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DALLA PAZZINI ALLA DIDOT: LA MATURITÀ ARTISTICA (1783-1789)

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DALLA PAZZINI ALLA DIDOT: LA

MATURITÀ ARTISTICA (1783-1789)

Gli estratti, le postille e i documenti considerati nelle pagine precedenti si collocano nei primi anni dell’apprendistato poetico di Alfieri e testimoniano l’intensità del suo impegno, che si esercita sia sui classici della tradizione letteraria sia sulle pagine dei contemporanei. A partire da questi testi lo scrittore avvia una riflessione sulla lingua e sugli strumenti dell’officina poetica, che proseguirà lungo l’intero corso della sua vita. Tuttavia sembra di poter individuare una cesura tra la fine del 1782 e l’inizio del 1783, anni che, se non interrompono certo gli studi di Alfieri – il quale, tra l’altro, riassumerà nuovamente i panni dello scolaro in età senile per imparare il greco antico – rappresentano una svolta importante della sua carriera, tanto da indurci a considerare conclusa la fase dell’apprendistato. Nel novembre 1782 infatti, nel palazzo del duca Grimaldi a Roma, va in scena l’Antigone1, in cui Alfieri stesso recita la parte di Creonte, e a gennaio dell’anno successivo le prime quattro tragedie vengono pubblicate presso l’editore senese Pazzini.

La rappresentazione è anticipata dalle letture pubbliche delle tragedie in varie sedi che garantiscono una “copertura capillare, ma diversificata delle diverse aree culturali romane”, dal salotto borghese di Maria Pizzelli-Cuccuvilla, al palazzo dell’ambasciatore di Spagna, all’Arcadia, “roccaforte della letteratura papalina”2. Queste letture costituiscono per il poeta un surrogato della rappresentazione teatrale, dal momento che gli permettono di scrutare le reazioni di un “semi-pubblico” ridotto ma variegato, perché composto da un misto “di uomini e donne, di letterati e d’idioti, di gente accessibile ai diversi affetti e di tangheri”3.

Alfieri mette così alla prova l’efficacia delle tragedie e ricava suggerimenti per le modifiche da introdurre nei testi in vista della pubblicazione, e al tempo stesso pone le basi per la propria fama di autore, imponendo le sue opere in un contesto particolarmente favorevole alla rinascita della tragedia. Le problematiche connesse al dramma, infatti, costituivano all’epoca un argomento assai dibattuto presso l’Accademia

1 Cfr. soprattutto E. Raimondi, Un teatro terribile: Roma 1782 cit.

2 V. Gallo, «Apostol furibondo» e «sedizioso novator». Ritratti alfieriani dalle biblioteche romane, in

Alfieri a Roma cit., pp. 177-234. 3 V. Alfieri, Vita, IV, 9.

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dell’Arcadia, alimentato dall’esigenza di animare una poesia della “nazione”, che avrebbe potuto identificarsi nella comune eredità costituita dalla storia romana4, e dall’attenzione rivolta al genere letterario più nobile che non aveva ancora trovato un interprete capace di rappresentare degnamente l’Italia nel confronto con la Francia e l’Inghilterra. Le aspettative erano cresciute dopo la morte di Metastasio, nello stesso 1782, che lasciava aperto il campo a un successore, il quale avrebbe dovuto andare oltre il pur apprezzato melodramma, controverso frutto della poetica arcadica, per recuperare il modello tragico classico.

Non stupisce dunque che in questo clima il successo dell’Antigone romana sancisse l’avvicendamento dei due poeti, facendo seguire alla recita simbolica del

Requiem per Metastasio quella del Te Deum per Alfieri, che fu incoronato come Sofocle italico5, assumendo finalmente un titolo cui ambiva già dalla prima recita torinese, quella della sconfessata Cleopatra, che l’aveva visto entrare in scena nella farsa I Poeti nei panni di Zeusippo, come si è visto, “nell’accademia degli stupidi alteramente denominato il Sofoclèo”6.

Il poeta e i professori: la reazione dei letterati alle tragedie

La comparsa dell’edizione Pazzini suscitò un enorme scalpore, ma non ottenne il successo che gli incoraggiamenti ricevuti durante le letture pubbliche e in seguito alla recita avevano fatto sperare e persino lasciato intravedere al poeta, al punto che la diffusione del secondo tomo delle tragedie, stampate quasi contemporaneamente al primo, fu ritardata fino al 1785.

Le critiche negative rivolte allo stile furono inaugurate dalla recensione del Lampredi comparsa sul Giornale de’ Letterati di Pisa e amareggiarono molto l’Alfieri, che si dispose a controbattere i suoi detrattori attraverso una pungente produzione epigrammatica.

Ma come si spiega la discontinuità fra l’entusiasmo suscitato dalla recita dell’Antigone e l’incomprensione per lo stile tragico? A voler prescindere dalle considerazioni malevole che l’autore propone nella Vita, in cui, affettando disinteresse

4 Cfr. a proposito B. Alfonzetti e N. Bellucci, Alfieri a Roma, tra autobiografia e poetica cit. 5 Cfr. E. Raimondi, Un teatro terribile: Roma 1782 cit.

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verso “codeste venali censure”, giustifica le lodi e le critiche distribuite nei periodici letterari “secondo che il giornalista è stato prima o donato, o vezzeggiato, o ignorato, o sprezzato dai rispettivi autori”7, permane un disagio di fondo imputabile alla diversa fruizione dei testi attraverso la recitazione e la lettura individuale.

Tale contrasto emerge lucidamente negli scritti alfieriani e trova conferma nelle testimonianze dei contemporanei, tra cui i Verri e lo stesso Lampredi.

Come è noto, Alessandro Verri dopo aver assistito alla rappresentazione dell’Antigone scrive al fratello elogiando l’opera, ed individua nell’Alfieri l’autore capace di fondare il teatro tragico italiano (“farà epoca veramente e credo che questo autore fonderà la tragedia italiana”)8. Il giudizio positivo viene riconfermato nei mesi successivi, all’epoca della circolazione dell’edizione Pazzini, quando, riferendo dei pareri contrastanti che dividono i lettori, Alessandro dichiara di collocarsi “nel numero di quelli che, non ostante i suoi difetti, ha una gran stima di quelle opere totalmente singolari”9. Conferma di ciò giungerà anche da una lettera composta dieci anni dopo, nel 1793, in cui Alessandro ricorda come la recita dell’Antigone avesse suscitato in lui un entusiasmo che la lettura delle tragedie stampate non aveva raffreddato:

Quando vidi per la prima volta l’Antigone che si recitò nel

Palazzo di Spagna di Roma, io sentii nel mio petto tuonare questo senso, che Alfieri dava all’Italia la vera tragedia; quando uscirono in Siena le prime due, io mi confermai vie più in quel sentimento10.

Eppure, nonostante la coerenza con cui Alessandro ribadisce la sua ammirazione per il poeta a distanza di mesi e di anni, le accuse allo stile alfieriano, parzialmente condivise anche dai critici più favorevoli11, dovevano averlo almeno in parte condizionato, visto che nella corrispondenza intrattenuta col fratello dopo la diffusione della Pazzini emergono riserve che non erano state avanzate in un primo tempo.

Infatti nel 1781 Alessandro, che era stato allora uditore di due tragedie, non aveva esitato ad esprimere apprezzamento per la “molto elegante e concisa maniera di

7 Ibid., IV, 10.

8 A. Verri, lettera del 30 novembre 1782 nell’Appendice II delle tragedie curata da L. Toschi cit. 9 Ibid., lettera del 3 maggio 1783.

10 Ibid., lettera del 2 ottobre 1793.

11 Pur apprezzando sinceramente le tragedie alfieriane, il Calzabigi, prima di scrivere la celebre lettera in cui espone critiche moderate, aveva condiviso le perplessità del Lampredi, destinatario di un’epistola in cui lo stile alfieriano veniva severamente censurato. Cfr. A. Fabrizi, Calzabigi contro e per Alfieri, in

Studi di letteratura italiana per Vitilio Masiello, a c. di P. Guaraguella e M. Santagata, Bari, Laterza, 2006, pp. 937-957.

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verseggiare acquistata con molto studio della nostra lingua e dei nostri poeti”12, e l’anno seguente, dopo aver assistito alla lettura di cinque drammi e alla recita presso il duca Grimaldi, ne aveva definito “bellissima” l’elocuzione, e aveva anzi indugiato sulle qualità del dettato alfieriano esaltando proprio quella purità e chiarezza che saranno animosamente negate al poeta dai recensori della prima edizione delle tragedie: “scrive con somma purità e forza; il pensiero è sublime e l’espressione facile e senza difetti che pregiudichino al pensiero”13.

