ecc.». Ciò signi ca che non si può descrivere (per esempio, dipingere) che aspetto avrebbe una cosa limpida bianca e questo vuol dire:

non si sa quale descrizione, quale rappresentazione, queste parole esigano da noi.

24.

Non è senz’altro chiaro di quale vetro trasparente si debba dire che ha il medesimo colore di un campione di colore opaco.

Se dico: «Cerco un vetro di questo colore» (e cosí dicendo indico un pezzo di carta colorata) questo forse signi cherà che una cosa bianca, vista attraverso il vetro, deve avere lo stesso aspetto del mio campione.

Se il campione è rosa, blu-cielo, lilla, allora immagineremo che il vetro sia il vetro appannato, ma forse anche limpido, e colorato in modo che dia solo debolmente sul rosso, o sul blu o sul viola.

25.

Talvolta, al cinema possiamo vedere le vicende sulla pellicola come se fossero situate dietro lo schermo, ma questo fosse trasparente: per esempio, come se fosse una tavola di vetro. Il vetro toglierebbe alle cose i loro colori, e lascerebbe loro soltanto il bianco, il grigio e il nero. (Qui non stiamo facendo sica, ma consideriamo il bianco e il nero come colori, esattamente come lo sono il verde e il rosso). – Si potrebbe anche immaginare che qui ci rappresentiamo una tavola di vetro che si potrebbe chiamare bianca e trasparente. E tuttavia, non proviamo la tentazione di chiamarla cosí: dunque

(25)

l’analogia con una tavola verde e trasparente salta in qualche punto?

26.

Di una tavola verde diremmo forse che dà una colorazione verde alle cose che le stanno dietro; e dunque, prima di tutto, che la dà al bianco che le sta dietro.

27.

Quando si tratta di logica, «questo non si può immaginare»

vuol dire: non si sa che cosa ci si debba immaginare qui.

28.

Del mio ttizio schermo cinematogra co di vetro si direbbe che dà una colorazione bianca alle cose che gli stanno dietro?

29.

Dalla regola per l’apparenza visiva [Augenschein] dei colori delle cose trasparenti colorate, che hai ricavato dal verde trasparente, dal rosso trasparente, eccetera, costruisci la sembianza [Schein] del bianco trasparente. Perché non funziona?

30.

Ogni mezzo colorato oscura le cose che si vedono attraverso ad esso: inghiotte la luce. Ebbene, deve anche oscurare il mio vetro bianco? E deve oscurarlo tanto piú quanto piú il mezzo è spesso? Allora sarebbe davvero un vetro scuro!

31.

Perché un vetro bianco-trasparente non si può immaginare – anche se non ce ne sono in realtà? Dove va storta l’analogia con il vetro colorato trasparente?

32.

Spesso si usano proposizioni che stanno sul con ne tra logica ed empiria, cosicché il loro senso oscilla da una parte e dall’altra di questo con ne; ed esse valgono, ora come

(26)

espressione di una norma, ora come espressione di un’esperienza.

(Infatti, non è certo un fenomeno psichico collaterale – cosí ci si immagina i ‘pensieri’ – ma l’impiego, a distinguere la proposizione logica dalla proposizione empirica).

33.

Si parla del ‘colore dell’oro’ e non s’intende il giallo. «Color dell’oro» è la proprietà d’una super cie che splende o luccica.

34.

C’è il calor rosso e il calor bianco. Ma che aspetto avrebbero il calor marrone e il calor grigio? Perché non possiamo concepirli come un grado piú debole del calor bianco?

35.

«La luce non è colorata». Se è vero, allora lo è nel senso in cui non sono colorati i numeri.

36.

Ciò che appare luminoso non appare grigio. Tutto il grigio appare illuminato.

37.

Quello che si vede come luminoso non si vede come grigio.

Tuttavia lo si può benissimo vedere come bianco.

38.

Dunque, una cosa si potrebbe vedere ora come debolmente luminosa ora come grigia.

39.

Io non dico (come fanno gli psicologi gestaltisti) che l’impressione del bianco si origina in questo e quest’altro modo.

