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Perdite su crediti: dilemma civilistico-fiscale; svalutazione dei crediti e rilevazione delle perdite

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Perdite su crediti: dilemma civilistico-fiscale; svalutazione dei crediti e rilevazione delle perdite

di Mauro Nicola

Pubblicato il 1 febbraio 2010

prosegue l’interessante illustrazione sulla gestione della svalutazione crediti e delle paridite su crediti a fini fiscali (parte seconda)

Per collegarsi alla prima parte clicca qui: PRIMA PARTE

La fiscalità della cessione dei crediti

Il problema, riguardo al trattamento fiscale delle perdite su crediti conseguenti alla cessione, è se nella soluzione del “pro soluto”, visto che si configurano la certezza e la precisione della perdita alla luce della definitività della cessione, si possano sempre dedurre i relativi costi.

Questa soluzione, che è logica, è stata messa in forte discussione in questi ultimi anni da una consolidata corrente di pensiero della giurisprudenza e del fisco, che ritiene, invece, che le condizioni di certezza e precisione della perdita del credito debbano necessariamente configurarsi a monte, prima della cessione, e quindi si debbano riferire alla condizione del credito ceduto e non agli effetti del negozio giuridico di cessione.

La situazione, evidentemente, è oggi di particolare attualità se è vero che lo scorso 5 novembre 2008 è stata presentata un’interrogazione parlamentare, la numero 5-00570 dai deputati Occhiuto e Galletti, proprio al fine di chiarire il problema.

La risposta è stata, ancora una volta, nel senso di condizionare la deducibilità della stessa alla circostanza che il contribuente possa dimostrare la sussistenza, a monte, degli elementi di certezza e precisione delle perdita su crediti.

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Posizione questa che ben potrebbe prestarsi a rilevanti contestazioni.

Al contrario, la cessione pro-solvendo, prevedendo l’azione di regresso a favore del cessionario, non consente di individuare il credito come definitivamente uscito dalla sfera giuridico patrimoniale del cedente e, quindi, non rende certa e definitiva la perdita, con la conseguenza che tale formula di cessione non consente di dedurre alcuna perdita su crediti.

Le perdite su crediti nelle procedure concorsuali

Nel caso in cui il debitore sia assoggettato ad una delle procedure concorsuali previste dalla legge si realizza una presunzione di sussistenza delle condizioni di certezza e precisione della perdita del credito.

Di qui la conseguente apertura alla deducibilità del costo.

Al fine dell’individuazione del momento in cui si considera perso il credito la norma prevede che

“il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”.

Quindi il creditore, all’atto dell’apertura del procedimento, può legittimamente dedurre fiscalmente l’intera perdita su crediti, previo, ovviamente, l’utilizzo del fondo eventualmente accantonato, senza dover attendere la chiusura della procedura.

L’articolo 101, comma quinto, Tuir deve essere interpretato nel senso che le perdite su crediti nei confronti di debitori assoggettati a procedure concorsuali, fiscalmente parlando, sono di competenza dell’esercizio di apertura della procedura concorsuale; il compilatore del bilancio non ha alcun arbitrio, deve attenersi rigorosamente al principio di competenza.

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Sul tema della tempistica della deducibilità delle perdite su crediti in occasione dell’apertura di procedure concorsuali a lungo si è discusso sia in dottrina che in giurisprudenza.

L’esercizio in cui dedurre le perdite su crediti nei confronti di clienti falliti o sottoposti ad altre procedure concorsuali è quello in cui le perdite si manifestano e sono iscritte in bilancio secondo il prudente apprezzamento degli amministratori, il che può avvenire o nell’esercizio stesso di inizio della procedura concorsuale o anche, in tutto o in parte, in quelli successivi.

L’aspetto principale del problema è insito nella determinazione dell’esercizio e, quindi, del periodo di imposta in cui il creditore può operare, legittimamente, l’imputazione del credito a perdita.

Se non vi è dubbio alcuno che la deducibilità sia ammessa, sempre e comunque, nel momento di assoggettamento del debitore a procedura concorsuale, così come ricordato dalla circolare ministeriale numero 39/E/2002, e coincidente con la data :

della sentenza dichiarativa di fallimento;

del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa;

del decreto di ammissione al concordato preventivo;

del decreto che dispone l’amministrazione delle grandi imprese in crisi.

