Indice
Riassunto pag 2
La Sclerosi Multipla
Lo scenario patologico pag 3
Lo scenario terapeutico pag 11
Meccanismi neuroimmunologici pag 16
Sclerosi Multipla e disturbi cognitivi pag 18
Basi di risonanza magnetica dei disturbi cognitivi nella Sclerosi Multipla pag 22 Basi neurobiologiche dei disturbi cognitivi nella Sclerosi Multipla pag 25 Natalizumab
Caratteristiche biochimiche e meccanismo d’azione pag 28
Sviluppo preclinico e clinico del farmaco: cenni dei principali studi pag 31
Immunogenicità, sicurezza e tollerabilità pag 34
Leucoencefalopatia Multifocale Progressiva pag 35
Dalla scheda tecnica: indicazioni del natalizumab (Tysabri
®) pag 37
Natalizumab e disturbi cognitivi pag 39
Obiettivi dello studio pag 41
Pazienti pag 41
Metodo pag 42
Valutazione clinica e neuroradiologica pag 42
Valutazione qualità di vita pag 44
Fatigue Severity Scale pag 44
Beck Depression Inventory pag 45
Valutazione neuropsicologica pag 46
Analisi statistica pag 52
Risultati pag 53
Valutazione clinica e neuroradiologica pag 53
Valutazione qualità di vita pag 54
Valutazione neuropsicologica pag 55
Discussione e Conclusioni pag 57
Tabelle e grafici pag 66
Appendici pag 71
Bibliografia pag 79
Ringraziamenti pag 88
Riassunto
La Sclerosi Multipla è una malattia infiammatoria del sistema nervoso centrale caratterizzata da lesioni demielinizzanti multifocali e da un danno infiammatorio e degenerativo. L’andamento clinico è molto variabile, con alternanza di ricadute/remissioni e successivo andamento progressivo. I sistemi funzionali coinvolti comprendono il sistema motorio, quello sensitivo, cerebellare e visivo, ma anche quello autonomico e mentale:
circa la metà dei soggetti sviluppa nel corso della malattia deficit cognitivi di entità variabile. La casualità dei tempi, dell’andamento di malattia, della sua gravità e della sede di insorgenza delle lesioni contribuisce alla considerevole variabilità a carico dello stato mentale del paziente. Natalizumab è un anticorpo monoclonale indicato nella sclerosi multipla recidivante-remittente ad elevata attività. Gli obiettivi del nostro studio sono stati quelli di valutare dopo un anno di terapia con natalizumab, l’efficacia, la tollerabilità e l’impatto sulla qualità di vita del farmaco in una coorte di 23 pazienti e di analizzare le prestazioni cognitive e i disturbi dell’umore in un sottogruppo di 10 pazienti. Il farmaco è risultato efficace sia dal punto di vista clinico-neuroradiologico, nonché sulla qualità di vita e con una buona tollerabilità. Nella valutazione cognitiva si è evidenziato, un miglioramento dei punteggi ai test per le funzioni frontali, l’attenzione, la working memory oltre che un miglioramento della sfera dell’umore. Natalizumab, dalla nostra analisi, è risultato farmaco efficace nel ridurre la disabilità neurologica e l’attività di malattia. Inoltre ha mostrato avere un effetto positivo nell’ambito della qualità di vita e mentale:
migliorando i sintomi depressivi e le performances cognitive. I dati ottenuti sono in linea con quelli degli studi registrativi e di letteratura, ma necessitano di successive conferme.
Parole chiave: Sclerosi Multipla, Natalizumab, Disturbi cognitivi
LA SCLEROSI MULTIPLA
Lo scenario patologico
La Sclerosi Multipla (SM) è considerata la patologia infiammatoria del sistema nervoso centrale (SNC) più frequente nel giovane-adulto e si caratterizza per lesioni demielinizzanti multifocali e per l’associarsi di un danno infiammatorio e degenerativo (Compston e coll., 2006). E’ più frequente in Nord Europa, Nord America, Australia e Oceania, con una diffusione assai inferiore in Estremo e Medio Oriente, Africa, Sud America e India. Pur non arrivando a eguagliare la frequenza osservazionale del Nord Europa, la prevalenza della patologia in Italia mostra un andamento in crescita, anche se in buona parte attribuibile al miglioramento della diagnosi precoce della malattia registrato negli ultimi anni. In Italia i tassi di prevalenza variano da 40 a 70 casi per 100.000 abitanti e in Sardegna si continua ad evidenziare una frequenza più elevata rispetto alle zone limitrofe sia italiane che non italiane con tassi variabili tra il 144 e il 157 casi per 100.000 abitanti, ovvero tra i più elevati nel mondo (Kobelt e coll., 2006). Il sesso femminile risulta essere quello maggiormente colpito con un rapporto di circa 2:1 rispetto agli uomini e inoltre nella donna l’esordio sembra essere più precoce.
Dal punto di vista eziologico permangono ancora molte incertezze, in generale l’SM è definita patologia multifattoriale dove entrano in gioco sia fattori genetici che ambientali.
Pur non avendo identificato il primum movens della patologia, si ritiene comunque che
l’SM sia causata e perpetuata da una risposta di natura autoimmunitaria. Il nucleo
dell’ipotesi patogenetica prevede che linfociti T con recettori capaci di legare componenti
della mielina del SNC penetrino attraverso la barriera emato-encefalica, rispondano
localmente all’antigene target e, come conseguenza indiretta, instaurino un’aggressione nei
responsabile del danno neurologico. Va inoltre rilevato che la teoria autoimmunitaria manca di prove formali, mentre poggia su numerose evidenze eterogenee: tra di esse la componente infiammatoria delle lesioni, che risultano sovrapponibili a quelle dell’encefalomielite autoimmune indotta sperimentalmente, l’associazione della suscettibilità alla SM con polimorfismi genici potenzialmente implicati nelle risposte autoimmunitarie, nonché l’efficacia relativa di terapie che sopprimono o modulano le risposte immuni (Compston e coll., 2006). Clinicamente l’SM si manifesta con due tipologie di fenomeni: le recidive e la progressione. Quest’ultima può essere definita come un peggioramento stabile dei segni e dei sintomi di malattia che persiste per almeno 6 mesi. L’andamento clinico è molto variabile, inizialmente recidivante, con un’alternanza di ricadute e remissioni, poi nella maggior parte dei casi progressivo con accumulo di disabilità neurologica. Esiste un continuum fenomenologico tra le tipologie di presentazione clinica della malattia che va dalle forme monosintomatiche a quelle recidivanti, quindi a quelle progressive.
Tipologie cliniche di Sclerosi Multipla
Si stima che in Europa una percentuale variabile dal 51% al 75% dei pazienti sia affetta da SM recidivante-remittente (SM tipo RR), dal 18% al 35% da forme recidivanti-progressive o secondariamente progressive (SM tipo PP con ricadute o SP) e dal 5% al 19% da forme primariamente progressive (SM tipo PP). La distribuzione dei casi in funzione della gravità si calcola corrisponda a un 45-55% di forme lievi (con un punteggio all’Expanded Disability Status Scale EDSS di 1-3,5), un 20-30% di forme moderate (punteggio EDSS 4- 6,5) e un 15-20% di forme gravi (punteggio EDSS maggiore o uguale a 7).