Piuttosto, la questione è esattamente questa: quale sia il signi cato di quest’espressione, la logica del concetto.

40.

(27)

Infatti, che non ci si possa immaginare una cosa ‘al calor grigio’ non è affare della sica o della psicologia dei colori.

41.

Mi dicono che una certa sostanza brucia sviluppando una amma grigia. Io però non conosco i colori delle amme di tutte le sostanze. Perché allora non potrebbe esser possibile anche questo?

42.

Si parla di una luce ‘rosso scura’, ma non di una luce ‘nero- rossa’.

43.

Una super cie bianca e liscia può ri ettere. Che dire se ci si sbagliasse, e se ciò che sembra ri esso in essa in realtà stesse dietro la super cie e fosse visto attraverso essa? Allora la super cie sarebbe bianca e trasparente?

44.

Si parla di uno specchio ‘nero’. Ma ciò che esso rispecchia, oscura. Però non appare nero, e ciò che si vede attraverso esso non appare ‘sporco’, bensí ‘profondo’.

45.

L’opacità non è una proprietà del colore bianco. Non piú di quanto la trasparenza non sia una proprietà del verde.

46.

E non è neanche sufficiente il dire che la parola ‘bianco’ si applica, appunto, soltanto all’immagine di super ci. Potrebbe darsi che avessimo due parole per «verde»: l’una soltanto per le super ci verdi, l’altra per gli oggetti verdi trasparenti.

Continuerebbe allora a sussistere la questione: perché non esista nessun nome di colore che corrisponda alla parola

«bianco», per qualcosa che è anche trasparente.

47.

(28)

Non si chiamerebbe bianco un mezzo attraverso il quale una con gurazione [Muster] bianca e nera (una scacchiera) apparisse immutata, anche se attraverso tale mezzo gli altri colori perdessero in intensità [Färbigkeit].

48.

Si potrebbe non voler chiamare «bianco» un punto risplendente e chiamare cosí soltanto ciò che si vede come colore d’una super cie.

49.

Di due luoghi del mio ambiente, che in un certo senso vedo come egualmente colorati, in un certo altro senso l’uno mi può apparire bianco, l’altro grigio.

In un certo contesto, questo colore è per me un bianco sotto una cattiva luce, nell’altro contesto, grigio sotto una illuminazione buona.

Queste sono proposizioni sui concetti ‘bianco’ e ‘grigio’.

50.

Il secchio che mi sta davanti è smaltato di un bianco splendente: sarebbe assurdo chiamarlo «grigio», o dire: «In realtà io ci vedo un grigio chiaro». Ma il secchio ha un punto risplendente bianco, che è molto piú chiaro del resto della sua super cie, e questa è in parte rivolta verso la luce, in parte lontana dalla luce, senza che tuttavia appaia colorata in modo differente. (Senza che appaia, non soltanto: senza che sia).

51.

Non è la stessa cosa il dire: l’impressione del bianco o del grigio si produce in certe determinate condizioni (causali) e il dire: è un’impressione in un determinato contesto di colori e di forme.

52.

Il bianco come colore di sostanza (nel senso in cui si dice la neve è bianca) è piú chiaro di ogni altro colore di sostanza; il nero è piú scuro. Qui il colore è un oscuramento, e se alla

(29)

sostanza si toglie ogni oscuramento di questo genere rimane il bianco, e perciò la si può chiamare «senza colore».

53.

La fenomenologia non c’è. Però ci sono problemi fenomenologici.

54.

Che non tutti i concetti di colore siano logicamente della medesima specie si vede facilmente. Si vede facilmente, per esempio, la differenza tra i concetti ‘color dell’oro’ o ‘color dell’argento’ da un lato e: ‘giallo’ o ‘grigio’ dall’altro.

55.

Un colore ‘riluce’ in un ambiente. (Come gli occhi sorridono soltanto in un volto)3. Un colore ‘che dà sul nero’ – per esempio il grigio – non ‘riluce’.

56.