L’aspetto più pregnante del problema deve però essere ricercato nella comprensione da parte del creditore che in caso di procedura concorsuale l’esercizio di deducibilità va individuato in relazione al momento in cui si è raggiunta la certezza della totale, o parziale, inesigibilità,

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dovuta alla sopravvenuta conoscenza della reale insufficienza della massa attiva fallimentare.

Le perdite non dedotte nel corso della procedura potranno essere imputate a costo nell’esercizio nel quale avverrà la chiusura della procedura concorsuale, così come peraltro illustrato al punto 4.1.11 della relazione sull’attività svolta nell’anno 1990 dal SECIT.

La logica conseguenza di tale assunto è l’esclusione di un qualsiasi libero arbitrio lasciato all’estensore del bilancio d’esercizio sull’individuazione dell’esercizio di deduzione.

In argomento sono intervenuti anche i giudici di legittimità con due sentenze:

numero 12831 del 04 settembre 2002

numero 16330 del 03 agosto 2005

Con la Sentenza 4.9.2002, n. 12831, la Suprema corte ha evidenziato come il principio di certezza imponga di imputare e dedurre il componente non appena sia certo poiché, ammettendo l’indiscriminato riporto del componente da un esercizio all’altro, il principio di certezza sarebbe vanificato, mentre i rinvii sono ammessi solo quando consentiti in conformità di specifiche disposizioni, come statuito dal previgente articolo 75, comma 1, D.P.R. 917/1986, il cui contenuto si ritrova nell’attuale articolo 109, comma 1, D.P.R. 917/1986, in ossequio al quale i componenti del reddito, di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare, concorrono a formare il reddito imponibile nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni.

La Cassazione, peraltro, ha negato la tesi dell’Amministrazione finanziaria secondo la quale le condizioni di certezza dell’esistenza e determinabilità obiettiva dell’ammontare “si verificherebbero immancabilmente con l’apertura di una procedura concorsuale”.

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Essa ha ricordato, infatti, che il previgente articolo 66, comma terzo, D.P.R. 917/1986, ora articolo 101, comma quinto, D.P.R. 917/1986, pur permettendo di superare il precedente rifiuto di riconoscere l’elevato tasso di improbabilità della realizzazione del credito nei confronti di soggetti dichiarati insolventi, non obbliga comunque a disconoscere che i vari tipi di procedure concorsuali consentono, in tutto o in parte, il recupero del credito in dipendenza di molteplici variabili.

Se è concessa la deduzione della perdita nell’esercizio in cui inizia la procedura concorsuale in capo al debitore, non si determina comunque una deroga al principio più generale di competenza fiscale, cosicché la concessione della deducibilità in presenza di procedure concorsuali non ha il significato di attribuire certezza e integrità della perdita sul credito, ma ha il più limitato valore di introdurre una presunzione semplice, la cui applicabilità deve essere valutata nel caso concreto, senza trascurare il valore di presumibile realizzazione del credito.

Così, se la perdita su crediti non deve essere contabilizzata necessariamente e per intero nel periodo di esercizio in cui si apre la procedura concorsuale, e rimane, quindi, valido il principio generale di certezza e determinabilità, è comunque preclusa la possibilità di scegliere il periodo di esercizio in cui dedurre la perdita tra quelli posteriori all’apertura della procedura concorsuale, rimanendo sovrana la volontà della Legge.

Con la sentenza numero 16330 del 2005, invece, la Corte di Cassazione non è entrata nel merito dell’apprezzamento dei fatti probatori, costituiti dalla nota del legale e dall’esito infruttuoso delle procedure esecutive, giacché non attinenti alla legittimità, limitandosi ad affermare, in argomento, la correttezza della decisione della Commissione tributaria regionale.

