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Capitolo 3

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Academic year: 2021

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Capitolo 3

La disfunzione del microcircolo coronarico

Il ruolo della placca aterosclerotica nella patogenesi della cardiopatia ischemica è stato ampiamente studiato e compreso; la stenosi che essa provoca è senza alcun dubbio responsabile di tutte le sue manifestazioni cliniche, dall’angina pectoris all’infarto miocardico acuto, dall’ischemia cronica alla morte improvvisa coronarica. Di fronte a questa evidenza la terapia cardiologica degli ultimi 40 anni si è concentrata fondamentalmente su due tipi di approcci. Da un lato la cura della malattia di fondo, l’aterosclerosi, aggredendo i suoi principali fattori di rischio, quelli cosiddetti “modificabili”, quali l’ipertensione, l’ipercolesterolemia, il diabete, il fumo di sigaretta, l’obesità e così via. Dall’altro lato la terapia dell’epifenomeno dell’aterosclerosi, cioè la placca fibrolipidica dell’arteria coronaria epicardica determinante una stenosi emodinamicamente significativa. Le strategie interventistiche di rivascolarizzazione prevedono o l’approccio chirurgico, riperfondendo con by-pass aorto-coronarico il territorio a valle di una stenosi, o la disostruzione meccanica mediante angioplastica ed eventualmente l’applicazione di uno stent metallico.

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Negli ultimi 20 anni, tuttavia, un cospicuo numero di studi ha chiarito come, oltre alla patologia delle grosse arterie, bersaglio preferenziale dell’aterosclerosi, in diverse condizioni cliniche è presente anche una disfunzione del microcircolo coronarico, ovvero di quella sezione dell’albero arterioso a livello miocardico responsabile della quasi totalità delle resistenze e della fine regolazione dell’equilibrio tra domanda e rifornimento di ossigeno e nutrienti alle cellule.

Vediamo dapprima con quali tecniche è attualmente possibile studiare il distretto microvascolare, e, successivamente, passeremo in rassegna in quali condizioni cliniche è presente una sua disfunzione, concentrando da ultimo la nostra attenzione sulla Cardiomiopatia Dilatativa.

Valutazione in vivo della funzione microcircolatoria

Dal momento che nell’uomo nessuna tecnica consente la visualizzazione diretta del microcircolo coronarico, la sua valutazione si basa su parametri che riflettono il suo stato funzionale, come la misurazione del flusso miocardico e quella della riserva coronarica, definita come il rapporto tra il flusso miocardico durante vasodilatazione massima indotta farmacologicamente e quello basale. La riserva coronarica è influenzata dalla reattività vascolare sia delle arterie coronariche epicardiche che del microcircolo e costituisce un parametro indiretto per la valutazione della funzione della circolazione coronarica. In assenza di stenosi ostruttive a livello delle arterie epicardiche, una ridotta riserva coronarica rappresenta un marker di disfunzione microvascolare coronarica, sebbene sia difficile definire un valore cut-off dal momento che, persino in soggetti normali, il valore di riserva varia da persona a persona e a seconda dell’età e del sesso. In presenza di una stenosi a livello epicardio, invece, la sua misurazione è condizionata dall’ostruzione stessa a monte, rendendo difficile una corretta interpretazione della funzione microcircolatoria.

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Diverse tecniche, tra cui l’uso di una sonda Doppler intracoronarica, la termodiluizione del seno coronarico, l’uso dello score TIMI (Thrombolisis in Myocardial Infarction) (Kauffmann et al, 2005; Gibson et al, 2000) possono esser utili nella valutazione della funzione microcircolatoria nell’uomo. Esse tuttavia sono metodiche invasive e presentano perciò forti limitazioni.