Le difficoltà che percepiamo ri ettendo sulla natura dei colori (e con cui Goethe volle fare i conti nella Farbenlehre) sono già insite nell’indeterminatezza del nostro concetto di eguaglianza tra colori.

57.

[«Io percepisco X»

«Io osservo X».

X non sta per il medesimo concetto tanto nella prima quanto nella seconda proposizione; anche se forse sta per la medesima espressione verbale; per esempio: «un dolore». Se infatti si chiede: «Che genere di dolore?» nel primo caso potrei rispondere: «Questo», e pungere con un ago quello che me l’ha chiesto. Nel secondo caso devo rispondere in modo diverso alla medesima domanda; per esempio: «Il dolore del mio piede».

Nella seconda proposizione la X potrebbe anche stare per «il mio dolore», ma nella prima non potrebbe starci].

58.

(30)

Immagina che qualcuno indichi un punto nell’iride di un occhio dipinto da Rembrandt e dica: «Le pareti della mia stanza devono essere tinteggiate con questo colore».

59.

Dipingo quello che vedo dalla mia nestra. Un posto ben preciso, determinato dalla sua posizione nell’architettura di una casa, lo dipingo in colore ocra. Dico che vedo questo punto in questo colore. Ciò non signi ca che qui io veda il colore ocra, perché questa sostanza colorata, ambientata cosí, potrebbe apparire piú chiara, piú scura, piú rossiccia (eccetera) dell’ocra.

«Io vedo questo posto come l’ho dipinto qui, con il colore ocra;

cioè come un giallo che dà fortemente sul rosso».

Ma che dire se qualcuno volesse che io gl’indicassi l’esatta tonalità di colore che vedo in quel punto? – In che modo dovrei indicargliela, e in che modo dovrei determinarla? Si potrebbe chiedere che io produca un campione di colore (un rettangolino di carta di questo colore). Non dico che un confronto di questo genere sarebbe del tutto privo d’interesse:

esso però ci mostra che non è chiaro già n dal principio in qual modo si debbano confrontare le tonalità dei colori e che cosa signi chi «eguaglianza di colore».

60.

Immaginiamo un dipinto tagliato in pezzettini approssimativamente monocromatici, che poi vengano usati come le parti di un puzzle. Anche quando non è monocromatico, un pezzettino del genere non deve indicare nessuna forma spaziale, ma deve apparire semplicemente come una macchia colorata super ciale. Soltanto in connessione con gli altri esso diventa un pezzettino di cielo azzurro, un’ombra, un punto risplendente, trasparente od opaco, e cosí via. I singoli pezzi ci mostrano forse i colori autentici dei luoghi del quadro?

61.

Si è propensi a credere che l’analisi dei nostri concetti di colori conduca alla ne ai colori di luoghi del nostro campo

(31)

visivo, che ora sono indipendenti da ogni interpretazione spaziale o sica; infatti, qui non c’è né illuminazione, né ombra, né splendore, eccetera eccetera.

62.

Che io possa dire che questo luogo nel mio campo visivo è grigioverde, non signi ca che io sappia che nome si dovrebbe dare a una copia esatta della tonalità di questo colore.

63.

Su una fotogra a in bianco e nero vedo un uomo con i capelli scuri e un ragazzo con capelli biondi lisci e tirati all’indietro, di fronte a una specie di tornio, che in parte è fatto di parti fuse colorate in nero, in parte di rulli e d’ingranaggi levigati, e di altre cose; e accanto ad essi una grata di lo metallico zincato di color chiaro. Vedo color ferro le super ci ri nite, biondi i capelli del ragazzo, color zinco la grata, benché tutto ciò sia rappresentato dalle tonalità piú chiare e piú scure della carta fotogra ca.

64.

Ma vedo davvero biondi i capelli sulla fotogra a? E che cosa si può dire a sostegno di ciò? Quale reazione di chi guarda la fotogra a dovrebbe indicare che costui vede biondo, e non si limita semplicemente a inferire di veder biondo dalle tonalità della fotogra a? – Se mi chiedessero di descrivere questa fotogra a lo farei, nel modo piú diretto, con quelle parole. Se non si accettasse questo modo di descrizione, allora dovrei subito mettermi a cercarne un’altra.