Nelle epistole successive, al contrario, affiora l’eco delle polemiche; scrivendo di Alfieri al fratello, Alessandro riferisce che “la critica più universale è sul suo stile” mentre “nessuno gli nega forza e sublimità”. Da parte sua, come si è detto, egli si schiera fra gli ammiratori, ma non più in maniera incondizionata, visto che ammette i difetti delle tragedie (“non ostante i suoi difetti”, scrive nella lettera del 3 maggio14, e in quella del 14 dello stesso mese i difetti si accrescono con l’aggiunta dell’aggettivo

rilevanti: “La mia opinione però è che queste opere dureranno benché ammetta che abbiano difetti rilevanti”15).

Nella lettera del 1793 Alessandro rievoca in termini analoghi il dibattito suscitato dalla pubblicazione delle tragedie e la posizione che aveva assunto in proposito (“e in Roma, e più in Toscana, e in Lombardia, e per quasi tutta l’Italia vi furono critiche e disprezzi, massime per lo stile dichiarato pedantesco, duro, insoffribile, gotico. Io sentivo qualche difetto in esso, e lo sento, ma molto più sento i pregi suoi”), manifestando disagio per la singolarità del proprio apprezzamento, che non trovava riscontro nell’opinione comune:

onde rimasi per qualche tempo in silenzio e come scontento di me stesso, per avere un modo di sentire così contrario al comune in genere di gusto e di belle arti, mortificazione che finora non aveva sofferta la maggiore16.

L’anticonformismo della sua posizione può aver generato in Alessandro dei dubbi che, se non sono valsi a fargli mutare parere, lo hanno forse sospinto verso un’adesione più temperata alle scelte stilistiche alfieriane, senza però fargli trovare una spiegazione accettabile alla differente accoglienza tributata alle letture pubbliche rispetto a quella

12 Ibid., lettera del 26 settembre 1781. 13 Ibid., lettera del 30 novembre 1782. 14 Ibid., lettera del 3 maggio 1783. 15 Ibid., lettera del 14 maggio 1783. 16 Ibid., lettera del 2 ottobre 1793.

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riservata all’edizione a stampa. Tale anomalia viene considerata “un vero capriccio di letteraria fortuna”, che rispecchia più genericamente le sorti alterne del destino umano (“Delle sue tragedie chi ne dice bene e chi ne dice male, secondo la sorte comune di tutti gli uomini”)17:

La sorte di questo autore è un vero capriccio di letteraria fortuna, perché mentre lesse le sue tragedie fu generalmente applaudito, e le ha lette per anni in varie società, e tutte le opinioni hanno sempre combinato e in Firenze e in Roma col conchiudere ch’egli era uomo grande affatto superiore a tutti i nostri tragici di modo che doveva sicuramente fare epoca. Fu recitata l’Antigone lo scorso autunno in questo Palazzo di Spagna e ci fece girare la testa a tutti. Lesse egli non è molto in Arcadia una tragedia intitolata il Saulle, [...] ed ho veduto moltissime persone uscire d’Arcadia con entusiasmo benché fossero entrate con animo disposto alla critica. L’autore stampa e le sue opere sono esposte a tante procelle che minacciano naufragare18.

Lo straordinario successo della rappresentazione, descritto in termini iperbolici (ci fece

girare la testa a tutti), si capovolge dunque nel naufragio cui va incontro l’edizione Pazzini.

Fra le persone perplesse sul valore delle tragedie alfieriane si annovera anche Pietro Verri, che non si era lasciato coinvolgere dalla presentazione elogiativa del fratello più giovane. Pietro formula un giudizio negativo su Alfieri motivato soprattutto da riserve di carattere morale, che si estendono però anche alle scelte linguistiche del poeta, a suo parere eccessivamente sottomesso alla Crusca, e di conseguenza “stentato” e incapace di andare “all’anima”19. Nella lettera di risposta ad Alessandro del 12 ottobre 1793 la critica resta inalterata (“Non mi prendete per insensibile che non lo sono, ma Alfieri non trova la strada del mio cuore”)20, ma è importante rilevare la cautela con cui Pietro si pronuncia, dichiarandosi pronto a fare ammenda (“Vi scrivo come scettico pronto a ritrattarmi”)21: il suo giudizio infatti è di lettore e non di spettatore – non avendo egli avuto la possibilità di assistere a una rappresentazione alfieriana, a differenza di Alessandro –, per cui “deve pesare meno assai”, se si considera che

17 Ibid., lettera del 3 maggio 1783. 18 Ibid., lettera del 14 maggio 1783.

19 Ibid., lettera del 7 maggio 1783: “Orazio aveva per nemici tutti i puristi di lingua. Tasso volle impazzire per cagion loro. Fu insultato dai puristi. Io conosco che bisogna avere una norma e una certa educazione colta di stile per rendere piacevoli e degne di memoria le cose belle che abbiamo da dire, ma un tragico che, mentre deve essere tutta anima e fuoco, trema sotto la sferza della Crusca, è stentato e non va all’anima”.

20 Ibid., lettera del 12 ottobre 1793. 21 Ibid.

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“quando si giudica delle cose teatrali colla mera lettura si cerca d’indovinare l’effetto ch’ella produrrà colla rappresentazione, e quando si giudica dalla platea si riferisce a un effetto sentito e osservato”22.

Nonostante i limiti di una lettura che non può legittimamente sostituirsi alla rappresentazione e ne costituisce un pallido riflesso, Pietro si sforza di conferire spessore teatrale alle battute dei personaggi alfieriani, cercando di penetrarne, per quanto può, la valenza scenica. Ciò avviene tramite il ricorso all’immaginazione, che gli fa apprezzare gli endecasillabi frammentati di Alfieri grazie all’intuibile efficacia drammatica: “questi sono tratti sublimi e patetici, e che sicuramente debbono produrre effetto nel teatro, e che par quasi impossibile di rappresentarli male”23.

Mentre Pietro Verri, che pur non apprezza le opere alfieriane, intuisce l’efficacia teatrale del loro stile, in cui individua il parametro essenziale di valutazione, i letterati non riescono a fare altrettanto: di fronte al testo stampato delle tragedie ignorano le modalità esecutive imposte dalla destinazione scenica ed applicano le consuete abitudini di lettura, consolidate sui testi lirici ed epici, ma inadeguate a quelli drammatici. È in questa discrepanza fra la muta parola scritta e quella pronunciata sulla scena, fra la lettura individuale e la rappresentazione pubblica, che Alfieri individua la chiave dell’“enimma” relativo alla ricezione delle sue tragedie:

I versi dell’Antigone erano da noi recitati, non bene, ma a senso, e quindi erano chiari ai più idioti; letti poi forse non così a senso, non badando al punteggiato, divenivano oscuri. Recitati, pareano energici, perché il dire era breve, e non cantabile, né cantato; letti da gente avvezza a sonetti e ottave, non vi trovando da intuonare la tiritéra, li tacciarono di duri: pure quella energia lodata nasceva certamente da questa durezza biasimata24.

Il passo, estratto dalla Risposta al Calzabigi, attesta la decifrabilità teatrale dello stile tragico, compreso anche dai “più idioti”, affermazione che risulta confortata da una lettera di Alessandro Verri, secondo il quale Alfieri “generalmente costringe anche l’ignorante agli applausi”25. La durezza tanto biasimata era dunque per il poeta l’esito di

22 Ibid.

23 Ibid.

24 V. Alfieri, Risposta dell’Alfieri cit., p. 232. Troviamo riscontro del pregiudizio alfieriano relativo alle abitudini di lettura dei contemporanei nel resoconto del Polidori (La Magion del Terrore cit., p. 90). Il segretario, volendo correggere a ragione un verso del poeta si sentì rispondere: “Quest’è un verso giusto [...] ma per lei bisogna prendere il violino ed intonarle la tiritera perché ne senta la misura”.

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una fruizione non corretta dei suoi versi, che faceva contestare ai dotti l’assenza di un’armonia melodica a suo avviso contrastante con l’intima natura della tragedia.

Le postille al primo volume dell’edizione senese secondo l’autografo di Chatsworth, successive ai colloqui del 1783 con Parini e Cesarotti, rivelano lo stesso orientamento e sembrano scaturire dalla volontà di Alfieri di provare la fondatezza delle sue ragioni nelle occasioni in cui il poeta, contestato a causa della durezza di singoli versi, riesce a far ricredere l’interlocutore provando l’efficacia drammatica delle soluzioni adottate. Così è per il verso dell’Antigone, “D’Argo i’ venni!... Per troppa etade tardo”:

Cesarotti, volendo portar un esempio della durezza sparsa qua e là, mostrò questo verbo; dicendo: che gli accenti di per troppa

etade, erano mal posti, ma gli feci riflettere, che era un verso spezzato, dove si dovea fare una gran posa dopo venni, e poi mutar voce al Per troppa. E che alla recita nessuno in Roma avea rilevato, né qui né altrove questa durezza; che anzi le sedi degli accenti variate all’infinito, generavano recita, che non potesse esser canto, o cantilena26.