Il gold standard delle tecniche non invasive è senza dubbio rappresentato dalla tomografia ad emissione di positroni (PET) (Kauffmann et al, 2005). Diversi traccianti possono esser usati per la quantificazione del flusso miocardico, tra cui quelli attualmente di maggior diffusione sono l’acqua marcata con 15O (H215O),

l’ammoniaca marcata con 13N (13NH3) e l’82Rb. La quantificazione della per fusione

miocardica mediante questi traccianti è stata validata in modelli animali confrontandola con la tecnica delle microsfere radiomarcate (Kotzerke et al, 1991). Grazie a questi traccianti e a sofisticati sistemi di elaborazione del segnale, è possibile definire in condizioni basali e dopo stress farmacologico (principalmente dipiridamolo o adenosina) il flusso miocardico specifico in termini di millilitri al minuto per grammo di tessuto. Recentemente, Chareonthaitawee el al (2001) hanno studiato il range di flusso miocardico a riposo e in condizioni di iperemia in soggetti sani di età compresa tra i 21 e gli 86 anni. Malgrado i valori variino entro un ampio range sia dal punto di vista interindividuale che nello stesso individuo in momenti diversi, dai loro dati si deduce che il flusso basale del cuore sano si attesta intorno a 0,98±0,23 ml/min/g (range variabile da 0,59 a 2,05) e durante stress farmacologico con adenosina o dipidiramolo intorno a 3,77±0,85 (range da 1,85 a 5,99 ml/min/g).

Studi recenti hanno dimostrato che mediante risonanza magnetica nucleare è possibile la quantificazione della riserva coronarica regionale (Jerosch-Herold et al, 1998), così come con l’eco-Doppler transtoracico durante infusione endovenosa è possibile la misurazione dell flusso a livello dell’arteria discendente anteriore e la perfusione miocardica (Hozumi et al, 1998). L’utilità di queste due tecniche, in prospettiva futura, oltre alla mancanza di invasività, è data dal grosso vantaggio, al contrario della PET, di non usare traccianti radioattivi. Tuttavia, al momento, la tomografia ad emissione di positroni rappresenta le tecnica d’elezione per la quantificazione del flusso miocardico.

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Disfunzione microcircolatoria in condizioni patologiche

La disfunzione del microcircolo coronarico è una condizione riconosciuta ormai in una varietà diffusa di malattie cardiovascolari. Sebbene la sua importanza ancora fatichi a penetrare nell’approccio alla fisiopatologia delle malattie cardiovascolari, negli ultimi 20 anni è avvenuta un’esplosione di studi al riguardo, e questo, oltre al crescente interesse intorno al ruolo del microcircolo nella fisiopatologia coronarica, è in gran parte derivato dalla possibilità fornita dalla tecnologia di misurare il reale flusso di sangue che arriva al tessuto miocardico.

Vediamo quali sono le condizioni patologiche in cui è stata documentata la disfunzione microcircolatoria.

Ipercolesterolemia

L’ ipercolesterolemia generalmente non produce ispessimento intimale o formazione di placche aterosclerotiche a livello dei microvasi coronarici. Tuttavia, è noto che anormalità funzionali si estendono a livello microcircolatorio (Sellke et al, 1990; Chilian et al, 1990). In particolare la presenza di disfunzione endoteliale è stata dimostrata in diversi modelli animali e indipendentemente dal modello sperimentale o dalla modalità di induzione di ipercolesterolemia (Komaru et al, 2000). Studi nell’uomo in cui è stata studiata la funzione microvascolare in condizioni di ipercolesterolemia o aterosclerosi mediante quantificazione della perfusione miocardica hanno rilevato una riduzione dell’incremento di flusso in risposta ad Ach, 5-HT, sostanza P e pacing cardiaco (Zeiher et al, 1991, Golino et al, 1991; Quyyumi et al 1997) ed è stato altresì evidenziato un miglioramento della funzione microvascolare dopo normalizzazione dei livelli di colesterolo sia nel modello animale (Lamping et al, 1994) che nell’uomo (Egashira et al, 1994).