65.

Se già la parola «biondo» può sonar bionda, quanto piú facilmente possono apparir biondi i capelli biondi della fotogra a!

66.

«Non si può immaginare che certi uomini abbiano una geometria dei colori diversa dalla nostra?» Questo vuol sicuramente dire: Non si possono immaginare uomini, che

(32)

abbiano concetti di colore diversi dai nostri? E ciò signi ca a sua volta: Non si possono immaginare uomini che non abbiano i nostri concetti di colore – e tuttavia abbiano concetti di colore che ai nostri concetti di colore siano imparentati in modo tale che noi li chiameremmo ancora «concetti di colore»?

67.

Guarda la tua camera a tarda sera, quando non si possono quasi piú distinguere i colori – e poi accendi la luce e dipingi ciò che hai visto prima, nella semioscurità. – Come sono i colori di un quadro di questo genere a confronto con quelli della stanza semibuia?

68.

Se ci chiedessero: «Che cosa signi cano le parole ‘rosso’,

‘blu’, ‘nero’, ‘bianco’?» potremmo di certo indicare immediatamente certe cose che hanno quei colori, – ma la nostra capacità di spiegare i signi cati di queste parole non va piú oltre! Del resto non ci facciamo nessuna rappresentazione [Vorstellung] del loro impiego, oppure ce ne facciamo una del tutto rozza e parzialmente falsa.

69.

Posso immaginarmi un logico che ci racconti che ora gli è riuscito di pensare effettivamente «2 + 2 = 4».

70.

La teoria goethiana della formazione dei colori dello spettro non è una teoria che si sia dimostrata insoddisfacente: per parlar propriamente non è affatto una teoria. Con essa non si può predire nulla. È piuttosto un vago schema concettuale [Denkschema] del genere di quello che si trova nella psicologia di James. Non c’è neanche nessun experimentum crucis che possa farci decidere in favore di questa teoria o contro essa.

71.

Chi sia d’accordo con Goethe, trova che Goethe ha riconosciuto correttamente la natura dei colori. E qui natura

(33)

non è ciò che procede dagli esperimenti; bensí risiede nel concetto di colore.

72.

Una cosa era incontestabilmente evidente per Goethe:

Dall’oscurità non si può mettere insieme nessuna chiarezza – proprio come dall’accumulare ombre su ombre non risulta nessuna luce. – E questo si potrebbe esprimere cosí: Se si chiama lilla un blu che dà sul bianco e sul rosso, o marrone un giallo che dà sul nero e sul rosso, allora non si può chiamar bianco un blu che dia sul giallo, sul rosso e sul verde, o qualche altra cosa del genere. Il bianco non è un colore intermedio tra altri colori. E questo gli esperimenti con lo spettro non possono né corroborarlo né confutarlo. Sarebbe però anche falso il dire:

«Guàrdati i colori soltanto quali sono in natura, e vedrai che cosí è». E infatti guardando non s’impara nulla sui concetti dei colori.

73.

Non posso immaginare che le osservazioni di Goethe sui caratteri dei colori e sulle combinazioni dei colori possano essere utili per un pittore; meno ancora per un decoratore. Il colore di un occhio arrossato potrebbe avere uno splendido effetto come colore d’una tappezzeria. Chi parla del carattere di un colore pensa con ciò, sempre e soltanto, a un determinato modo del suo impiego.

74.

Se per i colori esistesse una teoria dell’armonia questa dovrebbe incominciare con una ripartizione dei colori in gruppi, e dovrebbe vietare certe mescolanze o certi accostamenti di colori e permetterne altri. E come la teoria dell’armonia, non darebbe una fondazione [begründen] alle proprie regole.

75.

Possono esistere de cienti a cui non si può insegnare il concetto ‘domani’ o il concetto ‘io’, o come leggere l’ora.

Costoro non imparerebbero l’uso della parola ‘domani’ ecc.

(34)

Ora, a chi posso descrivere che cosa non possono imparare?