Peraltro, considerando tali fatti probatori come costituenti gli elementi certi e precisi richiesti per dedurre la perdita dal previgente articolo 66, comma 3, D.P.R. 917/1986, e dal vigente articolo 101, comma 5, D.P.R. 917/1986, la Suprema Corte ha ritenuto, in forza del richiamato articolo 66, che l’anno di competenza per operare la deduzione debba coincidere con quello in cui è acquisita certezza che il credito non può più essere soddisfatto, senza che al contribuente sia concesso l’arbitrio di scegliere in quale periodo di imposta operare la deduzione.

La Corte ha considerato che, poiché nulla era accaduto nell’anno successivo che non fosse già noto nell’anno precedente, l’imputazione delle perdite su crediti avrebbe dovuto avvenire nel primo dei due esercizi, essendo tali perdite di esclusiva competenza fiscale del primo esercizio in cui si ravvisano elementi certi e precisi della loro non ricuperabilità.

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Le argomentazioni addotte nella Sentenza più recente, in base alle quali, in particolare, la variazione in diminuzione dell’imponibile fiscale deve essere effettuata nell’esercizio in cui sono ravvisabili elementi certi e precisi, e senza che sia data facoltà di effettuarla a decorrere da quello stesso esercizio, non sono in contrasto con quelle addotte a sostegno di quella più remota, in base alle quali, in particolare, la perdita fiscale non deve essere senz’altro contabilizzata e dedotta nell’esercizio in cui si avvia la procedura concorsuale che coinvolge il debitore, ma può esserlo, alle previste condizioni, in un esercizio successivo.

Può concludersi, pertanto, che le perdite su crediti sono deducibili nell’esercizio in cui sono certe, precise e determinabili, ovvero, in assenza di tali requisiti, quando siano contabilizzate, in relazione a crediti nutriti nei confronti di soggetti incorsi in procedure concorsuali.

Alle medesime conclusioni giunge anche la norma di comportamento numero 172 in materia di deducibilità delle perdite su crediti in caso di fallimento o procedura concorsuali edita dall’Associazione Italiana Dottori Commercialisti.

Seconda l’autorevole dottrina l’articolo 101, comma quinto, del D.P.R. 22 dicembre 1986 numero 917 stabilisce che le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso quando si è inpresenza di procedure concorsuali.

Per quanto riguarda le procedure concorsuali, la disposizione non ha il significato di presumere la perdita dell’ “intero” credito alla data d’inizio della procedura stessa, bensì di introdurre una presunzione semplice riguardo alla certezza della perdita, la cui entità deve essere valutata attentamente in ogni singolo caso considerando il presumibile valore di realizzo del credito.

In altri termini, l’articolo 101 comma 5 del Testo Unico – nel momento in cui riconosce la perdita del credito all’apertura della procedura concorsuale – non va considerato come un’imposizione al contribuente dell’obbligo di dedurre in quell’esercizio l’intero ammontare del credito stesso, pena il disconoscimento da parte dell’Amministrazione Finanziaria in caso di deduzione della perdita in un esercizio successivo, ma riconosce, anche sul piano fiscale, la validità della stima del valore di presumibile realizzo effettuata dall’imprenditore caso per caso.

La presunzione di sussistenza di elementi certi e precisi vale per tutta la durata della procedura concorsuale; pertanto la deducibilità della perdita deve ritenersi ammissibile per tutta la durata della procedura e- nei limiti dell’imputazione a bilancio.

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Ad esempio, il credito di 1000 verso un fallito può originare in bilancio una perdita correttamente stimata di 700 nell’esercizio di apertura del fallimento – costituendo componente negativo di reddito per l’importo di 700 nello stesso periodo di imposta, con la possibilità di dedurre il residuo di 300 negli esercizi successivi, se e quando, civilisticamente, si manifesterà la residua perdita.

La valutazione dell’imprenditore, qualora correttamente effettuata ed iscritta in bilancio, diviene vincolante anche ai fini fiscali, non legittimando eventuali contestazioni da parte della pubblica amministrazione.

Tuttavia la valutazione dell’imprenditore non può essere totalmente discrezionale: non può scegliere, a suo piacimento, l’esercizio a cui imputare la perdita, ma, nella valutazione dei crediti e nella rilevazione delle perdite, dovrà attenersi ai principi di verità e correttezza previsti dall’articolo 2423, secondo comma e di prudenza di cui all’articolo 2423 bis, comma 1, numero 4, del codice civile tenendo conto dell’effettivo grado di recuperabilità del credito, anche in funzione di eventuali garanzie, come ad esempio i privilegi, le ipoteche e le garanzie personali di terzi.