I meccanismi alla base della disfunzione del microcircolo nell’iperlipidemia sono probabilmente molteplici. Sebbene nei pazienti ipercolesterolemici sia stata

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dimostrata una ridotta liberazione di EDHF (Urakami et al, 1997), sono state maggiormente studiate le alterazioni della via dell’ossido nitrico. I possibili meccanismi per un suo coinvolgimento nella disfunzione microcircolataoria coronarica includono la mancanza di substrato, la ridotta espressione di eNOS, il blocco della via di trasduzione dell’ NO e la sua aumentata degradazione.

La mancanza di substrato nell’ipercolesterolemia è stata dimostrata sia in modelli animali che nell’uomo, dal momento che la somministrazione di L-arginina ristabilisce le funzioni endoteliali a livello delle arterie di resistenza (Kuo et al, 1992). Una delle ipotesi è che la L-arginina in eccesso superi l’effetto della dimetilarginina asimmetrica (ADMA), un inibitore competitivo endogeno della NOS.

Nell’aterosclerosi avanzata è stato dimostrato una down-regulation della eNOS a livello delle grosse arterie (Wilcox et al, 1997), ma la sua espressione a livello microcircolatorio non è stata ancora studiata.

Gli studi sui letti vascolari periferici condotti da Gilligan et al (1994) su pazienti aterosclerotici hanno suggerito un problema nella via di traduzione del segnale che coinvolge l’espressione di proteine Gi. Le lipoproteine a bassa densità

(LDL) e l’aterosclerosi stessa infatti inibiscono l’espressione delle proteine Gi a livello dell’endotelio vascolare (Liao et al, 1994), probabilmente mediante un meccanismo post-trascrizionale, dal momento che la somministrazione di mevalonato, un precursore degli isoprenoidi, normalizza la sua espressione. Anche i cambiamenti di fluidità di membrana presenti nella condizione di ipercolesterolemia possono alterare la funzione delle proteine G.

Infine, è noto che la degradazione dell’NO da parte dell’anione superossido è coinvolta nella disfunzione endoteliale nelle grosse arterie aterosclerotiche e che la sua produzione è aumentata negli stati ipercolesterolemici (Ohara et al, 1993). E’ probabile che un fenomeno simile avvenga a livello microvascolare. La riduzione della dilatazione endotelio-dipendente in risposta alla bradichinina nei microvasi isolati coronarici nel modello suino ipercolesterolemico suggerisce che la disfunzione avvenga distalmente. (Sellke et al, 1990). In aggiunta all’aumentata produzione di superossido, la suscettibilità dei tessuti vascolari al danno ossidativo è

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probabilmente influenzata anche dall’inefficienza dei meccanismi di detossificazione mediati dal glutatione sul perossinitrito (Ma et al, 1997).

Diabete mellito

Sebbene l’aumentato rischio di malattia aterosclerotica coronarica nel diabete possa essere in parte spiegato dalla presenza dei fattori di rischio associati al diabete stesso, come ipertensione, dislipidemia ed obesità, è conosciuto anche un effetto diretto sulla funzione endoteliale dell’iperglicemia cronica e l’aumento dei fenomeni vasocostrittori e protrombotici (Di Carli et al, 2003).

Le modificazioni strutturali dei microvasi coronarici nel diabete includono l’ispessimento della parete arteriolare, la fibrosi perivascolare, gli aneurismi capillari, e una diminuzione della densità dei capillari (Factor et al, 1980; Sutherland et al, 1989; Yarom et al, 1992). Queste alterazioni determinano una ridotta riserva coronarica ed un incremento di flusso metabolicamente mediato in risposta al pacing cardiaco nei pazienti diabetici (Durante et al, 1989; Nahser et al, 1995). Kersten et al (1995) hanno dimostrato che la dilatazione microvascolare in risposta ad una bassa pressione di perfusione è ridotta nel diabete. L’aumento del flusso coronarico indotto dall’Ach è inferiore al normale sia nel modello diabetico animale (Matsunaga et al, 1996) che nell’uomo (Nitemberg et al, 1993), il che è indice proprio di riduzione della capacità vasodilatatoria mediata dall’NO a livello microvascolare. Tra gli altri possibili meccanismi si annoverano la produzione di prostanoidi vasoattivi, come il TXA2 e la prostaglandina H2 (Tesfamariam et al,

1990), specie reattive dell’ossigeno (Langestroer et al, 1990), così come i prodotti di glicosilazione avanzata (Bucala et al, 1991).

