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Conseguenze derivanti dall’abrogazione dell’art. 12 del R.D. n. 12/41 prevista dall’art. 31 lett. a) del Dlgs. n. 109/06.

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Conseguenze derivanti dall’abrogazione dell’art. 12 del R.D. n. 12/41 prevista dall’art. 31 lett.

a) del Dlgs. n. 109/06.

(Delibera dell’8 gennaio 2009)

Il Consiglio superiore della magistratura, nella seduta dell’ 8 gennaio 2009, ha adottato la seguente delibera:

“premesso che:

il Presidente della Corte d’appello di …, con nota del 19 giugno 2008, ha riferito che il Consiglio giudiziario di …, nella seduta del 26 maggio 2008, ha deliberato di formulare un quesito in ordine alle conseguenze derivanti dall’abrogazione dell’art. 12 del R.D. n. 12/41 da parte dell’art.

31 lett. a) del D.lgs. n. 109/06, chiedendo in particolare, di conoscere se la detta abrogazione comporti il venir meno, per i magistrati ordinari, dell’obbligo di richiedere l’autorizzazione al capo dell’ufficio a risiedere in altro luogo diverso da quello dell’ufficio, in base alla circolare del Consiglio superiore della magistratura n. 6019 del 13 luglio 1984.

Osservato, anche secondo il parere dell’Ufficio Studi, che:

come è noto, l’art.12 dell’Ordinamento giudiziario di cui al R.D. n. 12/1941, oggi abrogato, prevedeva che “Il magistrato ha l’obbligo di risiedere stabilmente nel comune ove ha sede l’ufficio giudiziario presso il quale esercita le sue funzioni e non può allontanarsene senza autorizzazione”.

In merito all’applicazione di questa disposizione il Consiglio superiore ha emanato le circolari 14 marzo 1966 e 9 marzo 1967, cui è succeduta la circolare n. 6019 del 13 luglio 1984, che è quella attualmente in vigore.

In essa, dopo aver riaffermato “la validità dell’obbligo di residenza dei magistrati nella sede del proprio ufficio, sia per ragioni di doverosa reperibilità, sia perché è necessario che i cittadini abbiano un’immagine corretta dell’amministrazione della giustizia con possibilità di immediato contatto con il magistrato o con i magistrati della giurisdizione di appartenenza”, il Consiglio superiore della magistraura per la prima volta ha dato risposta positiva alla questione circa l’applicabilità al personale della magistratura della disposizione di cui all’art.12 D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, che, nel porre l’obbligo di residenza a carico degli impiegati civili dello Stato, prevede, tuttavia, la possibilità che il dipendente pubblico sia autorizzato, per rilevanti ragioni, a risiedere altrove, “quando ciò sia conciliabile con il pieno e regolare adempimento di ogni altro suo dovere”. In virtù di questa circolare è diventato pertanto possibile per il magistrato richiedere l’autorizzazione a risiedere fuori dal comune ove ha sede il proprio ufficio.

La circolare ha indicato, inoltre, i presupposti ed il procedimento per il rilascio della predetta autorizzazione, precisando che essa deve essere concessa dal capo dell’ufficio giudiziario presso cui il magistrato presta servizio, il quale è tenuto a valutare le ragioni addotte nella richiesta in relazione alle reali necessità dell’ufficio di appartenenza, specie con riferimento a quelle attività che richiedono un’immediata presenza del magistrato in sede, potendo concederla “solo quando sono pienamente soddisfatte le esigenze di servizio”. Nella richiesta di autorizzazione il magistrato ha, a sua volta, l’onere di indicare le esigenze personali che lo inducono a stabilire la propria residenza fuori dalla sede del proprio ufficio e di rilasciare dichiarazione di esonero da responsabilità per l’amministrazione per ogni evento dannoso che dovesse subire in itinere, fuori sede. Inoltre nel caso in cui al magistrato è assicurato, per ragioni di sicurezza personale, l’uso di autovetture blindate, “la valutazione delle necessità esposte dall’interessato dovrà essere particolarmente rigorosa, al fine di evitare il più possibile il conseguente aggravio di spesa che una tale situazione obiettivamente determina”.

L’autorizzazione è quindi rilasciata dal capo dell’ufficio previo parere del Consiglio giudiziario e trasmessa al Consiglio superiore per la sua annotazione in apposito registro. In caso di diniego, si ammette che l’interessato possa rivolgere reclamo al Consiglio superiore della magistratura, spiegandone i motivi.