Per effetto dell’articolo 101, comma 5 del Testo unico, ove l’imprenditore abbia sufficientemente documentato i criteri in base ai quali ha operato la stima del presumibile valore di realizzo dei crediti nei confronti di soggetti in procedura concorsuale, ad esempio in presenza di crediti di importo significativo mediante pareri di legali interni, od esterni, riguardanti l’effettiva recuperabilità del credito, sarà l’Amministrazione Finanziaria a dover dimostrare, se ve ne saranno i motivi, che i criteri seguiti dall’imprenditore sono erronei, tanto da inficiare la verità e correttezza del bilancio.

I principi sopra esposti non sono contraddetti dalla citata giurisprudenza della Cassazione in cui si afferma che “l’anno di competenza per operare la deduzione deve coincidere con quello in cui si acquista certezza che il credito non può più essere soddisfatto perché in quel momento stesso si materializzano gli elementi “certi e precisi” della sua irrecuperabilità”.

Le succitate sentenze di legittimità, infatti:

– riguardano una controversia relativa a perdite su crediti verso soggetti non interessati da procedure concorsuali;

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– confermano che le perdite su crediti devono essere dedotte obbligatoriamente nell’esercizio in cui divengono certe, senza che il contribuente abbia la facoltà di scegliere a sua discrezione l’esercizio in cui dedurle, ma non entra nel merito dei criteri da utilizzare per l’effettiva quantificazione dell’entità della perdita che, in ciascun esercizio, abbia acquisito il connotato della certezza.

Questa giurisprudenza, in altri termini, non afferma che l’intero ammontare del credito debba essere stralciato in un solo esercizio, a pena di indeducibilità del residuo ammontare negli esercizi successivi, né potrebbe essere diversamente, dato che, altrimenti, la norma fiscale condizionerebbe la deducibilità della perdita ad un comportamento che, in molti casi, costituirebbe violazione delle norme di redazione del bilancio.

L’apertura della procedura concorsuale rimane quindi un momento in cui si presume la sussistenza di una perdita, ma la sua quantificazione, e rilevanza, va determinata, nel rispetto dei principi generali di cui all’articolo 2423, secondo comma e 2426, primo comma, numero 8, del codice civile e del principio di prudenza di cui all’art. 2423 bis, comma 1, numero 4 del codice civile, da parte dell’imprenditore.

Le perdite su crediti vantati nei confronti di soggetti non residenti

Il comma 5 dell’articolo 101 del TUIR, nel disciplinare la deducibilità delle perdite su crediti nell’ambito del reddito d’impresa, non effettua alcuna distinzione basata sullo Stato di residenza del debitore: non emerge, pertanto, alcuna differenziazione nella deduzione delle perdite su crediti vantati nei confronti di debitori esteri rispetto alle perdite su crediti verso debitori residenti in Italia.

È, comunque, sempre necessario valutare attentamente gli elementi certi e precisi che devono giustificare la deduzione delle perdite sui crediti vantati nei confronti di operatori esteri, a maggiore ragione se residenti in Paesi non appartenenti all’Unione Europea.

Nel caso di perdite su crediti verso debitori stranieri, idonea documentazione probatoria per la loro deducibilità è la dichiarazione di sinistro emessa dalla SACE (Sezione speciale per l’Assicurazione del Credito all’Esportazione, istituita presso l’INA), che deve contenere anche l’indicazione dell’indennizzo liquidato a titolo di risarcimento; la perdita, ovviamente, interesserà il conto economico dell’impresa creditrice per la sola parte non risarcibile.

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Per i crediti verso non residenti e non assistiti da copertura assicurativa è necessaria la documentazione che dimostri la definitività della perdita conformemente agli strumenti giuridici previsti nello Stato del debitore quali ad esempio la dichiarazione di insolvibilità del debitore da parte delle competenti autorità giurisdizionali.