Il valore di verifica attribuito da Alfieri alla rappresentazione concorre ad attestare la dimensione realmente teatrale in cui si inscrivono le sue tragedie, concepite come spettacolo autentico e non come vuoto esperimento letterario: se la lingua adottata dal poeta è definita provocatoriamente “morta”, come si è visto, il teatro vagheggiato negli scritti teorici, in cui scrittori, attori e spettatori si educano a vicenda, costituisce invece una “scuola viva per gli autori”27, i quali possono trarre suggerimenti vantaggiosi per la loro arte solo scrutando le reazioni del pubblico, come per l’appunto egli cerca di fare durante la recita dell’Antigone.

Sempre nella stessa tragedia, per “I’ lo tengh’io finora / Quel, che non vuoi tu, trono. A re tu parli”, Alfieri annota:

Cesarotti biasimò questa trasposizione assai; pure recitata, si capacitò che facesse effetto più piccante, che dicendo: quel

trono, che non vuoi28.

26 V. Alfieri, Postille al primo volume dell’edizione senese secondo l’autografo di Chatsworth cit., p. 387. 27 V. Alfieri, Parere sull’arte comica in Italia cit., p. 244. L’importanza che Alfieri assegna alla reazione degli spettatori costituisce un elemento di novità nella riflessione teatrale coeva, tanto che la sua poetica può considerarsi “«pragmatique», construite à partir du spectateur et des émotions que l’auteur entend lui faire éprouver” piuttosto che sulle regole (F. Decroisette, «Un desiderio ignoto di qualcosa di più»:

Alfieri et ses spectateurs, in Vittorio Alfieri. Drammaturgia e autobiografia cit., pp. 39-54).

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Anche i letterati più illustri possono incorrere in una lettura incurante della specificità drammatica del testo, che non ne rispetta le pause e vi sovrappone gli schemi ritmici della tradizione lirica fino a deformarne la fisionomia, ma, una volta penetrati a fondo nei fini e nelle esigenze dell’opera, concordano sull’opportunità delle soluzioni stilistiche di Alfieri e finiscono così per rafforzare i suoi convincimenti.

Sono queste le argomentazioni impiegate dal poeta per difendere ed illustrare le proprie scelte, e si tratta certamente di riflessioni che contengono delle verità, anche se, come vedremo nelle pagine seguenti, nelle sue tragedie Alfieri perviene a un tale scardinamento dell’endecasillabo da rendere comprensibile lo sgomento dei dotti.

Per intanto però ci basta osservare come le spiegazioni di Alfieri collimino, fatte salve le diverse prospettive, anche con quanto asserito nella recensione del Lampredi, il quale registra a sua volta la diversa impressione suscitata dalla recita e dalla lettura individuale:

Queste Tragedie erano state annunziate da lungo tempo con molta lode da uomini intelligenti e capaci di giudicarne ai quali l’A. in Toscana particolarmente le avea recitate, senza voler mai però lasciarle loro sotto l’occhio, cioè senza permettere che fossero esaminate freddamente quando è cessata quella specie d’incanto, che un giovane autore invaso dall’estro, e pieno del suo soggetto, recitando con forza e con entusiasmo inspira ai suoi ascoltatori. Venute alla luce non hanno pienamente corrisposto all’aspettativa29.

Se ammette l’“incanto” della recitazione di Alfieri, che non aveva mancato di coinvolgerlo in prima persona, il professore pisano non pone l’accento sull’irriducibilità del verso teatrale alla pratica della lettura silenziosa, ma piuttosto sulla difficoltà di valutarne adeguatamente le caratteristiche durante l’istantaneità della performance che non lascia spazio alla pacata riflessione30. Tuttavia, nonostante la severità con cui egli si

29 G. M. Lampredi, Recensione al primo volume delle tragedie, in V. Alfieri, Parere, pp. 458-460 (Giornale de’ Letterati, XLIX, 1783, 1, p. 299).

30 Occorre segnalare che nella Vita (IV, 3) il poeta finirà con il convenire implicitamente con le riserve del Lampredi riguardo alla difficoltà per il pubblico di formulare un giudizio sullo stile delle opere ascoltate, anche se il riferimento riguarda la primissima versione dell’Antigone, di cui egli stesso era scontento: “Nell’Aprile del ’77 verseggiai perciò l’Antigone ch’io, come dissi, aveva ideata e stesa ad un tempo, circa un anno prima essendo a Pisa. [...] Ma appena l’ebbi io letta in una società letteraria, dove quasi ogni sera ci radunavamo, ch’io ravvedutomi (benché lodato dagli altri) con mio sommo dolore mi trovai veramente lontanissimo da quel modo di dire ch’io avea tanto profondamente fitto nell’intelletto, senza pur quasi mai ritrovarmelo poi nella penna. Le lodi di quei colti amici uditori mi persuasero che forse la tragedia quanto agli affetti e condotta ci fosse; ma i miei orecchi e intelletto mi convinsero ch’ella non c’era quanto allo stile. E nessun altri di ciò poteva a una prima lettura esser giudice competente quanto io stesso, perché quella sospensione, commozione, e curiosità che porta con sé una non conosciuta

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pronuncia sullo stile, nella parte finale della recensione non esita a confermarne l’efficacia scenica con argomentazioni che coincidono con quelle di Alfieri nel riconoscimento della funzione intermediaria degli attori:

Intanto noi ci ardiremo di presagire, che comincerà dal raccogliere un piacevol frutto da questo saggio delle sue fatiche: noi ci ardiremo di presagire cioè, che non ostante il difetto della lingua e dello stile, queste tragedie messe in scena e recitate da comici intelligenti e capaci strapperanno gli applausi degli spettatori. Sulle scene una certa durezza di verso, che nasce dall’accozzamento di parole, che nuocono all’armonia, non si sente più: quello che alla lettura non s’intende ad un tratto o per costruzione irregolare, o per termine fuor di moda ajutato dal gesto e dall’espressione dell’attore si capisce più facilmente, e lo spettatore più attento al senso che alle parole, e lasciandosi agitare dagli affetti senza parzialità, senz’odio, senz’ira e senza pregiudizio alcuno sarà commosso31.

Naturalmente questa concessione del Lampredi viene interpretata dal poeta a vantaggio delle proprie argomentazioni, come si evince dalla postilla che egli inserisce nella sua copia dell’articolo: “Non ostante. Non osta dunque alla recita questa durezza; bensì alla cantilena, e di questo godo: e chi mai disse in materia di versi, che l’orecchio fosse men delicato che l’occhio? le parole non si vedono, si sentono”32. In definitiva, per Alfieri l’efficacia teatrale dei suoi versi è inscindibile da una durezza che emerge solo alla lettura mentre sulla scena si traduce in energia.

La riflessione riemerge negli stessi termini nella risposta al Calzabigi:

Così è successo all’Antigone in Roma, che alla recita fu trovata chiara, ed energica dai più; alla lettura poi, da molti oscura e disarmonica. Ma le parole si vedono elle, o si ascoltano? E se non erano disarmoniche all’orecchio, come lo divenivano elle all’occhio?33

Alfieri profitta della cortese e dotta epistola del Calzabigi, stimandolo un degno interlocutore con cui intrattenere uno scambio diretto, per chiarire le sue scelte e controbattere al tempo stesso le riserve espresse sui giornali cui fino ad allora non aveva replicato se non tramite le rime fatte circolare nei salotti e, indirettamente, per mezzo dell’intervento di sostenitori come il Bosi, sollecitati ad assumere le sue difese.

tragedia fa sì che l’uditore, ancorché di buon gusto dotato, non può e non vuole, né deve, soverchiamente badare alla locuzione. Quindi tutto ciò che non è pessimo, passa inosservato, e non spiace”.

31 G. M. Lampredi, Recensione al primo volume delle tragedie cit. 32 Ibid.

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Nel rispondere al librettista di Livorno, l’autore sembra infatti rivolgersi anche ai critici, e al Lampredi in particolare, per assumere una posizione ufficiale nella querelle suscitata dalla comparsa delle tragedie. Oltre al passo considerato si può citare l’asserzione secondo cui “Se la tragedia è cosa nuova [...] in Italia, vuol dunque stile nuovo”34, con cui il poeta si riferisce alle convinzioni manifestate dal Calzabigi stesso, ma polemizza al contempo con il Lampredi, che lo accusava di avere fatto ricorso a uno stile senza “esemplare alcuno né tra gli antichi, né tra i moderni scrittori”35. A questa osservazione Alfieri aveva obiettato nelle postille alla recensione pisana che né gli antichi né i moderni avevano scritto “tragedie, che sian rimaste modello di stile tragico” per cui “cosa senza esempio, dovea avere stile senza esempio”36. La nota di lettura viene dunque ripresa e sviluppata nel discorso più articolato dell’epistola apologetica.

