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Cancro: una corretta comunicazione è parte essenziale della terapia

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Academic year: 2022

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Cancro: una corretta comunicazione è parte essenziale della terapia

«Nella letteratura sull’argomento viene spesso menzionata la prassi, prevalentemente ita- liana, di non comunicare in modo diretto al paziente la diagnosi di tumore, soprattutto se la prognosi è particolarmente negativa. La comunicazione avviene quasi sempre attraverso la mediazione di uno o più familiari stretti che insieme al medico concordano le parole e il linguaggio più idoneo da adottare, arrogandosi, anche se in buona fede, il diritto di decidere cosa dire e cosa non dire al diretto interessato. Vi è dunque una spontanea e certamente comprensibile tendenza, da parte dei parenti del malato, a filtrare le informazioni descri- venti il suo effettivo quadro clinico, nascondendo quelle ritenute più destabilizzanti sul piano emotivo. È una consuetudine ancora frequente e in che misura una corretta comuni- cazione può rivelarsi un vantaggio sul piano terapeutico?».

on è semplice dare una risposta, però ci sono delle linee guida che non ammettono deroghe. La prima cosa da ricordare è che informare il pa- ziente non è una scelta, ma un obbligo legale e che il medico non può fornire a terze persone informazioni sullo stato di salute del paziente senza il suo esplicito consenso. Nonostante ciò, esistono ancora molte realtà in Italia in cui i medici preferiscono informare i parenti piuttosto che i pazienti, soprattutto se le notizie non sono incoraggianti. La scelta di informare o meno il malato è comunque un problema molto ampio che coinvolge non solo il malato, i medici curanti e i familiari, ma anche la struttura sanitaria e il posto sociale in cui si vive. Si tratta di una scelta che si pone continuamente e ripetutamente lungo tutto l'iter della

N

(di Gabriella De Benedetta)

Tommaso Maglione

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malattia: al momento della diagnosi, nel corso dei diversi interventi terapeutici come ad esempio operazioni, radioterapia, chemioterapia, nel caso di recidive, di terapie palliative o nell'eventuale fase terminale, ma soprattutto è un problema che investe direttamente le fondamenta culturali ed etiche di ogni modello sociale. In altre parole, il dilemma circa la comunicazione di diagnosi e prognosi al malato oncologico rispecchia il rapporto che una determinata cultura intrattiene con l'idea della vulnerabilità, della malattia e della morte. All'interno delle società tribali e, senza andare tanto lontano, anche in molti agglomerati urbani in cui si vive ancora un po' discosti dalla realtà consumistica ed estetizzante delle grandi città, la malattia è la morte sono vissuti come aspetti della vita stessa, guardate con occhio partecipe, mai sfuggente o disperato. La consapevolezza istintiva che vita, malattia e morte vivono un rapporto circolare consente alla famiglia coinvolta, in quella che abitual- mente viene definita una tragedia, di accettarla con naturalezza senza peraltro sot- trarsi al dolore che tali eventi comportano, anzi, il dolore è manifestato in tutta la sua pienezza e la coralità sociale che lo accompagna costituisce un importante sup- porto alla sua elaborazione. Viceversa, nella nostra società la scarsa dimestichezza con gli eventi naturali, l'essere protesi ad uno stile di vita in cui trionfano gli agi, la ricchezza, la bellezza, la salute e il vigore, difficilmente consentono di vivere la malattia e la morte senza essere dominati dall'ansia che, oltre al danno che reca alla persona che ne è afflitta, va ad inficiare la possibilità di una relazione di aiuto. In questa cultura della salute e del benessere, dove la scienza ha raggiunto traguardi insospettabili fino a pochi anni fa, accettare la sconfitta della medicina risulta diffi- cile.

Ormai si sostituiscono arti mancanti con protesi perfettamente funzionanti, si clo- nano organi ed esseri viventi, gli scienziati sembrano mirare alla vita eterna, ma di fronte ad una diagnosi di malattia oncologica il tempo si ferma, si può ancora mo- rire, il corpo che si è guastato non sempre si può aggiustare. Tutte le malattie spa- ventano l'uomo in quanto sono vissute come limitazione, impotenza, ipotesi di morte, ma è al cancro più che alle altre patologie che è stata sempre associata la parola morte e questa associazione è ancora molto forte nell'immaginario collettivo nonostante i notevoli progressi in campo medico scientifico e le statistiche che ci informano che il cancro ormai fa meno vittime delle malattie cardiocircolatorie. Io lavoro all' Istituto Nazionale Tumori di Napoli e quando un paziente si ricovera per fare accertamenti diagnostici ha già il sospetto che si tratti di un tumore e sperimenta

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la paura di dover morire. Nella maggior parte dei casi durante la comunicazione della diagnosi i pazienti scoprono che possono essere curati e che hanno delle pos- sibilità di superare la malattia e tornare alla loro vita. Ricevere informazioni, risulta quindi rassicurante rispetto alla fantasia iniziale: " ho un tumore quindi sto mo- rendo".