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Ipertensione

L’ipertensione determina modificazioni a livello microvascolare coronarico sia dal punto di vista strutturale che funzionale. Tra i primi si ricordano l’ipertrofia miocardica, l’aumento del rapporto tra spessore parietale e diametro luminale per ispessimento della tunica media, la ridotta densità capillare e la fibrosi perivascolare (Tanaka et al, 1987; Vitullo et al, 1993). Sebbene alcuni di questi meccanismi abbiano almeno in parte un ruolo di tipo adattativo (come l’ispessimento mediale in risposta ad un’aumentata pressione endoluminale è finalizzato alla diminuzione della tensione parietale), tali alterazioni vascolari cosituiscono d’altro canto anche fattori decisivi nella riduzione della capacità vasodilatatoria (Scwartzkopff et al, 1993). Le misurazioni in vivo delle pressioni a livello microvascolare del modello di gatto hanno dimostrato che le resistenze a livello dei microvasi di diametro inferiore ai 150 μm sono circa doppie negli ipertesi rispetto ad un gruppo di controllo, mentre non presentano differenze significative nei vasi di maggiori dimensioni (Kanatsuka et al, 1991).

L’espressione della eNOS nei cuori di soggetti ipertesi è controversa. Nava et al (1992) hanno riscontrato un’aumentata attività a livello miocardico e nelle arteriole mesenteriche di ratti ipertesi; in contrasto, nello stesso modello, studi di immunoistochimica hanno evidenziato ridotti livelli di eNOS (Crabos et al, 1997). E’ probabile che la degradazione dell’ossido nitrico da parte di specie reattive dell’ossigeno giochi un ruolo centrale nella disfunzione endoteliale microvascolare visto l’elevato stress ossidativo in modelli animali di ipertensione. Suzuki et al (1998) hanno dimostrato che la xantina ossidasi è una probabile fonte di radicali dell’ossigeno, che potrebbero esser responsabili dell’aumentato tono arteriolare nel modello di ratto spontaneamente iperteso. L’attivazione della NADH/NADPH ossidasi è un altro meccanismo della produzione di superossido nel modulare il tono arteriolare (Rajiagolapan et al, 1996). Del resto nell’ipertensione stessa si ha un’aumentata produzione di anioni superossido a livello microcircolatorio, il che attenua la dilatazione endotelio-dipendente flusso-indotta e mediata da specifici agonisti ed è noto che gli scavenger dei radicali normalizzano la funzione

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microvascolare (Huang et al, 1998). Questi dati indicano che le specie radicaliche dell’ossigeno sono coinvolte in modo critico nella patogenesi della disfunzione microvascolare nell’ipertensione.

Nella condizione di ridotta biodisponibilità di NO, l’EDHF potrebbe agire da meccanismo compensatorio, tant’è che Gauthier-Rein et al (1998) hanno dimostrato che nei ratti ipertesi la risposta vasodilatatoria all’Ach è mantenuta e che essa è mediata da prodotti del citocromo P450. Quanto il sistema dell’EDHF riesca a compensare o se sia anch’esso alterato nell’ipertensione deve ancora esser studiato.

Fumo di sigaretta

Il fumo di sigaretta è un noto fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, ed induce alterazioni sia sulla circolazione coronarica che su quella periferica. Infatti la presenza di disfunzione endoteliale è stata dimostrata a livello coronarico (Zeiher et al, 1995), nell’arteria brachiale nei fumatori cronici (Celermayer et al, 1996) e persino nei fumatori passivi (Sumisa H et al, 1998).