La divergenza che opponeva l’autore ai dotti restava però insanabile, come egli stesso dichiara nella Vita (“Non c’intendevamo. Io chiamava languido e triviale ciò ch’essi diceano fluido e sonante”)37, perché si fondava su un’antitetica concezione dello stile tragico, che per i critici non doveva prescindere dal modello metastasiano, a cui l’Alfieri non poteva programmaticamente ridurre i suoi versi.

Tra i fautori dello stile melodrammatico si può annoverare anche Cesarotti, il quale loda alcuni versi dell’Antigone (“Questa è l’orribil reggia / Cuna del troppo amato sposo, e tomba”) e probabilmente suggerisce ad Alfieri di conformarvi i successivi, come lascia ipotizzare la postilla dell’autore che insieme all’apprezzamento registra il proprio dissenso: “Questo verso piacque a Cesarotti per armonia: non gli ho fatto riflettere, che quattro così, posti vicino generano canto inevitabile”38. L’armonia raccomandata dal Cesarotti è evitata dal poeta, che la giudica inammissibile nel registro tragico, se non per brevi segmenti che non possono ripetersi senza produrre uniformità ritmica.

Nonostante la tenacia con cui Alfieri decide di proseguire sul sentiero già imboccato, confidando solo nel proprio giudizio, non occorre credere all’indifferenza alle critiche più volte ribadita sia all’epoca delle recensioni che in seguito39. Pur

34 Ibid.

35 G. M. Lampredi, Recensione cit., p. 458. 36 Ibid.

37 V. Alfieri, Vita, IV, 2.

38 V. Alfieri, Postille al primo volume dell’edizione senese secondo l’autografo di Chatworth cit., p. 387. 39 Nella Vita IV, 10, l’Alfieri riferisce dei problemi sentimentali che lo tormentavano nel 1783, anno in cui fu costretto a separarsi dall’Albany per l’intervento del cardinale di York, cognato della donna, e asserisce di aver trascurato l’attività letteraria: “Ogni cosa letteraria mi si andava ad un tempo stesso estinguendo nella mente, e nel cuore: a tal segno, che varie lettere ch’io avea ricevute di Toscana nel

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rimanendo convinto delle scelte stilistiche adottate, egli si persuade della necessità di rifinire la lingua delle tragedie rinunciando alle soluzioni più estreme. Perciò nella

Risposta al Calzabigi egli compie un parziale atto di ammenda, che concorda con le intenzioni formulate anche nella lettera dell’11 maggio 1783 a Luigia Alfieri di Sostegno dove, nel ringraziare l’interlocutrice per gli elogi rivoltigli, il poeta non manca di fare riferimento alle recensioni negative:

non trascuro però i biasimi degli altri a segno di non ne far nessunissimo conto. Credo che la verità sta in mezzo, e che in alcune piccole cose, bisognando e occorrendo, mi piegherò in parte al parer del publico, non tanto però ch’egli non sappia a piegar altrettanto almeno verso il mio; altrimenti non ci ritroveremo mai40.

La solidità dei suoi principi di poetica non impedisce ad Alfieri di riconoscere alcune imperfezioni, che intende emendare piegandosi “in parte al parer del publico” e attendendosi in cambio altrettanta flessibilità.

La critica del primo stile delle tragedie è svolta con maggiore severità nella Vita, dove l’autore dichiara che le quattro opere edite nel 1783 erano “correttissimamente stampate, grazie all’amico”, vale a dire grazie alle cure del Gori, che risiedendo a Siena si era incaricato della revisione, “sudicissimamente stampate [...] grazie al tipografo”, cioè il Pazzini, proprietario di una modesta stamperia41, e “barbaramente verseggiate [...] grazie all’autore”, assunto che conferma a distanza di tempo il giudizio negativo sul linguaggio non sufficientemente elaborato dell’edizione senese.

Nel Parere del 1789, che accompagna la stampa Didot, Alfieri chiarisce infatti come il suo primo stile fosse riuscito diverso non solo dal lirico, da cui si era volutamente allontanato, ma anche dall’ideale che aveva vagheggiato senza riuscire ad tempo de’ miei disturbi in Roma, le quali mi mordeano non poco su le stampate tragedie, non mi fecero la minima impressione per allora, non più che se delle tragedie d’un altro mi avessero favellato”. La stessa metafora dei morsi della critica era stata utilizzata in una lettera del 1783 a Giambattista Bodoni (V. Alfieri, Epistolario, I, 77): “I morsi in vero non acuti, ma spessi, che mi sono stati dati da varj giornalisti, corrieri enciclopedici, e altri foglietti, non m’hanno per verità toccato l’osso; ma pure m’han fatto far prova se io saprei mordere bisognando”. Poco tempo dopo, l’autore scrive a Francesco Albergati Capacelli (ibid., 79), affettando disinteresse per le maldicenze dello Zacchiroli, il quale, proprio come il Lampredi (nelle postille alla Recensione cit.: “Il procedere dunque di costoro, benché siano per lo più legali di mestiere assai più che poeti, non è stato legale né leale, avendomi lodato in faccia, e fischiato da tergo, alla letterata. Ma per ora non mi offendono”) “fa il suo solito ufficio di sparlar delle persone dietro, e lodarle in faccia”: “Corre per Siena de’ Sonetti suoi, e delle lettere francesi, e dei dialoghi, in cui egli mi canzona sulle mie Tragedie. Io per dir il vero non me ne do gran fastidio, tuttavia per dar segno di vita gli ho lasciato andar tre versetti soli, che mi par non meriti di più, se pur egli merita tanto”, ecc.

40 V. Alfieri, Epistolario, I, 71.

41 Contro l’incuria del suo primo editore Alfieri continua a lanciare strali ironici ancora dieci anni dopo la pubblicazione del primo tomo delle tragedie. Cfr. V. Alfieri, Epistolario, II, 256.

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attuarlo pienamente42, per cui, appena pubblicata la princeps, riprende in mano la penna e negli anni apporta “infinite mutazioni” che non risparmiano quasi nessun verso43.

Il labor limae incessante non riguarda solo l’emendazione dei nèi stilistici, in vista di una maggiore correttezza formale, ma costituisce un autentico sforzo del poeta per corrispondere alle esigenze del pubblico, pur senza contravvenire ai principi che avevano guidato la sua scrittura. Basti considerare che, secondo le sue stesse dichiarazioni, le ultime cinque tragedie non si distinguono dalle prime quattordici solo per una “dicitura [...] più liscia, più maestosamente semplice e più facilmente breve” – obiettivi che Alfieri aveva perseguito sin dall’inizio della sua carriera –, ma si aprono “a combinare una certa armonia di verso, che senza riuscire uniforme, né troppo suonante, apparisse pure dolce e lusinghiera, con varietà e grandezza”44.

L’affermazione costituisce un indizio della volontà del poeta di essere applaudito anche dai contemporanei, e non solo dai posteri in cui identificava il suo pubblico ideale45, tanto da riservare spazio, e sia pur limitato, a una certa armonia di

verso [...] dolce e lusinghiera, dichiaratamente esclusa nei primi progetti teatrali, a favore di un ideale stilistico scabro e dissonante avversato dagli accademici46.

42 V. Alfieri, Parere, p. 158: “il mio stile tragico in quella prima edizione mi era venuto fatto non solamente diverso dal lirico, da cui espressamente avea voluto discostarmi, ma ad un tempo stesso da quello stile tragico ch’io m’era ideato, e che non avea saputo poi eseguire”.

43 Ibid., p. 159.

44 Ibid., p. 163. Sulla presenza di toni melodrammatici nelle tragedie alfieriane cfr. M. Sterpos, Lettura

dell’Agide, in Alfieri tragico cit., pp. 668-686. Il poeta dichiara di piegarsi all’opinione dei censori moderni anche in merito ai soliloqui, per quanto non persuaso dell’effettiva necessità di ridurli (Parere, p. 156): “Finisco (e n’è tempo) di parlare dei soliloquj, col far osservare che nelle nove tragedie susseguenti alle prime dieci stampate in Siena, l’autore ne ha diminuito moltissimo l’uso, il che egli ha fatto più per liberarsi dal tedio di questa facile e triviale censura, che per intima convinzione che siano essi quel difetto che si va dicendo che siano”.