L’impatto della SM è stato recentemente esaminato, in termini di qualità di vita perduta e di costi, proprio in rapporto alla gravità e alla progressione della malattia, nell’ambito di un grande studio osservazionale europeo. I dati riguardanti l’Italia mostrano che i costi sono strettamente correlati alla gravità di malattia e si quintuplicano nei pazienti con punteggio EDSS di 7 rispetto a quello di pazienti con punteggio EDSS di 0-1; in particolare i costi medi annui sono pari a 12.000 euro per un punteggio EDSS 0-1, a 38.000 euro per un punteggio EDSS di 5, a 57.000 euro per un punteggio EDSS di 7 e 71.000 euro per un punteggio EDSS di 8-9. Tale incremento non dipende tanto da un aumento dei costi sanitari, bensì dall’impennata dovuta alla perdita di produttività di soggetti colpiti dalla malattia abitualmente in giovane età e in piena attività lavorativa. La qualità di vita dopo la diagnosi è risultata compromessa in tutti i pazienti, in modo strettamente dipendente dalla gravità di malattia. (Kobelt e coll., 2006)
La diagnosi di Sclerosi Multipla, nella forma RR, viene fatta a seguito di episodi acuti
nettamente identificabili, seguiti da periodi di pieno recupero o con presenza di deficit
residuo e inoltre è ben noto che la patologia può progredire in modo subclinico e precedere
la comparsa di manifestazioni obiettivabili. La forma secondariamente progressiva ha una
fase iniziale comparabile alla forma RR, quindi con ricadute e remissioni ma si caratterizza
per la graduale progressione della malattia con o senza recidive, remissioni minori e fasi di
plateau. I dati sulla storia naturale della malattia indicano che, a 10 anni, il 50% delle
forme RR si trasformerà in SMSP e che tale percentuale salirà al 90% dopo 25 anni di malattia. E’ stato inoltre evidenziato che il decorso iniziale della SM è il fattore predittivo più importante di disabilità: le analisi condotte su ampie serie di casi sono concordi nell’indicare che un andamento progressivo fin dalle fasi iniziali si associa allo sviluppo più rapido di disabilità rispetto alle forme ad esordio RR. L’attesa di vita risulta peraltro solo marginalmente ridotta dalla malattia (Kobelt e coll., 2006). La diagnosi clinica di SM si avvale di criteri oggi ampiamente accettati, i criteri di McDonald, soggetti a periodici aggiornamenti in parallelo ai progressi raggiunti dalla diagnostica per immagini (ultima revisione risale al 2010) (Polman e coll., 2011).
Criteri diagnostici di McDonald per la Sclerosi Multipla:
ultima revisione del 2010 Presentazione
clinica Ulteriori elementi necessari per la diagnosi
≥ 2 attacchi; evidenza clinica obiettiva di ≥2 lesioni o di 1 lesione con evidenza attendibile di un precedente attacco
Nessuno
≥ 2 attacchi; evidenza clinica obiettiva di 1 lesione
Disseminazione spaziale, dimostrata da: ≥1 lesione in T2 in almeno 2 delle 4 regioni tipiche della SM (periventricolare, juxtacorticale, sottotentoriale, midollare); oppure aspettare un ulteriore attacco clinico indicante una diversa regione del SNC
1 attacco; evidenza clinica obiettiva di ≥2 lesioni
Disseminazione temporale, dimostrata da: contemporanea presenza in qualunque momento di lesioni asintomatiche sia assumenti che non
assumenti Gd; oppure una nuova lesione in T2 e/o assumente Gd alla RM di follow-up, senza badare al tempo trascorso da una RM di riferimento; oppure aspettare un secondo attacco clinico
1 attacco; evidenza clinica obiettiva di 1 lesione (CIS)
Disseminazione spaziale e temporale, dimostrata da: ≥1 lesione in T2 in almeno 2 delle 4 regioni tipiche della SM (periventricolare, juxtacorticale, sottotentoriale, midollare); oppure aspettare un ulteriore attacco clinico indicante una diversa regione del SNC; contemporanea presenza in qualunque momento di lesioni asintomatiche assumenti che non assumenti Gd; oppure una nuova lesione in T2 e/o assumente Gd alla RM di follow-up, senza badare al tempo trascorso da una RM di riferimento; oppure aspettare un secondo attacco clinico
Progressione
neurologica insidiosa suggestiva di SM CP-I
1 anno di progressione della malattia (determinata retrospettivamente o prospettivamente) più 2 su 3 dei seguenti criteri:
1. Evidenza di disseminazione spaziale nel cervello sulla base di ≥1 lesione in T2 in almeno 2 delle 4 regioni tipiche della SM (periventricolare, juxtacorticale, sottotentoriale, midollare);
2. Evidenza di disseminazione spaziale nel midollo spinale sulla base di ≥2 lesioni in T2 a livello midollare;
3. Liquor positivo (evidenza di bande oligoclonali e/o indice di IgG elevato)
Se i criteri sono soddisfatti e non ci sono migliori spiegazioni per la presentazione clinica, la diagnosi è di “SM”; se c’è il sospetto, ma i criteri non sono pienamente rispettati, la diagnosi è di “possibile SM”; se durante la valutazione emerge un’altra diagnosi che spiega meglio la presentazione clinica, la diagnosi è di “non SM”
La risonanza magnetica (RM) è oggi il principale strumento utilizzato per valutare l’attività
di malattia e l’infiammazione a livello del SNC. Le lesioni captanti gadolinio sono
indicative di un danno a carico della barriera emato-encefalica e di modificazioni
infiammatorie acute. Un numero maggiore di lesioni gadolinio-positive si associa a un
aumento del numero di lesioni T2, della percentuale di ricadute e della progressione di
disabilità. Aree di alterazione del segnale nelle sequenze pesate in T2 sono considerate
come una misura di attività pregressa di malattia e nell’insieme definiscono il carico
lesionale. Le lesioni ipointense in T1 (black holes) indicano la perdita assonale, gliosi,
perdita di matrice intracellulare e demielinizzazione, si ritiene che corrispondano ad aree di
danno focale maggiormente distruttivo (Filippi e Rocca 2005; Filippi e coll., 2012).
Immagini RM di lesioni tipiche da Sclerosi Multipla. Dal basso verso l’alto: lesioni periventricolari e juxtacorticali, lesioni captanti mezzo di contrasto e lesioni infratenoriali.
Nella fisiopatologia dell’SM si distinguono fenomeni di natura immunitaria e
neurodegenerativa. Il processo coinvolge primariamente la sostanza bianca, ma accanto
alla patologia della mielina viene oggi riconosciuto anche un interessamento, in senso
degenerativo, della sostanza grigia, con evidenza clinica, radiologica e anatomopatologica
di un’atrofia cerebrale progressiva. Schematicamente si ritiene che in una prima fase
predomini il danno infiammatorio e successivamente assuma maggiore rilievo la neurodegenerazione.
Tempo
RIS
CIS SMSP
neurodegenerazione
Attività infiammatoria
Esordio biologico
Esordio clinico
Evoluzione della Sclerosi Multipla, con esordio biologico, esordio clinico e neurodegenerazione; RIS Sindrome Radiologicamente Isolata; CIS Sindrome Clinicamente Isolata; SMRR e SMSP Sclerosi Multipla Recidivante-Remittente e Secondariamente Progressiva
L’infiammazione, che può essere focale, disseminata, acuta o ricorrente, e la
neurodegenerazione, che può essere diffusa, precoce, cronica e progressiva, non sono
fenomeni biologici indipendenti ma correlati. Vi sono comunque forti evidenze che
attribuiscono le ricadute principalmente a un’espressione di infiammazione focale acuta
che ha luogo nel SNC. Il ruolo relativo dell’infiammazione e della neurodegenerazione
sulla progressione della disabilità irreversibile è invece tutt’ora oggetto di dibattito
(Compston e coll., 2006; Charil e Filippi 2007). Vi sono crescenti evidenze che
infiammazione, demielinizzazione e neurodegenerazione subcliniche possono essere
presenti per mesi o anche anni prima della comparsa dei sintomi clinici. E’ questo il caso
della Sindrome Radiologicamente Isolata (Radiologically Isolated Sindrome, RIS). Tale condizione, di recente interesse riguarda quella situazione in cui vi sia un riscontro occasionale, in un soggetto asintomatico, di lesioni infiammatorie suggestive di SM (Okuda e coll., 2009). Questa condizione è stata studiata come esordio subclinico di SM ed è stata comparata sia da un punto di vista radiologico che cognitivo alla malattia conclamata, ottenendo non significative differenze così da confermare l’ipotesi della RIS come primo vero esordio di malattia demielinizzante (Amato e coll., 2012; Lebrun e coll., 2012).