Non soltanto a uno che l’abbia imparato? Non posso forse dire ad A che B non può imparare la matematica superiore, anche se A non ne è padrone? Chi ha imparato il giuoco non comprende forse la parola «scacchi» in modo diverso da chi il giuoco non ha imparato? Tra l’impiego che quello può fare della parola e l’impiego che quest’altro ha imparato, ci sono differenze.

76.

Descrivere un giuoco signi ca sempre: dare una descrizione grazie alla quale lo si può imparare?

77.

Colui che ha una vita normale e colui che soffre di acromatopsia hanno il medesimo concetto di acromatopsia?

Un tizio che soffra di acromatopsia, non soltanto non può imparare le nostre parole per i colori cosí come impara ad impiegarle uno che i colori li veda normalmente, ma non può neanche imparare, nello stesso modo, la parola

«acromatopsia». Per esempio non può accertare l’acromatopsia nello stesso modo in cui può accettarla quell’altro.

78.

Potrebbero esistere uomini che non capissero il nostro modo di esprimerci: l’arancione è un giallo che dà sul rosso, e che pertanto fossero disposti a dire una cosa del genere soltanto quando vedessero davanti ai loro occhi una transizione di colore dal giallo al rosso attraverso l’arancione. E per costoro l’espressione «verde che dà sul rosso» non necessariamente presenterebbe difficoltà.

79.

La psicologia descrive i fenomeni del vedere. – A chi dà la descrizione? Quale ignoranza può eliminare, questa descrizione?

80.

La psicologia descrive ciò che è stato osservato.

(35)

81.

Si può descrivere a un cieco com’è quando uno vede? – Certamente. Un cieco impara alcune cose sulla differenza tra chi è cieco e chi vede. Ma la domanda era mal formulata: come se il vedere fosse un’attività e di tale attività esistesse una descrizione.

82.

Io posso certamente osservare l’acromatopsia; allora perché non posso osservare il vedere? – Posso osservare quali giudizi di colore enunci, in certe determinate circostanze, uno che soffra di acromatopsia, e posso anche osservare i giudizi che, in certe circostanze, enuncia uno che soffra di acromatopsia – o anche uno che i colori li veda normalmente.

83.

Talvolta si dice (anche se erroneamente): «Soltanto io posso sapere quello che vedo». Ma non si dice: «Soltanto io posso sapere se soffro di acromatopsia». (E neppure: «Soltanto io posso sapere se vedo o se sono cieco»).

84.

L’enunciato: «Vedo un cerchio rosso» e l’enunciato «Vedo (non sono cieco)», non sono della stessa specie logica. In qual modo si prova la verità del primo, in qual modo la verità del secondo?

85.

Ma posso creder di vedere, ed essere cieco, o credere di esser cieco, e vedere?

86.

In un trattato di psicologia potrebbe trovarsi la proposizione

«Esistono uomini che vedono»? Sarebbe falsa? Ma a chi si comunica qualcosa, qui?

87.

Come può essere insensato il dire: «Esistono uomini che vedono», quando non è insensato il dire: «Esistono uomini che

(36)

sono ciechi»?

88.

Ma supponiamo che io non abbia mai sentito parlare dell’esistenza di uomini ciechi e che un giorno qualcuno mi comunichi: «Esistono uomini che non vedono». Dovrei allora comprendere senz’altro questa proposizione? Se a mia volta io non sono cieco, devo essere consapevole di avere la facoltà del vedere, e dunque essere anche consapevole che possono esistere persone che non ce l’hanno?

89.

Se lo psicologo ci insegna: «Esistono uomini che vedono», allora possiamo chiedergli: «E che cosa chiami, tu, ‘uomini che vedono’»? A ciò si dovrebbe rispondere: «Uomini che, in queste e queste altre circostanze, si comportano in questo e in quest’altro modo».

1 Il manoscritto ha: «che dà sul verde» [N. d. C.].

2 Nel testo: «in tedesco».

3 Cfr. Ricerche filosofiche, a cura di Mario Trinchero, Torino 1967, § 583.

(37)

II.