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Alla predetta circolare hanno poi fatto seguito, sul tema in argomento, alcune delibere, che hanno avuto modo di apportare ulteriori chiarimenti e precisazioni. Tra di esse possono segnalarsi le delibere 22 aprile 1993, che ha escluso che l’obbligo di residenza si configuri anche nei confronti del magistrato applicato, atteso che esso, per sua natura, va riferito allo stabile esercizio di funzioni presso un determinato ufficio giudiziario, e 29 ottobre 1997, secondo cui il termine di residenza utilizzato dalla norma dell’Ordinamento giudiziario corrisponde nella sostanza a quello di cui all’art. 43 c.c., per il quale “la residenza è nel luogo in cui la persona ha l’abituale dimora” (in questo senso anche Cons. Stato, sez.III, 17. 4. 1984, n.590), sicché, a tal fine, esso non può dirsi rispettato mediante il mero acquisto della residenza anagrafica.

Dell’obbligo del magistrato di risiedere nella sede del proprio ufficio si è infine occupata anche la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, che ha più volte ritenuto la sua inosservanza comportamento integrante di per sé un illecito disciplinare (vedasi sentenze 27. 4.

1992 e 24. 11. 1995, in Quaderni del C.S.M. n. 85, 313 ).

Orbene, l’art. 31 del D.lgs. n. 109/06, dedicato alla disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, dispone l’espressa abrogazione dell’art. 12 del R.D. n. 12/41. Va notato che il secondo comma del citato art. 12 prevedeva che “il magistrato che trasgredisce alle disposizioni del presente articolo è soggetto a provvedimenti disciplinari e può comunque essere privato dello stipendio…”; è presumibile quindi che l’abrogazione introdotta dall’art. 31 del D.lgs. n. 109/06 trovi la sua prima ragione nella opportunità di evitare sovrapposizioni nella previsione delle ipotesi di illecito disciplinare.

Ciò specie in considerazione del fatto che lo stesso decreto legislativo n. 109 del 2006, nell’elencare all’art. 2 le fattispecie di illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni, prevede alla lettera p) “l’inosservanza dell’obbligo di risiedere nel comune in cui ha sede l’ufficio in assenza dell’autorizzazione prevista dalla normativa vigente se ne è derivato concreto pregiudizio all’adempimento dei doveri di diligenza e laboriosità”, così ricalcando la stessa formulazione contenuta nella legge delega n. 150/05 (art. 2, punto 6, lett.b) 3).

Peraltro, la circostanza che nello stesso testo normativo (il D.lgs. n. 109/06) sia contenuta prima la previsione dell’illecito disciplinare connesso alla inosservanza da parte del magistrato dell’obbligo di risiedere nel comune ove ha sede l’ufficio e dopo l’abrogazione della norma che specificamente imponeva tale obbligo, induce a ritenere che non fosse intenzione del legislatore eliminare il prescritto dovere di far coincidere, di regola, la propria dimora abituale con il comune dell’ufficio.

Ed infatti, come già accennato sopra, l’obbligo di residenza è previsto, in linea generale, dall’art. 12 del DPR n. 3 del 1957 (T.U. sugli impiegati civili dello Stato), il quale dispone che

“l’impiegato deve risiedere nel luogo ove ha sede l’ufficio cui è destinato. Il capo dell’ufficio, per rilevanti ragioni, autorizza l’impiegato a risiedere altrove, quando ciò sia conciliabile col pieno e regolare adempimento d’ogni altro suo dovere; dell’eventuale diniego è data comunicazione scritta all’interessato”. Da tale norma è, quindi, prevista la possibilità di essere autorizzato a risiedere altrove, quando sussistano valide ragioni e non sia compromessa la regolarità del servizio e l’osservanza dei doveri d’ufficio.

E’ quindi presumibile ritenere che l’abrogazione operata dall’art. 31 del D.lgs. n. 109/06 sia intervenuta per semplificare le fonti normative, nella consapevolezza che le disposizioni di cui all’art. 12 del DPR n. 3/57 erano coincidenti con la specifica norma dell’art. 12 del RD n. 12/41 ed erano già state, in qualche misura, recepite dal Consiglio superiore della magistratura nella sua circolare n. 6019 del 1984 che aveva adattato la normativa secondaria a quella disciplina, mutuando dallo stesso DPR n. 3/57 la possibilità di una autorizzazione a risiedere fuori sede in presenza di alcuni presupposti e requisiti che garantissero l’adempimento dei doveri d’ufficio.