Non a caso negli ultimi anni l'approccio al malato oncologico ha incluso una sem- pre crescente attenzione agli aspetti psicologici e socio-familiari della malattia allo scopo di favorire il raggiungimento della migliore qualità di vita possibile per i pa- zienti e le loro famiglie. La malattia oncologica è accompagnata, oltre che da un disagio di tipo fisico correlato alla neoplasia e ai trattamenti, da uno stato di soffe- renza globale di tipo spirituale e psicologico che coinvolge, oltre al paziente, anche il nucleo familiare e quello delle relazioni amicali e sociali più strette. La malattia cancerosa è invalidante, cronica e coinvolge tutti gli aspetti della vita della persona da quelli infra-psichici a quelli relazionali ed è dunque una malattia multisistemica perché coinvolge contemporaneamente più livelli interdipendenti: Il corporeo, il mentale, l’emozionale, il familiare, il sociale e il culturale. Il pensiero sistemico sottolinea l'importanza di una visione unitaria dei processi che intervengono nella genesi e nello sviluppo della patologia neoplastica. La comunicazione della dia- gnosi e del trattamento terapeutico è un momento estremamente delicato in cui il medico dovrà gestire la relazione con la famiglia oltre che con il paziente. È chiaro che al momento ufficiale del colloquio si giunge attraverso un percorso, caratteriz- zato dagli accertamenti diagnostici, che, come dei fotogrammi, raccontano la storia della malattia.

La famiglia è preparata e certe volte cerca di preparare anche il medico pregandolo di non dire niente che possa sconvolgere il paziente. In poche parole, i familiari chiedono di mentire perché si aspettano il peggio e cercano di proteggere il paziente con il silenzio, senza rendersi conto che questo è impossibile. Egli vive sulla sua pelle sia il malessere, sìa agli accertamenti diagnostici e comprende meglio di loro cosa significano. Mentirgli o dissimulare la realtà ha il solo risultato di isolarlo nel suo dolore e nella sua preoccupazione negandogli la possibilità di un confronto, di una visione più reale della situazione. Il medico dovrà essere abile nel convincere i familiari sia della necessità, sia dei benefici di una comunicazione chiara e sincera con il paziente. Questo è anche il momento cruciale per rinsaldare l'alleanza tera- peutica con la famiglia e per stringere quel patto di fiducia così importante nel

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rapporto di cura. Se presente nel reparto, lo psiconcologo, ossia lo psicologo che si occupa dei pazienti oncologici, può aiutarli a comprendere l'importanza di infor- mare il paziente pur con le giuste modalità e favorire così l'alleanza con il medico.

Inoltre, può cogliere piccoli segnali che indicano le modalità di reazione messe in atto dai componenti della famiglia ed aiutare il medico a modulare le informazioni sulla peculiarità della stessa. È evidente da ciò che stiamo dicendo che il colloquio della comunicazione della diagnosi non arriva all'improvviso, ma è anticipato da vari momenti che preparano al colloquio stesso. Sin dal primo momento, infatti, il paziente viene informato che al termine degli accertamenti diagnostici ci sarà un colloquio a cui potrà far partecipare anche i suoi familiari, in cui verrà comunicata la diagnosi e proposto un trattamento terapeutico. È opportuno che il colloquio av- venga in un setting accogliente, ossia una stanza con la porta chiusa in cui si sa che non si verrà disturbati né dai colleghi né dal telefono. Questa dimensione estranea ai ritmi frenetici dell'attività ospedaliera consente sia al medico che ai suoi interlo- cutori di essere in contatto con sé stessi e con l'altro. Il medico, con calma e tran- quillità informerà il paziente sulla sua malattia e sulle possibilità di cura specifi- cando gli obiettivi, sulle modalità di svolgimento del piano terapeutico, incluse le indagini che verranno effettuate prima, durante e dopo la terapia, sui possibili effetti collaterali della stessa, sull'eventuale parziale limitazione delle attività quotidiane, sulle norme comportamentali più opportune cui attenersi durante il periodo della cura e sulle prospettive future. Quest'ultimo punto è particolarmente importante in quanto sottende l'idea che ci sarà un futuro, per quanto nessuno può affermarne con certezza la dimensione temporale.

Nel momento in cui si sa di avere una malattia oncologica si può sperimentare la sensazione di una condanna a morte legata ai fantasmi che questa malattia evoca e si corre il rischio di restare emotivamente schiacciati, incapaci di reagire. Fornire assieme la diagnosi la strada da seguire per curarsi prospettando il futuro, aiuta a reagire alla malattia con speranza e fiducia. È importante che il medico utilizzi un linguaggio consono all'interlocutore e faccia in modo che ci sia la massima con- gruenza fra il linguaggio verbale e non verbale. Fondamentale è la disponibilità all'ascolto dell'altro. Il paziente ha bisogno di esprimere le sue conoscenze e le sue paure e questo consente al medico di modulare la comunicazione nel modo più con- sono a quel paziente. Se i familiari sono presenti, anche i loro interrogativi e le loro paure devono ricevere adeguata attenzione da parte del medico. Quando questo non