Dal momento che esso contiene un grande numero di sostanze ossidanti, è probabile che i suoi meccanismi patogenetici nell’ambito delle malattie cardiovascolari siano almeno in parte dovuti al danno ossidativo sull’endotelio. Kauffmann et al (2000) hanno dimostrato, mediante studi PET, che la somministrazione a breve termine di acido ascorbico (vitamina C) fa regredire quasi completamente la disfunzione microcircolatoria nei fumatori lievi. Sono diverse le sostanze contenute nel fumo di sigaretta chiamate in causa nel determinare un aumento dello stress ossidativo. Ricordiamo qui l’elevata concentrazione di chinoni lipofilici che determinano la produzione del radicale idroperossido; il già citato anione superossido, che, reagendo con l’NO, porta alla formazione dell’anione perossinitrito, dotato di elevata capacità citotossica; inoltre, questi ossidanti aumentano la frazione di LDL ossidate, marcatamente più efficaci delle native nel causare disfunzione endoteliale e microcircolatoria attraverso la riduzione della sintesi di ossido nitrico (Hein et al, 1999)

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Angina microvascolare (sindrome X)

Pazienti senza evidenza di placche aterosclerotiche ostruttive e malattie miocardiche possono presentare dolori di tipo anginoso, condizione genericamente definite come syndrome X. L’ipotesi che questo dolore sia di origine ischemica è basata sulla presenza della depressione del tratto ST all’elettrocardiogramma eseguito in presenza di dolore cardiaco insorto spontaneamente o durante sforzo fisico, così come sulla documentazione di difetti di perfusione reversibili indotti in condizioni di stress. Sebbene non ci sia unanimità in letteratura nell’affermare la presenza di riduzione della riserva coronarica nei pazienti affetti da sindrome X, la formazione di lipoperossidi durante stress cronotropo a 160 battiti/minuto, come riportato da Buffon et al (2000), fa pensare che questi soggetti vadano incontro a veri e propri fenomeni ischemici per la presenza di una disfunzione del microcircolo, che del resto è dimostrata dalla riduzione della vasodilatazione coronarica sia endotelio-dipendente che endotelio-indipendente (Chauan et al, 2000). L’assenza di difetti della cinesi parietale potrebbe esser spiegato, secondo l’ipotesi di Maseri (1991), per la presenza di ischemia in regioni limitate del miocardio, capaci di scatenare il sintomo dolore e di determinare il sottoslivellamento del tratto ST senza alterare la cinesi regionale.

Stenosi aortica

Lo sviluppo dell’ipertrofia del ventricolo sinistro in pazienti con stenosi aortica rappresenta una risposta adattava delle pareti cardiache all’aumentato post-carico, nel tentativo, secondo la legge di Laplace, di ridurre la tensione parietale. I processi associati all’ispessimento parietale influenzano anche la funzione microcircolatoria, come testimoniato dalla presenza di un ridotto flusso basale e di ridotta riserva coronarica, in assenza di lesioni delle coronarie epicardiche (Marcus et al, 1987). Tali modificazioni sono principalmente mediate da forze fisiche, le principali delle quali sono l’elevata pressione ventricolare e la bassa pressione di per

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fusione. Tali conseguenze sulla funzione microcircolatoria stanno alla base dell’angina, sintomo tipico della stenosi aortica, scatenato da un’ischemia che si localizza più facilmente a livello subendocardico. Con ogni probabilità la disfunzione microcircolatoria è uno dei fattori che facilita l’evoluzione, rapida se il paziente è sintomatico, verso la disfunzione contrattile e lo scompenso cardiaco.

Malattia aterosclerotica coronarica

La disfunzione del microcircolo, proprio perché esso è il reale responsabile della quantità di sangue, e in particolare di ossigeno e nutrienti, che arriva alle cellule, ha un ruolo fondamentale anche nella malattia stenotica occlusiva delle arterie coronariche epicardiche, in condizioni come l’angina stabile e l’infarto miocardico acuto.