La neurodegenerazione non è un fenomeno confinato alla fase tardiva di malattia: l’atrofia cerebrale, valutata mediante RM, avanza in modo più rapido in pazienti con SMRR rispetto a quanto si osservi in fase avanzata di SM o nelle forme SP. Molti studi RM hanno evidenziato un danno tissutale irreversibile in alcuni pazienti con forme molto precoci di malattia (Stuve e coll., 2008), come ad esempio nella sovradrescritta RIS (De Stefano e coll., 2011). L’infiammazione si estrinseca con reclutamento e attivazione di cellule infiammatorie T-linfocitarie e di macrofagi, oltre che di microglia, nella sostanza bianca del SNC e determina la distruzione della mielina. Sono stati proposti e descritti diversi pattern fisiopatologici. In alcuni casi predomina la distruzione degli oligodendrociti a opera dei linfociti T, in altri casi ancora si rileva una predominanza di fenomeni apoptotici degli oligodendrociti rispetto ai segni di infiammazione: tale fenomeno è stato descritto come primo evento patogenetico su cui si instaura la risposta immunitaria. La progressione di malattia sarebbe comunque determinata da perdita assonale e da un incompleto processo di riemilinizzazione che si tradurrebbe in disabilità clinica. La compromissione del SNC è del resto un fenomeno continuativo e progressivo nel tempo. Il danno assonale compare già nelle fasi precoci di malattia e si correla con l’attività infiammatoria; risulta poi predominante nelle fasi avanzate allorché l’andamento clinico diventa progressivo.
Almeno in parte, tale danno assonale sarebbe causato da fenomeni flogistici derivanti
dall’azione T-linfocitaria. Alla sua patogenesi potrebbe contribuire un deficit di fattori trofici derivati dagli oligodendrociti. Inoltre può parteciparvi un’aggressione immunitaria diretta a componenti dell’assone. E’ stato inoltre ipotizzato che, quando l’entità del danno al tessuto nervoso supera una certa soglia, esso è il fattore che supporta il passaggio da SM tipo RR alla forma progressiva.
Lo scenario terapeutico
Nella storia della terapia della SM, un importante punto di svolta si è avuto alla fine degli anni ’80, momento nel quale la ricerca clinica si è orientata, in modo sistematico e con ricorso a studi in cieco e controllati, a trattamenti mirati che avevano come target le risposte immuni (Galetta e coll., 2002; Galetta e Markowitz 2005).
Fin dai primi anni ’90 si sono resi disponibili due tipi di immunomodulanti di prima linea, ovvero gli interferoni (IFN) beta-1a e 1b e il glatiramer acetato (GA), e i risultati degli studi pilota hanno portato all’approvazione di questi farmaci in diverse parti del mondo.
I primi risultati hanno indotto a ulteriori sforzi per migliorare le evidenze di efficacia e le indicazioni su tempistica, dosi e durata della terapia.
Farmaco Dosaggio
Interferone beta-1b (Betaferon®/Extavia®)
8 mUI (250 µg) sc a giorni alterni
Interferone beta-1a (Avonex®) 30 µg im una volta alla settimana Interferone beta-1a (Rebif®) 22 µg sc 3 volte alla settimana
44 µg sc 3 volte alla settimana Glatiramer acetato (Copaxone®) 20 mg sc una volta al giorno
Attuali terapie immunomodulanti per la Sclerosi Multipla con relativi dosaggi e modalità di somministrazione; sc sottocute; im intramuscolo
In una revisione dei dati ottenuti nell’ambito di studi di fase III (multicentrici randomizzati, in doppio cieco e controllati con placebo, di valutazione dell’efficacia delle terapie di immunomodulazione sui parametri di misura fisici, infiammatori e cognitivi dell’attività di malattia) non sono state rilevate differenze sostanziali tra i diversi immunomodulanti negli effetti sulle ricadute, che sono risultate ridotte di circa il 30% con tutti i trattamenti, mentre solo alcuni dei preparati di IFN hanno mostrato anche un beneficio significativo sulla progressione della disabilità. Tra le misure dell’infiammazione, tutti gli immunomodulanti hanno indotto una riduzione di entità variabile delle lesioni iperintense in T2 oltre a una riduzione delle lesioni Gd-positive, soprattutto da parte degli IFN. Le evidenze di una riduzione dell’atrofia e del declino cognitivo sono risultate più limitate dal momento che, in base ai dati analizzati, solo uno degli IFN (IFN beta-1a) ha evidenziato un beneficio significativo nel rallentare il declino delle funzioni cognitive.
Ancora prima dell’avvento dei farmaci immunomodulanti, per la terapia della SM si sono utilizzati farmaci immunosoppressori. Quest’ultimi hanno costituito a lungo l’unica strategia terapeutica disponibile nei pazienti non responsivi (Patti e Lanzafame 2005). Oggi con l’avvento degli immunomodulanti, essi vengono impiegati nelle forme aggressive, come terapie di salvataggio o anche come terapie di combinazione con IFN o GA.
Fa parte degli immunosoppressori il mitoxantrone (diidrossiantracenedione, MTX), questo
è un analogo di sintesi di doxorubicina e agisce mediante inibizione dell’enzima
topoisomerasi II, attivo nella riparazione del DNA. Da questa azione derivano rotture del
DNA. E’ l’unico immunosoppressore ad avere l’indicazione in scheda tecnica per l’SM, è
stato infatti approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) per ridurre la disabilità
neurologica e/o la frequenza di ricadute cliniche in pazienti con SMSP o progressiva
recidivante, oppure in caso di peggioramento di una SMRR. Il trattamento è indicato in
pazienti che presentano un peggioramento di 1 punto del punteggio EDSS in 18 mesi
(Martinelli Boneschi e coll., 2004). In caso di deterioramento più lento, probabilmente
espressione di un terreno fisiopatologico prevalentemente neurodegenerativo, la terapia non è indicata. Esistono diversi protocolli di somministrazione: la durata non deve comunque superare i 2 anni considerando una dose cumulativa massima di 120 mg/m
2, onde evitare la nota cardiotossicità.
Nella SM a decorso progressivo, l’immunosoppressore probabilmente utilizzato da più tempo, pur non avendone l’indicazione, è l’azatioprina (AZA). Si tratta di un profarmaco, un antimetabolita nucleosidico che rilascia 6-mercaptopurina nei tessuti.
L’immunosoppressione indotta dalla terapia con AZA ha una latenza piuttosto prolungata cosicché l’azione terapeutica si evidenzia dopo 3-6 mesi di somministrazione. Gli studi hanno dimostrato in effetto significativo del farmaco sulla frequenza delle ricadute, ma non vi è accordo sui risultati nel ridurre la progressione di malattia (Patti e Lanzafame 2005).
Ciclofosfamide è un agente alchilante utilizzato nella SM dal 1966, in grado di superare la barriera ematoencefalica (BEE), utilizzato anche questo off-label nella SM. Indurrebbe uno shift immunitario da un profilo citochinico Th1 a uno Th2. Tale farmaco è stato ampiamente utilizzato seguendo diversi protocolli, anche in associazione con metilprednisolone o in combinazione con GA e IFN. Oggi può venir utilizzata come terapia di induzione nei casi a esordio aggressivo per poi passare a un farmaco immunomodulante o come terapia di salvataggio in pazienti non rispondenti ai farmaci di prima scelta.
Metotrexate è un antimetabolita che inibisce la diidrofolato-reduttasi. Tale inibizione
determina la deplezione parziale dei cofattori tetraidrofolici necessari alla biosintesi di
purine e tinidilato. Probabilmente alla sua azione contribuisce anche la sintesi intracellulare
di poliglutammati. I benefici in caso di SM progressiva, utilizzato anche questo off-label,
vanno ponderati con gli effetti tossici, ovvero tossicità a livello gastrointestinale acuta o
ritardata. Sulla base dei pochi studi disponibili si può affermare che è solo “possibile” che
metotrexate riesca a rallentare la progressione di malattia.
Altri immunosoppressori utilizzati nella SM, pur senza indicazione e su un numero limitato di pazienti, sono il micofenolato (inibitore dell’enzima 5-inosina monofosfato-deidrogenasi e inibitore sintesi de novo di purine) e ciclosporina (molecola lipofila con azione inibitoria della risposta dei linfociti T a stimoli antigenici).