Ove ciò risulti impossibile, l’Amministrazione Finanziaria con la Risoluzione Ministeriale numero 9/016 del 1 aprile 1981, ha affermato che «… può assumere rilevanza probatoria anche una documentazione di parte, quale potrebbe essere un’apposita dichiarazione fornita dagli organi di controllo contabile della società, i quali debbono attestare che l’eliminazione di attività iscritte in bilancio in precedenti esercizi in corrispondenza dei crediti in parola è conseguente a una accertata definitività e certezza della perdita subita».

Analogamente agli elementi di certezza e precisione, anche nel caso di procedure concorsuali non viene prevista alcuna sostanziale differenziazione nella deduzione delle perdite su crediti in funzione delle procedure fallimentari esistenti in ordinamenti diversi da quello italiano.

È necessario verificare che il debitore estero sia assoggettato, secondo l’ordinamento del Paese di appartenenza, a una procedura concorsuale assimilabile a quelle elencate nel citato comma 5 dell’articolo 101 del TUIR.

Le perdite su crediti non sono deducibili se il debitore è residente in uno Stato extra UE avente regime fiscale privilegiato, a meno che il creditore non fornisca la prova che il debitore estero svolge prevalentemente un’attività commerciale effettiva, che le operazioni con lui poste in essere rispondono a un effettivo interesse economico e che le stesse hanno avuto concreta esecuzione, così come richiesto dal disposto normativo contenuto nell’articolo 110, commi 10 e 11, del Tuir.

La Corte di Cassazione, con sentenza numero 23863 del 19 novembre 2007, si è occupata della deducibilità delle perdite su crediti riferite a debitori esteri.

Secondo i giudici di Suprema Corte, per la deducibilità di perdite su crediti esteri non è necessario che il creditore fornisca la prova di essersi positivamente attivato per conseguire una dichiarazione giudiziale dell’insolvenza del debitore, essendo sufficiente che le perdite contestate risultino, solo e comunque, documentate in modo certo e preciso.

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Allo stesso scopo, non hanno rilevanza i motivi della perdita: la scelta imprenditoriale di transigere con un proprio cliente non rende indeducibile la perdita conseguente.

Nel caso di specie, la questione assumeva particolare delicatezza perché la perdita dei crediti non derivava da atti formalmente autoritativi dello Stato estero, bensì da transazioni svantaggiose che il contribuente asseriva di aver accettato per conservare una presenza operativa nello Stato in questione.

Alla base della scelta operata dalla società italiana vi era la particolarità del momento internazionale e la convenienza della società medesima a salvaguardare i rapporti esistenti con lo Stato libico.

La Corte di Cassazione ha confermato la deducibilità della perdita su crediti derivante dalla transazione sulla base delle seguenti argomentazioni:

1. non è necessario che il creditore fornisca la prova di essersi positivamente attivato per conseguire una dichiarazione giudiziale di insolvenza del debitore, essendo sufficiente che le perdite risultino, solo e comunque, documentate in modo certo e preciso. Pertanto, posto che la valutazione di tali elementi è stata svolta dal giudice di merito e che lo stesso non è incorso in errori di tipo valutativo ovvero ricostruttivo, alla predetta società compete la deduzione delle perdite su crediti;

2. la scelta della società di transare con un proprio cliente non rende indeducibile la perdita, posto che il citato articolo 101, comma 5, TUIR, valorizza la sola oggettività della perdita;

3. già in passato la stessa giurisprudenza di legittimità aveva ammesso come valutazioni di strategia generale potessero indurre l’imprenditore a porre in essere operazioni antieconomiche in vista e in funzione dei benefici economici su altri fronti.

Tali affermazioni costituiscono una deroga al principio generale, formulato dalla stessa Corte, in base al quale non sono deducibili costi non economicamente giustificabili, secondo un agire economicamente razionale dell’imprenditore.

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In questo caso è stata, perciò superata la diffidenza dei giudici di fronte a condotte dell’imprenditore antieconomiche. In ogni caso, come confermato dalla sentenza in commento, nel fornire la prova dell’esistenza degli elementi certi e precisi, il contribuente appare libero di utilizzare gli strumenti che ritiene più opportuni.

