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Capitolo 2 Protesi d’anca

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Academic year: 2021

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Capitolo 2

Protesi d’anca

2.1 Tipi di protesi

Tutti i modelli di protesi d’anca attualmente impiegati possono essere suddivisi in tre tipologie (figura 2.1): non cementate, cementate e ibride (nelle quali solo la componente femorale è cementata).

(a) (b) (c)

(d) (e)

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Nelle protesi cementate i componenti vengono fissati all’osso mediante l’interposizione di un cemento acrilico a polimerizzazione rapida che ha lo scopo di colmare completamente lo spazio fra superficie protesica e tessuto osseo. L’impianto risulta così immediatamente stabile ed il paziente può camminare, salvo controindicazioni, già dopo alcuni giorni dall’intervento.

Nelle protesi non cementate i componenti vengono fissati all’osso mediante un accoppiamento diretto. Lo stelo della protesi è forzato (press fitted) nella cavità midollare ossea preparata, mentre l’acetabolo della protesi viene fissato nella cavità cotiloidea. Viene così assicurata una stabilità primaria della protesi mediante forzamento meccanico per raggiungere, poi, una stabilità secondaria grazie ad un ancoraggio biologico dovuto alla crescita ed al rimodellamento del tessuto osseo che circonda la protesi. Per questo motivo le protesi non cementate sono spesso ricoperte con materiale rugoso (porous coated) nei cui interstizi può crescere ed integrarsi il tessuto osseo. L’ancoraggio biologico richiede alcune settimane per cui il decorso postoperatorio è più lungo di quello necessario per le protesi non cementate: il paziente può rimettersi in piedi già alcuni giorni dopo all’intervento, ma solo dopo almeno quarantacinque giorni può camminare caricando completamente l’arto operato.

Lo stato di mineralizzazione dell’osso e l’età del paziente sono le principali caratteristiche che condizionano la scelta del tipo di protesi. Nei soggetti più giovani si preferisce in genere l’utilizzo delle protesi non cementate, date le maggiori potenzialità osteogeniche di rimodellamento del tessuto osseo, mentre, in quelli anziani (o comunque affetti da patologie del metabolismo osseo) si utilizzano di solito protesi non cementate.

I materiali impiegati per la costruzione delle protesi d’anca devono possedere diversi requisiti:

o elevata resistenza meccanica;

o elevata resistenza all’usura meccanica; o elevata resistenza all’usura chimica; o elevata resistenza alla fatica;

o biocompatibilità.

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Fig.2.2. Tipi di testine e di acetabolo (metallo e polietilene)

con lo stelo o separata (modulare) ed essere realizzata in metallo o in ceramica (figura 2.2).

L’acetabolo protesico in genere viene fatto utilizzando polietilene ad altà densità o la ceramica (figura 2.2). Spesso è presente anche un guscio metallico di rinforzo per limitare le deformazioni.

Per migliorare la compatibilità, le leghe metalliche precedentemente menzionate possono essere rivestite di Allumina (Al2O3) o con Idrossiapatite (Ca10[PO4]6OH2), la

cui composizione chimica è molto simile a quella della matrice minerale ossea. Oltre alla classificazione in base al metodo di fissaggio, è possibile un’altra suddivisione riguardante la parte di osso asportata e sostuitita.

Nel presente lavoro interessano principalmente tre tipi di protesi (figura 2.3):

o protesi epifiseale: sostituzione della sola superficie articolare con materiali sintetici;

o endoprotesi: sostituzione della sola parte femorale dell’articolazione e accoppiamento dell’impianto con l’acetabolo fisiologico del bacino;

o artroprotesi o protesi totale: asportazione e sostituzione di porzioni di osso sia del femore che del cotile.

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(a)

(b) (c)

Fig.2.3. Tipi di impianto impiegati (a) protesi epifiseale, (b) endoprotesi, (c) protesi totale

2.2 Artroprotesi

Per il problema in esame, risulta di particolare interesse l’artroprotesi o protesi totale d’anca che può essere suddivisa concettualmente in varie parti (figura 2.4):

o cotile (o coppa acetabolare o acetabolo protesico): è la parte che viene fissata al bacino mediante viti, cemento chirurgico, avvitamento o forzamento meccanico nell’acetabolo primario. Può presentarsi rivestito da idrossiapatite che aumenta l’ancoraggio biologico, filettato o poroso;