Di fatto, al di là di dettagli ulteriori su questi e altri approcci terapeutici, negli ultimi 2 decenni, diverse terapie di modulazione e di soppressione immunitaria hanno dimostrato un impatto favorevole sull’attività infiammatoria della SM. Sono disponibili al momento, diverse terapie immunomodulanti in grado di modificare parzialmente il decorso della SMRR. Al contrario, l’effetto di queste terapie sul decorso dei fenotipi progressivi di SM è scarso o quantomeno modesto. Il trattamento dei pazienti con SM a progressione rapida o fulminante, con recidive frequenti e disabilità residua e il ricorso a terapie cortisoniche ev ad alto dosaggio è ancor più problematico (Boster e coll., 2008; Galetta e Markowitz 2008;
Goebels e Becher 2008). La scelta tra le diverse opzioni terapeutiche disponibili per il
trattamento della SM può porre comunque dei problemi per l’elevata variabilità inter e
intrapaziente delle manifestazioni e del decorso clinico. Di fatto, il procedimento di
decision making è reso oggi più difficile dal crescente numero di farmaci disponibili e
dall’individuazione di una serie di fattori che ne possono influenzare l’efficacia, ad
esempio nel caso degli IFN la comparsa di anticorpi neutralizzanti. Oltre alla scelta del tipo
di farmaco, è oggi oggetto di discussione anche il momento ottimale per l’inizio della
terapia nelle forme SMRR. Vi è ormai un consenso quasi generale tra gli esperti sul fatto
che molti pazienti con SMRR possano trarre beneficio da un trattamento precoce. La
necessità di una terapia che intervenga prima dell’insorgenza di una disabilità definitiva è
evidente, mentre con gli strumenti diagnostici a disposizione non è al momento possibile
identificare i pazienti con forme benigne di SMRR (De Stefano e coll., 2006), pazienti che
quindi potrebbero convivere con la malattia senza la necessità di sottoporre l’organismo a
terapie croniche e con potenzialità tossiche.
Le terapie attuali mostrano, tuttavia, un’efficacia parziale e la maggior parte dei pazienti manifesta episodi di riacutizzazione come riflesso della persistenza dell’attività di malattia.
Le caratteristiche cliniche e l’andamento talvolta aggressivo della SM possono rendere difficile lo stabilire il fallimento o il successo delle strategie terapeutiche messe in atto. In quest’analisi, il quadro RM può essere di supporto ma non sono disponibili, attualmente, ne’ una definizione universalmente accettata ne’ algoritmi decisionali adeguatamente validati (Boster e coll., 2008). Tutto ciò rende evidente la necessità di nuove terapie per la gestione dei pazienti con SM, con possibilità di offrire strategie terapeutiche associate ad un buon rapporto efficacia/sicurezza, validate da studi randomizzati e controllati di dimensioni adeguate.
Tra le novità terapeutiche che iniziano ad essere disponibili vi sono le terapie biologiche,
di cui fanno parte gli anticorpi monoclinali umanizzati. Quest’ultimi rappresentano uno
strumento potente e promettente, tra di essi oggi solo il natalizumab è stato approvato nella
SM (Goebels e Becher 2008); sono tuttavia in corso di valutazione anche altri anticorpi
monoclonali quali l’alentuzumab (anti-CD52 presente sui linfociti T e B), il rituximab
(anti-CD20 espresso sui linfociti B) e il daclizumab (anti-CD25). Infine, nessuno dei
trattamenti approvati per l’SM e oggi disponibile, ha dimostrato in modo convincente
un’azione riparativa. Tale obiettivo richiede di avere a disposizione terapie che aumentino
la plasticità e che ricostituiscano un assone mielinizzato nella sua rete di supporto
connettivo.
Meccanismi neuroimmunologici
Tradizionalmente i tessuti del SNC sono stati considerati esenti da sorveglianza immunologia e non coinvolti nelle reazioni immunitarie e con parenchima che non esprimeva molecole del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), requisito essenziale per la presentazione dell’antigene ai linfociti T. Tuttavia, malgrado la reattività immunitaria sia indubbiamente differente rispetto a quella di altri organi, esiste una certa immunosorveglianza, anche se limitata a certi tipi di linfociti, mentre la presentazione dell’antigene può essere indotta in numerose cellule cerebrali da stimoli infiammatori quali ad esempio l’IFNγ. L’endotelio del SNC si caratterizza, infatti, per la presenza di giunzioni serrate che non consentono il libero passaggio di cellule e molecole: la barriera emato- encefalica (BEE) impedisce il transito della maggior parte delle molecole di grosse dimensioni e delle cellule.
Il passaggio attraverso la BEE è stato tuttavia dimostrato e studiato nel caso di cellule
tumorali metastatiche, cellule staminali del midollo osseo e linfociti. Quest’ultimi
penetrano, in effetti, nel SNC attraverso almeno 3 differenti vie: in condizioni fisiologiche
passano dal sangue al liquido cerebrospinale attraverso il plesso corioideo e dal sangue agli
spazi subaracnoidei a livello della superficie piale del cervello; in caso di infiammazione, i
leucociti sono in grado di passare dal sangue al parenchima perivascolare. Durante questo
processo di extratravasazione, solo i linfociti T attivati possono superare la BEE e la
lamina basale dell’endotelio. Tale passaggio avviene per diapedesi, quindi processo attivo
mediato dall’endotelio. L’extratravasazione dei linfociti è stata schematicamente suddivisa
in diversi momenti che coinvolgono l’interazione in sequenza di diverse molecole di
adesione e segnale: le selectine e i loro ligandi, le chemiochine e i recettori corrispondenti,
le integrine e le molecole di adesione specifiche sull’endotelio, le metalloproteasi di
matrice (MMP) e i loro inibitori tissutali (TIMP). Nell’interazione linfociti-endotelio, le
principali molecole coinvolte sono le integrine e in particolare quelle della famiglia α4 che, attivate e a maggior avidità, mediano un’adesione stabile dei linfociti all’endotelio, requisito essenziale per la diapedesi successiva. Il principale ligando endoteliale per l’integrina α4β1 (very late activation antigen-4, VLA-4) è la molecola di adesione cellulare vascolare (vascular cell adhesion molecole-1 VCAM-1). All’interno del SNC normale, la VCAM-1 è espressa solo da poche cellule migroglia-simili, mentre le cellule endoteliali dei microvasi, il plesso corioideo e gli spazi subaracnoidei non esprimono VCAM-1 che invece viene sovraespressa durante i processi infiammatori dalle cellule endoteliali (Pedemonte e coll., 2006). E’ stato dimostrato che l’interazione VLA-4 e VCAM-1 determina un aumento della produzione e della secrezione, da parte dei linfociti T, degli enzimi litici che contribuiscono alla distruzione della lamina basale pervasale e consentono l’ingresso nel tessuto circostante. Quindi mentre in condizioni fisiologiche l’ingresso di cellule immunitarie circolanti nel SNC è molto ridotto in quanto controllato dalla BEE, nella SM l’accesso dei leucociti (principalmente linfociti) è facilitato, dando origine a una cascata di eventi che porta a infiammazione, edema e demielinizzazione nelle sedi di lesione, alla base del quadro patologico e clinico tipico della malattia (Rice e coll., 2005).
EC EC EC EC
leucocita
leucocita leucocita
leucocita
Rolling Triggering Attachment Extravasation spreading
E-selectin P-selectin L-selectin Gly-CAM-1
CD34 MAdCAM-1 VLA-4(αααα4ββββ1)
VCAM-1
Chemoattractans Chemokines
L-selectin Gly-CAM-1
CD34 MAdCAM-1
PECAM-1 αVβ3
VLA-4(αααα4ββββ1) VCAM-1
ICAM-1 ICAM-2 αMβ2αLβ2
α4β7 MAdCAM-1
VLA-4(αααα4ββββ1) VCAM-1
ICAM-1 ICAM-2 αMβ2αLβ2
αVβ3 PECAM-1
Meccanismi di adesione e diapedesi dei linfociti attraverso le cellule endoteliali della barriera emato-encefalica
Una delle implicazioni del paradigma che considera il recruitment leucocitario come un processo multi-step è che il blocco di uno dei diversi passaggi possa interrompere il processo di fuoriuscita dei leucociti dai vasi, impedendone l’ingresso nel parenchima circostante. La funzione delle molecole di adesione in caso di infiammazione può essere modulata da diversi meccanismi, ad esempio con un blocco competitivo, con un’alterazione dell’espressione molecolare. Agendo a questi livelli è in teoria possibile interferire direttamente o indirettamente con l’adesione leucocitaria e dunque contrastare gli eventi infiammatori che ne conseguono. I trattamenti tradizionali quali corticosteroidi, FANS e antiossidanti, interferendo con il fattore di trascrizione nucleare kB (NF-kB), riducono sia le molecole di adesione che le chemiochine. Attraverso il ricorso agli anticorpi monoclonali è stata studiata la strategia di blocco delle integrine e delle vie di segnale ad esse correlate. Fra i principali target sono stati individuati le integrine β2 e le α4, ovvero quelle maggiormente coinvolte nella formazione di legame tra leucociti ed endotelio (Ulbrich e coll., 2003).