Variazioni Iva in diminuzione in occasione di mancato pagamento

Con la risoluzione numero 195/E del 16 maggio, l’Agenzia delle Entrate ha risposto ai più frequenti quesiti posti sulle modalità di esercizio delle variazioni Iva in diminuzione sulle fatture rimaste insolute dopo avere intentato un’azione esecutiva che si è rivelata infruttuosa; ovvero quale debba essere il comportamento da tenere nel caso in cui la dichiarazione di fallimento venisse respinta dal tribunale per mancanza dei presupposti di insolvenza o di una prova che dimostri in maniera certa il credito vantato; o, ancora, quando la domanda di ammissione al passivo venisse dichiarata inaccettabile.

Il punto di partenza è un’istanza di interpello che, pur essendo giudicata irricevibile per la sua genericità, dà all’Amministrazione finanziaria la possibilità di chiarire la corretta interpretazione delle disposizioni contenute nell’articolo 26, secondo comma, del D.P.R. numero 633/1972.

Questo stabilisce che “se un’operazione per la quale sia stata emessa fattura, successivamente alla registrazione (…), viene meno in tutto o in parte, o se ne riduce l’ammontare imponibile, in conseguenza di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose (…) il cedente del bene o prestatore del servizio ha diritto di portare in detrazione (…) l’imposta corrispondente alla variazione“.

In sostanza, la norma disciplina le variazioni in diminuzione dell’imponibile e dell’imposta che, a differenza delle variazioni in aumento, possono essere effettuate facoltativamente dal contribuente e solo in presenza delle ipotesi espressamente indicate dalla legge.

A questo proposito, la società autrice dell’interpello chiede quale comportamento adottare se le fatture rimangono insolute in cinque casi particolari:

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1.

l’istanza per la dichiarazione di fallimento del cliente insolvente viene respinta dal tribunale competente per carenza dei presupposti di insolvenza previsti dalla legge fallimentare dopo che è stata già intentata un’azione esecutiva infruttuosa o notificato un precetto con esito negativo;

2.

l’istanza per la dichiarazione di fallimento del cliente insolvente viene rigettata dal tribunale competente, dopo che sia stata già esperita un’azione esecutiva infruttuosa o notificato un precetto con esito negativo, per mancanza di una prova che dimostri in modo certo l’esistenza delle prestazioni presupposte e del credito relativo;

3.

il tribunale competente dichiara irricevibile per motivi formali la domanda di ammissione al passivo presentata dalla società creditrice in base alle disposizioni della legge fallimentare e dopo che questa ha avviato un’azione esecutiva infruttuosa;

4.

il pagamento del debitore fallito viene revocato, sempre ai sensi della legge fallimentare, e la società creditrice non entra nel passivo fallimentare per il credito relativo;

5.

il debitore risulta irreperibile ed è quindi impossibile notificargli il decreto ingiuntivo e l’atto di precetto.

Per affrontare la prima questione, i tecnici delle Entrate prendono innanzitutto le mosse dall’articolo 26 del decreto sull’Iva, nella parte in cui limita la rilevanza del mancato pagamento al caso in cui le procedure concorsuali o esecutive non abbiano portato ad alcun risultato.

È questa infatti la condizione indispensabile per essere ragionevolmente certi dell’incapienza del patrimonio del debitore. Al contrario, il mancato pagamento risulta ininfluente in caso di dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione o rescissione, quando ciò che effettivamente conta è che l’operazione sia venuta meno in tutto o in parte o che se ne sia

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pagamento.

Ora, quando il creditore porta avanti azioni esecutive o concorsuali volte al recupero del credito, il diritto alla variazione Iva sussiste nel momento in cui sia stata avviata una procedura esecutiva conclusasi infruttuosamente. Affinché una procedura esecutiva possa considerarsi avviata, è necessario che abbia avuto inizio almeno il primo atto tipico che per il fallimento è la sentenza dichiarativa, mentre per l’esecuzione individuale in forma generica è il pignoramento.

Non sono invece atti del processo esecutivo vero e proprio né la notificazione del titolo, né la formazione del precetto e la sua notifica. In secondo luogo, l’esercizio del diritto alla variazione è possibile solo se preventivamente è stata accertata l’infruttuosità della procedura esecutiva.