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o testina (o epifisi protesica): è la parte terminale della componente femorale, normalmente di forma sferica, che si accoppia con la cavità interna del cotile per formare l’articolazione protesica. La testina può essere di pezzo con lo stelo oppure modulare, cioè separata dallo stelo femorale e ad esso fissata durante l’intervento mediante un accoppiamento conico. È disponibile in diametri diversi;

o stelo: è la parte che viene inserita nella cavità femorale, dove è fissata mediante cemento chirurgico o meccanicamente. Può essere standard (impiantabile sia a destra che a sinistra) o anatomico (stelo destro o stelo sinistro). Può essere rivestito da uno strato di idrossiapatite o provvisto di una serie di sleeves che massimizza il contatto con l’osso;

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o collo: può essere definito come la porzione di stelo che unisce la testina, o il cono di fissaggio, al corpo dello stelo e viene distinto da quest’ultimo perché esistono anche steli con il collo modulare, unito al corpo dello stelo con un accoppiamento conico di forma rettangolare;

o colletto: presente solo in alcuni modelli protesici, è una linguetta solidale con lo stelo che, all’inserimento di questo nel canale femorale, dovrebbe appoggiarsi sulla parte superiore del femore trasferendogli parte del carico.

2.3 Il rimodellamento osseo

La vita della protesi non cementata dipende dal processo d’integrazione fra due entità profondamente diverse tra loro come l’osso e la protesi stessa. Il primo ha una struttura complessa e in costante evoluzione, mentre la seconda ha una struttura meccanica notevolmente sollecitata sia dall’ambiente chimicamente aggressivo che dai carichi indotti dall’attività motoria. L’integrazione totale fra queste due entità è attualmente irraggiungibile non solo per le diverse proprietà meccaniche dei due componenti ma anche per l’impossibilità della protesi di modificarsi in relazione al continuo cambiamento dell’ambiente circostante. Per questo, non si può pensare di realizzare una protesi che assicuri una durata illimitata dell’impianto, ma si può cercare di affinare sempre di più il processo di ottimizzazione dell’impianto stesso. Ciò significa trovare una soluzione che alteri il meno possibile la distribuzione del carico e delle tensioni originarie fisiologiche e nello stesso tempo assicuri un ancoraggio stabile più duraturo possibile.

La ricerca di un buon ancoraggio ha portato alla nascita di due diverse scuole di pensiero: una fa riferimento a protesi cementate e l’altra a quelle non cementate. Entrambe le soluzioni presentano problemi comuni, come la reazione tissutale agli inevitabili prodotti dell’usura e problemi specifici.

L’uso di protesi cementate comporta in generale i seguenti problemi:

o reazione necrotica dell’osso da calore durante la presa del cemento, il quale è costituito da una resina acrilica che indurisce con una reazione di polimerizzazione esotermica (producendo temperature dell’ordine di 80°);

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o scarse caratteristiche meccaniche del cemento, soprattutto in termini di resistenza a fatica, alle quali si affiancano problemi di invecchiamento, con decadimento delle proprietà meccaniche nel tempo: il cemento tende a fessurarsi o sbriciolarsi e a mobilizzare l’impianto;

o elevate tensioni all’interfaccia tra stelo e cemento, dovute alla forte differenza di modulo elastico tra i due materiali (3000 MPa per il cemento contro 210000 MPa per le leghe Cr-Co, 107000 MPa per le leghe di Titanio), che provocano nel tempo il distacco dello stelo dal cemento.

L’utilizzo di protesi non cementate elimina i problemi connessi all’utilizzo del cemento, ma presenta alcuni aspetti critici:

o ottenimento di una stabilità primaria (di tipo meccanico); o ottenimento di una stabilità secondaria (di tipo biologico);

o schermatura delle tensioni trasmesse (stress-shielding), soprattutto nella regione prossimale del femore la quale risulta sollecitata in misura notevolmente inferiore rispetto alle condizioni fisiologiche del femore intatto: questa situazione costituisce il presupposto per l’insorgere di problemi di riassorbimento osseo.

Le protesi non cementate, se raggiungono l’osteointegrazione, presentano risultati a lungo termine migliori di quelle cementate.

Nel seguito l’attenzione si concentrerà sull’analisi di protesi non cementate e, quindi risulta necessario chiarire due concetti fondamentali a cui fare riferimento: stabilità

primaria e stabilità secondaria.