La Sclerosi Multipla e i disturbi cognitivi
Il quadro clinico della SM è molto complesso e caratterizzato da sintomi multiformi,
correlato alla diversa localizzazione dei focolai infiammatori. Come già descritto sopra,
esistono varie forme cliniche di SM di cui il profilo clinico tipico e la tempistica della
disabilità sono determinati da danno assonale, conseguente alla demielinizzazione. Tale
processo determina la compromissione di diversi sistemi funzionali, compreso quelli
cognitivo-comportamentali. Oggi è noto che circa la metà dei soggetti affetti da SM
sviluppa nel corso della malattia deficit cognitivi. In passato tali alterazioni venivano
considerate una manifestazione rara e presente solo nelle fasi più avanzate, ma nel corso
degli anni si è iniziato a comprendere e quindi anche ad approfondire il concetto che le
Nonostante quest’ambito di studi abbia dato spazio ad un fiorente impegno scientifico soprattutto negli ultimi trent’anni, il primo vero contributo sulla descrizione dei sintomi e sulla neuropatologia della SM risale dalla fine del 1800 con Jean Martin Charcot.
Quest’ultimo identificò per primo la presenza di alterazioni della sfera cognitiva e affettiva nella SM, parlando di “indifferenza, stupidità e riso sciocco immotivato” (Charcot 1848).
Successivamente, all’inizio del ‘900, Ombredane aveva riscontrato come i pazienti con SM che presentavano euforia, fossero quelli con maggiore compromissione cognitiva (Berrios e coll., 1990). Tali dati sono stati confermati da Surridge (Surridge 1969) con il primo studio controllato sui disturbi cognitivi e la SM. Rispetto ai dati di incidenza della disfunzione cognitiva, i dati relativi a studi pubblicati verso la metà degli anni ’80 sono molto variabili anche se, considerando gli studi metodologicamente corretti l’incidenza, si presenta compresa tra il 45% e il 65%, percentuali confermate anche dai successivi studi (Chiaravallotti e De Luca 2008) dove il coinvolgimento delle funzioni cognitive è stato osservato e dimostrato anche negli stadi precoci di malattia, quindi non correlata alla progressione di disabilità (Grant e coll., 1984; Amato e coll., 2010). Comunque la prevalenza dei deficit cognitivi può essere sottostimata in quanto, molto spesso, la funzione neurocognitiva non viene valutata, soprattutto nelle fasi iniziali (Amato e coll., 2006).
L’entità della compromissione cognitiva può variare da disturbi selettivi di specifiche funzioni neuropsicologiche, fino a un grave deterioramento cognitivo. La casualità dei tempi, dell’andamento di malattia, della sua gravità e della sede di insorgenza delle lesioni contribuisce alla considerevole variabilità a carico dello stato mentale del paziente: la maggior parte delle funzioni possono rimanere conservate e rientrare nei criteri di normalità per molti anni, viceversa ci può essere un rapido deterioramento in molte aree oppure si può instaurare una condizione mentale fluttuante (Rao e coll., 1991; Fisher 2001;
Huijbregts e coll., 2006).
Il deficit di memoria rappresenta il disturbo maggiormente compromesso e anche quello più lamentato dai pazienti. Il tipo di deficit non è esteso a tutte le funzioni mnemoniche ma riguarda soprattutto la memoria a lungo termine, in particolare è presente una difficoltà nell’accesso e nel recupero dell’informazione verbale e visuo-spaziale. Altri aspetti compromessi sono la rievocazione, l’apprendimento e la memoria a breve termine (in particolare per la compromissione della working memory e delle capacità esecutive) (Calabrese 2006; Chiaravallotti e DeLuca 2008). La compromissione della working memory, ovvero della capacità di processare le informazioni nel cervello nonché la rapidità con cui queste vengono rielaborate e richiamate, è il deficit più frequente nella SM, anche e soprattutto nelle fasi precoci e tale compromissione progredisce insieme agli anni di malattia ed è più spesso presente nelle forme progressive rispetto a quelle infiammatorie (DeLuca e coll., 2004)
L’attenzione può essere definita come l’abilità a mantenere impegnata la propria coscienza
verso stimoli salienti rispetto all’ambiente. Ciò comprende aspetti positivi come
l’orientamento, esplorazione, concentrazione, vigilanza e aspetti negativi come la
distraibilità, confusione mentale e perseveranza. L’attenzione può essere considerata la
funzione che regola l’attività dei processi mentali, selezionando e organizzando le
informazioni provenienti dall’ambiente. Esiste un’attenzione divisa che si riferisce alla
capacità dell’individuo di prestare attenzioni a più stimoli simultaneamente e esiste inoltre
un’attenzione sostenuta con la quale si intende una capacità attentiva protratta nel tempo a
differenza dei livelli di attivazione con i quali si intende la prontezza fisiologica a
rispondere a stimoli interni o esterni. Nei pazienti con SM i disturbi dell’attenzione sono
spesso presenti e spesso sono indicatori precoci di deficit cognitivi. Tali disturbi, insieme a
quelli di concentrazione aumentano con il progredire della malattia anche se nei pazienti
con SM si osserva soltanto un aumento nei tempi di latenza e non difficoltà nella
risoluzione dei compiti (Benedict e coll., 2006). Spesso in tali soggetti è presente un
disturbo di attenzione complessa e il pattern di performance è stato interpretato come una ridotta capacità di acquisizione e gestione delle informazioni della mente (Grant e coll., 1984; Coo e coll., 2005).
Le funzioni esecutive si riferiscono all’abilità cognitiva di adattarsi all’ambiente nonché
alla capacità di risoluzione di problemi o svolgimento di compiti con obiettivi ben precisi,
incluso le capacità decisionali, le capacità di ragionamento astratto e di calcolo. Deficit di
tali funzioni si osservano in pazienti con lesioni dei lobi frontali e della corteccia frontale
dorso-laterale. Nella SM la compromissione in tali ambiti cognitivi è presente ed è stata
osservata da alcuni autori soprattutto a seguito delle prestazioni ottenute dai pazienti SM ai
test di fluenza verbale. Tale impairment cognitivo è comunque meno frequente dei disturbi
di memoria ed è stato osservato essere spesso suscettibile di alterazioni del tono
dell’umore, in particolare in senso depressivo (Parmenter e coll., 2007). Inoltre è nota da
tempo la correlazione tra deficit frontali e carico lesionale encefalico in RM, a
testimonianza che le funzioni frontali sono il risultato dell’attività integrativa di diverse
aree encefaliche (Rao e coll., 1991). Il deficit visuo-spaziale, ovvero la capacità di
riconoscere uno stimolo visivo e l’abilità di percepire le caratteristiche dettagliate dello
stimolo stesso, non è facilmente valutabile nella SM, perché uno dei sintomi più frequenti e
spesso d’esordio della patologia è rappresentato dalla neurite ottica. I disturbi visuo-
spaziali, conseguenti a disfunzione delle regioni occipito-parietali, possono essere espressi
da alterazione della percezione dello stimolo, alterazione della posizione od orientamento
dello stimolo nello spazio e da agnosie. I dati riguardanti tali funzioni non sono univoci,
anche se si stima che un quarto dei pazienti con SM presenti disturbi visuo-spaziali,
indipendentemente dal danno al nervo ottico eventualmente presente (Vleugels e coll.,
2000). Infine rispetto ai disturbi del linguaggio, i pazienti con SM, presentano solo
raramente afasia, se non nelle fasi avanzate di malattia. Talvolta è presente anomia,
conseguente al rallentamento delle rielaborazioni delle informazioni. Più spesso invece è
rilevabile disturbi disartrici, conseguenti all’alterato controllo muscolare o a alterazioni delle funzioni cerebellari.