Diversi studi hanno documentato un’anormale riserva coronarica in pazienti con malattia di un singolo vaso coronarico e normale funzione ventricolare mediante misurazione PET del flusso miocardico basale (Gimelli et al, 1994; Pupita et al, 1990)); questo fenomeno, tuttavia, non è solamente presente nel territorio a valle di una stenosi, ma anche a livello di regioni normalmente contrattili ed irrorate da coronarie angiograficamente normali (Sambuceti et al, 1993; Di Carli et al, 1995). E’ possibile che l’aterosclerosi dei grossi vasi epicardici sia preceduta o esiti nella disfunzione endoteliale, che potrebbe esser responsabile della ridotta riserva coronarica prima che la placca inizi a ridurre l’area luminale del vaso (Zeiher et al, 1991). La riduzione dello shear stress conseguente alla riduzione del flusso per le aumentate resistenze a valle potrebbe esser uno dei fattori facilitanti l’insorgenza e la progressione della placca a livello delle coronarie epicardiche.

La disfunzione microvascolare coronarica distale ad una stenosi critica potrebbe esser dovuta da un lato all’inappropriata dilatazione prearteriolare a livello subepicardico in presenza di un aumentato consumo miocardico di ossigeno, il che porterebbe ad uno shunt ematico verso le zone subepicardiche limitando il flusso subendocardico; dall’altro lato potrebbe sussistere una condizione di vasocostrizione arteriolare e prearteriolare, come suggerito dall’aumento delle resistenze coronariche

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durante pacing striale (Sambuceti et al, 1994), finalizzato al mantenimento di un’adeguata pressione di perfusione in altre zone ma che, per il fenomeno del de-recruitment capillare, potrebbe peggiorare l’afflusso di sangue.

La disfunzione microvascolare coronarica ha un ruolo importante anche nel determinare la severità dell’ischemia miocardica a valle di una stenosi critica. Marzilli et al (2002) hanno scoperto che nei pazienti affetti da angina pectoris gli episodi di ischemia transitoria si verificavano in presenza di un brusco aumento delle resistenze microvascolari e a fenomeni di attivazione piastrinica, come dimostrato dalla loro riduzione in numero ed intensità mediante prevenzione con farmaci antiaggreganti. La disfunzione microvascolare era inoltre associata a fenomeni infiammatori, dal momento che essi presentano livelli elevati di proteina C reattiva in circolo (Tomai et al, 2005).

Nei pazienti con infarto miocardico acuto, a breve distanza dall’evento, si verifica talora una riduzione del flusso basale tale da determinare ipocinesia regionale anche in zone lontane dall’area colpita e irrorata da coronarie angiograficamente normal. Dato che sia la disfunzione microvascolare sia la cinesi regionale vengono ristabilite dalla somministrazione di alfa-bloccanti, è verosimile che sia l’iperattivazione simpatica responsabile di tale fenomeno (Gregorini et al, 1999).

La disfunzione microvascolare nell’ambito dell’infarto miocardico acuto è responsabile anche del cosiddetto fenomeno del “no-reflow” a carico del territorio perfuso da un’arteria ricanalizzata, ovvero della mancanza di pervietà a livello microvascolare malgrado la disostruzione della stenosi a monte. La patogenesi di questo fenomeno è multifattoriale. In alcuni casi è dovuta ad una vera e propria mancanza dell’integrità strutturale del microcircolo, che si trova nell’ambito di un tessuto già necrotico; in altri è presente una vasocostrizione paradossa dovuta alla perdita della capacità vasodilatatoria endotelio-dipendente, dell’ipertono simpatico o alla compressione esterna in seguito all’edema interstiziale; in altri ancora, un’embolizzazione distale del materiale trombotico precedentemente responsabile dell’occlusione a livello dell’arteria epicardica. E’ stato inoltre dimostrato che la

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presenza del fenomeno del no-reflow si associa ad una peggior prognosi e che il danno microvascolare favorice il rimodellamento cardiaco (Ito et al, 1996).