45 L’interesse malcelato per l’accoglienza che i lettori avrebbero riservato alla seconda edizione delle tragedie emerge anche nell’epistolario di Alfieri, che lascia trapelare disillusione, pessimismo, ma anche la consapevolezza di aver finalmente raggiunto gli obiettivi artistici prefissati. Cfr. V. Alfieri, Epistolario, II, 211 (a Francesco Albergati Capacelli, 10 novembre 1789, “Quanto poi al contenuto ho fatto tutto quel ch’io poteva e sapeva per far meglio che la prima volta; con tutto ciò, non ne aspetto niente miglior riuscita: ma questa è la sorte di chi scrive, e massime in Italia: logorarsi il cervello per farsi canzonare”), 218 (allo stesso destinatario, 16 febbraio 1790,“Altro non mi resta, che a sperare per questa mia seconda fatica un esito men tristo che non ebbe la prima”), 219 (ad Angelo Fabroni, 30 marzo 1790, “Desidero di dispiacere meno che non ho fatto nella prima edizione; e ho fatto quanto ho saputo; se non istanno bene, è perché non sapeva far meglio”), 221 (a Mario Bianchi, 30 marzo 1790, “Quanto alle altre molte insulse, e maligne critiche di cui la Toscana abbonderà certamente, la prego non me ne far sapere nessuna affatto. Solamente se qualche osservazione vera, e luminosa, o anche falsa e ingegnosa, venisse fatta, quelle mi comunichi, affinché io possa impararvi qualche cosa: Ch’altro diletto che imparar non trovo”), ecc. 46 Sull’assenza di musicalità rimproverata ad Alfieri dai dotti si rivela assai indicativo l’epigramma “Motu proprio del Principe del buon gusto” composto all’inizio del 1785 contro il Lampredi, in cui l’autore realizza una parodia del borioso professore: “Io professor dell’università, / Udita e vista la temerità / D’un certo Alfieri, che stampando va / Tragedie, in cui quell’armonia non v’ha / Che a me piacendo a tutti piacerà, / Che empiendo il core di soavità / Un dolce sonno all’udïenza fa; / Per prescïenza che la toga dà, / Io gli inibisco l’immortalità” (V. Alfieri, Rime, 212).

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Al primo impeto di impazienza e di protesta sdegnosa verso le critiche, che gli aveva fatto cercare conforto nel parere degli amici e dei poeti disposti a riconoscere il merito delle sue opere, subentra dunque in Alfieri un atteggiamento più conciliante verso le esigenze dei contemporanei. La disponibilità verso il gusto del secolo trova riscontro nell’elaborazione della tramelogedia, “il più impegnativo tentativo, da parte di Alfieri, d’uscire dall’inattualità in cui si volle rinchiuso”47, che davvero rappresenta una mezza concessione alla moda del melodramma e richiede agli spettatori una mezza apertura alla tragedia, e spiega forse anche le partizioni musicali autografe di Montpellier applicate al Bruto primo, con cui Alfieri sembra approssimarsi al canto48.

Questa interpretazione restituisce alla figura dell’astigiano una complessità che ne incrina il carattere monolitico e al tempo stesso permette di verificare ancora una volta il rapporto dialettico che egli intrattiene con il suo secolo, malgrado il rifiuto della contemporaneità espresso sia nella Vita che nelle Rime. Del resto, nel dialogo La virtù

sconosciuta del 1786, Alfieri affida la manifestazione dell’interesse per la propria epoca alle parole moderate dell’amico scomparso, lontano dall’intransigenza estrema del poeta:

Pensa coi classici; coll’intelletto e coll’anima spazia, se il puoi, infra Greci e Romani; scrivi, se il sai, come se da quei grandi soli tu dovessi esser letto; ma vivi, e parla, co’ tuoi49.

Il rifugio nella classicità e il rapporto di emulazione con gli spiriti magni del passato, sulle cui pagine esemplari si modella lo stile alfieriano, non implicano uno solipsismo avulso dalla realtà, ma al contrario richiedono il confronto con il presente, nonostante la delusione, la “nausea” e la “noia” che questo può comportare50.

Correggendo minuziosamente i suoi versi per depurarli dalle scorie che avrebbero offuscato lo splendore dei segni linguistici e compromesso la loro durata nel tempo, Alfieri opera in primo luogo in favore della fama futura, ma quando appronta una seconda edizione delle tragedie, limate al punto da rendere dubbio che “lavorandovi

47 A. Di Benedetto, Un mito alfieriano: Caino, in Id., Tra Sette e Ottocento. Poesia, letteratura e politica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1991, pp. 53-66 (56).

48 Montp. ms. 61 31 6. Il manoscritto comincia con l’indicazione “Sinfonia dà principio” e suggerisce movimenti musicali alla fine di ogni atto: rispettivamente “Allegro lunghetto”, “Allegrissimo”, “Adagio”, “Adagio flebile” e “Adagio flebilissimo e brevissimo”. Cfr. A. Fabrizi, Alfieri e la musica, in Id., Le

scintille del vulcano cit. Una certa apertura di Alfieri per il melodramma sembra testimoniata dagli intermezzi lirici presenti nel Saul, nella Mirra e nell’Alceste seconda, per cui cfr. A. Di Benedetto, Un

mito alfieriano: Caino cit.

49 V. Alfieri, La virtù sconosciuta, p. 58. 50 Ibid.

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egli pur anco vent’anni gli verrebbe mai fatto di portarle notabilmente più oltre”51 ed impreziosite da una veste tipografica prestigiosa che avrebbe fatto dimenticare le “bindolerie pazzine”, egli non si limita a costruire un monumento autocelebrativo da consegnare ai posteri, ma propone una versione finalmente soddisfacente dello stile tragico che aveva inteso realizzare, privata delle asprezze più disarmoniche che gli erano state contestate e che egli aveva riconosciuto come eccessive, ma privata anche – come si è in parte visto e come approfondiremo in seguito – di soluzioni di dettaglio che inizialmente aveva difeso, motivandone strenuamente l’efficacia, e che ora abbandona per cedere alle richieste del pubblico, come risulta dal fatto che tiene in considerazione anche lo scarto fra rappresentazione e lettura che in un primo tempo non gli era sembrato pertinente52. Lo stile delle tragedie non ne risulta stravolto, perché i principi che presiedono alla sua fondazione restano immutati, tuttavia si avvale di una serie considerevole di ritocchi suggeriti al poeta dall’esigenza di ottenere il consenso che era mancato alla prima edizione.

In effetti i critici si accorsero dei cambiamenti ma, pur approvandoli, non li ritennero sufficienti a conferire allo stile alfieriano la venustà e la semplicità apprezzate nel melodramma: la contrapposizione fra il poeta e i professori proseguiva, anche se in termini più concilianti, dato il crescere della notorietà dell’autore, le cui opere avevano presto assunto valore paradigmatico.

Nel 1790 il Lampredi recensisce la seconda edizione delle tragedie, inserendo nell’articolo molti più elogi che critiche53, ma pur concedendo che “rinvenuto del suo errore, l’A. ha fatto infinite mutazioni di stile”, egli lascia intendere che le oscurità e le forzature non sono del tutto superate e contesta le argomentazioni del Parere alfieriano relative al rifiuto dell’armonia tradizionale:

La ragione, che il verso tragico non dee essere armonioso, come quel che serve alla lirica e all’epica, è ottima ragione, ma egli ancora deve avere un’armonia sua propria, che escluda l’affettazione sì, ma anche la durezza, l’intralcio e lo stento54.

51 V. Alfieri, Parere, p. 166.

52 Nella Risposta dell’Alfieri al Calzabigi cit., p. 233, l’autore, pur ribadendo la priorità della parola recitata su quella scritta, sembra disposto a fare concessioni alle modalità della lettura privata: “io non aveva ancora penetrato il gusto del pubblico leggente, per poi conciliarlo quanto possibile col gusto del pubblico ascoltante”.

53 Cfr. A. Fabrizi, Calzabigi contro e per Alfieri cit.

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L’armonia rimaneva dunque un valore irrinunciabile per il Lampredi, non adeguatamente rappresentato nei testi di Alfieri che, secondo il critico, avrebbe dovuto rimediare all’assenza della sonorità lirica ed epica, scartata a ragione, con la creazione di un nuovo tipo di armonia adatta al teatro.

Nel 1796 Bettinelli compone i Dialoghi d’amore e, discutendo della tragedia, accenna al “vero Sofocle a Torino”, “rivale degno de’ greci”, visto che sono “per lo più greci” sia i suoi “argomenti” che “il terrore colla compassione”, “la forza, la stringatezza, la profondità, sin lo stile”55. Sono queste le definizioni che Melpomene applica al suo campione, ma senza convincere del tutto Amore, altro protagonista del dialogo, per il quale Alfieri sarà forse greco, ma... di Sparta, visto che “Sofocle ed Euripide non furon mai sì laconici”56.