Basi di Risonanza Magnetica dei disturbi cognitivi nella Sclerosi Multipla
Il contributo maggiore alla comprensione del deterioramento cognitivo nella SM deriva certamente dagli studi di RM condotti negli ultimi anni. I primi dati ottenuti con le metodiche convenzionali di RM, suggerivano una correlazione tra estensione del carico lesionale, inteso come numero di lesioni in T2, e gravità di del deficit cognitivo (Rao e coll., 1989). Inoltre, la localizzazione strategica delle lesioni in particolari aree cerebrali sembrava correlare con deficit cognitivi selettivi, ma allo stesso tempo appariva altrettanto rilevante il ruolo attribuibile al carico lesionale cerebrale totale nelle genesi di deficit neuropsicologici normalmente collegati a disfunzioni di particolari aree cerebrali come quelle dei lobi frontali (vedi sopra) (Comi e coll., 1999). La relazione tra carico lesionale in T2 e deficit cognitivo veniva ulteriormente indebolita da studi longitudinali in cui il peggioramento nel tempo dei deficit neuropsicologici non correlava con un parallelo incremento di volume alla RM. Tali evidenze mettevano in discussione l’ipotesi che le lesioni della sostanza bianca strettamente collegate con la componente infiammatoria della SM, fossero le uniche responsabili del decadimento cognitivo(Sperling e coll., 2001).
Nel tentativo di comprendere meglio i meccanismi neuropatologici responsabili del declino
cognitivo nella SM si è cercato di verificare il ruolo anche del danno assonale e della
perdita di tessuto cerebrale, valutando selettivamente il volume delle lesioni in T1 (black
holes) e quello del cervello in toto (valutazione dell’atrofia). Si è ottenuto quindi la
conferma che i disturbi cognitivi nella SM dipendono anche, se non prevalentemente, dalla
riduzione del volume cerebrale. L’entità e la gravità del disturbo risultava infatti
correlabile, a seconda degli studi, con la riduzione di volume della corteccia, del terzo
ventricolo o del cervello in toto (Amato e coll., 2004). Queste evidenze indicano il
necessario intervento di fenomeni neurodegenerativi, accanto a quelli infiammatori, nel
processo patogenico alla base della perdita del tessuto cerebrale e quindi del
deterioramento cognitivo. Successivamente, con l’introduzione di tecniche quantitative,
quali la RM con trasferimento di magnetizzazione (RMMT) e la RM pesata in diffusione
(RMDW), si è resa possibile la valutazione dell’estensione del danno strutturale non solo
delle lesioni visibili in T2, ma anche di aree di tessuto apparentemente sane all’esame RM
convenzionale. Gli studi condotti utilizzando tali metodiche, hanno rilevato che l’entità del
danno riscontrabile alla RMMT è il parametro RM che correla meglio con il grado di
deterioramento cognitivo (Filippi e coll., 2000). Questa correlazione si estende anche alle
regioni di tessuto cerebrale che appaiono integre con le metodiche convenzionali,
indicando che il danno cerebrale non è limitato alle aree di
infiammazione/demielinizzazione e che è funzionalmente rilevante poiché contribuisce alla
perdita di prestazioni cognitive. A conferma dell’importante ruolo svolto dal danno
assonale nella patogenesi dei disturbi cognitivi, gli studi condotti con RM spettroscopica
hanno dimostrato una forte correlazione tra il deficit di prestazioni neuropsicologiche e la
riduzione dei livelli di N-acetil-aspartato (NAA), marker di integrità assonale, sia nelle
aree periventricolari che nell’intero encefalo (Mathiesen e coll., 2006; Giorgio e De
Stefano 2010). In sintesi, il danno cerebrale alla base del deterioramento cognitivo nella
SM è eterogeneo e in continua evoluzione: il danno assonale focale e diffuso è certamente
l’elemento cardine dal quale deriva la disfunzione delle aree cerebrali coinvolte nei
processi cognitivi, ma a questo può sovrapporsi il deficit di conduzione nervosa
determinato da fenomeni di tipo infiammatorio/demielinizzante. In stadi molto precoci di
malattia, comunque, la perdita neuronale è molto limitata e non sembra sufficiente a
giustificare i disturbi cognitivo-comportamentali. Studi più recenti condotti con tecniche di
RMMT e di RM funzionale suggeriscono che in queste fasi un danno diffuso della sostanza
bianca determinerebbe una disfunzione delle reti di comunicazione tra differenti aree corticali con conseguente disturbo dei processi di controllo delle informazioni, come nel caso dei compiti di working memory verbale (Ranjeva e coll., 2005). E' stato comunque evidenziato ancor più recentemente, come sia in stadi precocissimi di malattia (nel caso della RIS) e nelle forme conclamate di SM tipo RR, non vi siano sostanziali differenze nell'impairment cognitivo (Lebrun e coll., 2012; Amato e coll., 2012). Inoltre anche nelle forme benigne, correlando i dati di RM con la valutazione neurocognitiva si è evidenziata un’associazione tra i deficit di performance ai test cognitivi con il maggior “danno”
cerebrale (Rovaris e coll., 2008).
Oltre alle tecniche di risonanza, la tomografia ad emissione di positroni (PET) ha dato
risultati che migliorano la correlazione tra neuroimaging e disturbi cognitivi. L’uso della
PET permette di misurare in vivo i processi funzionali del cervello mediante lo studio del
flusso ematico o del metabolismo del glucosio. La combinazione dei tassi metabolici e
l’attività neuronale evidenziano una stima indiretta delle funzioni cerebrali. Inoltre, studi
comparativi tra RM e PET hanno evidenziato che in fase acuta nella PET si evidenzia un
decremento patologico di glucosio in regioni sottocorticali corrispondenti alle lesioni
demielinizzati evidenziate alla RM convenzionale. Ripetendo tali esami a distanza di tempi
variabili (giorni e anni), la PET mostrava un incremento del glucosio con tendenza alla
normalizzazione dopo un anno, mentre la RM mostrava pattern lesionale invariato
suggerendo un modello di plasticità neuronale atto al riadattamento di funzioni cerebrali
(Sorensen e Jonsson 2006). Ulteriori studi hanno cercato di investigare la correlazione tra il
metabolismo del glucosio e numero totali di lesioni con RM e di correlare queste due
misure con i disturbi cognitivi. E’ stato evidenziato una riduzione del glucosio nelle aree
corticali e in particolare nella corteccia cerebrale, nel putamen, nel talamo e
nell’ippocampo. I deficit cognitivi mostravano significativa relazione con i dati PET e non
con il carico lesionale alla RM (Blinkenberg e coll., 2000).
Nell’inquadramento dei disturbi cognitivi nella SM risulta dunque fondamentale il contributo delle neuroimaging, sia con le tecniche convenzionali che con quelle più avanzate, soprattutto considerando il ruolo del coinvolgimento lesionale della sostanza bianca e della sostanza grigia nella patogenesi dell’impairment cognitivo (Filippi e coll., 2010).
Basi neurobiologiche dei disturbi cognitivi nella Sclerosi Multipla
I dati di RM indicano che processi di demielinizzazione e di neurodegenerazione focali e
diffusi partecipano, sia pure in modi e tempi diversi alla patogenesi del declino cognitivo
nella SM. Come già ampiamente descritto nei capitoli precedenti, la distruzione della
mielina è stata da sempre attribuita alla componente infiammatoria/autoimmune della
malattia, dove hanno un ruolo centrale i linfociti T autoreattivi. Questi dunque agirebbero
innescando e mantenendo una risposta autoimmune diretta contro antigeni della mielina
che, con il contributo fondamentale dei macrofagi e con la partecipazione di anticorpi e
fattori di complemento, conduce alla distruzione delle guaine mieliniche. Inoltre fenomeni
apoptotici, in assenza di infiltrati infiammatori, sarebbero i principali responsabili del
danno oligodendrocitario nelle fasi precoci di malattia: il danno primario originerebbe da
un processo distrofico degli oligodendrociti ed il conseguente intervento delle cellule
microgliali potrebbe innescare secondariamente la risposta autoimmune. Questo
spiegherebbe la persistenza dei fenomeni degenerativi nonostante le terapie
immunomodulanti/immunosoppressive. Gli assoni, privi di guaina mielinica, risultano più
vulnerabili ad insulti arrecati da radicali ossidanti, citochine, enzimi proteolitici,
conducendoli ad una progressiva degenerazione con lento e inesorabile incremento dei
deficit neurologici. Inoltre, gli assoni demielinizzati vanno incontro ad un aumentato
ingresso intracellulare di ioni sodio, insieme con la riduzione di innervazione inibitoria
GABA-ergica corticale: ciò determinerebbe l'aumentato fabbisogno metabolico assonale (Dutta e coll., 2006). Queste richieste di energia risultano eccessive anche perchè i neuroni corticali del paziente con SM dimostrano una ridotta attività della catena respiratoria mitocondriale e il disavanzo energetico che ne consegue costituisce uno dei fattori più rilevanti per la progressiva degenerazione assonale nelle fasi croniche di malattia.