Cardiomiopatia Ipertrofica

La Cardiomiopatia Ipertrofica è una malattia geneticamente determinata con diverse manifestazioni cliniche e substrati fisiopatologici. La disfunzione microcircolatoria in tale malattia riflette l’interazione di diversi fattori, tra cui la ridotta densità arteriolare, la fibrosi, il “disarray” dei miociti e l’elevata pressione telediastolica del ventricolo sinistro. Tuttavia essa è presente fin dall’inizio della malattia e non rappresenta un fenomeno tardivo (Chodhuri et al, 1997).

L’impossibilità da parte del flusso miocardico di aumentare adeguatamente alla domanda predispone i pazienti all’ischemia miocardica, in quanto essa è stato dimostrato esser coinvolta nell’anormale risposta pressoria all’esercizio fisico (e quindi nella patogenesi della sincope), nella disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e nella morte improvvisa (Pasternac et al, 1999).

Cecchi et al (2003) hanno quantificato il flusso miocardico mediante tomografia ad emissione di positroni in una popolazione di pazienti affetti da Cardiomiopatia Ipertrofica. In condizioni basali non c’era differenza significativa tra i valori di flusso rispetto ad un gruppo di normali, mentre la risposta al dipiridamolo evidenziava livelli di flusso significativamente inferiori nei pazienti rispetto ai normali, con una riserva coronarica nettamente inferiore nei primi rispetto ai secondi. In termini prognostici, durante un follow up di oltre otto anni, il 31% dei pazienti andava incontro a morte o ad una grave peggioramento delle condizioni di salute, e la misurazione del flusso miocardico da dipiridamolo risultava essere, all’analisi multivariata, il più potente fattore prognostico.

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Disfunzione del microcircolo coronarico nella Cardiomiopatia

Dilatativa

I meccanismi patogenetici di tipo tossico, genetico, virale e autoimmunitario analizzati nel capitolo 1 possono esser considerati la causa principale dell’insorgenza di Cardiomiopatia Dilatativa solamente nella minoranza di pazienti nei quali ci sia la storia di alcolismo, una chiara aggregazione familiare o la presenza di una determinata mutazione genetica, o nei quali sia stata documentata una miocardite virale. Tuttavia, in questi pazienti i medesimi fattori causali non spiegano in modo esauriente l’incremento della dilatazione nel tempo e la progressione dell’insufficienza cardiaca. E’ chiaro quindi che altri meccanismi sono coinvolti nella genesi della malattia e nella sua evoluzione.

Tra di essi negli ultimi 15 anni la disfunzione del microcircolo coronarico si è conquistata un ruolo sempre più importante Quest’ipotesi nasce da comuni osservazioni cliniche, come ad esempio dal fatto che spesso i cardiomiopatici giungono all’attenzione del medico per una sintomatologia anginosa o per l’insorgenza di aritmie ventricolari prima dell’evoluzione verso lo scompenso. All’esame ecocardiografico presentano talora anomalie della cinesi ventricolare oppure risultano positivi alla scintigrafia da perfusione durante stress fisico o farmacologico, e a volte anche in condizioni di riposo. Dal momento che all’esame angiografico le arterie coronarie risultano indenni da lesioni emodinamicamente significative, essi finiscono così nel rientrare nel gruppo dei “falsi positivi” dell’esame scintigrafico.

In realtà, in presenza di coronarie sane e riduzione del flusso dovuta ad un aumento delle resistenze del microcircolo coronarico, con le comuni metodiche di imaging scintigrafico si possono avere alterazioni di perfusione difficilmente distinguibili da quelle ischemiche “classiche”. Parodi et al (1993) hanno infatti dimostrato che nei cuori espiantati di pazienti trapiantati i valori di flusso assoluto, espressi in millilitri al minuto per grammo di tessuto, erano simili nei casi di

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scompenso da CMD rispetto ai pazienti ischemici, e in entrambi i gruppi la riduzione del flusso era indipendente dall’entità della fibrosi.