2.3.1 Stabilità primaria e stabilità secondaria

La perdita di fissaggio del componente protesico all'osso, che spesso è il risultato del cedimento dell'osso, rappresenta la causa più comune di fallimento a lungo termine. La migrazione dei componenti protesici può essere intesa come un fenomeno meccanico e, poichè le protesi non cementate sono sostenute in gran parte da osso spongioso, è da molti accettata l’ipotesi che la migrazione a medio termine sia dovuta al cedimento dell'osso spongioso causato da sollecitazioni eccessive. Con il concetto di stabilità

primaria si intende la stabilità della protesi a breve termine (meccanica) e viene ottenuta

tramite l’inserimento a pressione dello stelo della protesi nel canale osseo femorale (press-fitted), il quale è stato preparato per consentire la migliore adesione con

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l’impianto. La tecnica chirurgica risulta particolarmente critica per la stabilità primaria delle protesi non cementate; infatti una raspatura eccessiva dell’ordine dei 200 µm è sufficiente per compromettere l’osteointegrazione. La qualità dell’osso prima dell’operazione non costituisce da un punto di vista biomeccanico, un fattore determinante per il raggiungimento di una stabilità primaria (esclusi i casi di una demineralizzazione estrema) mentre è un fattore sicuramente critico da un punto di vista biologico. Con il concetto di stabilità secondaria, invece, si intende la stabilità della protesi a lungo termine (biologica) e viene garantita dalla crescita del tessuto osseo, che stabilisce un intimo contatto con l’interfaccia dell’impianto. Per stimolare il processo di accrescimento e fissaggio, la superficie dell’impianto è sagomata con opportune porosità e ricoperta di idrossiapatite (HA).

Sebbene il meccanismo del processo di rimodellamento non sia ancora chiaro, è desiderabile che al di sotto o intorno a un impianto protesico continuino a generarsi sforzi paragonabili a quelli fisiologici; in quanto, sforzi troppo bassi o troppo alti danno luogo, rispettivamente per fenomeni di stress shielding o per effetto di concentrazioni degli sforzi, a risposte anomale dell'osso e ad eventuale perdita di fissazione del componente.

2.3.2 Osteointegrazione e mobilizzazione asettica

Le cause principali di fallimento della protesi d’anca si possono riassumere in mobilizzazione asettica globale, del cotile, dello stelo, mobilizzazione settica, rottura e lussazione protesica, frattura ossea, dolore senza mobilizzazione e altre cause meno frequenti [Stea S. et al., 2002]. Subito dopo l’intervento chirurgico, è possibile notare all’interfaccia osso-impianto uno strato di tessuto molle, dotato di scarse proprietà meccaniche, che può essere composto da:

¾ grumi di sangue generati dal normale processo di guarigione

¾ frammenti di tessuto osseo che non è stato interamente rimosso prima dell’inserimento dello stelo

¾ fluidi organici

In questa fase il tessuto che circonda la protesi è soggetto ad una intensa attività biologica di adattamento. Nella maggioranza dei casi questo processo adattativo

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conduce alla completa integrazione della superficie dell’impianto con il tessuto osseo. Le regioni che presentano tessuto molle sono sporadiche e limitate mentre all’interfaccia si può evidenziare la presenza di ponti ossei che garantiscono la stabilità dell’impianto in qualsiasi condizione fisiologica di carico. Questo processo viene detto di osteointegrazione ed è all’origine della stablilità secondaria.

In alcuni casi tuttavia la scarsa stabilità primaria della protesi, imputabile a diversi fattori come errori nella tecnica, posizionamento errato e scelta della protesi inadeguata, può dare avvio ad un processo degenerativo che autoalimentandosi conduce in un primo tempo alla mobilizzazione e poi al definitivo fallimento della protesi.

Le posizioni principali iniziali della protesi press-fitted sono riassumibili in valgo, varo e normale (figura 2.5).

Nel posizionamento varo lo stelo impiantato nel femore è in contatto con l’osso, o in presa (fitting), in zona prossimale-mediale e distale-laterale; viceversa nella zona prossimale-laterale e distale-mediale non è in contatto (detachment). Nel posizionamento valgo, lo stelo impiantato nel femore è in fitting in zona prossimale-laterale e distale-mediale; viceversa nella zona prossimale-mediale e distale-prossimale-laterale è in

detachment.