1.

Si potrebbe parlare dell’impressione di colore che ci dà una super cie e con ciò intendere, non già i colori, ma quell’insieme delle tonalità dei colori, che ci dà l’impressione di una macchia (per esempio) marrone.

2.

Mescolando del bianco a un colore gli si toglie ciò che in esso vi è di colorato [das Farbige]. Questo invece non accade se gli si mescola del giallo. – È questo il fondamento della proposizione che non può esistere un bianco limpido e trasparente?

3.

Ma che proposizione è mai questa: che la mescolanza con il bianco toglie al colore ciò che in esso vi è di colorato?

Cosí come l’intendo io non può essere una proposizione della sica.

Qui la tentazione di credere a una fenomenologia, a una cosa che sta a mezzo tra la scienza e la logica, è molto grande.

4.

Qual è dunque l’essenziale della torbidezza? Infatti ciò che è trasparente, rosso o giallo, non è torbido. Torbido è il bianco.

5.

Torbido è ciò che vela le forme, e vela le forme perché cancella luce e ombre?

(38)

6.

Bianco non è ciò che toglie via l’oscurità?

7.

Si parla bensí di ‘vetro nero’; ma chi vede una super cie bianca attraverso un vetro rosso, la vede rossa; chi la vede attraverso un vetro nero non la vede nera.

8.

Per veder chiaro ci si serve spesso di lenti colorate; non però di lenti torbide.

9.

«Mescolando il bianco a un certo colore si oblitera la differenza tra chiaro e scuro, tra luce ed ombra»: questo dà forse una piú stretta determinazione del concetto? Credo di sí.

10.

Chi non trovasse che è cosí non avrebbe l’esperienza opposta; ma noi non lo capiremmo.

11.

In loso a si deve sempre chiedere: «Come si deve guardare a questo problema, perché diventi risolubile?»

12.

Infatti qui (per esempio quando prendo in considerazione i colori) c’è soltanto un’incapacità di mettere un qualsiasi ordine tra i concetti.

Stiamo lí, come il bue di fronte alla porta della stalla che sia stata dipinta con un nuovo colore.

13.

Pensa a come un pittore rappresenterebbe la trasparenza attraverso un vetro colorato in rosso. Ciò che ne risulta è la complicata immagine di una super cie. Cioè: l’immagine conterrà un gran numero di gradazioni di rosso e di altri colori, messe l’una accanto all’altra. E analogamente se si guardasse attraverso un vetro blu.

(39)

Ma che dire, se si dipingesse un quadro in cui là dove una certa cosa, che prima dava sull’azzurro o sul rosso, ora desse sul bianco?

14.

La differenza sta forse tutta qui: che, con una luce che dà sul rosso, i colori non perderebbero la loro saturazione [Sattheit], e invece la perderebbero con una luce che dà sul bianco?

Già, non si parla proprio per nulla di una ‘luce che dà sul bianco’!

15.

Se sotto una certa illuminazione tutto sembrasse dar sul bianco, noi non concluderemmo che la fonte luminosa deve apparire bianca.

16.

L’analisi fenomenologica (come per esempio la voleva Goethe) è un’analisi concettuale, e non può né concordare con la sica né contraddirla.

17.

Che dire se da qualche parte accadesse cosí: la luce di un corpo al calor bianco fa apparire le cose chiare ma biancastre, e dunque colorate debolmente, la luce di un corpo al calor rosso le fa apparire rossastre, e via discorrendo? (Soltanto una fonte luminosa invisibile, non percepibile all’occhio, le lascerebbe rilucere dei loro colori).

18.

Sí, supponiamo che le cose rilucessero dei loro colori soltanto quando, nel nostro senso, su di esse non cadesse nessuna luce; quando, per esempio, il cielo fosse nero. Non si potrebbe dire allora: Soltanto sotto una luce nera ci appaiono i colori pieni?

19.

Ma qui non ci sarebbe una contraddizione?

(40)

20.

Io non vedo che i colori dei corpi ri ettano luce nel mio occhio.

(41)

1.

4.

III.