La stessa critica viene riproposta dal Carmignani, autore di uno degli scritti più influenti anche per la ricezione successiva dei drammi di Alfieri, vale a dire la

Dissertazione accademica composta per partecipare al concorso bandito dall’Accademia Napoleone di Lucca nel 1806, tre anni appena dopo la scomparsa del poeta, al fine di “esaminare lo stile, lo spirito, e le novità utili o pericolose ch’egli ha introdotte nella Tragedia e nell’arte drammatica”57. Il Carmignani, pur professando ammirazione nei confronti delle opere alfieriane, ne contesta lo stile, degno dei “brodi neri di Licurgo” ma non dell’eloquenza di Atene:

Ma la natura non ha parlato soltanto a Sparta: se colà usò il breve e conciso dire, perché ciò confaceasi ai brodi neri di Licurgo, essa ha parlato eloquentemente ad Atene; e se là si è fatta ammirare dagli eruditi, e da’ facitori di politiche costituzioni, qua ella ha fatto piangere le anime delicate, e sensibili58.

Le osservazioni di Carmignani si iscrivono dunque nel solco tracciato da Bettinelli, che considerava l’Alfieri un politico che aveva voluto farsi poeta senza possedere una reale inclinazione artistica. Le critiche contenute nella Dissertazione costituiscono un utile itinerario per comprendere in concreto cosa i contemporanei disapprovassero nella

55 S. Bettinelli, Dialoghi d’amore, XI cit., p. 1150. 56 Ibid.

57 G. Carmignani, Dissertazione accademica cit. Sul Carmignani cfr. soprattutto L. Melosi, Agli inizi

della critica alfieriana: la polemica Carmignani – De Coureil, in Alfieri in Toscana cit., I, pp. 167-199. Per altre recensioni alfieriane oltre al volume di Morena Pagliai, Parere dell’autore e altre prose critiche cit., cfr. C. Doni, Le tragedie nella recensione del «Corriere europeo», sempre in Alfieri in Toscana, I, pp. 121-129 e A. Fabrizi, Incunaboli di critica alfieriana cit.

58 G. Carmignani, Dissertazione accademica cit., p. 123. Ancora a p. 168, l’autore definisce lo stile alfieriano “lana ispida, e greggia, di cui il riformator del suo secolo dee cuoprirsi”.

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versificazione alfieriana; prima però di intraprendere un’analisi della lingua delle tragedie occorre valutare le modifiche che Alfieri vi apporta dal 1783 al 1789, anno dell’edizione Didot, per individuare i criteri che informano la correzione e poter di conseguenza penetrare più a fondo le ragioni della sua scrittura.

Il cesello della lima

L’analisi delle carte alfieriane rivela la complessità e l’ampiezza della ricerca stilistica condotta dall’autore, che l’edizione nazionale registra per ogni tragedia. Disponiamo infatti dei manoscritti autografi che documentano la graduale genesi di ciascuna opera, dall’idea alla versificazione, dei manoscritti approntati per il tipografo, delle due edizioni pubblicate dall’Alfieri nel 1783 e nel 1789 e delle annotazioni e varianti inserite ancora nelle bozze e nelle copie personali del poeta, e persino dei famosi cartolini, con cui egli segnalava la necessità di sostituire nell’edizione Didot le pagine che contenevano lezioni superate o erronee.

La cura meticolosa prodigata dall’Alfieri alla stampa definitiva delle tragedie è nota: il poeta profitta del soggiorno parigino per “farne un’edizione bella, accurata, a bell’agio, senza risparmio nessuno né di spesa né di fatica”59, nonostante le severe restrizioni dei collaboratori di Didot che gli fanno fare “il sangue verde” e gli alleggeriscono la borsa costringendolo ad acquistare “a peso d’oro” “ogni mutazion di parola”60. Dopo aver “sudato, intisichito, e bestemmiato” per l’intero triennio necessario all’esecuzione del progetto61, i ripensamenti e le correzioni fissati sulla pagina sono talmente numerosi da lasciare al poeta l’impressione che “ogni fatica precedente a

59 V. Alfieri, Vita, IV, 17. Si può notare che in un’epistola del 1786 (Epistolario, I, 163), quando il progetto editoriale delle tragedie era appena stato avviato, Alfieri congiunge esplicitamente il valente scrittore al valente stampatore: “L’eccellente Artefice non deve imprimere che eccellenti autori. Ma così va il mondo. Virgilio loda Augusto, e Bodoni stampa traduzioni”. Come la trattazione di soggetti sublimi richiede uno stile sublime, così anche la veste tipografica deve essere adeguata al valore dell’opera, se infatti Virgilio spreca le sue doti artistiche nell’esaltazione di un tiranno, anziché dei padri della repubblica romana, il celebre Bodoni – tipografo fondatore della Stamperia Reale di Parma – degrada il suo talento artigianale mettendolo al servizio di opere non degne, nello specifico “un Romanzo Greco, e una traduzione del Caro” ai quali il poeta avrebbe preferito “un bel Dante, o un bel Petrarca”. Anche nelle

Rime (200), Alfieri attacca Loschi e Graziosi – che nel 1785 si erano fatti promotori di una ristampa veneziana delle sue tragedie – sottolineando come le annotazioni stentate del primo siano edite dal secondo “in carta-straccia”.

60 V. Alfieri, Vita, IV, 18. 61 V. Alfieri, Epistolario, II, 238.

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quella della stampa era intieramente perduta, se quest’ultima non sopravveniva per convalidarla”62.

La funzione centrale assegnata alle cure tipografiche deriva dall’importanza che l’autore attribuisce alla veste stilistica delle tragedie, come non manca di specificare nel passo considerato della Vita, che si conclude con la seguente considerazione: “Cotanto il colorito e la lima si fanno parte assolutamente integrante d’ogni qualunque poesia”63. Il peso attribuito all’assetto formale aumenta nel corso degli anni, come rivela il confronto dei trattati giovanili – che pongono l’accento sull’impulso naturale e sul valore ideologico dei contenuti – con le pagine dell’autobiografia, composta subito dopo l’esperienza delle stampa e più incline pertanto a valorizzare e a documentare il travaglio correttorio.

Questo si applica soprattutto alle opere giovanili, sottoposte a un processo elaborativo più lungo, che attraversa l’intera carriera di Alfieri, per cui un sondaggio svolto sulle varianti progressivamente introdotte nelle quattro tragedie che compongono il primo volume della Pazzini può essere considerato rappresentativo dell’evoluzione complessiva dello stile drammatico dell’autore e permette di verificarne l’orientamento.

Le tragedie coinvolte sono Filippo, Polinice, Antigone e Virginia; i testimoni presi in esame corrispondono a quelli individuati da Carmine Jannaco, scrupoloso curatore dell’edizione nazionale di queste prime tragedie: la stampa senese del 1783 (S), la copia di Chatsworth su cui l’Alfieri registra l’esito delle conversazioni con Parini e Cesarotti ed introduce alcune modifiche (C), una seconda copia della Pazzini corretta dall’autore (SA), il manoscritto del 1785 di mano del Polidori recante una versione testuale avanzata delle tragedie (P), lo stesso corretto dall’autore nel 1787 (PA), l’edizione Didot (D) e – limitatamente a Filippo, Polinice e Antigone raggruppate nel primo volume parigino che Alfieri chiese di ristampare per intero – le due copie corrette dal poeta (DA1 e DA2) e la terza edizione effettivamente pubblicata (D2).

Nel volume della Casa d’Asti dedicato al Filippo, Jannaco stila una breve sintesi delle varianti apportate da Alfieri, rilevando una modernizzazione linguistica, nonostante le oscillazioni tra forma antica e forma d’uso relative ai termini poetici attestati nella tradizione, oscillazioni che nella maggior parte dei casi lasciano comunque intravedere una preferenza per le forme più correnti.

62 V. Alfieri, Vita, IV, 17.

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Oltre alle varianti di carattere fonetico, l’esame dei quattro testi considerati lascia emergere anche la volontà del poeta di semplificare la sintassi delle tragedie, attraverso interventi che riducono o eliminano le trasposizioni più complesse. Non mancano sostituzioni di valore ritmico, volte a smussare le asperità del verso, grazie alla notevole riduzione dei monosillabi, mentre altri ritocchi conferiscono maggiore rilievo agli accenti.

Una scelta campionatura delle modifiche introdotte da Alfieri permetterà di rintracciare in maniera più circostanziata la strategia delle varianti che l’autore attua nel corso del tempo.

Un primo dato che si impone con evidenza riguarda la riduzione dei pronomi personali, delle particelle pronominali e delle forme ridotte, che nella sua lettera Calzabigi aveva giudicato eccessivi, criticando in particolare la durezza delle contrazioni64. Nella risposta Alfieri ammette di avere ecceduto e conferma la sua disponibilità a correggersi, come in effetti avviene in maniera sistematica, al di là dei due esempi proposti dal Calzabigi e prontamente modificati (Fil. I, 2, 91-92, “Né a me tu aprirlo / Dovevi mai, né posso io udir...” > “Né aprirla / Tu mai dovevi a me; né udir...” e Virg. I, 2, 49 “In petto i’ mi sent’io” > “mi sento in petto”)65.