Ciò consente di ritenere persistente il dovere del magistrato di fissare la propria residenza, di regola, nella sede dell’ufficio e nel contempo la possibilità di essere autorizzati dal capo dell’ufficio a risiedere altrove, purché da ciò non derivi concreto pregiudizio all’adempimento dei doveri di diligenza e laboriosità.

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Diversamente sarebbe difficile giustificare la presenza di una norma sostanziale che prevede espressamente l’ipotesi di un illecito disciplinare in caso di trasgressione dell’obbligo di fissare la residenza nel luogo ove ha sede l’ufficio. Peraltro, sembra legittimo far riferimento, anche se residuale, ad una fonte normativa generale quale il Testo unico per gli impiegati civili che lo stesso Consiglio ha richiamato in occasione dell’approvazione della circolare n. 6019 del 1984.

Si ritiene opportuno precisare inoltre che la norma di cui all’art. 12 del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, è stata oggetto di una parziale “disapplicazione” nei confronti di alcune categorie di personale pubblico dipendente, in seguito alla sottoscrizione dei contratti collettivi, “in quanto contenenti disposizioni espressamente disapplicate dagli stessi contratti collettivi” (Consiglio di Stato sent. n. 6191/04).

In particolare l’art. 71, comma 1, del D.lgs. n. 165/2001, dedicato a definire le disposizioni inapplicabili a seguito della sottoscrizione di contratti collettivi, prevede che: “ai sensi dell'art. 69, comma 1, secondo periodo, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi per il quadriennio 1994-1997, cessano di produrre effetti per ciascun àmbito di riferimento le norme di cui agli allegati A) e B) al presente decreto, con le decorrenze ivi previste, in quanto contenenti le disposizioni espressamente disapplicate dagli stessi contratti collettivi. Rimangono salvi gli effetti di quanto previsto dallo stesso comma 1 dell'articolo 69, con riferimento all'inapplicabilità delle norme incompatibili con quanto disposto dalla contrattazione collettiva nazionale”.

Tra le varie norme individuate dagli allegati A) e B) vi è anche l’art. 12 del D.P.R. n. 3/57 che dispone l’obbligo di residenza per gli impiegati.

Pertanto, lungi dal ritenere la norma di cui all’art. 12 del D.P.R. n. 3/57 abrogata, occorre segnalare che tale disposizione ha subìto un consistente ridimensionamento in seguito alla disciplina sostitutiva scaturita dalla contrattazione collettiva applicata ad alcune categorie del pubblico impiego.

Tuttavia è bene sottolineare che, anche se in un limitato e residuale àmbito, tale norma continua ad avere efficacia e comunque rappresenta chiaramente una indicazione della volontà legislativa nei riguardi dei pubblici dipendenti non contrattualizzati, cui appartengono anche i magistrati.

Peraltro, è opportuno ribadire che la previsione di un’apposita fattispecie di illecito disciplinare sancita dalla lettera p) dell’art. 2 D.lgs. n. 109/06, consente di attribuire alla norma abrogativa di cui all’art. 31 dello stesso decreto legislativo un limitato rilievo, posto che l’ordinamento giuridico non può rendere possibili antinomie di tale rilevanza allorché l’apparente contrasto sia superabile attraverso un percorso logico interpretativo.

Va dato atto, infine, che la Commissione ha disposto l’apertura di una pratica per aggiornare la circolare sull’obbligo di residenza dei magistrati nella sede del proprio ufficio, soprattutto allo scopo di specificare le concrete modalità applicative della disciplina.

Tutto ciò premesso, pertanto,

delibera

di rispondere al quesito nei sensi di cui in motivazione alla stregua delle considerazioni esposte nel senso che il dovere del magistrato di fissare la propria residenza, di regola, nel luogo ove ha sede l’ufficio deve considerarsi ancora vigente, anche in seguito all’abrogazione dell’art. 12 del R.D. n. 12/41 ad opera dell’art. 31 del D.lgs. n. 109/06, e, nel contempo, la possibilità di essere autorizzati dal capo dell’ufficio a risiedere altrove può essere concessa, purché da ciò non derivi concreto pregiudizio all’adempimento dei doveri di diligenza e laboriosità.”

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