24/3/50.

In un quadro il bianco dev’essere il colore piú chiaro?

2.

Nel tricolore [francese], per esempio, il bianco non può essere piú scuro del blu e del rosso.

3.

Qui c’è una specie di matematica del colore.

26/3.

Ma anche il giallo puro è piú chiaro del rosso puro saturo o del blu puro saturo. E questa è una proposizione dell’esperienza? – Per esempio, io non so se il rosso (cioè, il rosso puro) sia piú chiaro o piú scuro del blu. Per poterlo dire dovrei vederlo. E tuttavia se l’avessi visto lo saprei una volta per tutte, cosí come so una volta per tutte il risultato di un calcolo.

Dove si distinguono, qui, logica ed esperienza (empiria)?

5.

La parola, il cui signi cato non è chiaro, è «puro» o

«saturo». Come impariamo questo signi cato? Come si fa a vedere che con queste parole gli uomini intendono la stessa cosa? Dico che un colore (per esempio il rosso) è «saturo», se non contiene né il nero né il bianco, e non dà sul nero né sul bianco.

Ma questa de nizione serve soltanto per una comprensione provvisoria.

(42)

6.

Che importanza ha il concetto di colore saturo?

7.

Un dato di fatto è qui chiaramente importante: il fatto, cioè, che gli uomini concedono una posizione particolare e privilegiata a una posizione nel cerchio dei colori. Il fatto che non debbano far fatica per tenere a mente questo punto, ma tutti possano sempre ritrovare facilmente il medesimo punto.

8.

Esiste una ‘storia naturale dei colori’, e no a qual punto essa è analoga a una storia naturale delle piante? Non è forse, questa, temporale, quella atemporale?

9.

Quando diciamo che «il giallo saturo è piú chiaro del blu saturo» non è una proposizione della psicologia (perché soltanto cosí, potrebbe essere storia naturale) – questo signi ca:

noi non la impieghiamo come proposizione della storia naturale; e allora la questione è: che aspetto ha l’altro impiego, quello atemporale?

10.

Soltanto cosí, infatti, la proposizione della ‘matematica dei colori’ si può distinguere dalle proposizioni della storia naturale.

11.

Oppure, anche: la questione è: si possono qui distinguere (chiaramente) due impieghi?

12.

Se ti sei impresse in mente due tonalità di colore, A e B, e A è piú chiaro di B, e poi chiami A una tonalità di colore, e B un’altra, ma questa è piú chiara di quella, allora hai dato nomi sbagliati alle tonalità di colore. (Questo è logica).

13.

(43)

Il concetto di colore ‘saturo’ sia di una specie tale che l’X saturo non possa essere ora piú chiaro ora piú scuro dell’Y saturo; cioè sia tale che non abbia senso il dire che sia una volta piú chiaro e un’altra volta piú scuro. Questa è una determinazione concettuale e appartiene ancora alla logica.

Se un concetto determinato cosí sia utile o non lo sia, non si decide qui.

14.

Questo concetto potrebbe avere soltanto un impiego molto limitato. E precisamente per questa ragione: che quello che di solito chiamiamo un X saturo è un’impressione di colore all’interno di un determinato ambiente. Si può confrontare con l’X ‘trasparente’.

15.

Dà alcuni esempi di semplici giuochi linguistici con il concetto di ‘colore saturo’!

16.

Suppongo che certi composti chimici, per esempio i sali di un determinato acido, abbiano colori saturi e possano essere riconosciuti da ciò.

17.

Oppure suppongo che dalla saturazione dei loro colori sia possibile indovinare il luogo di provenienza di certi ori.

Cosicché, per esempio, si possa dire: «Questo dev’essere un ore alpino, perché il suo colore è cosí intenso».

18.

In un caso del genere potrebbe però esserci un rosso saturo piú chiaro e un rosso saturo piú scuro, eccetera.

19.

E non devo ammettere che certe proposizioni siano spesso usate ai limiti tra logica ed empiria, cosicché il loro senso venga a trovarsi ora al di qua e ora al di là di questo con ne, ed esse

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