(a) (b)

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Di fatto la scarsa stabilità primaria della protesi può far si che gli spostamenti relativi (micromovimenti) e le tensioni all’interfaccia siano di entità tale da impedire il processo di osteointegrazione. In questo caso, si sviluppa all’interfaccia osso-protesi uno strato di tessuto molle (tessuto fibroso), ricco di fibre di collagene e microscopicamente simile al tessuto connettivo, ma con una struttura e caratteristiche che assomigliano a quelle della cartilagine. Il tessuto fibroso non è in grado di stabilizzare la protesi, che quindi è soggetta a micromovimenti di entità crescente; questi a loro volta stimolano la formazione di nuovo tessuto fibroso. Il processo appena descritto viene definito

mobilizzazione asettica e rappresenta un iter graduale nel quale sono implicati sia fattori

meccanici (micromovimenti e tensioni) che fattori biologici (formazione del tessuto fibroso). La mobilizzazione asettica costituisce la causa principale dei fallimenti degli interventi di protesi d’anca [Stea S. et al., 2002; Manens E. et al., 1996] (tabella 2.1).

Cause Numero pazienti %

Mobilizzazione asettica 3846 79 Infezione 472 9,7 Errore di tecnica 285 5,9 Lussazione 117 2,4 Rottura stelo 50 1 Dolore 21 0,4 Altre cause 77 1,6

Tab.2.1. Incidenza delle cause di fallimento dell’impianto protesico primario su 4858 revisioni effettuate dal 1979 al 1990 [Manens E. et al., 1996].

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2.3.3 Rimodellamento all’interfaccia

Nelle protesi non cementate la stabilità primaria costituisce un requisito fondamentale per ottenere una buona stabilità secondaria [Burke et al., 1991; Schneider et al., 1989]. Al fine di conseguire una buona stabilità primaria è fondamentale la creazione di un canale femorale in grado di garantire dapprima il fissaggio meccanico della protesi e di conseguenza l’osteointegrazione dell’impianto. L’insorgere di tensioni che superino la resistenza meccanica all’interfaccia può innescare il processo di distacco dell’impianto osteointegrato e causare la mobilizzazione meccanica della protesi. In questo contesto l’insorgere di micromovimenti di una certa entità può portare alla formazione di tessuto fibroso, con un conseguente peggioramento delle caratteristiche meccaniche dell’interfaccia. Numerosi lavori di tipo sperimentale [Engh et al., 1992; Maloney et al., 1989; Søballe et al. 1991,1992,1993,1994; Pilliar et al., 1985,2001; Jasty et al., 1996,1997] hanno cercato di stimare l’entità dei micromovimenti e delle tensioni di taglio in grado di inibire il processo di osteointegrazione (tabella 2.2).

Fonte Tessuto osteointegrato Micromovimenti (µm) Tessuto fibroso Micromovimenti (µm) Tensione di Taglio (MPa) Note

Maloney et al. 1989 40 umane Soglie Engh et al. 1992 40 150 umane Soglie

Søballe et al. 1991, 1992, 1993, 1994 150+750gap 500 750gap 6.4 2.18 2.18 12 Sett 4 Sett. 4 Sett Pilliar et al. 1985, 2001 50(rotazione)

Jasty 1996, 1997 20 40 (tessuto fibrocartilagineo)

150

6 Sett.

Dalton et al. 1995 4.9 12 Sett Ozeki K. 2001 3.5 12 Sett. HA

Skripitz R. 1999 0.15-1.5 HA

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Engh [Engh et al., 1992] e Maloney [Maloney et al., 1989] hanno condotto i loro studi su femori umani, recuperati durante autopsie, valutando l’entità dei micromovimenti compatibili con l’osteointegrazione dell’impianto e quindi con la stabilità secondaria. Essi hanno determinato, senza modificare lo stato dell’interfaccia, il grado di osteointegrazione dell’impianto. Quindi hanno condotto delle prove meccaniche sulla protesi, inserendo estensimetri e sottoponendo gli impianti a carichi fisiologici

(single-limb stance, stair c(single-limbing). Su 14 femori protesizzati analizzati da Engh, 13 sono

risultati osteointegrati. Mentre tutti gli undici femori studiati da Maloney sono risultati osteointegrati.

Le prove meccaniche di carico a cui sono stati sottoposti gli impianti hanno rilevato micromovimenti massimi di 40 µm per gli steli osteointegrati e per quello non osteointegrato micromovimenti massimi di 150 µm.