I dati di RM, correlati con quelli di storia clinica di malattia, indicano in modo convincente che l'accumulo di disabilità nella SM sia da collegarsi alla perdita assonale, ma quest'ultima non sembra derivare esclusivamente da fenomeni di neurodegenerazione cronica: una parte consistente del danno assonale si genera precocemente nelle lesioni ed è direttamente ascrivibile ai fenomeni infiammatori (DeLuca e coll., 2006). Nel contesto delle lesioni attive vengono rilasciate varie sostanze ad opera delle cellule infiltranti che all'attività infiammatoria associano anche effetti neurotossici. Tra queste si inseriscono le citochine ad attività pro-infiammatoria (interleuchina-1, tumor necrosis factor, TNF) con azione lesiva sia per gli assoni che per gli oligodendrociti, l'ossido nitrico e le metalloproteinasi della matrice insieme alle frazioni dinali del complemento. Inoltre, un'attività neurotossica può derivare direttamente dai linfociti T CD4+ e CD8+ infiltranti le lesioni. Queste cellule, se attivate, dimostrano potenti effetti citotossici su neuroni in coltura attraverso interazioni contatto-dipendenti o mediante rilascio di enzimi (ad esempio le perforine) (Giuliani e coll., 2003)
Un altro importante meccanismo nel determinismo dei processi neurodegenerativi è
l'eccitotossicità del glutammato. Gli infiltrati infiammatori presenti nelle lesioni sono
caratterizzati dalla produzione eccessiva di quantità di glutammato con potenziali effetti
tossici sui neuroni mediati dai recettori AMPA e sulle guaine mieliniche dai recettori
NMDA. L'eccesso di attività glutammatergica produce una catena di eventi che, attraverso
un aumento intracellulare di ioni calcio con successivo incremento di ossido nitrico e ioni
superossido e conseguente danno mitocondriale, innesca la cascata enzimatica che conduce
ad una morte cellulare programmata. Inoltre, una quota rilevante di perdita assonale deriva dalla presenza di lesioni corticali o della sostanza grigia sottocorticale: tali lesioni sono caratterizzate da riduzione della densità neuronale, transezione di dendriti e assoni, scarsi infiltrati infiammatori e presenza di cellule microgliali (Filippi e coll., 2003).
E' dunque di fondamentale importanza il ruolo che tutti i suddetti aspetti, possono svolgere
nel determinare la disabilità ingravescente e irreversibile, nonché il progressivo
deterioraramento delle funzioni cognitive.
NATALIZUMAB
Caratteristiche biochimiche e meccanismo d’azione
Natalizumab è un anticorpo monoclonale che appartiene alla sottoclasse delle IgG4, costituito da due catene pesanti e da due catene leggere unite da 4 ponti disolfuro. Nella sua forma non glicosilata (la molecola possiede sito di glicosilazione su ciascuna catena pesante) pesa 146 kD (Ursell e O’Connor., 2005; EPAR, 2011).
Struttura molecolare di natalizumab
L’isotipo IgG4 è stato scelto in quanto non attiva il complemento e evidenzia una tendenza inferiore a legarsi ai recettori Fc-γ, persistendo più a lungo in circolo rispetto ad altre forme di IgG umane. Nel corso del processo di sviluppo del natalizumab, mediante tecniche di biologia molecolare, anticorpi monoclonali di topo sono stati umanizzati al 99% con inserimento del clone murino nella struttura IgG4 umana a livello della regione determinante la complementarietà (Rice e coll., 2005).
Natalizumab è quindi molecola metabolicamente stabile, con elevata specificità di
bersaglio e in grado di alterare le funzioni delle cellule immunitarie implicate nella
Immunopatogenesi della SM (Goverman 2009).
I linfociti T attivati e le cellule monocitarie transitano nel circolo ematico e fuoriescono dai vasi superando la BEE (come descritto in precedenza) in corrispondenza delle lesioni indotte dalla SM, dove contribuiscono a instaurare il danno infiammatorio. Tali cellule esprimono l’integrina α4β1 (VLA-4) sulla loro superficie. L’integrina α4 è in grado di dimerizzare sia con la catena β1 che con la catena β7. E’ espressa sulla superficie di linfociti, monociti, basofili ed eosinofili mentre non è generalmente presente sui neutrofili.
Il ligando endoteliale di tale integrina α4β1 è la molecola di adesione VCAM-1, che viene iperespressa sulla membrana plasmatici delle cellule endoteliali durante i processi infiammatori (Rice e coll., 2005). L’integrina α4β7 si lega invece principalmente a un’addressina della mucosa (mucosal addressin cell adhesion molecole-1, MAd-CAM-1), recettore espresso in maniera costitutitutiva sugli endoteli delle venule dei tessuti linfatici associati alle mucose. Le α4-integrine hanno inoltre come recettori la fibronectina, l’osteopontina e la trombospondina, proteine della matrice extracellulare.
Natalizumab si lega alla subunità α4, bloccando la capacità di α4β1 e α4β7 di interagire
linfociti T di migrare nel SNC in caso di processi infiammatori nonché la parete intestinale (natalizumab è indicato sia per l’SM tipo RR che per la malattia di Crohn).
Meccanismo d’azione del natalizumab
Sebbene l’adesione e la migrazione dei linfociti che esprimono α4 attraverso la BEE siano
dovute principalmente all’interazione fra l’integrina e VCAM-1, anche le interazioni dei
leucociti che esprimono α4 con alcune molecole della matrice extracellulare possono
essere coinvolte nel mantenimento della cascata infiammatoria all’interno del parenchima
Inoltre l’interazione α4β1 e fibronectina è importante per la migrazione dei linfociti ai siti di infiammazione e esplica funzione di secondo segnale per la proliferazione e attivazione dei linfociti. L’osteopontina ha proprietà adesive, la sua importanza è legata alle funzioni proinfiammatorie tra cui il reclutamento dei leucociti nei siti di infiammazione e un aumento della sopravvivenza delle cellule T.
In sintesi quindi l’effetto clinico del natalizumab nella SM può essere considerato secondario al blocco dell’interazione molecolare dell’integrina α4β1 (espressa dalle cellule infiammatorie, linfociti attivati) con VCAM-1 sulle cellule endoteliali cerebrali e con la fibronectina e l’osteopontina espresse da cellule parenchimali del SNC. L’inibizione dell’extravasazione delle cellule del sistema immunitario e dell’infiammazione a livello del SNC è alla base dell’effetto terapeutico e il legame di natalizumab alla subunità α4 blocca il passaggio di queste cellule sia nel liquor sia nelle aree di lesione da SM (Ransohoff 2007).
Sviluppo preclinico e clinico del farmaco: cenni dei principali studi
In modelli animali di SM (quello più utilizzato è quello dell’encefalomielite sperimentale autoimmune –EAE-), natalizumab ha dimostrato di essere in grado di ridurre la migrazione dei leucociti all’interno del parenchima cerebrale e la demielinizzazione. Studi preclinici condotti su diverse specie animali hanno dimostrato che gli anticorpi anti-α4-integrina riducono l’infiltrato cellulare e inibiscono lo sviluppo di EAE nei modelli sperimentali (Rice e coll., 2005). Studi più recenti di microscopia intravasale del microcircolo cerebrale nel topo con EAE hanno dimostrato in vivo l’alterazione mediata dall’integrina α4, tra i linfociti ed endotelio della BEE.
Il primo studio preliminare di fase I sulla tollerabilità e profilo farmacocinetico del
natalizumab nell’uomo è stata condotta nel 1999 (Sheremata e coll., 1999). Questo e altri
sudi sempre di fase I successivi hanno permesso il passaggio a studi di fase II, visti i dati di sicurezza ed efficacia (Tubridy e coll., 1999).