Una condizione che, per quanto riguarda il fallimento, si verifica allo scadere del termine per le osservazioni al piano di riparto stabilito con decreto del giudice delegato oppure, in assenza del piano di riparto, allo scadere del termine per presentare il reclamo al decreto di chiusura dell’iter fallimentare. Nel caso delle procedure esecutive, invece, questo momento coincide con quello in cui il credito del cedente o prestatore del servizio non è soddisfatto dalla distribuzione delle somme derivanti dalla vendita dei beni del debitore o quando sia stata accertata la mancanza di beni da assoggettare all’esecuzione.

In base a queste considerazioni, a differenza di quanto sostiene la società autrice dell’interpello, la semplice notifica del titolo esecutivo e del precetto con esito negativo non comporta di per sé l’avvenuta espropriazione forzata, che inizia solo col pignoramento. Di conseguenza, se la notifica del precetto non è seguita da un’attività esecutiva, l’esercizio del diritto alla variazione Iva risulta escluso. Se invece l’esecuzione forzata è iniziata e si è conclusa infruttuosamente, la facoltà di variare l’imposta in diminuzione scatta nel momento in cui viene accertata l’infruttuosità del recupero.

Per quanto riguarda il secondo quesito, la risoluzione pone l’accento sull’improbabilità che il tribunale competente a pronunciare una sentenza dichiarativa di fallimento ritenga insussistente la prova del credito vantato dalla società creditrice dopo che questa ha intentato, senza risultato, un’azione esecutiva. Il Codice di procedura civile infatti stabilisce che

“l’esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile“. È più plausibile invece l’ipotesi che il creditore si sia rivolto al tribunale pur non essendo in possesso di un titolo esecutivo. Una circostanza che impedirebbe l’esercizio del diritto alla rettifica al ribasso dell’imposta sul valore aggiunto.

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In riferimento al terzo punto, la risoluzione, riprendendo quanto già detto sul primo tema, ribadisce che per correggere l’Iva in diminuzione è necessario accertare l’infruttuosità dell’esecuzione forzata.

Nella soluzione al quarto problema sollevato dall’autore dell’interpello, le Entrate ricordano che se il pagamento effettuato dal debitore successivamente fallito è stato revocato, il terzo contraente che abbia rinunciato a introdursi nel passivo fallimentare non può avvalersi della facoltà di variare l’Iva in diminuzione. Infatti, la revoca fallimentare comporta il passaggio del bene a una procedura esecutiva concorsuale, senza che questo incida sulla validità della convenzione negoziale revocata, ossia senza determinare la nullità o l’annullamento dell’atto revocato.

Questo diventa inefficace nei confronti della massa dei creditori, ma resta valido tra le parti. Lo stesso vale anche per l’azione revocatoria ordinaria. Quindi, se il pagamento fosse stato revocato in via ordinaria, la società creditrice potrebbe variare l’Iva assolta solo dopo aver fatto valere le sue ragioni di credito verso il debitore, a condizione che alla fine dell’azione esecutiva il credito sia rimasto insoddisfatto. Una conclusione basata sulla constatazione che la revoca, ordinaria o fallimentare che sia, non può incidere sulla validità dell’atto revocato e dunque non può rappresentare il presupposto fiscale necessario per procedere alla variazione Iva.

Quest’ultima possibilità infatti dipende dal venir meno, in tutto o in parte, dell’operazione o del suo ammontare imponibile.

Sul quinto e ultimo quesito, il documento di prassi, richiamando le considerazioni fatte sul primo punto, sottolinea il carattere strumentale del titolo esecutivo e del precetto rispetto all’attività esecutiva vera e propria, arrivando a conclusioni diverse da quelle dell’interpellante. Se il debitore risulta irreperibile – questo il ragionamento seguito – la procedura esecutiva non può per ciò stesso essere considerata infruttuosa e non si può procedere alla variazione dell’Iva e alla conseguente detrazione della relativa imposta.

A margine di questa discussione, la risoluzione ricorda infine che in ogni caso la variazione in diminuzione può essere effettuata solo in relazione a operazioni per cui sia stata emessa e registrata la fattura.

1 febbraio 2010

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Mauro Nicola

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