Altri studi [Søballe et al. 1991,1992,1993,1994], condotti questa volta su animali, si sono posti il problema di valutare direttamente quali siano le soglie di micromovimento che inducono la differenziazione tessutale all’interfaccia. Va sottolineato che l’approccio seguito da questi autori è radicalmente diverso da quello di Engh e Maloney; mentre quest’ultimi analizzano le condizioni di equilibrio dell’interfaccia a posteriori, cioè senza influire direttamente sul processo, Søballe, Pilliar e Jasty, impongono a priori le condizioni al contorno per l’impianto (micromovimenti, carico) e ne valutano poi gli effetti. In altre parole, Engh e Maloney rilevano i micromovimenti compatibili con la stabilità secondaria mentre Søballe, Pillar e Jasty, imposte determinate condizioni di stabilità primaria, valutano se queste sono compatibili con la stabilità secondaria.

Gli esperimenti condotti da Søballe, sono realizzati impiantando nei condili femorali di cani adulti un dispositivo a pistone, che ad ogni passo dell’animale esegue un’escursione controllata. Dopo 4 settimane il pistone viene espiantato e viene eseguita l’analisi istologica del tessuto presente sulla sua superficie. Per escursioni di 150-500 µm l’esame istologico rileva la presenza di tessuto fibroso all’interfaccia osso-impianto. Pilliar adotta nei suoi esperimenti un pistone a rotazione controllata. L’analisi istologica condotta dopo l’espianto di questo dispositivo evidenzia che, per micromovimenti relativi inferiori ai 50 µm, si ha integrazione fra osso ed impianto.

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Jasty invece impiega un dispositivo ancora diverso: il pistone, impiantato sempre nella zona distale di cani adulti, è dotato di un duplice sistema di controllo con il quale è possibile fissare sia l’escursione consentita al pistone, come negli esperimenti di Søballe, sia la frequenza del carico applicato. Dopo 6 settimane, durante le quali il dispositivo viene caricato per 8 ore al giorno, l’esperimento è concluso con l’espianto del pistone e una serie di analisi istologiche del tessuto presente all’interfaccia: per un micromovimento imposto di 20 µm l’esame istologico rileva la presenza di tessuto osseo di integrazione; per un micromovimento imposto di 40 µm l’indagine istologica rileva la presenza di tessuto fibro-cartilagineo; metre per un micromovimento imposto di 150 µm l’indagine istologica rileva la presenza di tessuto fibroso.

Si può notare come tutti i lavori citati presentino, sul valore del micromovimento (150 µm) per cui si ha il processo di fibrotizzazione, un buon accordo. Al contrario non è identificabile un unico valore del micromovimento sotto al quale si avvia il processo di osteointegrazione. Comunque assumere come soglia il valore di 40 µm identificato da Engh e Maloney sembra una buona scelta ed è di certo di tipo cautelativo.

Dalton [Dalton et al., 1995 ] ha impiantato dischi circolari ricoperti di idrossiapatite nel canale femorale di 15 cani adulti. Dopo 12 settimane ha ucciso gli animali ed ha condotto sugli impianti analisi istologiche e test meccanici di estrazione (push-out test). Con le analisi istologiche ha potuto verificare che i dischi erano osteointegrati, mentre tramite il push-out test ha misurato la tensione di taglio (shear stress) necessaria per rompere i legami di coesione tra osso ed impianto osteointegrato. Questa tensione è stata ottenuta dividendo la forza di estrazione per l’area dell’interfaccia osso-impianto ed è risultata pari a 4.9±0.6 (da 0.46 a 9.46) MPa.

Altri studi condotti in vivo su animali [Ozeki et al., 2001; Skripitz and Aspenberg, 1999, Søballe et al., 1993] confermano i risultati ottenuti da Dalton. Søballe ha impiantato nei condili femorali di cani adulti un cilindretto ricoperto di idrossiapatite; dopo 12 settimane ha espiantato il dispositivo, che da esami istologici risultava osteointegrato, misurando la forza massima necessaria per rompere la coesione osso-impianto. Il valore rilevato della tensione di taglio è pari a 6.4±0.6 (da 5.8 a 7) MPa. Si può notare che il range di variabilità della tensione misurato da Søballe è lo stesso di quello misurato da Dalton.

Parimenti anche i valori dedotti dagli studi di Ozeki (3.5 MPa) e Skripitz (1.5 MPa) sono in accordo con i dati di Dalton.

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