Le prime valutazioni cliniche del natalizumab sono state effettuate nell’ambito di studi clinici randomizzati. Uno dei primi importanti studi di fase II risale al 2003 (Miller e coll., 2003): scopo di tale studio clinico randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, è stato quello di valutare sicurezza ed efficacia del farmaco in 213 pazienti con SMRR o SP trattati con due diversi dosaggi (3 mg/Kg e 6 mg/Kg ev ogni 28 giorni per 6 cicli).
I risultati di tale studio mostrano la riduzione di nuove lesioni captanti gadolinio nel 90%
dei pazienti (end-point primario) e la riduzione delle lesioni preesistenti, il volume totale delle lesioni e il numero di lesioni attive. Sulla base di questi e altri risultati preliminari sono stati condotti due grandi studi di fase III: lo studio Natalizumab Safety and Efficacy in Relapsing-Remitting Multiple Sclerosis -AFFIRM- (Polman e coll., 2006) e lo studio Safety and Efficacy of Natalizumab in Conbination with interferon beta-1a in Patients with Multiple Sclerosis -SENTINEL- (Rudick e coll., 2006). Entrambi sono studi multicentrici, randomizzati, in doppio cieco e controllati con placebo. Lo studio AFFIRM ha arruolato 942 pazienti (627 hanno ricevuto natalizumab e 315 placebo) che sono stati seguiti per due anni: alla fine di tale periodo è stato raggiunto l’endpoint primario (ovvero la diminuzione della progressione sostenuta di disabilità del gruppo di pazienti in natalizumab rispetto a quello dei pazienti in placebo), la probabilità cumulativa di progressione a 2 anni è risultata infatti pari al 17% nei pazienti natalizumab e al 29% nei controlli con placebo. Lo studio SENTINEL ha arruolato 1196 pazienti (i dati riguardano 1171 pazienti che hanno completato lo studio): 589 hanno ricevuto natalizumab e 582 placebo, entrambi somministrati ev ogni 4 settimane in aggiunta a un trattamento con IFN beta-1a (Avonex
®).
Come nell’AFFIRM le percentuali di progressione della disabilità sostenuta a 2 anni sono
risultate pari al 23% nel gruppo natalizumab+IFN beta 1a e al 29% nel gruppo placebo IFN
beta 1a. La terapia in combinazione ha pertanto ridotto il rischio di progressione della
disabilità sostenuta del 24%. I due studi hanno mostrato inoltre una riduzione del rischio di progressione, della frequenza di recidive e un ‘aumento di pazienti liberi da ricadute sia a uno che a due anni. Altri risultati incoraggianti si sono avuti riguardanti la funzione visiva:
sia nell’AFFIRM che nel SENTINEL la terapia con natalizumab ha determinato un’attenuazione del declino della vista nei pazienti con SMRR, riducendo la probabilità di una perdita dell’acuità visiva mantenuta nel tempo. Successivamente i dati sono stati confermati da alti studi e dalla rielaborazione dei dati dei pazienti dei registri nazionali e internazionali (Bates 2009, Oturai e coll., 2009; Belachew e coll., 2010).
Risultati studio AFFIRM
Immunogenicità, sicurezza e tollerabilità
Lo sviluppo di anticorpi rivolti contro prodotti farmacologici di natura proteica è una risposta biologica ben nota del sistema immunitario. La comparsa di anticorpi può determinare una riduzione/perdita di efficacia e/o un aumento delle reazioni correlate all’infusione del farmaco. Negli studi con natalizumab si è provveduto a valutare la comparsa di anticorpi specifici nel corso del trattamento. Complessivamente, sulla base degli studi di fase III, lo sviluppo di anticorpi anti-natalizumab è un evento non frequente (6%), ma che va considerato tra le possibili eventualità in quanto può influire sulla risposta terapeutica.
Negli studi clinici di fase II natalizumab ha evidenziato complessivamente un profilo di tollerabilità favorevole. Nel corso dei 2 anni dello studio AFFIRM, gli unici due eventi avversi risultati significativamente più comuni tra i pazienti trattati con natalizumab rispetto al placebo sono stati l’affaticabilità e le reazioni allergiche. Le infezioni e il rialzo degli enzimi epatici, sono state per lo più lievi o moderate e non hanno determinato l’interruzione della terapia. Nel 3% circa si sono invece avute infezioni gravi. Nello studio SENTINEL gli eventi avversi associati in modo significativo alla terapia natalizumab +IFN beta1a sono stati l’ansia, le faringiti, le congestioni sinusali e gli edemi periferici.
In tale studio sono stati registrati 2 casi di leucoencefalopatia multifocale progressiva
(PML): natalizumab è stato ritirato dal mercato il 28.2.2005 a seguito di queste due
segnalazioni, alle quali si è aggiunto un altro caso di PML insorto in paziente affetto da
malattia di Crohn. A causa di tale sospensione, è stato condotto un vasto studio
retrospettivo di sicurezza (sono stati inclusi 3417 pazienti in terapia con natalizumab, da
vari studi tra cui AFFIRM e SENTINEL). Dopo una ricerca esaustiva è stata calcolata
l’incidenza di PML pari a 1 caso ogni 1000 soggetti trattati (Yousry e coll., 2006; Kappos e
coll., 2007; Piehl e coll., 2010). Con la reintroduzione del farmaco si è provveduto alla
messa a punto di un programma risk-management per l’identificazione dei fattori di rischio per la PML.
Leucoencefalopatia Multifocale Progressiva (PML)
La PML è una rara patologia demielinizzante progressiva che colpisce il SNC e che è causa di disabilità permanente e decesso. Si ritiene sia tipicamente in associazione con condizioni di immunosoppressione (patologie linfoproliferative, TBC e soprattutto HIV).
La triade classica di presentazione comprende demenza progressiva, disfunzione motoria e perdita della vista anche se non sono stati tuttavia identificati segni o sintomi patognomonici. La causa è un’infezione degli oligodendrociti da parte del virus JC, un polioma virus umano con genoma formato da DNA a doppio filamento, a larga diffusione dal momento che può essere rinvenuto mediante tecniche di biologia molecolare (PCR) nella gran parte (Rudick e coll., 2010) dei soggetti sani (70-80% della popolazione generale è portatore di anticorpi sierici anti-virus JC) . Dopo l’infezione, che si attribuisce a contagio per via respiratoria, il virus resta latente in diversi tessuti (tessuto linfoide, rene, midollo osseo). L’ipotesi patogenetica prevede che l’inibizione delle interazioni tra VLA-4 con VCAM-1 e con la fibronectina indotta dal farmaco faciliti il rilascio di progenitori ematopoietici contenenti il virus dal midollo osseo. Tali cellule attivate migrerebbero nei siti di infiammazione, tra cui il SNC dove il virus entra in fase litica negli oligodendrociti determinando necrosi cellulare e demielinizzazione.
L'infezione con il virus JC, quindi è necessaria perché si sviluppi la PML, e i pazienti che
sono positivi agli anticorpi anti-JCV presentano un rischio maggiore di sviluppare la
malattia. Per la stratificazione del rischio sono stati identificati tre fattori fondamentali: la
presenza di anticorpi anti-JCV, l'uso antecedente di farmaci immunosoppressori e la
maggiore durata del trattamento con natalizumab. I pazienti con tutti e tre i fattori di
rischio hanno una maggiore probabilità di sviluppare la PML (Clifford e coll., 2010;
Kappos e coll., 2010; Soelberg Sorensen e coll., 2012).
PML e Sindrome Infiammatoria da ImmunoRicostituzione (IRIS): la sindrome IRIS insorge in quasi tutti i pazienti con PML dopo la sospensione o la rimozione attiva di natalizumab (tramite plasmaferesi) e si deve probabilmente al ripristino della funzione immunitaria. Pertanto va condotto un attento monitoraggio per individuare l’insorgenza di questa sindrome, che si è manifestata in genere da pochi giorni a varie settimane dopo la plasmaferesi. Una volta instauratasi, occorre trattare in maniera adeguata l’infiammazione mentre il paziente guarisce dalla PML.
Stratificazione del rischio di PML