In particolare sono soppressi i pronomi personali posposti al verbo, specie quando raddoppiano enfaticamente un pronome che precede:

Fil. I, 1, 8

S Natura, e ’l Ciel? ma che dich’io; strapparmi SA Natura e il Ciel?... Che dico? oimè! strapparmi P Natura e il cielo?... Oimè! che dico? imprendo

Fil. I, 2, 133

S Ultima, e prima i’ ti chiegg’io; sottratti

P Destin presaga. – Ultima e prima, io chieggio / Prova da te d’amor, se m’ami: al padre

DA1 D’amor ti chieggio, ove tu m’ami: al padre DA2 Ch’io ti chieggio, se m’ami: al crudo padre

Fil. I, 4, 51

S Coll’aprirti il mio cor, i’ nol poss’io. SA Coll’aprirti il mio core, io no, nol posso D2 Coll’aprirti il mio core, oh ciel! nol posso

Fil. I, 4, 67

S Né mi dolgh’io del Ciel; del Ciel, che largo SA Né mi dolgo del Ciel; del Ciel, che largo DA1 Più non mi dolgo del Ciel; del Ciel, che largo

64 Lettera di Ranieri de’ Calzabigi su le prime quattro tragedie dell’Alfieri cit., pp. 213-214. 65 Negli esempi proposti l’ultima lezione indicata corrisponde a quella definitiva.

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Pol. II, 3, 53

S Di Re finor, fama non n’hai né fede. / Io, che non son spergiuro, i’ tel diedi, io P Finor di re; fama non n’hai, né fede / Io che non son spergiuro, a te il mio

trono / Volto l’anno, rendea

Pol. II, 6, 68

S Sua vita i’ non vogl’io. SA I’ non vogl’io sua vita

P Io non sua vita voglio

D Non sua vita io voglio

D II lez. Non la sua vita io voglio

Pol. V, 2, 5

S Ah traditor! i’ ti vogl’io... SA Ahi traditor! ti voglio io stessa...

Virg. IV, 2, 102

S I’ non son’io, che spinge

SA Non son’io, che spinge P Non son io, che spinga Le forme ridotte sono sostituite da quelle piene:

Fil. I, 2, 38

S Certo Madrigna i’ non ti son; se osassi SA Certo, madrigna io non ti son: se osassi66

Fil. I, 4, 22

S Nome i suoi vili non vogl’io, né ’l deggio C Nome i suoi vili non vogl’io, né il deggio (Parini) P Nome i suoi vili or non vogl’io, né il deggio.

Pol. I, 1, 28

S Regina i’ son, e l’almo sole i’ veggio P In trono io seggo, e l’almo sole io veggio

Pol. II, 6, 24

S Solo, ed inerme i’ vo’ restarmi in Tebe SA Solo, ed inerme, io rimarrommi in Tebe

Ant. I, 1, 27

S Questo fia ’l don ch’i’ ti riporto in Argo P Figlio, ecco il don, ch’io ti riporto in Argo

Ant. III, 1, 12

S Chi m’ardiria pregar per chi l’infranse D2 Qual mi ardiria pregar per chi l’infranse

Virg. I, 1, 48

S L’odio i’ t’imbevvi del Patrizio nome PA T’imbevvi io l’odio del patrizio nome

Virg. I, 5, 29

S Sorge per me diverso: i’ ti son Sposa D Sorge per me diverso: io son tua sposa

(20)

Virg. II, 3, 10

S Ch’i’ la domanda fessi D Che la domanda io fessi67

Vengono eliminati alcuni pronomi grammaticalmente inessenziali e particelle pronominali ridondanti, in parte responsabili della durezza rimproverata ai versi di Alfieri, il quale pur riconoscendone la sconvenienza, si rifiuta di accettare una valutazione critica del suo stile fondata solo su aspetti marginali, che non ne inficiano il valore complessivo, come appare nell’epigramma 219 delle Rime, composto nel settembre 1783: “Tolti di mie tragedie i due t’hai tu, / Le intendi più? / Dunque in esse null’altro era di più, / Lettor, che tu”.

Si considerino a titolo esemplificativo i seguenti passi:

Fil. I, 2, 12

S Ben sai, qual’io mi viva P Ben sai, finor qual vita DA1 Il sai, qual vita io tragga68

Fil. I, 2, 29-30

S E in pregio troppo / La mia t’hai tu. C In pregio hai troppo / La mia d’assai. D2 In pregio hai troppo / La mia pietà.

Fil. I, 2, 61-62

S Agli occhi sempre; e del pensier s’io m’era C Grave dover; e del pensier s’io m’era SA Grave dover; e del pensier s’io fossi PA Stavami sempre; e del pensier s’io fossi DA1 E s’io, pur del pensiero, / Fossi reo

Fil. I, 2, 105

S Chi son’io pensa e chi se’ Tu: di tutta SA Chi son’io pensa e chi tu sei: di tutta DA1 Pensa, deh! pensa or chi siam noi. Di tutta DA2 Pensa, deh! chi son io; pensa, chi sei.

Fil. I, 4, 39

S Tant’ i’ chieggo, e non più; qual mi resta altro C Tanto chieggo, e non più; qual mi resta altro (Parini) DA1 Tanto chieggo, e non più; qual altro resta

DA2 Tant’io chieggo, e non più: qual altro resta

Fil. II, 1, 2

S Cara t’hai tu? C Cara hai tu? P In pregio hai tu?

67 La correzione è estesa anche alle forme verbali, alle preposizioni articolate, ecc. (per es. Virg. V, 4, 140 S: “Or quel di pria se’ Tu?”; P: “Or quel di pria sei tu?” e ibid. II, 2, 39 S: “E a’ suoi nemici più. Noi siam di Plebe”; PA: “Ed ai nemici più. Noi siam di plebe”) e rientra nella tendenza ad intervenire su elisioni e troncamenti.

68 In questo verso Alfieri accetta l’obiezione di Parini registrata nella copia di Chatsworth: “mi non piacque al Parini”.

(21)

Fil. II, 1, 3

S Mezzo, ond’io la m’ebbi C Mezzo, ond’io la ottenni (Parini)

Fil. III, 5, 120

S Il Re dei re, pien di terror Tu ascolta P Il Re dei Re, pien di terror, ascolta

Fil. III, 5, 217

S Maggior ti fai? Perché noi quì ne appelli? DA1 Maggior ti fai? Perché appellarci? Solo

Fil. III, 5, 90

S Ecco qual sorte or ne s’appresta. Cari D Ecco qual sorte or ne s’aspetta. E cari DA1 Ecco qual sorte a noi si aspetta. E cari DA2 II var. Ecco qual sorte a noi sovrasta. – Ah! cari

Pol. I, 1, 81

S Spero in colui che non ha Regno. Ei s’era SA Spero in colui che non ha Regno. Egli era PA Spero in quel che non regna: egli era sempre D2 Spero in quel che non regna: era ei pur sempre

Pol. II, 3, 55

S Tu fede; il mio ti chieggio; e, se a me ’l rendi P Serba il tuo; quanto i’ chieggio è mio; se il rendi

PA Or tienlo tu (L’attieni or tu). Ti chieggio il mio; se il rendi PA II var. Il tuo mantieni. – Il mio retaggio chieggo

Pol. II, 4, 45

S Agli Avi tuoi. Qual s’ebbe in Tebe regno P Agli Avi tuoi. Qual ebbe in Tebe regno D Agli avi tuoi: qual ebbe in Tebe scettro

Ant. I, 3, 47-48

S Tanto io t’amo: vederti i’ non volea / In Tebe mai, né il vo’... [...] P Tanto e più t’amo: In Tebe io non volea / Vederti mai; né il vo’...[...]

DA Ti amava / Io già, quant’egli: ma, vederti in Tebe / Mai non volea; né il vo’...

[...]

Ant. I, 3, 170-171

S Or tormi / Vuoi tu tal gloria? P Or vuoi / Tal gloria tormi? DA E tormi / Tal gloria vuoi?

Ant. III, 1, 5

S Supplice i’ vengo: il fiero P Supplice vengo: il fero

Virg. I, 5, 5

S Ognor tu di Virginio Figlia

P Ognora di Virginio figlia

Virg. I, 5, 30

S Più non mi taccio. O de’ Romani primo P Più omai non taccio. O de’ Romani primo

(22)

Virg. II, 3, 7

S Appio, che il dritto; e ch’i’ me l’abbia, prova SA Appio, che il dritto e ch’io qui l’abbia, prova P Appio, che il dritto; e del mio dritto prova

Virg. II, 3, 42

S Privato io pur, qual tu ti sei, pietade SA Privato io pur, qual ti sei tu, pietade P Privato io pur, quale tu sei, pietade PA Io pur privato, qual tu sei, pietade

Virg. II, 3, 62

S Taci Tu omai. Che speri? in che t’affidi?