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succede e le modalità di interazione dei sanitari sono stereotipate o comunque non sufficientemente adeguate ai bisogni delle persone coinvolte possono verificarsi equivoci e fraintendimenti nella relazione, oltre che nella comunicazione. Per il me- dico, inoltre, dare cattive notizie e contenere il flusso di emozioni che ne consegue è ancora più difficile se queste toccano punti dolenti del suo vissuto. Per contenere l'ansia del medico può essere utile una mediazione interna tra bisogni e sentimenti ambivalenti o anche fra ciò che egli «ritiene di dover dire» e ciò che emotivamente

«sente di poter dire». Il dialogo tra psiconcologo e medico, in questi casi, diventa allora un elemento facilitatore del dialogo interno fra istanze emotive contradditto- rie o tra la parte cognitiva e la parte emotiva del medico stesso. Nel caso in cui la prognosi sia infausta già al momento della diagnosi o se la situazione si aggrava nel tempo bisogna continuare a mantenere lo stesso livello di sincerità e la stessa aper- tura al dialogo. Come abbiamo detto il paziente è una persona che comprende ciò che gli sta accadendo e negargli la verità significa negargli la possibilità di espri- mere le sue emozioni e trovare un contenimento. Ovviamente è d'obbligo la delica- tezza manifestata, sia nella scelta delle parole che nella tempistica dell'espressione.

Ad esempio, si può dire che al momento si sospende la chemioterapia perché il midollo è stanco per le terapie fatte, ossia non produce sufficienti globuli rossi, bianchi e piastrine, ma che il paziente continuerà ad essere seguito, curato, oppure, che la malattia non ha risposto adeguatamente al trattamento e bisogna iniziarne un altro che non farà scomparire la malattia, ma la conterrà il più possibile.

Ci sono tanti modi per dire la verità senza essere brutali e mantenendo la speranza, sia pure indirizzata su obiettivi diversi dalla guarigione. Concludo con una storia capitata pochi anni fa: ricevo per la prima volta nel mio studio una donna, mi dice subito che il marito ha un tumore al polmone in fase terminale, ma lui non lo sa e lei non vuole che lo sappia, mi prepara quindi per il colloquio con il marito, il giorno stesso ricevo il paziente e come prima cosa mi dice che sta morendo per un tumore al polmone, ma che non vuole che la moglie sappia che lui lo sa. Entrambi stavano cercando di proteggere l'altro dalla sofferenza, non tanto la sofferenza della malattia mortale, quanto quella dovuta alla consapevolezza del dolore dell'altro, così

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facendo però entrambi perdevano la possibilità di vivere il tempo restante insieme perché il silenzio crea degli abissi incolmabili che isolano le persone.

Principali pubblicazioni di Gabriella De Benedetta

1. De Benedetta G., Ruggiero G., “L’ansia nella famiglia del paziente oncologico”, in “L’ansia nascosta” a cura di De Falco F, Ruggiero G, De Benedetta G, Percorsi editoriali di Carocci Editore, Roma, 2010.

2. De Benedetta G., “L’anoressia mentale negli adolescenti con neoplasia”, in “Il cibo la mente”, a cura di Zappia V, in collaborazione con Fabbrazzo M., Di Sapio M., De Benedetta G., Alfredo Guida Editore, Napoli, 2010.

3. Morasso G., De Benedetta G., “La vita interiore del medico nel rapporto con il paziente on- cologico” in Morasso G., Caruso A., Ravenna AR, “Le competenze comunicative in oncolo- gia. Un percorso formativo”, Franco Angeli, Milano, 2011.

4. De Benedetta G., D’Ovidio S., Pinto A., illustrazioni Staino S., “Mamma uovo. La malattia spiegata a mio figlio”, Marotta e Cafiero Editori, Napoli, 2015.

5. De Benedetta G., D’Ovidio S., Pinto A., illustrazioni Staino S., “Papà uovo. La malattia spie- gata a mio figlio”, Marotta e Cafiero Editori, Napoli, 2018.

La dott.ssa De Benedetta è psicologa e psicoterapeuta specializzata in "Psicotera- pia sistemico-relazionale e Familiare". Da oltre vent'anni svolge attività sia didatti- che che professionali in campo Psico-Oncologico. Dal 2011 è Dirigente Psicologo presso UOSC Ematologia dell’Istituto Nazionale Tumori di Napoli, Fondazione G.

Pascale. Vicepresidente nonché membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SIPO (Società Italiana di Psico Oncologia), la dott.ssa Gabriella De Benedetta è, inoltre, socio ordinario didatta della SIPR (Società Italiana di Psiconcologia e Psi- coterapia Relazionale), socio e membro dell’AIMS (Associazione Internazionale dei Mediatori Sistemici) e socio della SIFT (Società Italiana di Terapia Familiare).

Svolge attività di docenza presso l’Istituto di Medicina e Psicologia Sistemica (IMePS) di Napoli e dal 2021 è Direttore didattico della Scuola Biennale di Forma- zione in Clinica Psiconcologica della Società Italiana di Psico Oncologia (SIPO).

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