I meccanismi dell’alterazione della componente microvascolare coronarica possono esser sia strutturali che funzionali. In presenza di grave dilatazione e disfunzione ventricolare si possono chiamare in causa fattori extravascolari, come l’incremento della massa miocardica e la riduzione della densità capillare, oppure l’aumento della pressione telediastolica e conseguentemente dello stress parietale (Inoue et al, 1993). Inoltre, la funzione contrattile può determinare una minor richiesta energetica e un abbassamento del flusso miocardico a riposo (Weiss et al, 1976).

La valutazione della funzione microcircolatoria in stadi avanzati della malattia potrebbe indurre a pensare che la riduzione del flusso miocardico sia un fenomeno tardivo nel decorso della malattia, e in tal caso una possibile spiegazione potrebbe essere che i determinanti della riduzione del flusso siano principalmente fattori extravascolari, quali il ridotto numero di capillari per unità di massa e l’aumentato stress parietale. Tuttavia Parodi et al (1993), nei cuori espiantati per trapianto cardiaco, non hanno trovato, come atteso se le forze extravascolari fossero l’unico meccanismo coinvolto, una significativa differenza transmurale tra i valori di flusso a livello subendocardico rispetto a quelli del tessuto subepicardico. Neglia et al (1995) hanno valutato il flusso miocardico basale in condizioni di riposo e durante somministrazione di dipiridamolo in una popolazione di pazienti affetti da Cardiomiopatia Dilatativa in fase precoce (classe NYHA 1 o 2). Ebbene, anche nei casi caratterizzati da funzione contrattile parzialmente conservata modesta dilatazione camerale era presente una riduzione di flusso miocardico sia basalmente che durante stress farmacologico, con riserva coronarica significativamente inferiore rispetto alla popolazione di controllo. Inoltre non si trovavano correlazioni significative tra flusso miocardico e frazione d’eiezione, stress parietale del ventricolo sinistro e doppio prodotto. Si deduce quindi la validità dell’ipotesi che l’alterazione funzionale dei microvasi coronarici potrebbe essere uno dei meccanismi patogenetici responsabili fin dall’inizio dell’aumento delle resistenze coronariche e della ridotta perfusione miocardica in questa malattia.

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La disfunzione microcircolatoria assume un importante ruolo anche in termini prognostici. In uno studio con un follow up medio di circa 4 anni su pazienti con gradi differenti di disfunzione sistolica e dilatazione ventricolare, la riduzione del flusso miocardico basale risultava essere uno dei fattori che correla in modo stretto con l’aggravamento dello scompenso e con la morte da causa cardiaca. Inoltre la gravità del difetto di perfusione risultava associata con gli indici di disfunzione sistolica all’arruolamento. Tale dato è interpretabile in maniera biunivoca, ipotizzando un effetto deprimente del ridotto flusso miocardico sulla funzione ventricolare così come quello dello stress parietale sistolico e diastolico sulla perfusione miocardica. Risultati analoghi sono stati riportati nel miocardio ibernato nella cardiopatia ischemica, dove la dilatazione ventricolare e la disfunzione risultano associati al ridotto flusso miocardico basale e alla riduzione riserva coronarica (Sambuceti et al, 1998). Sia l’ipoperfusione sia l’ischemia ripetitiva potrebbero spiegare il peggioramento nel tempo dell’entità di dilatazione e di disfunzione contrattile, che a loro volta influenzerebbero il grado di perfusione tissutale. Sebbene compatibile con questi risultati, l’ipotesi microvascolare ischemica rimane speculativa e necessita di ulteriore approfondimento.

Riferimenti

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