SA Taci, Icilio. Che speri? in chi t’affidi?

La soppressione di alcuni pronomi contribuisce alla diminuzione dei monosillabi che frantumano il verso, come avviene anche negli esempi proposti:

Fil. I, 2, 2-3

S E che, tu pur tuo aspetto / Tu pur, Regina, a me infelice togli?

DA1 Regina, e che? tu pure a me t’involi? / Sfuggi tu pure uno infelice oppresso?

Fil. V, 2, 41

S Effetti or, sol che mi t’arrenda a’ preghi C Effetti sol che a’ miei preghi t’arrenda PA Provar potrai, se a’ preghi miei ti arrendi

Pol. I, 4, 73

S Quì pur t’è forza SA Pur, quì t’è forza DA Ti è forza pure

Pol. III, 3, 34

S Lo sdegno, il diffidar: me sol, me credi PA Lo sdegno, il diffidar: me sola credi...

Ant. I, 3, 143

S Perdesti, il so: ma tu, tu non se’ Figlia P Perdesti, il so: ma tu, figlia non nasci

Ant. IV, 5, 23

S Abbila, e teco te la porta in Argo PA Abbila, e il dolce incarco in Argo arreca

Ant. V, 5, 8

S Pietà di plebe, or più che mai, che il Figlio P Pietà di plebe; or tanto più, che il figlio

Virg. II, 3, 56

S Se qui ’l Padre non è PA S’anco il padre non v’è

Virg. II, 3, 150

S Fidar: voi ciò ch’io son, me feste voi P De’ Dieci: voi, ciò che son’io me feste PA Città: ciò che son io, me feste voi. D Città: me, quanto io son voi stessi feste

(23)

Virg. III, 2, 28

S S’era il dì, ch’io di Sposo man ti dava SA Era il dì, ch’io di Sposo man ti dava PA Era in quel dì, ch’io diveniati sposo

La riduzione dei pronomi personali nella seconda edizione coinvolge passi che inizialmente Alfieri aveva difeso dalle critiche, contando anche sull’approvazione dei letterati più autorevoli; è il caso dei vv. 102-107 di Fil. II, 4 che avevano richiamato l’attenzione benevola di Parini, come emerge dalle annotazioni nella copia di Chatsworth: “Questi tu son piaciuti singolarmente al Parini ch’è entrato bene nel senso di Filippo che l[i] dice, ma bene, bene c’è entrato, e l’ha sentito con il perché”69.

I versi sono estratti da una battuta di Filippo, che riporto nella prima versione: Ben me ne torni: e tu grato sii molto

A lei: tu l’ama assai: molto ella spera Di te... Sua speme a non tradir tu pensa. E tu, perch’ei di ben più sempre in meglio Vada, tu spesso il vedi... a lui favella. E tu l’ascolta, e non la sfuggi... Io ’l voglio.

Il tiranno si rivolge al figlio e alla consorte ordendo la trama che condurrà alla loro rovina; l’insistenza sul pronome di seconda persona, riferito ai due protagonisti, marca la funzione dominante di Filippo – suggellata dalla lapidaria espressione che conclude la sua battuta (Io ’l voglio) rivelandone il valore imperativo – e, al tempo stesso conferisce un tono inquisitorio alle sue parole: i personaggi vengono interpellati deitticamente nel momento in cui si denunciano in forma velata i sentimenti colpevoli che li uniscono, tramite la rete relazionale evocata dall’intrecciarsi dei pronomi che li designano (tu

grato sii... a lei... ella spera di te... tu spesso il vedi... tu...non la sfuggi...). I due amanti sono così spinti a tradirsi sotto lo sguardo scrutatore del tiranno e del suo ministro, che infatti, rimasti soli, confermeranno nei versi successivi i sospetti formulati prima dell’udienza.

L’iterazione del pronome personale contribuisce a rafforzare la tensione psicologica della scena, inducendo lo spettatore a volgere lo sguardo alternativamente dall’uno all’altro dei personaggi interpellati.

Nell’edizione Didot invece si legge:

69 Ibid., p. 386.

(24)

O figlio, A non tradir sua speme, a vie più sempre Grato a lei farti, pensa. – E tu, regina, Perché più ognor di bene in meglio ei vada Più spesso il vedi, ... e a lui favella,... e il guida. – E tu, la udrai, senza sfuggirla. – Io ’l voglio.

Alfieri riduce in modo sensibile le occorrenze del pronome di seconda persona, limitandole soltanto a due, distribuite fra la regina e il principe, ma in cambio le stringe in un rapporto di coordinazione più evidente, facendole precedere dalla congiunzione e da una forte pausa che, nel sistema interpuntivo finissimo che l’autore perfeziona in occasione della seconda edizione delle tragedie, si traduce non solo con il punto, ma anche per mezzo del trattino70. Questo scandisce le pause della recitazione isolando i tre segmenti testuali rivolti a personaggi diversi e mettendo in rilievo la chiusa del discorso, che si conclude con l’affermazione dell’inesorabile volontà sovrana. La funzione intensificante inizialmente affidata alla geminazione del pronome viene ora sostituita da un silenzio allusivo più marcato rispetto alla prima versione, che grava di pregnanza semantica il discorso di Filippo.

Il numero dei pronomi è ridimensionato anche nei vv. 9-11 di Fil. I, 2, per cui, analogamente al passo preso in esame, il poeta riferisce sulla copia di Chatsworth: “Rezzonico lodò questi Tu come parti integranti dell’energia di questa parlata”71. Si tratta di una battuta di Carlo, che nell’edizione senese suonava:

Ma tu non usa a incrudelir; tu nata Sotto men duro Ciel: tu non per anco Corrotta il cor infra quest’aure inique e che viene modificata in seguito con l’eliminazione di un tu:

Ma tu non usa a incrudelir; tu nata Sotto men duro cielo, e non per anche Corrotta il core infra quest’aure inique

La scelta, ascrivibile alla volontà di rendere più fluida l’espressione, matura con il tempo, che attenua le resistenze di Alfieri, sospingendolo a tornire versi che considerava ultimati.

70 Sulle pause nel teatro alfieriano cfr. F. Vazzoler, «...»: la pausa nel verso delle tragedie alfieriane, in Il

verso tragico dal Cinquecento al Settecento cit., pp. 295-322.

(25)

Tra le non numerose varianti che interessano questo passo occorre considerare anche la sostituzione della forma apocopata con quella piena per le parole ciel > cielo e

cor > core. Si tratta di una modifica che coinvolge parecchi altri versi delle prime tragedie e che acquista un valore ritmico di rilievo quando i termini coinvolti corrispondono alla cesura dell’endecasillabo, dal momento che quest’ultima da maschile diventa femminile. La portata della modifica è più apprezzabile nel caso in cui la prima sillaba del secondo emistichio sia tonica, come nel verso citato sopra

Sotto men duro Ciel: tu non per anco.

Il cozzo di due accenti consecutivi nel cuore del verso viene meno nella versione finale:

Sotto men duro cielo, e non per anche

Questa infatti non presenta solo una parola piana anziché tronca di fronte a cesura, ma schiera a seguire una congiunzione atona al posto del pronome personale, modificando la distribuzione degli accenti, in quanto una sequenza fortemente scandita (1a 4a 6a 7a 10a) è sostituita da uno schema più blando (1a 4a 6a 10a).

Un termine tronco davanti cesura è evitato nel seguente esempio, per cui Alfieri finisce per accogliere il suggerimento di Parini (“dir non piacque al Parini”):

Fil. I, 4, 48

S Che nol ti poss’io dir? Di Te non cerco PA Che non tel poss’io dir? Di Te non cerco DA1 Che non tel posso io dire?... Ah! no, non cerco

Le forme piene vengono ripristinate anche nei casi seguenti, in cui i termini tronchi si trovano di fronte a cesura metrica o pausa sintattica (o, più spesso, entrambe):

Pol. I, 1, 3

S Rechi al mortal mio duol. D’incesto Figlia SA Rechi al mortal mio duolo. A te pur vita PA Rechi al mortal mio duolo: e a te pur vita

Pol. I, 1, 64

S Ed io non son? tra lor qual forza loco P Ed io, non sono? e aver forza può loco PA Ed io, non sono? aver tra lor può loco

Pol. III, 3, 87

S Pur io bersaglio son. Esul tant’anni PA Son’io bersaglio pure; esul tant’anni DA Sono il bersaglio pure. Esul tanti anni

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